Autore: Vincenzo Emanuele

  • Al centrosinistra 52 sindaci (+15), centrodestra stabile a 38, M5S dimezzato. I numeri finali delle comunali

    Al centrosinistra 52 sindaci (+15), centrodestra stabile a 38, M5S dimezzato. I numeri finali delle comunali

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 19 ottobre 2021

    Con i ballottaggi scrutinati ieri è possibile tirare definitivamente le fila di questa tornata di elezioni comunali. Già due settimane fa, con i dati delle liste al proporzionale, avevamo potuto osservare alcuni elementi di rottura con il recente passato, ossia il primo posto del Pd, il crollo del M5s e il sorpasso di Fdi sulla Lega. Tuttavia, in fondo, ciò che davvero conta nelle elezioni comunali è vincere il comune, esprimere la giunta, guidare l’amministrazione comunale: insomma conquistare le poltrone di primo cittadino. Ecco, con i risultati di ieri abbiamo il quadro completo, che è possibile confrontare con la situazione di partenza.

    Andiamo con ordine. Innanzitutto, erano 62 i comuni superiori ai 15.000 abitanti chiamati a scegliere il sindaco fra i due candidati più votati al primo turno, in assenza di un vincitore che avesse raccolto la maggioranza assoluta (a questi si sommano tre comuni inferiori in cui il ballottaggio si svolgeva fra i due candidati più votati che avevano gli stessi voti- Torricella Verzate, Rondanina, Corchiano). Il centrosinistra ne ha vinti 28, il centrodestra 16 (fra i quali 3 con coalizioni senza Forza Italia), mentre 12 sono andati a candidati civici. Questi dati confermano ancora una volta la bipolarità delle competizioni comunali. In questo senso, particolarmente interessanti sono le 30 sfide bipolari, in cui a sfidarsi al ballottaggio erano il candidato sostenuto dal Pd (in varie coalizioni) contro quello sostenuto dal centrodestra (con – 26 – o senza Fi –4). Anche in questo caso, la maggior parte dei comuni (due su tre) sono andati alla coalizione di centrosinistra, compresi gli emblematici casi di Roma e Torino. Il centrodestra è riuscito a tenere la città di Trieste ma si è visto strappare Cosenza e Savona. Complessivamente, nei 10 capoluoghi di provincia andati al ballottaggio, il centrosinistra ne ha vinti 8 (tra cui le vittorie in città tradizionalmente ostili come Varese e Latina), mentre il centrodestra, oltre a Trieste ha riconfermato Mastella a Benevento.

    A questi ballottaggi vanno sommati i 56 comuni superiori assegnati già al primo turno. Il centrosinistra ne aveva vinti 24, contro i 22 del centrodestra (di cui 4 senza Fi). A Grottaglie aveva vinto il M5s, mentre in 8 comuni erano stati eletti sindaci civici. In totale, quindi, sui 118 comuni superiori, il centrosinistra ne amministrerà 52, il centrodestra 38 (di cui 7 senza Fi), 20 saranno governati da candidati civici, 5 dal M5s, due da coalizioni di centro e uno da coalizioni di sinistra senza il Pd.

    Tabella 1. I numeri finali delle comunali. Comuni vinti da ciascun polo nel 2021 e confronto con le precedenti comunali.

    Per potere stilare un bilancio definitivo circo lo stato di forma elettorale delle principali coalizioni occorre contestualizzare il dato relativo al punto di partenza. Dei 118 comuni superiori al voto, 98 avevano eletto l’amministrazione uscente nella primavera 2016. In quel momento, prima della rovinosa caduta del 4 dicembre, il Pd targato Renzi era ancora la forza pivotale del sistema (infatti aveva più voti degli altri, vinceva più comuni al primo turno e centrava più ballottaggi), anche se poco capace di fare coalizione e attrarre voti fuori dal proprio perimetro (che si tradusse in molte sconfitte nei ballottaggi – fra cui quelle fragorose di Roma e Torino). Il centrodestra viveva una profonda crisi, con Lega e Fi spesso divisi (come confermato dall’alto numero di amministrazioni uscenti di destra ma senza Fi, 13). Di ciò si avvantaggiò il M5s, mai come allora capace di sfruttare le debolezze dei due poli principali anche in elezioni locali. Nel complesso i numeri della tornata elettorale precedente palesavano un equilibrio fra le due coalizioni principali (37 comuni a testa) e segnavano il punto più basso del bipolarismo a livello locale, con quasi 4 comuni su 10 vinti da poli alternativi (fra cui 26 città a candidati civici e 12 al M5s). Oggi il bipolarismo cresce (i comuni vinti dalle due coalizioni principali passano dal 63% al 75% dei comuni), ma esclusivamente per merito dell’avanzata del centrosinistra (+15) a scapito di un dimezzamento del M5s (-7), di un arretramento delle civiche (-6) e della sinistra (-3). Il centrodestra invece rimane complessivamente stabile (+1). È però interessante notare l’accresciuta centralità di Forza Italia negli equilibri della coalizione: i comuni vinti da coalizioni che includono il partito di Berlusconi crescono (+7) mentre si dimezzano quelli vinti da coalizioni di destra senza Forza Italia (-6).

    A livello territoriale, infine, l’Italia è sempre più spaccata in due: al Nord il vantaggio del centrodestra è netto (26 a 12) e si allarga rispetto alle precedenti comunali, mentre nella Zona rossa e al Sud dominano le coalizioni guidate dal Pd (13 a 3 e 27 a 9 rispettivamente). In conclusione occorre osservare come queste amministrazioni sia state elette da meno del 44% degli aventi diritto. Chiaramente il centrosinistra fa segnare una vittoria. Eppure, mai come in presenza di una partecipazione elettorale così distante da quella delle elezioni politiche (mai sotto il 72%) bisogna essere particolarmente cauti nel proiettare questo risultato verso le prossime elezioni politiche.

  • FDI sorpassa la Lega, M5S crolla, PD ai livelli 2016. L’analisi del voto nei 118 comuni sopra i 15.000 abitanti

    FDI sorpassa la Lega, M5S crolla, PD ai livelli 2016. L’analisi del voto nei 118 comuni sopra i 15.000 abitanti

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 6 ottobre 2021

    A fronte di un risultato complessivo largamente atteso – con la vittoria del centrosinistra a Milano, Napoli e Bologna e il ballottaggio fra le due coalizioni principali a Roma e Torino – il voto amministrativo di ieri ci consegna un quadro profondamente mutato per quanto concerne gli equilibri fra le principali forze politiche.

    Per provare a ricavare alcune indicazioni da queste elezioni comunali, abbiamo costruito l’aggregato di tutti i 118 comuni superiori ai 15.000 abitanti al voto, raccogliendo, per questo insieme di comuni, i risultati elettorali dei principali partiti non solo in questo 2021 ma anche nelle precedenti elezioni comunali, nelle politiche 2018 e nelle europee 2019. Naturalmente, a parte il confronto con le precedenti comunali, si tratta di dati di elezioni diverse, pertanto difficilmente comparabili. Tuttavia, limitarci al confronto con il 2016 sarebbe poco utile: troppe cose sono cambiate nel volgere di 5 anni. Per comprendere qualcosa di più è necessario guardare, seppur con cautela, a quanto avvenuto in tempi più recenti.

    Inoltre, tutti i comuni considerati hanno almeno 15.000 abitanti. Sono quindi esclusi i comuni più piccoli (in cui vive il 40% degli elettori italiani, e in cui tradizionalmente il centrodestra è relativamente più forte). Invece, fra i comuni al voto c’erano tutti i più grandi centri urbani del paese (in cui il centrosinistra va relativamente meglio). Quindi, le percentuali riportate non possono essere interpretate come stime del risultato nazionale dei partiti in elezioni politiche immediate, però dal confronto con i risultati passati dei partiti in questi stessi comuni è possibile osservare alcuni elementi rilevanti.

    Tabella 1. I risultati dei principali partiti nelle grandi città e l’aggregato dei 118 comuni superiori al voto

    Il PD emerge come il partito di vincitore di queste elezioni amministrative. Nell’aggregato dei comuni superiori il PD, seppur senza avanzare (neppure a confronto con le comunali precedenti), non solo è il primo partito del paese ma, con il 19% supera la somma di Lega e FDI (18,8%). Sia alle comunali del 2016 che alle politiche del 2018 il PD arrivò primo in tre delle sei grandi città al voto in questa tornata elettorale (Milano, Bologna e Trieste nel 2016; Milano, Torino e Bologna nel 2018). Oggi il partito di Letta è primo in cinque città, non solo nella tradizionale roccaforte di Bologna (36,5%) ma anche nelle due principali città del Nord (33,8% a Milano; 28,6% a Torino), nonché, seppur con percentuali nettamente inferiori a Trieste (16,5%) e perfino a Napoli (12,2%), che a partire dalle politiche 2018 era stata dominata dal M5S. Cede solo a Roma, dove, alle spalle della lista Calenda, FDI con il 17,4% supera il 16,4% del PD. Il partito della Meloni è certamente l’altra grande forza politica che può sorridere in virtù di questo risultato. Oltre al successo romano, FDI avanza dappertutto e si impone per la prima volta come la lista più votata del centrodestra (11,1% contro il 7,7% della Lega e il 5% di Forza Italia). È vero che a Napoli la Lega non ha presentato la propria lista, ma nel complesso questo risultato può aprire nuovi scenari sugli equilibri e la leadership del centrodestra.

    Infatti la Lega è, insieme al M5S, lo sconfitto di questa tornata elettorale. Appena due anni fa, alle europee, il partito di Salvini raccoglieva il 28,4% nell’aggregato dei 118 comuni superiori, raddoppiando il 14,4% delle politiche dell’anno prima. Oggi si ferma al 7,7%, risultando sempre inferiore a FDI tranne che a Milano.

    Dall’altra parte, il partito fondato da Grillo, nonostante l’impegno di Conte in campagna elettorale, continua il suo trend di declino nelle urne. Il 6,3% dell’aggregato dei 118 comuni superiori equivale ad una perdita di oltre 10 punti rispetto al risultato delle europee 2019, già magro se confrontato con i successi delle comunali 2016 (17,9%) e soprattutto delle politiche 2018 (31%). Dopo aver sfidato con successo i poli tradizionali nel periodo 2013-2018, questo risultato sembra relegare il M5S al ruolo di sparring partner del nostro sistema partitico.

  • Tutti i numeri delle comunali: situazione di partenza, offerta e formule coalizionali nei 118 comuni superiori al voto

    Tutti i numeri delle comunali: situazione di partenza, offerta e formule coalizionali nei 118 comuni superiori al voto

    Domenica e lunedì oltre 14 milioni di elettori saranno chiamati alle urne per quella che può essere considerata la più importante tornata amministrativa dell’ultimo ciclo elettorale. Si voterà infatti per il rinnovo delle amministrazioni comunali in 1192 comuni, fra i quali 118 comuni superiori ai 15000 abitanti,[1] 19 capoluoghi di provincia e sei capoluoghi di regione (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna e Trieste). Oltre alle comunali, si voterà anche in Calabria per le elezioni regionali e in due collegi uninominali della Camera, ossia le suppletive di Siena e Roma-Primavalle.[2] Come detto in precedenza, si tratta di una tornata importante: del resto, quando votano le quattro principali città del Paese, a pochi mesi dall’elezione del Presidente della Repubblica e circa a un anno e mezzo dalle elezioni politiche, il test elettorale non può che considerarsi rilevante sul piano nazionale. Sulle domande e le aspettative di queste elezioni rimandiamo all’articolo scritto da Lorenzo De Sio. Ci limitiamo soltanto ad aggiungere una considerazione di natura meramente numerica: il test sarà sì nazionale, ma la distribuzione degli elettori nelle tre aree del Paese (Nord, “Zona Rossa” e Sud) è leggermente sbilanciata verso il Sud (51% degli elettori chiamati al voto) rispetto alle altre due zone (37% al Nord, 12% nella “Zona Rossa”). Sulla base della geografia elettorale recente (Chiaramonte et al. 2018), un partito come la Lega che, per quanto recentemente nazionalizzato (Albertazzi, Giovannini e Seddone 2018), rimane a vocazione fortemente settentrionale, risulta svantaggiato ai blocchi di partenza. Al contrario, il Movimento 5 Stelle (M5S), che alle elezioni politiche aveva sfondato al Sud e alle Europee pur perdendo la metà dei voti aveva mantenuto il Mezzogiorno come propria roccaforte elettorale (Chiaramonte, De Sio e Emanuele 2020), può fare invece affidamento su un vantaggio potenziale. Focalizzandoci sui soli 118 comuni superiori, in questo articolo proponiamo una panoramica dell’offerta politica e dei pattern coalizionali di questa tornata elettorale.

    Tabella 1: Riepilogo dei vincitori nella precedente tornata elettorale nei 118 comuni superiori al voto

    La nostra analisi comincia dalla Tabella 1, che riporta il riepilogo dei vincitori nei 118 comuni superiori al voto nella precedente tornata elettorale. Osservare la situazione di partenza è infatti cruciale per calibrare correttamente le aspettative sul risultato. Certo, la precedente tornata “naturale” di riferimento per queste elezioni è il 2016, quando il centrodestra era in piena ricostruzione e si avviava al passaggio dalla leadership di Berlusconi a quella di Salvini, il centrosinistra era ancora dominato dalla leadership di Matteo Renzi, mentre il M5S adottava ancora una strategia di rifiuto di qualsiasi alleanza. Come mostra la tabella, il quadro dei vincitori uscenti è altamente frammentato: il centrosinistra guidato dal Partito Democratico (PD) risulta uscente nella maggioranza relativa dei comuni (37), contro i 24 del centrodestra a guida Forza Italia (FI) e i 13 della destra di Lega e Fratelli d’Italia (FdI). Seguendo un trend cominciato nel 2013 a livello nazionale (Chiaramonte e Emanuele 2014), il sistema era molto lontano dall’essere bipolare, vista la presenza di un consistente numero di vittorie di candidati civici (26) e del M5S (12). I civici erano addirittura “primo polo” al Sud mentre il M5S, con le vittorie di Roma e Torino, dimostrava di essere competitivo come polo autonomo.

    Tabella 2: I sindaci incumbent nei 118 comuni superiori al voto

    Ai blocchi di partenza si ripresentano 76 sindaci uscenti su 118, ossia poco meno di due terzi del totale (64%). Gli incumbent sono relativamente più frequenti nella Zona Rossa (76%), mentre la percentuale scende al 57% nel Sud. Dal punto di vista delle coalizioni politiche, l’incumbency è relativamente più frequente nel M5S e nel centrodestra rispetto al centrosinistra, dove quasi un sindaco su due non si ripresenterà al voto.

    Tabella 3: Riepilogo dell’offerta (candidati e liste) nei 118 comuni superiori al voto

    La Tabella 3 riassume l’offerta elettorale nei 118 comuni superiori al voto, riportando per ciascuna area politica il numero totale di candidati e liste nelle diverse zone del Paese. La parte superiore della tabella ci fornisce un’idea complessiva della copertura territoriale dei poli, mentre la parte inferiore segnala la loro capacità coalizionale, nonché il livello di frammentazione sia intra-coalizionale che territoriale. Il centrosinistra a guida PD appare come la coalizione più “nazionalizzata”, con 106 candidati su 118 comuni. Il partito di Letta si presenta con uno schema coalizionale a geometria variabile. In 29 comuni su 106 è alleato con il M5S, e in quattro di questi, tra cui Napoli e Bologna, la coalizione è allargata anche alla sinistra (Sinistra Italiana, o Movimento Democratico Progressista, o entrambe). L’alleanza tra i partiti di Letta e Conte risulta piuttosto disomogenea da un punto di vista territoriale, essendo poco praticata al Nord (solo 8 comuni su 46) e invece relativamente più frequente nelle due aree di rispettiva forza elettorale (Zona Rossa, 38,1%, e Sud, 25,5%). Questi numeri sottolineano il permanere di un’ambiguità relativa all’alleanza tra PD e M5S. Se da un lato, infatti, la presenza di alcune situazioni locali può spiegare il mancato accordo tra le due forze politiche (per esempio a Roma e Milano, dove le sindacature di Raggi e Sala sono state molto contestate in questi anni rispettivamente dal PD e dal M5S), dall’altro questo quadro testimonia il fatto che la leadership dei due partiti non abbia ancora sciolto del tutto le riserve su un’alleanza strutturale. La coalizione tra PD e sinistra ricorre complessivamente in 24 comuni. Si tratta di una cifra sorprendentemente bassa, soprattutto alla luce della maggiore propensione della segreteria Letta – come prima anche quella Zingaretti – a favorire coalizioni inclusive a sinistra rispetto alla precedente stagione renziana. L’alleanza tra PD e Italia Viva ricorre in sei comuni: a Napoli, dove Manfredi è sostenuto da una maxi-coalizione che va da Di Maio a Renzi, e in altri cinque casi, dove invece l’asse della coalizione è decisamente più moderato, con il PD alleato al partito di Renzi e altre liste di area centrista. Nel complesso, il partito di Letta è alla guida di coalizioni con altri partiti nazionali in 54 comuni. Nei restanti casi, quasi la metà del totale, il PD corre da solo o al massimo è alleato con liste civiche e partiti minori.

    Passando allo schieramento opposto, i candidati di centrodestra sostenuti anche da FI sono presenti in 91 comuni. Questi ultimi distanziano nettamente i candidati sostenuti solo da partiti di destra (senza FI), che si fermano a 47 presenze. La centralità di FI all’interno dello schieramento di centrodestra è testimoniata, oltre che da questi numeri complessivi, anche dai dati che ci fornisce l’analisi dei pattern coalizionali interni al blocco. Sui 118 comuni superiori, la coalizione di centrodestra “classica” che include FI, Lega e FdI si presenta 73 volte, mentre le altre formule nelle quali solo due dei tre partner sono alleati risultano decisamente meno frequenti, con combinazioni a due partner rintracciabili soltanto in 21 comuni. In particolare, la cosiddetta ”alleanza sovranista” tra Lega e FdI (senza FI) compare solo in 13 comuni, risultando quindi uno schema coalizionale del tutto residuale nel Paese. È dunque interessante notare come, nonostante il pronunciato declino elettorale e la marginalità ideologica intra-coalizionale, il partito di Berlusconi risulti, almeno a livello locale, un collante importante per la coalizione di centrodestra. Nel complesso, il centrodestra sembra quindi più unito del centrosinistra. Anche qui, però, notiamo una netta disomogeneità territoriale, con il Nord che offre uno schema unitario (in 41 comuni su 46 i tre partiti sono alleati), mentre al Sud la situazione appare balcanizzata, con quasi due terzi dei comuni in cui non si ritrova il centrodestra unito.

    In tutto, corrono per la poltrona di sindaco 520 candidati, con una media di 4,4 per comune. La competizione è maggiormente frammentata nella Zona rossa (sul punto vedi anche Vittori e Paparo 2018), nei capoluoghi (8,4 candidati per comune) e in particolare nelle grandi metropoli. Roma detiene il record di 22 candidati sindaco, mentre all’estremo opposto si trova il curioso caso di Brusciano (NA), dove corre un unico candidato sindaco. Si tratta dell’unico candidato del comune ad aver rispettato i tempi di consegna delle liste elettorali. Si noti però che non è automaticamente eletto: è infatti necessario che venga raggiunto il quorum.[3]

    Infine, per quanto concerne le liste a sostegno dei candidati dei diversi schieramenti, il centrodestra – coerentemente con il recente passato (Emanuele, Marino e Martocchia 2016; Vittori e Paparo 2018) conferma una maggiore frammentazione intra-coalizionale (ma allo stesso tempo una maggiore capacità di aggregazione), con una media di 4,9 liste per ciascun candidato contro le 4,5 del centrosinistra. Non sorprendentemente, questi numeri crescono nei capoluoghi, dove la corsa a un seggio di consigliere comunale scatena la presenza di liste civiche, e naturalmente nel Sud, dove il voto è tradizionalmente ‘candidate-oriented’ e dominato dai ‘Signori delle preferenze’ (Fabrizio e Feltrin 2007; Emanuele e Marino 2016). Qui c’è una media di 3,7 liste per candidato contro le 3,2 del Nord e le 2,8 della Zona Rossa.


    [1] Non è incluso il comune di Lamezia Terme (CZ), nel quale, a seguito della decisione del Consiglio di Stato, si voterà soltanto in quattro sezioni che non potranno matematicamente ribaltare l’esito delle precedenti elezioni.

    [2] Questi numeri non includono gli elettori che saranno coinvolti l’11 e 12 ottobre, quando si voterà per le elezioni comunali in Sicilia, Sardegna e Trentino-Alto Adige. Ad Ayas (Val d’Aosta) si è invece già votato il 19 e 20 settembre.

    [3] Nelle elezioni del Sindaco e del Consiglio comunale nei comuni fino a 15.000 abitanti, ove sia presente una sola lista, è necessario il raggiungimento di un duplice quorum: il numero dei votanti non deve risultare inferiore al 40 per cento degli aventi diritto (quorum strutturale) e la lista deve aver riportato un numero di voti validi non inferiore al 50 per cento dei votanti (quorum funzionale). Qualora non si siano raggiunte tali percentuali, l’elezione è nulla.


    Nota metodologica

    La Sinistra (senza il PD) riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra Potere al Popolo (PAP), Rifondazione (PRC), Partito comunista Rizzo (PC), Partito comunista italiano Arboresi (PCI), Partito comunista dei lavoratori (PCDL), Articolo-1-MDP (MDP), Sinistra italiana (SI), Partito socialista italiano o socialisti (PSI), Centro democratico (CeDem), Italia in Comune (ITCOM), DemA (DemA), Italia dei Valori (IDV), Europa verde (Verdi), Possibile (Possibile), DemoS (Demos) – ma non dal PD.

    Il Centrosinistra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia il PD;

    il Centro riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra Più Europa (+EU), Azione (AZ), Italia Viva (IV), Noi con l’Italia (NCI), Unione di Centro (UDC), Democrazia Cristiana (DC), Partito Repubblicano (PRI) (ma né PD né FI) Volt (Volt).

    Il Centrodestra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia FI.

    La Destra riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra Lega o Prima + nome del comune (LEGA), Fratelli d’Italia (FDI), Cambiamo Toti (Cambiamo), Popolo della Famiglia (PDF), Partito liberale europeo (PLE), Rinascimento Sgarbi (Sgarbi), Italexit (ITEXIT), Fiamma Tricolore (FT), Movimento Idea Sociale (MIS) – ma non FI.

    I candidati civici sono invece quei candidati non sostenuti da alcuna lista di cui sopra ma soltanto da liste civiche.

    Quindi, se un candidato è sostenuto dal PD o da FI è attribuito al centrosinistra e al centrodestra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno.

    Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI che hanno la priorità) in sede di attribuzione pre-elettorale viene segnato come appartenente ad entrambe le aree (vedi ‘Altre formule’). Esempio: se, per ipotesi, Potere al Popolo (PAP) e Azione (AZ) sostengono lo stesso candidato (che non è candidato di nessun partito principale) la coalizione viene indicata come SX-CX. Dopo il voto, si valuterà il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

    Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI che hanno la priorità) in sede di attribuzione pre-elettorale viene segnato come appartenente ad entrambe le aree (vedi ‘Altre formule’). Esempio: se, per ipotesi, Potere al Popolo (PAP) e Azione (AZ) sostengono lo stesso candidato (che non è candidato di nessun partito principale) la coalizione viene indicata come SX-CX. Dopo il voto, si valuterà il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

    Riferimenti bibliografici

    Albertazzi, D., Giovannini, A., & Seddone, A. (2018). ‘No regionalism please, we are Leghisti!’ The transformation of the Italian Lega Nord under the leadership of Matteo Salvini. Regional & Federal Studies28(5), 645-671.

    Chiaramonte, A. & Emanuele, V. (2014) ‘Bipolarismo addio? Il sistema partitico tra cambiamento e de-istituzionalizzazione’, in Terremoto Elettorale. Le Elezioni Politiche Del 2013, A. Chiaramonte, L. De Sio (a cura di), Bologna: Il Mulino, pp. 233–262.

    Chiaramonte, A., Emanuele, V., Maggini, N., & Paparo, A. (2018). ‘Populist success in a hung parliament: The 2018 general election in Italy’. South European Society and Politics23(4), 479-501.

    Chiaramonte, A., De Sio, L., & Emanuele, V. (2020). ‘Salvini’s success and the collapse of the Five-star Movement: The European elections of 2019’. Contemporary Italian Politics12(2), 140-154.

    Emanuele, V., & Marino, B. (2016). ‘Follow the candidates, Not the parties? Personal vote in a regional de-institutionalized party system’. Regional & Federal Studies26(4), 531-554.

    Emanuele, V., Marino, B., & Diodati, N. M. (2016). ‘Comunali 2016, l’analisi dell’offerta politica nei comuni capoluogo’. In Cosa succede in città? Le elezioni comunali del 2016, V. Emanuele, N. Maggini e A. Paparo (a cura di), Dossier CISE, pp.33-40

    Fabrizio, D., & Feltrin, P. (2007). ‘L’uso del voto di preferenza: una crescita continua’, in Riforme istituzionali e rappresentanza politica nelle regioni italiane, A. Chiaramonte e G. Tarli Barbieri (a cura di), Bologna: Il Mulino, pp. 175-199.

    Vittori, D., & Paparo, A. (2018). ‘Il quadro della vigilia delle comunali: le alleanze e le amministrazioni uscenti’, in Goodbye Zona Rossa, A. Paparo (a cura di), Dossier CISE, pp.27-36.

  • Can the class cleavage still explain support for left-wing parties?

    Can the class cleavage still explain support for left-wing parties?

    *This post has been originally published on the LSE EUROPP Blog

    The electoral strength of left-wing parties has traditionally been linked to the size and nature of a country’s working class and the existence of strong organisations such as trade unions. But are these ‘class cleavage’ factors still important in today’s politics? Drawing on a new study, Vincenzo Emanuele finds that while the characteristics of the working class are still a significant predictor of votes for the left, the importance of the organisational dimension has largely disappeared over the last two decades.

    Conventional wisdom in today’s Western European politics is that left parties, and especially social democratic parties, have been experiencing an unrestrainable electoral decline. Journalists and pundits have highlighted the recent dramatic collapse of social democratic parties in several countries. In France, the Socialist Party fell from 29.4% to 7.4% in the 2017 legislative elections. In Germany, the support for the Social Democratic Party halved over the course of two decades, from 40.9% in 1998 to 20.5% in 2017, and the party is expected to be replaced by the Greens as the main political force of the centre-left camp in the next elections to be held in September.

    The Italian centre-left coalition reached a new record-low result in the 2018 parliamentary elections (23.3%). Similar record-low results for social democratic parties occurred in Sweden in 2018 (28.3%), in Switzerland in 2019 (16.8), and especially in the Netherlands, where the Labour party collapsed to 5.7% in the last two parliamentary elections (2017 and 2021). Although in some countries the social democratic fall has been counterbalanced by the rise of radical left parties, like in Greece and Spain, the general picture of the European left is indisputably a gloomy one.

    Based on such evidence, comparative politics scholars have investigated the factors explaining the fall of the Western European left, ranging from transformations in social structures (the working-class shrinking) to behavioural changes (voters are mobilised according to post-materialist issues cutting across traditional class loyalties). Other scholars have pointed to the ideological moderation of parties on the left and their convergence with the mainstream right through a decreased emphasis on traditional economic left goals. This is claimed to have alienated the support of the traditional working-class base.

    However, a smoking gun has yet to be found. According to the classical cleavage theory by Seymour Martin Lipset and Stein Rokkan, the left’s electoral mobilisation is a function of class cleavage strength. The latter can be empirically measured by looking at two main elements: social group strength and organisational density. The former refers to the characteristics of its core social constituency, namely the working class. The more sizeable and industry-based the working-class is, the larger the expected support for the left. The latter instead refers to the corporate and partisan components of the cleavage, namely trade unions and left party organisations. The denser the organisational encapsulation within trade unions and left parties, the larger the electoral support for the left.

    Class cleavage roots and electoral mobilisation

    Starting from these premises, in a new study, I investigate whether left parties are still linked to their historical class cleavage roots or, instead, whether the electoral support for the former is completely detached from the socio-structural and organisational features from which such parties originally stemmed.

    The link between class cleavage roots and left electoral mobilisation is tested through a comparative longitudinal research design that takes into account 19 Western European countries and their parliamentary elections in the whole post-World War II period (345 elections) so as to offer a comprehensive perspective that goes beyond the mere assessment of the last few years and allows for an accurate analysis of long-term changes.

    The analysis shows that support for left parties – communist, socialist, social-democratic, and labour parties – has remained quite stable from 1946 to 2010, with an average of 38% and a peak of 40.4% in the 1970s. Notably, the last decade is characterised by a remarkable decline: the aggregate vote share of left parties decreases to an average of 31.9% in the 2010s, and this decline is even more pronounced if one excludes Southern European countries (27.6%).

    Moreover, contrary to many claims about the recent alleged right-wing shift of left parties, an empirical test based on Comparative Manifesto Project data from 1945 and 2018 unequivocally rejects the hypothesis that left parties have shifted ideologically away from traditional economic left goals. Conversely, the analysis shows that left parties can still be safely considered as the legitimate representatives of the working-class side of the class cleavage.

    Figure 1: Social group strength and organisational density

    Note: The figures are country averages. For more information, see the author’s accompanying study.

    Moving to focal predictors, Figure 1 shows that the class cleavage may assume different configurations in Western European countries. Not surprisingly, Scandinavian countries like Sweden and Denmark, as well as Austria, show the strongest class cleavage, while Greece and Ireland fall at the bottom of the ranking. However, the two aspects may not converge, and the development of dense organisational networks (strong trade unions and left parties) is not necessarily linked to the presence of a sizeable and industry-based working class.

    This is the case of Cyprus and Iceland, which display relatively strong organisations in the context of a small and heterogeneous working class, but also of Germany and Switzerland, where the opposite situation of a strong social group goes hand in hand with a comparatively weak organisational density. At any rate, by looking at the evolution over time of class cleavage roots reported in Figure 2, a general picture of decline emerges: the working class has shrunk in size and has become less industry-based, while trade unions and left parties have lost members. This picture is fairly consistent across countries.

    Figure 2: Temporal evolution of social group strength and organisational density (1946–2018)

    Note: For more information, see the author’s accompanying study.

    However, this trend does not necessarily mean that, despite its reduced weight in Western European politics, the class cleavage no longer translates into left electoral support, as was the case at the time of the origin of class electoral mobilisation. The empirical test of the association between class cleavage roots and left electoral mobilisation – controlling for other social, institutional, and political factors that may affect this relationship – shows that the class cleavage has a significant impact on the electoral support for left parties in Western Europe in the period between 1946 and 2018.

    All else being equal, both a sizeable and industry-based working class and a dense organisational network increase the electoral support for left parties. What notably differentiates the two elements of the class cleavage is the evolution over time of their impact on left electoral support. Indeed, while social group strength has remained a substantial predictor of left electoral mobilisation even in recent decades, the impact of organisational density – as Figure 3 shows – has dramatically decreased over time and has become no longer significant in the last twenty-five years.

    Figure 3: Impact of organisational density on left parties’ electoral support over time

    Note: For more information, see the author’s accompanying study.

    In a nutshell, the analysis tells us that the class cleavage is not entirely ‘lost in translation’, as a sizeable and industry-based working class is still today an important predictor of left electoral mobilisation. Nevertheless, such mobilisation is no longer mediated by the corporate and partisan organisations, the original vectors of cleavage translation. Indeed, membership in trade unions and left-wing parties are no longer associated with left electoral support.

    These results deserve careful future consideration and have important implications for the study of cleavages and elections. In particular, they raise fundamental questions about the future of left parties and their class cleavage roots. Will the persistent link between the class cleavage’s socio-structural roots and left electoral mobilisation be a sufficient factor for class bloc parties’ electoral resilience, despite the missing link with class cleavage’s organisational roots? Or, instead, will the breakage of the transmission belt between organisational density and left electoral mobilisation cause an electoral disintegration of these parties in the near future? Further research should carefully address these questions, whose answer is paramount for our understanding of class politics and electoral competition in twenty-first-century Europe.

    For more information, see the author’s accompanying paper in Perspectives on Politics

  • Lost in Translation? Class Cleavage Roots and Left Electoral Mobilization in Western Europe

    Lost in Translation? Class Cleavage Roots and Left Electoral Mobilization in Western Europe

    Emanuele, V. (2021). Lost in Translation? Class Cleavage Roots and Left Electoral Mobilization in Western Europe. Perspectives on Politics, 1-19. DOI: https://doi.org/10.1017/S1537592721000943

    I investigate whether the strength of the class cleavage in Western Europe still “translates” into the electoral mobilization of the left. This research question is addressed through comparative longitudinal analysis in nineteen Western European countries after World War II. In particular, the impact of class cleavage is investigated by disentangling its socio-structural (working-class features) and organizational (corporate and partisan) components, thus accounting for its multidimensional nature. Data show that both components have a significant impact in Western Europe after 1945. However, while the socio-structural element is still nowadays a substantial predictor of left electoral mobilization, the impact of the organizational element has decreased over time and has become irrelevant in the last twenty-five years. Therefore, the class cleavage is not entirely lost in translation, but left electoral mobilization is no longer dependent upon the organizational features of trade unions and political parties that originally emerged to represent working-class interests.

  • Il risultato delle regionali spiegato dal buon governo locale

    Il risultato delle regionali spiegato dal buon governo locale

    In Italia il risultato di qualsiasi elezione ad ogni livello viene proiettata sul piano nazionale. Il caso di queste elezioni regionali non è stato da meno. Il commento di giornalisti ed esperti ha virato immediatamente su questioni come la tenuta del governo (durata fino al 2023? Rimpasto?) e gli equilibri interni alle coalizioni e ai partiti (rafforzamento della leadership di Zingaretti; crisi del M5S e di Renzi; OPA della Meloni sul centrodestra; sfida di Zaia a Salvini, etc.). Ciò è, per certi aspetti, inevitabile, soprattutto quando si recano alle urne milioni di italiani da Nord a Sud. Bisogna però stare attenti ad enfatizzare eccessivamente i risultati di queste elezioni regionali in chiave nazionale. Questo voto ha avuto, infatti, innanzitutto un carattere locale. Prima che per mandare un messaggio al governo gli elettori hanno votato per eleggere i governatori delle proprie regioni. E le dinamiche locali, fra le quali soprattutto il giudizio degli elettori sull’operato del governo regionale, hanno giocato un ruolo preminente nell’orientare la scelta di voto. Ciò è quanto emerge dalla nostra analisi.

    Nelle settimane precedenti il voto i sondaggi Winpoll/CISE[1] hanno chiesto agli elettori delle sei regioni al voto il proprio giudizio sull’operato dell’amministrazione regionale. Il risultato variava dall’ 85% di giudizi positivi in favore di Luca Zaia al 46% per Emiliano. Tutti i governatori uscenti – compresi Rossi e Ceriscioli che non sono stati ricandidati – godevano della maggioranza assoluta di giudizi positivi, con l’eccezione appunto del Presidente della Puglia. A questo punto abbiamo provato a verificare se il giudizio per l’amministrazione uscente avesse un impatto significativo sulla scelta di voto. Lo abbiamo fatto tramite una serie di regressioni logistiche (una per ciascuna regione) dove la variabile dipendente è il voto per il candidato governatore vincente alle elezioni e la variabile indipendente è appunto il giudizio sull’operato del governo[2]. Le regressioni tengono conto di fattori socio-demografici (sesso, età, titolo di studio, professione) e politici dell’intervistato (scelta di voto alle elezioni europee del 2019). Abbiamo poi anche controllato per un fattore di breve periodo capace di incidere sulle dinamiche di consenso a livello locale, ossia il giudizio sull’operato della Regione nell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19.

    I risultati delle analisi confermano la nostra ipotesi. Il giudizio sull’operato del governo regionale ha sempre un impatto positivo e significativo sul voto al candidato Presidente vincente. Come vediamo dai grafici in pagina (Figure 1, 2 e 3), la propensione a votare il candidato governatore è significativamente diversa fra coloro che sono soddisfatti dell’incumbent rispetto a coloro che sono insoddisfatti del governo uscente. Tutti i modelli sono significativi e spiegano fra il 38% e il 51% della varianza del voto al candidato Presidente. In cinque casi il coefficiente è positivo. Ciò significa che la probabilità di voto agli incumbent Zaia, Toti, Emiliano e De Luca aumenta tra coloro che sono soddisfatti dell’operato del governo di questi ultimi. Giani si aggiunge al gruppo, in quanto beneficia del giudizio sul suo predecessore, Enrico Rossi. Nel caso delle Marche, l’unica regione che ha cambiato colore politico, invece, il segno del coefficiente è negativo. Questo perché naturalmente la probabilità di voto di Acquaroli, neo-eletto Presidente per il centrodestra, diminuisce all’aumentare del giudizio positivo per la precedente amministrazione a guida PD.

    Fig. 1 – Effetto dell’operato del governo uscente sulle probabilità di votare per il candidato presidente (Veneto e Liguria)

    Fig. 2 – Effetto dell’operato del governo uscente sulle probabilità di votare per il candidato presidente (Toscana e Marche)

    Fig. 3 – Effetto dell’operato del governo uscente sulle probabilità di votare per il candidato presidente (Puglia e Campania)

    Entrando nel dettaglio delle singole regioni, il voto a Zaia è in larga parte dovuto al giudizio eccezionalmente positivo sulla sua amministrazione. In Veneto, infatti, le variabili socio-demografiche non hanno effetti significativi vista la trasversalità del consenso di Zaia (con l’eccezione della propensione negativa a votarlo da parte degli impiegati), e nemmeno la gestione del Covid sembra aver inciso. Il Veneto è infatti l’unica regione nella quale la variabile relativa alla gestione del Covid non mostra un effetto significativo. Ciò avviene perché il giudizio dei veneti sul governatore uscente era già ampiamente positivo prima dello scoppio della pandemia. Quest’ultima è stata gestita bene (82% di giudizi positivi) ma non ha inciso in modo decisivo su una scelta di voto che era già consolidata da tempo. Nelle Marche, lo storico avvicendamento fra Ceriscioli e Acquaroli passa anche per il giudizio sulla gestione del Covid. Il relativo coefficiente mostra un effetto significativo (e ovviamente negativo) sul voto ad Acquaroli che si affianca a quello, analogo, sull’operato del governo uscente. Ciò avviene anche nelle altre regioni. In Liguria Toti viene trascinato dal voto di casalinghe e pensionati, mentre in Campania il voto a De Luca è significativamente maggiore fra le donne e coloro che hanno un basso titolo di studio. Infine, in Toscana e Puglia la mobilitazione degli elettori ha assunto, da parte del centrosinistra, le dimensioni di una vera e propria chiamata alle armi a sostegno dei propri candidati. In queste due regioni, infatti, si nota un effetto positivo sul voto a Giani ed Emiliano non solo da parte degli elettori del centrosinistra (PD, Sinistra, +Europa) ma anche da parte degli elettori di liste minori e addirittura, nel caso di Giani, c’è un effetto positivo e significativo da parte degli elettori di Forza Italia. Un risultato coerente con le analisi effettuate dall’Istituto Cattaneo che ha mostrato la capacità di Giani di pescare dall’elettorato grillino e da quello di Forza Italia, forse spaventato dalla radicalità della proposta elettorale leghista.

    Come dimostrano queste analisi, dunque, il voto è stata soprattutto una questione locale. La forza del buon governo e i giudizi sull’operato degli incumbent hanno indirizzato la competizione verso l’uno o l’altro schieramento, e questi fattori sembrano aver pesato di più delle divisioni politiche tradizionali e per certi aspetti sembrano anche averle scavalcate, introducendo una trasversalità di voto per i governatori che difficilmente potrà replicarsi in caso di elezioni politiche. Appare infatti improbabile pensare che, quando voteremo per le nuove Camere, il centrodestra possa ottenere più dei tre quarti dei voti in Veneto, o che il centrosinistra possa sfiorare il 70% in Campania.

    Più che una lezione politica, i partiti nazionali dovrebbero trarre da questo voto una lezione istituzionale. Un sistema istituzionale efficiente come quello delle regioni che bilancia governabilità (elezione diretta del Presidente e premio di maggioranza) e rappresentatività (proporzionale di lista con preferenze) favorisce quel meccanismo di accountability e responsiveness tramite il quale gli elettori scelgono i propri rappresentanti e poi ne giudicano l’operato a fine mandato. Dall’altra parte gli eletti, sapendo di dover rendere conto del proprio operato, tendono a comportarsi in conformità agli impegni presi con gli elettori. Un meccanismo che a livello nazionale si è inceppato da tempo. Chissà che non possano riattivarlo la riforma costituzionale appena entrata in vigore e la riforma elettorale che probabilmente seguirà.


    [1] Soggetto committente: Sole 24 Ore – Cise. Soggetto realizzatore: Winpoll – Cise. Periodo di realizzazione interviste: 19-22 agosto 2020 (Veneto); 20-22 agosto 2020 (Campania); 24-25 agosto 2020 (Liguria); 25-27 agosto 2020 (Marche); 27-28 agosto 2020 (Toscana); 28 agosto-1 settembre (Puglia). Popolazione di riferimento: popolazione della regione, maschi e femmine dai 18 anni in su, segmentata per sesso, età, comuni capoluogo e non, proporzionalmente all’universo della popolazione della regione. Metodo di campionamento: stratificato per provincia, comuni capoluogo e non, casuale ponderato per genere, fasce di età e voto alle ultime europee. Metodologia delle interviste: mista. Numero di interviste: Veneto: 1008 (508 cati-cami; 500 cawi); Campania: 1002 (502 cati-cami; 500 cawi); Liguria: 1000 (500 cati-cami; 500 cawi); Marche: 1000 (500 cati-cami; 500 cawi); Toscana: 1000 (500 cati-cami; 500 cawi); Puglia: 1000 (500 cati-cami; 500 cawi). Margine di errore con intervalli di confidenza al 99%: 2,4%.

    [2] Sebbene si tratti di analisi svolte su dati di sondaggio pre-elettorali non perfettamente rappresentativi del risultato finale del voto, in questa analisi ci siamo soffermati sulle relazioni tra variabili. Queste ultime risentono meno severamente della reale distribuzione della popolazione.

  • The congealing of a new cleavage? The evolution of the demarcation bloc in Europe (1979–2019)

    The congealing of a new cleavage? The evolution of the demarcation bloc in Europe (1979–2019)

    Emanuele, V., Marino, B. and Angelucci, D. (2020), The congealing of a new cleavage? The evolution of the demarcation bloc in Europe (1979–2019). Italian Political Science Review. doi: https://doi.org/10.1017/ipo.2020.19

    Over recent years, a new transnational conflict has been deemed to be structuring political conflict in Europe. Several scholars have posited the emergence of a new ‘demarcation’ vs. ‘integration’ cleavage, pitting the ‘losers’ and ‘winners’ of globalization against each other. This new conflict is allegedly structured along economic (free trade and globalization), cultural (immigration and multiculturalism), and institutional [European Union (EU) integration] dimensions. From an empirical viewpoint, it is still a matter of discussion whether this conflict can be interpreted as a new cleavage, which could replace or complement the traditional ones. In this context, the European Parliament (EP) elections of 2019 represent an ideal case for investigating how far this new cleavage has evolved towards structuring political competition in European party systems. In this paper, by relying on an original dataset and an innovative theoretical and empirical framework based on the study of a cleavage’s lifecycle, we test whether a demarcation cleavage is structuring the European political systems. Moreover, we assess the evolution of this cleavage across the 28 EU countries since 1979 and the role it plays within each party system. The paper finds that the demarcation cleavage has emerged in most European countries, mobilizing over time a growing number of voters. In particular, this long-term trend has reached its highest peak in the 2019 EP election. However, although the cleavage has become an important (if not the main) dimension of electoral competition in many countries, it has not reached maturity yet.

  • Party crashers? Modeling genuinely new party development paths in Western Europe

    Party crashers? Modeling genuinely new party development paths in Western Europe

    Emanuele, V. and Sikk, A. (2020), ‘​Party crashers? Modeling genuinely new party development paths in Western Europe’, Party Politics, DOI:10.1177/1354068820911355.

    Western Europe has recently experienced the emergence of successful new parties, but while single parties or countries have been extensively studied, insufficient attention has been devoted to this phenomenon from a comparative and long-term perspective. By relying on an original data set covering 20 countries and 344 parliamentary elections, this article presents the first analysis of West European ‘genuinely new parties’ (GNPs) across time, countries and party families. We hypothesize that the parties differ not only in terms of their short- and long-term success but have a range of distinct development paths. Through a latent growth model, we provide a classification of GNPs in terms of their breakthrough and initial performance. According to the specific trajectory followed by new parties in the first five elections they contest, the model suggests five different classes of new parties in Western Europe: ‘explosive’, ‘meteoric’, ‘contender’, ‘flat’ and ‘flop’. The article discusses the implications of these findings also regarding the ability of the model to produce estimates and predictions about the future electoral performances of GNPs.

    Keywords: genuinely new parties, latent growth models, Western Europe.

  • Going out of the ordinary. The de-institutionalization of the Italian party system in comparative perspective

    Going out of the ordinary. The de-institutionalization of the Italian party system in comparative perspective

    Emanuele, V. and Chiaramonte, A. (2020), ‘Going out of the ordinary. The de-institutionalization of the Italian party system in comparative perspective’, Contemporary Italian Politics.

    Since 2013, the Italian party system has been in turmoil as the old bipolar structure has been swept away by the emergence of new competitors and skyrocketing voter volatility. Instead of being characterized by stabilization, the 2018 general election continued to show turmoil, with a substantial shift in the balance of power among parties and electoral poles. This article tests the hypothesis that since 2013 Italy has been experiencing a process of party systemde-institutionalization, meaning a context in which the interactions of inter-party competition remain unstable and unpredictable over time. To do so, it analyses the patterns of stability and predictability in the three arenas (electoral, parliamentary and governmental) where inter-party competition can be detected, adopting a twofold comparative perspective: a diachronic perspective comparing the 2013–2018 period with the previous Italian republican era; a cross-national perspective (using an original dataset covering 372 elections and legislatures, and 670 governments) comparing Italy since the War with the corresponding period in nineteen other Western European countries. The article paints a rather clear picture: in the period following the 2013 elections the Italian party system is de-institutionalized like very few others in Western Europe’s post-1945 history.

  • Explaining the impact of new parties in the Western European party systems

    Explaining the impact of new parties in the Western European party systems

    Negli ultimi anni, i sistemi di partito dell’Europa occidentale sono risultati permeabili all’ingresso di nuovi partiti. Nuove formazioni politiche hanno ottenuto successi elettorali rilevanti, ottenendo rappresentanza in parlamento e, in alcuni casi, accedendo al governo dei rispettivi paesi. Si pensi, solo per menzionare i casi più noti, al Movimento Cinque Stelle, a Podemos, Ciudadanos e Vox in Spagna, al partito del Presidente Macron (La Republique en marche) in Francia, ad Alternativa per la Germania o ad Alba Dorata in Grecia.

    Cosa spiega il successo dei nuovi partiti in Europa occidentale? Quali fattori sono responsabili della capacità dei nuovi partiti di emergere come attori di successo nell’arena elettorale, di ottenere seggi in Parlamento e posizioni di governo?

    Questo articolo, pubblicato sul Journal of Elections, Public Opinion and Parties, risponde a queste domande di ricerca sviluppando un’analisi comparata su 20 paesi dell’Europa occidentale dalla Seconda guerra mondiale a oggi. L’analisi empirica si basa su un dataset originale che raccoglie informazioni sull’innovazione elettorale, parlamentare e governativa del sistema partitico, ossia il successo dei nuovi partiti nelle diverse arene di competizione. Il dataset copre circa 350 elezioni e legislature e 670 governi in Europa occidentale.

    I risultati dell’analisi ci dicono che i sistemi di partito dell’Europa occidentale nell’ultima decade sono diventati molto più “innovativi” rispetto al passato sia a livello elettorale che parlamentare. Nell’arena del governo, invece, l’impatto dei nuovi partiti per il momento è stato più limitato. Il cambiamento nei livelli di affluenza alle urne sembra essere il principale fattore che determina il successo dei nuovi partiti in termini di voti e seggi ricevuti: più cambia il corpo elettorale rispetto alle precedenti elezioni (l’affluenza cresce o diminuisce) più i nuovi partiti hanno successo. Nell’arena del governo, invece, il fattore più importante sembra essere l’andamento dell’economia. I nuovi partiti vanno più facilmente al governo quando l’economia del paese versa in cattive condizioni.

    Questi risultati si inseriscono in un’ampia letteratura sull’impatto dei nuovi partiti e sollecitano la necessità di adottare una prospettiva larga di analisi che, anziché focalizzarsi esclusivamente sul successo elettorale, guardi anche alla penetrazione di queste forze politiche nelle arene decisionali. Solo così otterremo un quadro comprensivo e sistematico sull’impatto dei nuovi partiti e i fattori che spiegano il loro (variabile) successo.

    Scarica l’articolo qui

    Emanuele, V. and Chiaramonte, A. (2019), ‘Explaining the impact of new parties in the Western European party systems’, Journal of Elections, Public Opinion and Parties, DOI: 10.1080/17457289.2019.1666402.

    In recent years, and particularly following the impact of the “great recession”, Western European party systems have undergone profound change. New parties have emerged and been successful, thus radically changing the structure of inter-party competition. So far, research on new parties has been mainly conducted from party-level and election-centred perspectives. Here, instead, we focus on party system innovation (PSInn), meaning the impact of new parties on Western European party systems, and on the factors that explain such impact, by adopting a systemic perspective and taking into account all the arenas where inter-party competition takes place (i.e. elections, parliaments and governments). For this purpose, this article relies on an original dataset on the performances of new parties in terms of votes, seats, and ministerial posts, covering about 350 elections and 670 governments in 20 countries, over the period 1945–2017. The results of the analysis show a notable increase in PSInn over the last decade, in particular with regard to the electoral and parliamentary arenas. Moreover, data show that PSInn in the electoral and the parliamentary arenas is mainly predicted by turnout change, while in the governmental arena is instead driven by the country’s economic performance.