Autore: Vincenzo Emanuele

  • I signori delle preferenze a Reggio Calabria

    I signori delle preferenze a Reggio Calabria

    di Vincenzo Emanuele e Bruno Marino[1]

    Le elezioni regionali in Calabria del 2014 hanno fatto emergere alcuni elementi di assoluta novità per quanto concerne l’evoluzione del sistema partitico. Le regionali del 2014 sanciscono l’alternanza al governo – per la terza volta consecutiva dal 2005 – fra la coalizione di centrodestra guidata da Scopelliti, che aveva vinto nel 2010 con il 57,8% dei voti (contro il 32% del centrosinistra), e la coalizione di centrosinistra guidata da Oliverio, che trionfa con oltre il 61% dei voti contro il 23,6% del candidato di centrodestra Wanda Ferro. Questo notevole ribaltamento dei rapporti di forza in regione si è accompagnato ad una estrema instabilità delle etichette partitiche: delle 16 liste concorrenti nel 2010 soltanto 3 (PD, UDC e Autonomia e Diritti) si sono ripresentate con lo stesso nome nel 2014. Ne è conseguita una impressionante volatilità elettorale (51,3): più di un elettore su due ha cambiato voto rispetto al 2010, e molti elettori hanno scelto di votare liste non riconducibili a partiti nazionali (43,3%). Il quadro appena descritto fa emergere con grande evidenza l’estrema instabilità del sistema partitico calabrese nonché la sua imprevedibilità, riguardante specialmente le interazioni tra i partiti e tra questi ultimi e gli elettori. Seguendo la definizione di Casal Bértoa (2014, 17), che individua la prevedibilità delle interazioni fra gli attori quale elemento chiave di un sistema partitico ‘istituzionalizzato’, il sistema partitico calabrese potrebbe senz’altro essere considerato un sistema non istituzionalizzato (vedi anche Chiaramonte e Emanuele 2015), o, ancora, seguendo Sanchez (2009), un ‘non-sistema’, vale a dire un universo partitico nel quale manca l’elemento della sistemicità. L’unico elemento di continuità del sistema sembra essere garantito dal ricorso al voto personale, tramite lo strumento del voto di preferenza.

    Figura 1 – Tasso di preferenza alle elezioni regionali, 1970-2015

    calabria 1970-2014 pref

    Come vediamo nella Figura 1, il tasso di preferenza alle regionali calabresi risulta, sin dal 1970, nettamente superiore alla media nazionale (tra i 26 e i 36 punti in più[2]), e perfino superiore, seppur di poco, rispetto a quello delle altre regioni meridionali. La Calabria si caratterizza dunque per un massiccio ricorso al voto personale o ‘candidate-oriented’ (Fabrizio e Feltrin 2007, 181).

    Partendo da questi dati incontrovertibili, cerchiamo, in questa breve analisi, di dare risposta ad alcune domande: il sistema politico calabrese è basato sul voto personale, cioè sulla capacità dei grandi collettori di voti, i cosiddetti ‘Signori delle preferenze’ di mantenere il proprio pacchetto di voti da un’elezione all’altra o di spostarlo a favore di altri candidati? Questo ‘sistema’, basato sui ‘Signori delle preferenze’ e sulle loro relazioni di cooperazione e competizione, è in grado di influenzare l’esito elettorale? E tale ‘sistema’ è in grado addirittura di sostituirsi al sistema tradizionale basato sui partiti che, come abbiamo visto prima, si mostra sempre più instabile e imprevedibile?

    Per scoprirlo dobbiamo scendere nel dettaglio del voto calabrese, servendoci di dati sia qualitativi che quantitativi. Prima di tutto dobbiamo individuare chi sono i ‘Signori delle preferenze’. Abbiamo utilizzato un criterio quantitativo per selezionarli: si tratta di quei candidati consiglieri che, tra il 2010 e il 2014, hanno raccolto, almeno in una delle due elezioni, l’1% dei voti validi espressi nella provincia di Reggio Calabria (RC). Abbiamo deciso di limitare la ricerca alla provincia di RC perché solo in questa ci è stato possibile raccogliere informazioni affidabili (basandoci su fonti giornalistiche locali) sulle relazioni tra candidati, e in particolare sugli endorsements fatti da alcuni ‘Signori delle preferenze’ del 2010 ad altri ‘Signori delle preferenze’ nel 2014. Si tratta, evidentemente, di un criterio molto restrittivo, dal momento che l’1% dei voti è una soglia che solitamente viene applicata come criterio di selezione per i partiti, e non per i candidati. Ma l’intento era proprio quello di trattare tali ‘Signori delle preferenze’ alla stregua di veri e propri partiti che – è questa la nostra ipotesi – con le loro relazioni di cooperazione e competizione strutturano un vero e proprio ‘sistema’.

    Sulla base di questo criterio abbiamo selezionato 30 ‘Signori delle preferenze’ nel 2010 che raccolgono una media di 6019 voti a testa totalizzando il 60% dei voti validi espressi nella provincia di RC. Nel 2014 il loro numero scende a 29 con una media di 5020 preferenze a testa, per un totale del 66,9% del voto provinciale. La percentuale di voti media dei singoli ‘Signori’ è del 2% nel 2010 e del 2,3% nel 2014, con una punta del 5,7% dei voti raccolti da un solo candidato (Romeo S. del PD).

    Dei 30 ‘Signori delle preferenze’ del 2010, nove si ricandidano nel 2014 e altri sei appoggiano altri candidati, poi divenuti anch’essi ‘Signori delle preferenze’. La Figura 2 riporta tali ricandidature ed endorsements distinguendo tra la vasta gamma di possibili situazioni che si verificano: il ‘Signore’ si ripresenta nello stesso partito (2 casi); in un partito diverso facente parte della stessa coalizione (3 casi); in un partito che sostiene una diversa coalizione (4 casi); il ‘Signore delle preferenze’ appoggia un altro ‘Signore’ appartenente allo stesso partito (1 caso); appoggia un altro ‘Signore’ appartenente ad un partito diverso facente parte della stessa coalizione (4 casi); appoggia un altro ‘Signore’ appartenente ad un partito che sostiene una diversa coalizione (1 caso).

    Figura 2 – Ricandidature ed endorsements dei ‘Signori delle preferenze tra il 2010 e il 2014

    calabria 2014 ric. ed endors

    In presenza di un sistema partitico più o meno stabile, in cui la competizione è guidata dai partiti e dalle loro dinamiche di competizione, ci dovremmo aspettare la presenza di una maggiore stabilità nel tempo della struttura territoriale del voto ai candidati che si ripresentano nello stesso partito, e via via sempre minore stabilità, fino a totale discontinuità, per candidati che si ripresentano in altri partiti, in altre coalizioni o che addirittura appoggiano altri candidati di altri partiti etc. I dati smentiscono completamente questa prospettiva. La parte sinistra della Figura 3 illustra i risultati delle correlazioni del voto ai ‘Signori delle preferenze’ tra il 2010 e il 2014 nei 97 comuni della provincia di RC (espresso come rapporto tra voti di preferenza raccolti nel comune e totale degli elettori del comune). Come vediamo, ben 11 correlazioni su 15 risultano significative, di cui 9 con il massimo livello di confidenza statistica (p>.001). Non emergono differenze significative tra le diverse situazioni prima evidenziate, a testimonianza del fatto che i ‘Signori delle preferenze’ riescono a mantenere nel tempo il proprio pacchetto di voti o a trasferirlo ad altri ‘Signori’ del tutto indipendentemente dalle affiliazioni partigiane. Complessivamente, la media delle correlazioni ipotizzate risulta di .43, molto più alta di quella relativa ai partiti (.18), le cui correlazioni sono riportate nella parte destra della Figura 3. Non soltanto, dunque, il ‘sistema’ dei ‘Signori delle preferenze’ è in grado di mantenere una propria stabilità e prevedibilità nel tempo indipendentemente dai partiti e dalle coalizioni in cui i diversi candidati di volta in volta competono. Ma addirittura tale sistema mostra un livello di continuità territoriale e prevedibilità nel tempo ben maggiore del sistema partitico.

    Figura 3 – Correlazioni bivariate: confronto tra ‘Signori delle preferenze’ e partiti (2010-2014)

    calabria corrs

    Rimane da capire se il sistema dei ‘Signori delle preferenze’ è in grado di spiegare il risultato elettorale meglio di quanto non siano in grado di fare i partiti e le loro alleanze. Per scoprirlo abbiamo testato, tramite una serie di regressioni bivariate, la capacità predittiva dei partiti e delle coalizioni sul voto maggioritario ai tre principali candidati Presidente del 2014 (Oliverio, Ferro e D’Ascola), mettendola a confronto con la capacità predittiva dei ‘Signori delle preferenze’. In particolare, abbiamo cercato di spiegare il voto 2014 al candidato di centrosinistra Oliverio nei 97 comuni della provincia di RC testando l’impatto di tre diverse variabili: il voto raccolto dalla coalizione di centrosinistra nel 2010, il voto raccolto nel 2010 dalla coalizione di centrosinistra ricostruita secondo la nuova conformazione assunta nel 2014 e il voto raccolto nel 2010 dai ‘Signori delle preferenze’ che nel 2014 hanno sostenuto Oliverio. Le stesse regressioni sono state replicate per gli altri due candidati Presidente[3]. I risultati dei modelli di regressione sono riportati nella Tabella 1.

    Tabella 1 – Voti maggioritari ai candidate Presidente nel 2014 predetti da diverse aggregazioni di coalizioni di partiti e ‘Signori delle preferenze’ nel 2010

     calabria regressione MG

    Note: Regressioni OLS con coefficienti non standardizzati (b) and errori standard (s.e.); * p < .05, ** p < .01, *** p < .001. Per quanto riguarda la costruzione delle variabili indipendenti, PRC-PDCI è stato escluso dalla coalizione di centrosinistra nel 2010 dal momento che il partito ha appoggiato un altro candidato Presidente nel 2014. Per lo stesso motivo anche l’UDC nel 2010 è stato escluso dalla coalizione di centrodestra. ‘Voti 2010 dei partiti a sostegno di Oliverio nel 2014’ comprende: PD, PSI-Vendola, Autonomia e Diritti. ‘Voti 2010 dei partiti a sostegno di Ferro nel 2014’ comprende: PDL e Scopelliti Presidente. ‘Voti 2010 dei partiti a sostegno di D’Ascola nel 2014’ comprende l’UDC. ‘Voti 2010 dei Signori delle pref. a sostegno di Oliverio nel 2014’ comprende: Mazza, Tripodi P.M., Giordano, Nucera G., Bova, De Gaetano, Battaglia D. ‘Voti 2010 dei Signori delle pref. a sostegno di Ferro nel 2014’ comprende: Minasi, Nicolò Al., Vilasi G., Caridi, Crinò. ‘Voti 2010 dei Signori delle pref. a sostegno di D’Ascola nel 2014’ comprende: Fedele, Imbalzano, Bilardi.

    Ancora una volta il risultato è assolutamente sorprendente: per ciascuna delle tre variabili indipendenti, il voto del 2010 ai ‘Signori delle preferenze’ predice il risultato elettorale meglio di entrambe le aggregazioni partitiche testate (coalizione originale del 2010 o coalizione ricostruita ‘ex post’ secondo le nuove coalizioni del 2014): i coefficienti b, l’R2 spiegato e la precisione statistica del modello (test F) crescono non appena si passa dai partiti ai candidati[4].

    In conclusione, questa breve analisi ha rivelato che in Calabria sembra essere avvenuto un cambiamento profondo che investe la struttura della competizione nel suo complesso: i candidati, dotati di un proprio consenso personale e della capacità di mantenere tale consenso nel tempo o di trasferirlo ad altri si sono sostanzialmente sostituiti ai partiti e alle loro alleanze quale elemento che garantisce prevedibilità al sistema. Mentre nelle democrazie tradizionali sono i partiti a svolgere la funzione di reclutamento dei candidati e di competizione per il consenso, in Calabria sembra avvenire un vero e proprio ribaltamento che porta i candidati più forti a scegliere cosa fare del proprio ‘pacchetto di voti’: ricandidarsi o appoggiare altri candidati? Correre nello stesso partito delle ultime elezioni o cambiare partito o addirittura coalizione? Ed è sulla base di queste decisioni prese dai ‘Signori delle preferenze’ che si decide il risultato delle elezioni. I riflessi di questo sistema sulla qualità della democrazia e sulla capacità degli elettori di attribuire meriti e demeriti ai governanti (ossia sul processo dell’accountability) sono sotto gli occhi di tutti.

     

    Riferimenti bibliografici

    Casal Bértoa, F. (2014), Party systems and cleavage structures revisited: A sociological explanation of party system institutionalization in East Central Europe, Party Politics 20, 1, pp. 16-36.

    Chiaramonte, A. e Emanuele, V. (2015). Party system volatility, regeneration and de-institutionalization in Western Europe (1945–2015). Party Politics, 1354068815601330.

    Fabrizio, D. e Feltrin, P. (2007), L’uso del voto di preferenza: una crescita continua, in A. Chiaramonte, e G. Tarli Barbieri (a cura di), Riforme istituzionali e rappresentanza politica nelle Regioni italiane, Bologna, Il Mulino, pp. 175-199.

    Sanchez, O. (2009), Party Non-Systems – A Conceptual Innovation, Party Politics, 15, 4, pp. 487-520.

     

    [1] Questa analisi costituisce una prima anticipazione del paper che verrà presentato, in lingua inglese, al prossimo Convegno SISP a Cosenza (10-12 settembre 2015).

    [2] La comparazione nel tempo delle tre linee (Calabria, Sud e Italia) è resa difficile dalla presenza, nel periodo 1970-1990, di due o tre voti di preferenza in tutte le regioni italiane. Ciò nonostante, in ciascun punto temporale le tre linee sono perfettamente comparabili, e il risultato che emerge è coerente lungo tutto il periodo preso in esame.

    [3] Per D’Ascola, candidato della coalizione centrista (NCD e UDC), le variabili testate sono due e non tre dal momento che non esisteva alcuna coalizione centrista nel 2010.

    [4] Risultati praticamente identici emergono testando le stesse variabili indipendenti sui voti raccolti nell’arena proporzionale dalle coalizioni a sostegno di Oliverio, Ferro e D’Ascola.

  • Le primarie del centro-sinistra del 25 novembre e del 2 dicembre 2012: un’analisi descrittiva con dati aggregati

    Emanuele, Vincenzo, & Rombi, Stefano. (n.d.). Le primarie del centro-sinistra del 25 novembre e del 2 dicembre 2012: un’analisi descrittiva con dati aggregati. Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, 71, 5–28.

    Despite primary elections in Italy continue to be asymmetric – i.e. carried out only
    by the center-left coalition – their ability to involve the electorate and their growing media
    impact make it a powerful democratic tool. In this article we study the 2012 Italian primary
    elections, held by the center-left coalition in order to select the prime ministerial candidate
    for the 2013 general elections. In particular, we will shed light on three dimensions: turnout,
    electoral results and competitiveness. We will also take into account the role played by the
    new candidate selection rule – the two-round system – which will allow us to collect a lot of
    information about the voting behavior of the selectorate. What has been the turnout level in the
    2012 Italian primary elections? Which similarities and differences can be found in the patterns
    of participation between the first and the second round? Which factors may explain the territorial
    differences in turnout levels? What have been the territorial patterns of voting behavior
    for the main candidates? The 2012 primary elections have been more or less competitive with
    respect to the previous Italian national primaries? We will try to address these questions through
    the use of a mainly quantitative methodology with aggregate data.

  • Tra dinamiche territoriali e voto personale: le elezioni comunali 2012 a Palermo

    Emanuele, Vincenzo, V. (n.d.). Tra dinamiche territoriali e voto personale: le elezioni comunali 2012 a Palermo. Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, 69, 5–34.

    The 2012 municipal election in Palermo produced an unexpected outcome.

    In the Sicilian city – for a long time a conservative stronghold – the center-right candidate,
    Massimo Costa did not succeed to reach the second ballot and the election was won
    by the former Major Leoluca Orlando, supported by a radical left coalition. Orlando
    prevailed with a sensational 72% of the vote share against the winner of the center-left
    primary elections, Fabrizio Ferrandelli.

    What happened in the 2012 Palermo municipal election? Does the Sicilian capital moved
    suddenly toward the left? Which factors fostered this sharp and unpredictable electoral
    change that altered the long-time-established political landscape of the City?

    To answer these questions, the article analyzes the results of the 2012 municipal election
    in Palermo through an electoral geography approach and the use of a quantitative methodology
    with ecological data. In particular, the article makes use of both the territorial
    study of turnout and election results and the voting ecological estimates generated with
    the traditional Goodman model.

    The empirical analysis shows that this election was strongly influenced by factors linked
    to the local context more than by authentically political ones. In other words, Palermo
    did not move toward the left. Moreover, the internal electoral segmentation of the City
    between central and peripheral neighborhoods persisted as the main determinant of the
    vote choice.

  • Due competizioni dagli esiti imprevedibili: le primarie del centrosinistra e le elezioni comunali a Palermo

    Emanuele, Vincenzo. (n.d.). Due competizioni dagli esiti imprevedibili: le primarie del centrosinistra e le elezioni comunali a Palermo. In A. Seddone e M. Valbruzzi (a cura di), Le primarie da vicino. Analisi e bilanci sulle primarie comunali in Italia (pp. 133–156). Novi Ligure: Edizioni Epoké.

    Nel capoluogo siciliano si sono svolte, a circa due mesi di distanza l’una dall’altra, due competizioni elettorali che hanno prodotto in entrambi i casi un esito inaspettato alla luce dei rapporti di forza preesistenti: le primarie del centrosinistra hanno visto a sorpresa la vittoria di un outsider, Fabrizio Ferrandelli, che ha sconfitto Rita Borsellino, sostenuta da tutti i partiti della coalizione; le successive elezioni comunali hanno ancora una volta ribaltato le previsioni della vigilia con il candidato del centrodestra, Massimo Costa che non è nemmeno riuscito a raggiungere il ballottaggio. Così nella città che è stata per lungo tempo una roccaforte di Forza Italia prima e del Pdl poi, accedono al secondo turno due candidati progressisti: il vincitore delle primarie Ferrandelli e l’ex sindaco Leoluca Orlando che, con l’appoggio di Idv e sinistra radicale, ha addirittura sfiorato la vittoria al primo turno.
    La letteratura sul comportamento di voto delle città del Sud ha recentemente sottolineato la tendenza dell’elettorato meridionale a mostrare un’alta volatilità nelle proprie scelte di voto (Raniolo 2010), tale da rendere il Mezzogiorno un’area tanto imprevedibile quanto decisiva per la conquista del governo (D’Alimonte e Vassallo 2007). Le due recenti competizioni nella città di Palermo si inseriscono dunque all’interno di un trend già osservato in precedenza, ma mostrano anche alcuni elementi di novità. In particolare, sembra emergere la crescente incapacità dei partiti di mobilitare i propri elettori al voto e ciò fa sì che altri fattori, primo fra tutti la personalità dei candidati, diventino determinanti per la vittoria elettorale.
    Questo lavoro ha l’obiettivo di analizzare le elezioni primarie e le successive comunali spiegandone l’esito attraverso un approccio di geografia elettorale e l’utilizzo di una metodologia quantitativa con dati ecologici (Dogan e Rokkan 1969; Johnston et al. 1990). L’analisi della partecipazione e del voto sarà dunque condotta disaggregando i risultati a livello sub-comunale (le primarie nei 31 gazebo, le comunali nelle 55 Unità di Primo Livello, corrispondenti a quartieri e rioni storici della città), e comparandoli con quelli delle politiche 2006 e 2008, così da “mappare” le diverse zone della città dal punto di vista politico e sociale (grazie al confronto con alcuni utili indicatori socio-economici) e interpretare le due competizioni più recenti ( servendoci anche della stima dei flussi elettorali effettuata tramite il modello di Goodman).
    L’ipotesi da verificare è che i risultati del tutto inattesi delle due elezioni esaminate siano spiegabili alla luce di un fattore esplicativo principale: la frattura centro-periferia, che contrappone i quartieri centrali della città, contraddistinti da un voto tendenzialmente di centro-sinistra e stabile nel corso del tempo, a quelli socialmente marginali ed economicamente dipendenti delle zone periferiche, tendenti verso il centro-destra ma altamente volatili e maggiormente inclini a valutare le caratteristiche “personali” dei candidati piuttosto che il loro colore politico.

  • La partecipazione al voto

    Emanuele, Vincenzo, Fruncillo, Domenico, & Porcellato, Natascia. (n.d.). La partecipazione al voto. In B. Gelli, T. Mannarini, e C. Talò  (a cura di), Perdere vincendo. Dal successo delle Primarie 2012 all’impasse post-elettorale (pp. 89–111). Milano: Franco Angeli. Retrieved

    Il principale obiettivo del capitolo è quello di analizzare la partecipazione alle elezioni primarie nazionali del 2012 (primo turno e ballottaggio) cercando altresì di comprendere come le diverse dinamiche di partecipazione che si sono realizzate nei due turni di voto nonché le differenze fra le diverse aree territoriali del paese hanno inciso sul risultato elettorale finale delle primarie.
    L’analisi della partecipazione sarà effettuata sia attraverso una disaggregazione dei dati elettorali a livello regionale e provinciale, sia tramite il confronto con le elezioni primarie del 2005 e del 2009. Inoltre saranno presi in esami diversi indicatori al fine di “misurare” la partecipazione e interpretarne i risultati: fra questi, la densità territoriale dei seggi elettorali, il tasso di membership ai partiti di centrosinistra, il rapporto tra votanti alle primarie e ed elettori del centrosinistra alle ultime politiche.
    L’ultima parte del capitolo sarà invece dedicata all’analisi della relazione fra partecipazione alle primarie e scelta di voto a favore dei candidati. In questa parte, all’analisi dei dati ecologici verrà affiancato l’utilizzo dei dati di sondaggio. In particolare si cercherà di verificare se la precedente partecipazione ad altre primarie da parte degli elettori ha avuto un peso sulla scelta di voto tra Bersani e Renzi.

  • Riscoprire il territorio: dimensione demografica dei comuni e comportamento elettorale in Italia

    Emanuele, V. (2011). Riscoprire il territorio: dimensione demografica dei comuni e comportamento elettorale in Italia. Meridiana, 115-148. Meridiana, 70, 115–148.

    This article aims to rediscover a variable that has been rather neglected by the Italian electoral studies on the so called «Second Republic»: demographic size of municipalities. Is there a difference between a citizen who votes in a small municipality of North-east and another one who votes in Milan? Between voting in a rural village or in an urban metropolis? In other words, is territory – considered as centrality or peripherality of the municipality where vote is cast – important to understand Italians’ electoral choices? And if so, how much it matters? May it even become a decisive dimension for the electoral results? Moving from these questions, the article analyzes the results of 2008 Italian general election by dividing the more than 8.000 Italian municipalities in 5 classes of demographic size (0-5.000, 5.001-15.000, 15.001-50.000, 50.001-100.000, above 100.000) and the territory of our country in 4 geo-political sub-units (North-west, North-east, Red belt and South) in order to develop a complete mapping of the incidence of demographic variable on the vote. This study concerns the 2008 vote to main Italian parties, coalitions and electoral blocs and uses the analysis of variance to calculate the tightness of the association between the above variable and the vote through a synthetic index. The findings are very interesting and in some ways surprising. Demographic size matters, especially in some areas (North) and for some parties (Northern League, Pd, Udc, Idv). In particular, three possible behaviours occur: some parties, definable as «city oriented», tends to achieve increasing electoral results whenever the size of municipality grows (eg. Pd, Idv); other parties, labelled as «village oriented», show an opposite trend, that is strongly rooted in small towns and a systematic loss of votes when demographic size increases (Northern League, Udc); the third type of behaviour is given by some «all around» political forces (Pdl, La Destra, Mpa) that show indifference to the variable. An even more pronounced effect could be found in coalitions and blocs analysis, with the centre-left collecting a strictly urban vote and the centre-right stronger in small towns.

  • Ite, missa est: dove sono andati i praticanti?

    Emanuele, Vincenzo. (n.d.). Ite, missa est: dove sono andati i praticanti? In C&LS Candidate and Leader Selection, Forza Doria. Divertissements seri sulle elezioni primarie (pp. 107–112). Novi Ligure: Edizioni Epoké. Retrieved from

    Questo libro non parla di calcio, e neppure del sindaco di Genova. L’argomento di cui tratta sono piuttosto le elezioni primarie, e in particolare le elezioni primarie che il 12 febbraio 2012 hanno consentito a Marco Doria di intraprendere la sua marcia verso Palazzo Tursi.
    Nel ventennale e accidentato cammino della Seconda Repubblica le primarie costituiscono uno dei pochi esperimenti di successo.
    Dal momento che parliamo di una pratica destinata ad accompagnarci a lungo, e ad essere adottata da diverse forze politiche, vale la pena conoscerle da vicino.
    Forza Doria offre questa possibilità, unendo un approccio scientifico, basato su due sondaggi e molti dati di altro tipo, ad un linguaggio accessibile e, si spera, anche moderatamente divertente. E proponendo un glossario finale, che fa chiarezza su termini usati in modo talora un po’ disinvolto.

    Una serie di divertissements estremamente seri, per chiarirsi le idee senza annoiarsi.

  • Tutti per uno o ognuno per sé? Il centrodestra a geometria variabile

    Tutti per uno o ognuno per sé? Il centrodestra a geometria variabile

    di Vincenzo Emanuele

    Per la prima volta dall’inizio della Seconda Repubblica e dall’entrata in vigore della legge Tatarella (1995) il centrodestra si è presentato a queste elezioni regionali privo di uno schema coalizionale unitario. Le ragioni dietro questa scelta sono molteplici: la crisi della leadership di Berlusconi, la rottura sull’appoggio al governo Renzi tra Forza Italia e il Nuovo centrodestra, la radicalizzazione in chiave anti-immigrati e anti-euro della Lega Nord. E, soprattutto, l’approvazione dell’Italiacum, che ha inevitabilmente indebolito il preesistente incentivo all’unità coalizionale, dal momento che il premio di maggioranza sarà attribuito alla lista più votata e non alla coalizione, come avveniva all’epoca della legge Calderoli.

    Nelle 7 regioni in cui si è votato il 31 maggio il centrodestra si è dunque presentato con uno schema ‘a geometria variabile’: unito, dalla Lega Nord al Nuovo centrodestra, in Liguria, Umbria e Campania (in cui la Lega non era presente); con Lega e Forza Italia alleate ma con la presenza di altri candidati della stessa area moderata in Veneto (con Tosi sostenuto da Area Popolare) e Puglia (in cui Ncd e FdI sostenevano Schittulli); con Lega e Forza Italia divise in Toscana e nelle Marche (con Fratelli d’Italia alleata in entrambi i casi alla Lega e Ncd da solo in Toscana e con Forza Italia nelle Marche).

    Il risultato dell’area di centrodestra è stato alquanto disomogeneo: i candidati Presidente del centrodestra hanno vinto in Veneto e in Liguria e hanno perso negli altri cinque casi. In Veneto la vittoria è stata straripante, grazie soprattutto al successo della lista Zaia, primo partito del Veneto con il 23,1%. In Liguria il successo – per molti versi sorprendente – di Toti, è certamente da ricollegare alle divisioni createsi a sinistra dopo lo strappo di Cofferati e il sostegno dato al civatiano Pastorino come alternativa radicale alla ‘renziana’ Paita. Il centrodestra ha ottenuto poi un risultato alquanto soddisfacente in Umbria, con il sindaco di Assisi Ricci che ha sfiorato una clamorosa vittoria in una delle regioni più ‘rosse’ del paese. Disastroso, invece, il risultato nelle Marche e in Puglia, in cui i candidati del centrodestra (due in entrambi i casi) sono arrivati terzi e quarti, superati in entrambi i casi dal Movimento 5 Stelle. In chiaroscuro, infine, il risultato del centrodestra in Campania, dove l’uscente Caldoro è stato sconfitto di misura da De Luca, e in Toscana, in cui il candidato leghista Borghi, sebbene mai in corsa per la vittoria, ha ottenuto un ragguardevole 20%, mentre il candidato di Forza Italia si è fermato al 9%.

    Tab. 1 – Percentuale dei voti ottenuta dalle diverse aree politiche alle elezioni regionali 2015, aggregato 7 regioni.

    Ragionando in termini di blocchi tradizionali, il centrodestra, comprendente Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, Nuovo Centrodestra, nonché le liste civiche e i partiti minori a sostegno dei suoi candidati Presidente, ha ricevuto oltre 3 milioni e mezzo di voti assoluti, ossia il 41,5%, superando il blocco di centrosinistra (comprendente PD, SEL e gli altri partiti minori e liste civiche a sostegno dei candidati PD o degli altri candidati di sinistra) di due punti percentuali. Considerando invece il consenso ricevuto dall’area di governo e dalle diverse opposizioni, la ‘Destra’ raggiunge il 37,6%, rimanendo distaccata di circa 3,5 punti dall’area di governo, che comprende, oltre al PD e liste civiche a sostegno dei candidati PD, anche l’Udc e il NCD. Il Movimento 5 Stelle si ferma al 15,7% mentre la sinistra radicale riceve il 4,2%.

    Questi dati mostrano che, a differenza di quanto ci si sarebbe potuti attendere dopo il voto alle europee, non si è verificato un riallineamento dell’elettorato verso il centrosinistra e in particolare verso il PD di Renzi. L’Italia non è diventata un paese di sinistra. Esiste ancora un abbondante 40% degli italiani che vota per liste del centrodestra.

    In vista delle prossime elezioni politiche, dunque, gli elettori disposti a votare partiti di centrodestra non mancano e l’exploit di Renzi del 2014 appare un evento irripetibile. Ma un conto è avere un ampio bacino elettorale potenziale, un altro conto è saper mettere in campo un’efficace strategia coalizionale per far si che quei voti pesino per la conquista del governo.

    Quale potrà essere la strategia elettorale più conveniente per il centrodestra italiano? Dato l’ovvio incentivo rappresentato dal premio di maggioranza alla lista, la risposta potrebbe apparire banale: è necessario che tutte le forze della destra si uniscano sotto un unico simbolo in grado di competere contro il Partito Democratico di Renzi. Eppure, dal momento che la rinuncia al proprio simbolo è un gesto politicamente molto costoso per un partito, la risposta alla domanda non è scontata. Per cercare di capire quale può essere la strategia più conveniente per i partiti del centrodestra è necessario guardare i numeri che queste elezioni regionali ci forniscono. Nello specifico, dobbiamo guardare i diversi rendimenti coalizionali offerti dal centrodestra nelle diverse formule con cui si è presentato al voto.

    Tab. 2 – Distacchi tra i candidati di centrodestra e il principale candidato avversario nelle diverse ipotesi coalizionali

     

    La Tabella 2 mostra i risultati della competizione maggioritaria in termini di distacchi (in punti percentuali) tra i candidati di centrodestra e il principale avversario nelle tre diverse opzioni coalizionali in cui si è presentato. I risultati mostrano chiaramente che il centrodestra, non è solo competitivo al livello di voti complessivi raccolti (Tabella 1), ma, quando si presenta unito, è competitivo anche al livello dei candidati Presidente: vince in Liguria con quasi 7 punti di vantaggio, perde di circa 3 punti sia in Umbria che in Campania. Viceversa, quando si presenta diviso, la situazione peggiora: con l’eccezione del Veneto, in cui Zaia ha ottenuto una larghissima vittoria nonostante la presenza di Tosi, in Puglia, Toscana (dove era addirittura presente un terzo candidato, sostenuto dal NCD, che ha ottenuto appena l’1,3% dei voti) e Marche i distacchi dal candidato Presidente del centrosinistra sono abissali (tra i 22 e i 39 punti percentuali).

    Tab. 3 – Percentuale dei voti e distacchi complessivi tra la somma dei candidati di centrodestra e il principale candidato avversario quando il centrodestra si presenta diviso e confronto con il 2010

    Cosa sarebbe successo se il centrodestra si fosse presentato unito nelle regioni in cui ha presentato più di un candidato Presidente? Ovviamente non è possibile rispondere a questa domanda. E’ però possibile sommare le percentuali dei voti raccolti dai diversi candidati del centrodestra e misurare il distacco dal principale avversario nelle diverse regioni, confrontando poi questi dati con quelli delle regionali 2010, in cui il centrodestra si presentò sempre unito. Osservando la Tabella 3, possiamo notare che, con la sola eccezione del Veneto, nelle altre tre regioni la divisione del centrodestra non ha pagato, dal momento che la somma delle percentuali dei diversi candidati dà comunque un totale di voti nettamente al di sotto di quello ottenuto dal blocco conservatore nel 2010. I distacchi oscillano tra i 4 punti della Toscana e i quasi 10 della Puglia. Eppure, c’è da considerare il fatto che, rispetto al 2010, il sistema partitico italiano è molto cambiato, grazie soprattutto all’emersione del M5S che ha ridimensionato i voti raccolti dai due schieramenti principali, riducendo al contempo anche la quota di voti necessaria per conquistare la vittoria in ciascuna regione. Tanto che, almeno in Toscana e nelle Marche, il centrodestra, pur perdendo molti voti risulta paradossalmente più competitivo nel 2015 che nel 2010.

    Tab. 4 – Flussi elettorali (destinazioni) tra le politiche 2013 e le regionali 2015 in alcune città

    Altri dati, però, sembrano smentire l’interpretazione secondo la quale il centrodestra ottiene risultati migliori quando marcia unito – riuscendo quindi a minimizzare le perdite verso gli altri partiti (e verso l’astensione), oltre che a raccogliere un surplus di voti in uscita da altre forze politiche – rispetto a quando si presenta diviso. Se così fosse, ci sarebbe un importante incentivo all’aggregazione delle diverse anime sotto un unico ombrello in vista delle politiche. Le Tabelle 4 e 5 riportano i risultati delle stime dei flussi elettorali tra le elezioni politiche 2013 e le regionali 2015 effettuate con metodo Goodman in alcune grandi città. Nelle diverse celle è stata riportata la percentuale di elettori che si è spostata, tra il 2013 e il 2015, da uno dei partiti di centrodestra verso PD, M5S o l’astensione (Tabella 4) e viceversa (Tabella 5). Ci si sarebbe potuti attendere che, laddove il centrodestra si presenta diviso e con meno chances di vittoria, la quota di elettori moderati che diserta le urne o vota altri partiti sia più alta rispetto ai contesti in cui il centrodestra è unito e competitivo. Le stime di flusso presentate nella Tabella 4 smentiscono questa ipotesi. Come si può facilmente notare, le diverse opzioni coalizionali in cui il centrodestra si presenta non sembrano giocare alcun ruolo. In tutti e tre i casi non esistono flussi significativi verso il PD né verso il M5S (con la parziale eccezione di Livorno), mentre ovunque la quota ceduta al non voto è molto rilevante e oscilla tra i 38 punti di Padova e i 66 di La Spezia. Allo stesso tempo, ci si sarebbe potuti attendere che, quando il centrodestra corre unito, riceva una quota maggiore di voti in uscita dagli altri partiti e riesca a riportare più elettori alle urne rispetto a quando si presenta diviso. I dati riportati nella Tabella 5 non confermano tale ipotesi: la percentuale di elettori in movimento dal PD e dal M5S verso il centrodestra nelle varie città non sembra dipendere dalle diverse opzioni coalizionali con cui il centrodestra si presenta agli elettori ma piuttosto dalle caratteristiche politiche delle città in questione. Nelle città ‘rosse’ di La Spezia, Firenze e Livorno l’elettorato del centrodestra è in buona parte composto (tra il 25 e il 38%) da ex elettori del PD; nel Veneto, teatro del boom grillino del 2013, una quota assai significativa di elettori di centrodestra sono votanti di ritorno dal M5S; infine, nelle città del Sud (Napoli, Foggia), il flusso significativo sembra provenire da un recupero nell’area dell’astensione.

    Tab. 5 – Flussi elettorali (provenienze) tra le regionali 2015 e le politiche 2013 in alcune città

    Nel complesso, questa analisi del voto al centrodestra e del suo rendimento nelle diverse formule coalizionali con cui si è presentato agli elettori, non offre una risposta univoca sulla migliore strategia da adottare in vista delle politiche, lasciando aperto il campo a diverse opzioni. Il centrodestra è ancora oggi il blocco elettorale più votato dagli italiani e i suoi candidati, quando si presentano uniti, totalizzano più voti e risultano più competitivi rispetto a quando si presentano divisi. Allo stesso tempo, però, l’analisi dei flussi elettorali rivela che non c’è una maggiore capacità attrattiva dei partiti di centrodestra quando quest’ultimo marcia unito.

    Quale, dunque, la strategia migliore per il centrodestra in vista delle prossime elezioni politiche? E in particolare, quale potrebbe essere la strategia migliore per la Lega Nord di Matteo Salvini, emerso come principale competitor di Matteo Renzi e potenziale nuovo leader del blocco di centrodestra? Pagare il costo, simbolico ed elettorale, della rinuncia al simbolo per integrare gli alleati in un listone unico capace di sfidare con successo il PD di Matteo Renzi? O mettere in campo una strategia in due fasi, volta a superare il M5S e accedere al ballottaggio con una lista marcatamente di destra anti-euro (Lega Nord + Fratelli d’Italia) per poi accreditarsi come unica destra competitiva rimasta in campo e provare a battere il PD di Renzi in una successiva elezione politica? Prima del 2018 (forse molto prima) avremo certamente la risposta.

  • Regionali 2015, l’analisi della partecipazione: crollo di 11 punti rispetto al 2010, Toscana e Marche sotto il 50%

    Regionali 2015, l’analisi della partecipazione: crollo di 11 punti rispetto al 2010, Toscana e Marche sotto il 50%

    di Vincenzo Emanuele

    Subito dopo la chiusura dei seggi, le analisi di molti commentatori si sono focalizzate sulla sorprendente vittoria di Toti in Liguria, sul boom della Lega e sulle polemiche interne al PD, trascurando o trattando marginalmente un altro dato clamoroso e meritevole di attenzione, quello relativo alla partecipazione elettorale, di cui ci occupiamo in questo articolo.

    Sebbene largamente annunciato, il crollo della partecipazione al voto ha ormai assunto proporzioni senza precedenti. Si tratta di un fenomeno di lungo periodo, che comincia a manifestarsi alla fine degli anni ’70, quando il nostro paese era ancora un fulgido esempio di democrazia ad altissima partecipazione, con oltre il 90% degli aventi diritto che espletava regolarmente il proprio dovere civico, sia alle elezioni politiche che alle regionali. In ottica comparata, il caso italiano costituiva un’eccezione[1] tra le grandi democrazie (Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, per non parlare degli Stati Uniti), tutte caratterizzate da tassi di astensionismo ben maggiori, e si avvicinava invece alle piccole democrazie consociative, come Austria e Belgio. Fenomeni complessi, quali il ‘generational replacement’, ossia la progressiva sostituzione delle coorti più anziane dell’elettorato – socializzatesi al tempo dei partiti di massa – con le coorti più giovani, affacciatesi alla politica durante gli anni ’80 o il ventennio berlusconiano, e la crescente disaffezione dei cittadini nei confronti dei partiti e delle istituzioni, sono alla base di un lungo processo di declino. Un declino che negli ultimi anni ha conosciuto una vertiginosa accelerazione: alle politiche del 2013 si è registrato un calo di 5,3 punti rispetto al 2008; alle europee dello scorso anno l’astensionismo aggiuntivo rispetto al 2009 è stato di 7,8 punti.

    In questo quadro, le regionali del 2015 fanno segnare un nuovo record negativo: considerando l’aggregato delle sette regioni al voto, la partecipazione è crollata di oltre 11 punti, attestandosi al 52,2%, come vediamo nella Figura 1. E già nel 2010 c’era stato un crollo di oltre 7 punti rispetto al 2005. Complessivamente, la partecipazione al voto alle elezioni regionali è diminuita di 40 punti negli ultimi 40 anni, di cui circa 28 persi dall’inizio della Seconda Repubblica (1995), e 18,3 persi soltanto negli ultimi 10 anni. Si è quindi passati da un calo di 0,31 punti l’anno nel decennio 1975-1985, a 0,9 punti l’anno nel decennio 1985-1995, a 0,96 del decennio 1995-2005 fino al sostanziale raddoppio della diminuzione annua dell’ultimo decennio (-1,83 all’anno tra il 2005 e il 2015 e -2,22 all’anno negli ultimi cinque anni).

    Fig. 1 – Aggregato dell’affluenza alle elezioni regionali nelle sette regioni al voto, 1970-2015

    Disaggregando il dato fra le sette regioni al voto e confrontando la partecipazione alle regionali del 2015 con quella delle regionali 2010, delle ultime politiche e delle ultime europee, emergono alcuni elementi rilevanti. Il Veneto si conferma la regione con la più alta affluenza (57,2%) nonché quella che tiene meglio rispetto al crollo generalizzato (-9,3 punti sul 2010). In generale il calo rispetto alle regionali 2010 si presenta omogeneo, compreso fra i 9 e i 13 punti, con le punte più significative in due delle tre regioni rosse, Marche (-13 punti) e Toscana (-12,4), entrambe scese sotto il 50% di votanti. Confrontando la partecipazione 2015 con i dati di affluenza delle europee 2010, il quadro interpretativo cambia. Complessivamente si registra una diminuzione di 6,6 punti rispetto alle europee, ma questa si concentra nelle regioni del Centro-Nord e in particolare nella Zona Rossa, con la Toscana che fa segnare un astensionismo aggiuntivo di 18,4 punti. Al contrario, nelle due regioni meridionali, si registra una complessiva tenuta della partecipazione, con un lieve aumento in Campania (+0,8 punti).

    Tab. 1 – Affluenza alle elezioni regionali 2015 nelle sette regioni al voto e confronto con le consultazioni precedenti

    Come si spiegano questi dati? Ci sono molte variabili che possono incidere sulla partecipazione elettorale: molte sono di livello individuale (variabili quali l’età, il titolo di studio, l’interesse per la politica, la condizione professionale) e necessiterebbero di dati di sondaggio, perciò esulano dalle possibilità di un’analisi post-elettorale come questa. Alcune variabili, però, possono essere misurate a livello aggregato, consentendoci di testare l’impatto di diverse possibili spiegazioni alternative. Per effettuare questa analisi è necessario scendere ulteriormente nel dettaglio subnazionale, prendendo in considerazione la partecipazione delle singole province al voto, così da accrescere il numero dei casi a nostra disposizione (N=39).

    La prima ipotesi esplicativa riguarda la tradizione civica della provincia. Pedersini e Cartocci (2004), hanno sviluppato un indicatore molto utilizzato dalla letteratura sociologica e politologica, il livello di civismo. Fa riferimento alla dotazione di capitale sociale ed è calcolato, per ciascuna provincia italiana, sulla base di quattro indicatori[2]. Ci aspettiamo che la correlazione tra partecipazione al voto e dotazione di capitale sociale risulti positiva, in quanto il livello di civismo è solitamente considerato una delle precondizioni dell’impegno nella vita sociale e politica. Alle europee del 2014, questa ipotesi ha trovato ampia conferma nei dati (Emanuele 2014, 110-112).

    La seconda ipotesi, in parte collegata alla prima, concerne la tradizione politica della provincia. Basandoci sui dati delle elezioni politiche del 1976, abbiamo classificato le 39 province al voto in ‘Bianche’, ‘Rosse’ e ‘Grigie’[3]. L’assunto che sta alla base di questa ipotesi è che nelle province appartenenti alle storiche aree subculturali bianche e rosse la spinta partecipativa dovrebbe essere maggiore, in virtù del peso – declinante, ma pur sempre presente – che la tradizione partecipativa di queste aree esercita ancora, soprattutto negli elettori più anziani.

    Al di là della cultura civica e del colore politico delle singole province, un altro fattore rilevante potrebbe essere il livello di competitività dell’elezione. Quando gli elettori percepiscono che la partita è aperta e i due candidati sono molto vicini, tendono a partecipare di più al voto rispetto a quando la competizione sembra chiusa, con un vincitore già annunciato da tempo. I dati sulle elezioni comunali, ad esempio, hanno spesso confermato questa ipotesi, mostrando una correlazione negativa tra affluenza al ballottaggio e distacco tra primo e secondo candidato al primo turno (Emanuele 2012, 111).

    Una quarta ipotesi concerne invece le tendenze di partecipazione più recenti delle province italiane. Prendendo in considerazione il voto alle regionali 2010, alle politiche 2013 e alle europee 2014, abbiamo costruito un indice di ‘affluenza recente’ che altro non è che la media delle ultime tre consultazioni. L’ipotesi è che, ovviamente, si manifesti un certo grado di continuità nel trend di partecipazione a livello territoriale, con una correlazione positiva tra partecipazione recente e partecipazione nel 2015.

    Infine, una quinta ipotesi mira a tener conto della contemporanea consultazione amministrativa che si è svolta in 679 comuni italiani, facendo segnare una partecipazione ben più alta che alle regionali (64% su base nazionale). L’ipotesi in questo caso è che la partecipazione alle elezioni regionali sia stata più alta laddove una maggiore quota di comuni[4] è stata interessata dal voto comunale, che avrebbe quindi trainato la consultazione regionale, garantendogli una certa affluenza aggiuntiva.

    Tab. 2 – Risultati delle correlazioni tra la partecipazione politica alle regionali 2015 e alcuni possibili fattori esplicativi

    Come vediamo nella Tabella 2, la maggior parte di queste ipotesi non trova conferma nei dati. Il livello di civismo non è connesso con la partecipazione alle elezioni regionali. L’affluenza alle urne è stata infatti sopra la media in province con basso livello di civismo, quali Barletta-Andria-Trani, Caserta, Brindisi e Salerno; al contrario, province molto ‘civiche’, come quelle toscane o come Belluno e Imperia hanno fatto registrare una partecipazione inferiore alla media nazionale. Allo stesso modo, la tradizione politica della provincia non è associata alla partecipazione alle regionali. Non si ravvisano, infatti, differenze significative tra le province ‘rosse’ (50,4%), le ‘bianche’ (51,7%) e le ‘grigie’ (51,5%). Neppure la competitività dell’elezione – misurata in termini di punti percentuali di distanza tra il primo e il secondo candidato Presidente – sembra aver svolto un ruolo significativo nell’orientare la partecipazione al voto. C’è stata infatti alta partecipazione in contesti non competitivi, come nel caso delle province di Vicenza, Brindisi, Padova (in cui si rilevano tra 28 e 37 punti di scarto fra i primi due candidati) e viceversa bassa partecipazione in contesti competitivi, come nei casi di Benevento e La Spezia (rispettivamente 0,1 e 0,7 punti tra i due candidati). Un ruolo, seppur non statisticamente significativo, sembra essere stato svolto dalla contemporanea presenza delle elezioni comunali. Le province con la più alta quota di comuni coinvolti dalle elezioni comunali risultano avere un’affluenza tra le più alte delle rispettive regioni: in particolare Brindisi e Barletta-Andria-Trani (rispettivamente +4,4 e +4,6 rispetto alla media della Puglia), in cui sono andati al voto alle comunali rispettivamente il 50% e il 20% degli enti, e Fermo (+1,7 rispetto alla media delle Marche) in cui il 20% dei comuni è andato al voto sia alle regionali che alle amministrative. L’unica variabile tra quelle ipotizzate che mostra una correlazione positiva e significativa (r=0.386**) con l’affluenza del 2015 è la partecipazione recente. Disaggregando tale variabile nelle tre consultazioni considerate, osserviamo una fortissima correlazione con il voto regionale del 2010 (r=0.842***), molto più debole con il voto alle politiche (r=0.271*) e nulla con il voto europeo (r=0.058).

    Queste analisi sembrano suffragare l’idea che le variabili tradizionali relative alla partecipazione (civismo, presenza di una subcultura di riferimento) siano ormai declinate e, per quanto concerne le consultazioni regionali, il voto/non voto non sia neppure orientato da considerazioni relative alla posta in gioco (competitività). Si tratta di elezioni peculiari, nelle quali la variabilità territoriale della partecipazione si discosta significativamente dal pattern mostrato dalle elezioni di livello nazionale (politiche ed europee), e nelle quali incidono considerazioni diverse, legate anche all’impatto, soprattutto nel Mezzogiorno, del ‘candidate-oriented vote’ (Fabrizio e Feltrin 2007, 181). Questa considerazione è confermata osservando la fortissima correlazione negativa che emerge incrociando il livello di civismo con il differenziale di partecipazione registrato tra politiche ed europee (vedi Figura 2).

    Fig. 2 – Incrocio tra livello di civismo e differenziale di partecipazione tra Regionali 2015 e Politiche 2013

    Il valore della correlazione è molto netto (r= -0.694) e indica chiaramente che le province più civiche, che facevano registrare i maggiori tassi di partecipazione alle politiche (in accordo con la nostra prima ipotesi), tendono a defezionare maggiormente quando manca la posta in gioco nazionale. Al contrario le province meridionali, meno ‘civiche’, tendono a mostrare livelli più simili di partecipazione tra le due competizioni: qui, la mancanza del premio nazionale è in parte controbilanciata dagli interessi specifici veicolati dalla corsa al seggio dei candidati consiglieri, rafforzati tramite il massiccio ricorso al voto di preferenza.

     

    Riferimenti bibliografici

    Emanuele, V. (2012), Storico crollo dell’affluenza ai ballottaggi, più di 1 su 2 resta a casa, in L. De Sio e A. Paparo (a cura di), Le Elezioni Comunali 2012, Dossier CISE n° 1, Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 111-113.

    Emanuele, V. (2014), Affluenza, un calo atteso. Al Sud 1 su 2 si astiene, in L. De Sio e V. Emanuele e N. Maggini (a cura di), Le Elezioni Europee 2014, Dossier CISE n° 6, Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 107-113.

    Fabrizio, D. e Feltrin, P. (2007), L’uso del voto di preferenza: una crescita continua, in A. Chiaramonte, e G. Tarli Barbieri (a cura di), Riforme istituzionali e rappresentanza politica nelle Regioni italiane, Bologna, Il Mulino, pp. 175-199.

    Franklin, M. N. (2004), Voter Turnout and the Dynamics of Electoral Competition in Established Democracies Since 1945, Cambridge, Cambridge University Press.

    Pedersini, R. e Cartocci, R. (2004), Risorse economiche e risorse morali, in R. Catanzaro (a cura di), Nodi, reti, ponti. La Romagna e il capitale sociale, Bologna, Il Mulino, pp. 33-51.

    Raniolo, F. (2002), La partecipazione politica, Bologna, Il Mulino.

    Tuorto, D. (2006), Apatia o protesta? L’astensionismo elettorale in Italia, Bologna, Il Mulino.



    [1] Sulla partecipazione al voto in Italia si veda l’analisi di Tuorto (2006). Per un’analisi generale della partecipazione politica, Raniolo (2002). In chiave comparata, segnaliamo, fra gli altri, lo studio di Franklin (2004).

    [2] È misurato prendendo in considerazione indicatori quali il livello medio di partecipazione elettorale, la tendenza a partecipare a associazioni culturali e/o ricreative, la quantità di persone che leggono almeno un quotidiano al giorno, il numero di donatori di sangue (fattore che intende segnalare la diffusione di pratiche di solidarietà sociale).

    [3] Bianca: DC>38.7% e scarto DC-PCI >8.6punti nel 1976; Rossa: PCI > 34.3% e scarto PCI-DC >4.3 punti nel 1976; Grigia (nessuno dei due criteri). Abbiamo quindi assegnato il valore di 1 alle province Bianche e Rosse e 0 alle Grigie. Sulla base di questi criteri, sono state identificate quali province ‘bianche’ Vicenza, Verona, Treviso, Padova, Belluno, Lucca, Macerata, Avellino, Benevento, Caserta, Bari e Lecce; le province ‘rosse’ sono Genova, La Spezia, Savona, Pesaro-Urbino, Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Pisa, Pistoia, prato, Siena, Perugia e Terni; le province ‘grigie’ sono invece Venezia, Rovigo, Imperia, Massa-Carrara, Ancona, Ascoli-Piceno, Fermo, Napoli, Barletta-Andria-Trani, Brindisi, Foggia, Taranto.

    [4] Essendo ancora in corso lo spoglio, non si è potuto confrontare il totale degli elettori interessati dal voto comunale in ciascuna provincia con il totale degli elettori della provincia, ma soltanto calcolare la quota di comuni interessati dal voto comunale sul totale della provincia in questione.

  • Regionali in Liguria: il centrodestra unito sfida il Pd

    di Vincenzo Emanuele

    Il prossimo 31 maggio si voterà per il rinnovo dei Consigli regionali di 7 regioni, nonché per la scelta dei rispettivi Presidenti della Giunta. E’ quello che resta della grande tornata regionale che nel 1995 comprendeva ben 15 regioni e che ha progressivamente perso per strada oltre la metà degli enti per via degli scandali politici che hanno colpito molte regioni negli ultimi anni, costringendo i rispettivi Consigli allo scioglimento anticipato. Tra le 7 regioni al voto c’è anche la Liguria.

    Terra di confine tra la cosiddetta ‘Zona rossa’ e quella che storicamente veniva definita come ‘Zona industriale’ (Corbetta, Parisi e Schadee 1988), la Liguria può essere considerata una regione politicamente contendibile. E’ infatti presente una netta cesura tra le due province orientali, Genova e soprattutto La Spezia, politicamente e geograficamente contigue alla Zona rossa, e la Riviera di Ponente, più vicina al centrodestra. Proprio come gli ‘swing states’ americani, la Liguria è passata, negli ultimi 20 anni, dal centrosinistra al centrodestra, seguendo le tendenze politiche nazionali. Il centrodestra berlusconiano vinse le politiche del 1994, poi perse le regionali del 1995 e le politiche del 1996. Nel 2000 riconquistò la regione, con Sandro Biasotti, nella tornata regionale che costò la poltrona di Presidente del Consiglio a Massimo D’Alema. Nel 2001 fu un sostanziale pareggio, mentre nel 2005 il centrosinistra si riprese il governo regionale con Claudio Burlando che riuscì a battere l’incumbent Biasotti. Nel 2006 l’Unione di Prodi ottenne la maggioranza in regione, mentre nel 2008 fu il ticket Pdl-Lega ad avere la meglio, riportando Berlusconi a Palazzo Chigi. Il resto è storia recente, con Burlando riconfermato nel 2010, ancora una volta contro Biasotti, grazie all’appoggio di una maxi-coalizione che andava dall’Udc a Rifondazione. Nella Tabella 1 è possibile osservare i risultati delle ultime tre competizioni elettorali disputate nella regione, ossia le Regionali 2010, le Politiche 2013 e le Europee 2014. Per facilitare il confronto fra le aree politiche, il risultato di alcune liste minori è stato riaggregato (‘Altri centrosinistra’, ‘Altri centrodestra’, ‘Altri centro’ e ‘Altri’).

    Tab. 1 – Risultati elettorali dei principali partiti in Liguria (2010-2014), voti assoluti e percentuali.

    Osservando la Tabella è possibile cogliere la peculiarità della recente storia elettorale ligure: le tre competizioni hanno avuto esiti profondamente diversi tra loro. La variabile che ha contribuito a mutare in maniera decisiva il quadro politico dell’ultimo ventennio è stata la straordinaria performance elettorale del Movimento 5 Stelle, che proprio in Liguria, terra d’origine di Beppe Grillo, ha uno dei suoi principali feudi elettorali. Alle regionali del 2010, il M5S non si presentò (a differenza di altre regioni in cui ottenne buoni risultati, come ad esempio in Emilia-Romagna[1]) e il centrosinistra riuscì ad avere la meglio sul centrodestra sfruttando l’ampiezza della coalizione messa in campo da Burlando: in particolare, il contributo di Rifondazione e dell’Udc fu decisivo per permettere la riconferma del governatore uscente, dal momento che la coalizione Biasotti raggiunse il 47.3% mentre i partiti del centrosinistra tradizionale di quegli anni (quello della famosa ‘foto di Vasto’, Pd-Sel-Idv) si fermarono appena sotto il 45%. Il Pdl era la prima forza politica in regione con il 29.3% dei voti, che diventa 35% se ai voti del partito aggiungiamo quelli della lista Biasotti (6.1%). Il Pd inseguiva con il 28.3% (il 32% se sommiamo anche i voti della lista Burlando), mentre si segnalava l’ottimo risultato dell’Italia dei Valori, che sfruttando l’onda lunga delle europee dell’anno precedente, raggiungeva l’8.5%. Si registrava, inoltre, un perfetto bipolarismo, con due coalizioni pigliatutto e due soli candidati alla Presidenza. Tutto cambia nel 2013, con l’avvento del M5S che a sorpresa ottiene un risultato sensazionale: 300.000 voti, corrispondenti al 32.1%. Non è solo il primo partito, alla Camera è addirittura la prima coalizione. A farne le spese sono entrambe le coalizioni principali: il centrosinistra di Bersani scivola al 31.1%, malgrado una sostanziale tenuta del Pd (27.7%), mentre la coalizione berlusconiana crolla al 23% complessivo (con il Pdl al 18.7%), meno della metà dei voti ottenuti nel 2010. Si allarga inoltre l’area di centro (dal 4 al 10%), grazie al contributo di Mario Monti, e si assottiglia la sinistra radicale (2.1%). L’impatto del Movimento 5 Stelle nel 2013 sembra essere stato trasversale e aver drenato consensi dai due schieramenti. Alle europee dell’anno scorso, però, lo scenario cambia completamente: l’area di centro, orfana di Monti, torna a svuotarsi (3.9%) e il M5S si ridimensiona, cedendo 6 punti e lasciando sul campo quasi 100.000 voti, complice un’affluenza in calo di quasi 15 punti rispetto alle politiche. In linea con quanto avviene nel resto d’Italia, le europee sono caratterizzate dal boom del Pd di Matteo Renzi, che vola al 41.7%, crescendo di oltre 65.000 voti rispetto alle politiche e di 112.000 rispetto alle regionali 2010. Nonostante lo svuotamento del centro e il ridimensionamento del M5S , il centrodestra non riesce a recuperare il terreno perso alle politiche. Al contrario, perde ancora terreno (22.4%), nonostante la risalita della nuova Lega di Salvini, che raddoppia i voti rispetto alle politiche. La grande sconfitta è Forza Italia che cede 67.000 voti sulle politiche e addirittura 110.000 sulle regionali. Riassumendo, dunque, negli ultimi 5 anni il quadro politico ligure è cambiato repentinamente: l’ingresso di un nuovo attore, il M5S, e la crisi di Forza Italia hanno rotto il ventennale equilibrio che persisteva tra le due coalizioni principali. La portata del cambiamento è ben visibile confrontando le regionali del 2010 con le europee del 2014. Due competizioni diverse, ma caratterizzate da un livello di partecipazione praticamente identico (poco inferiore al 61%) e che quindi ben si prestano ad un confronto fra valori assoluti. A distanza di 4 anni, i voti della sinistra radicale e il centro post-democristiano sono più o meno gli stessi. Anche l’area del centrosinistra ha praticamente gli stessi voti di 4 anni fa, solo che adesso questi voti non si distribuiscono più fra diverse formazioni minori ma si concentrano in un unico partito (il Pd). L’inserimento del M5S nella politica ligure sembra dunque aver penalizzato soprattutto il centrodestra che ha perso per strada quasi 180.000 voti e ha più che dimezzato la propria forza elettorale.

    Date queste premesse la partita delle regionali liguri sembrerebbe già chiusa in partenza. Eppure le cose non stanno così, perché il contesto politico è radicalmente mutato.

    Per quanto concerne il centrosinistra, il 41.7% del 2014 sembra un lontano ricordo. Alle primarie dell’11 gennaio per la scelta del candidato governatore, si è consumata una dura frattura interna al gruppo dirigente del partito. La candidata renziana, Raffaella Paita, già assessore alla Infrastrutture nella Giunta Burlando, ha vinto di misura contro Sergio Cofferati (53% contro 46%). L’ex leader del ‘correntone’ ha denunciato l’irregolarità della competizione, caratterizzata da infiltrazioni organizzate di militanti del centrodestra e dal massiccio voto di immigrati extracomunitari (soprattutto cinesi) a sostegno di Raffaella Paita. In polemica con l’esito del voto, Cofferati è poi uscito dal partito.

    Dall’altra parte il centrodestra, profondamente diviso sul piano nazionale e in molte delle regioni al voto, è riuscito inaspettatamente a ritrovare un’unità di intenti in Liguria, coalizzandosi a sostegno di Giovanni Toti, l’ex direttore di Studio Aperto e del TG4, nonché attuale europarlamentare e consigliere politico di Berlusconi.

    Tab. 2 – Regionali 2015 in Liguria: liste e candidati Presidente.

    Come vediamo nella Tabella 2, che riporta l’offerta politica delle prossime regionali, il bipolarismo è ormai un lontano ricordo. Dallo scontro bipolare Burlando vs. Biasotti del 2010 si è passati ad una competizione multipolare, con 8 candidati Presidente (sostenuti da 18 liste) di cui 4 realmente competitivi. La coalizione di centrosinistra del 2010 si è frantumata: il Pd (con due liste civiche) sostiene Raffaella Paita, mentre la sinistra radicale (Rifondazione, Comunisti italiani, Sel) appoggia la candidatura del civatiano Luca Pastorino, eletto in Parlamento nel 2013 nella fila del Pd e passato recentemente al gruppo misto dopo aver annunciato la sua candidatura, sulla quale potrebbe coagularsi il sostegno della minoranza democratica (civatiani, bersaninani etc.) oltre che di una parte dei sostenitori di Cofferati alle primarie di gennaio. Come detto, tutto il centrodestra è unito a sostegno di Giovanni Toti, che può contare su ben 8 liste, da ‘Area Popolare’ alla Lega Nord. Toti dovrà fare i conti con la concorrenza di Enrico Musso, economista ed ex senatore Pdl, candidato con il sostegno della lista civica ‘Liguria Libera’. Oltre al già citato Luca Pastorino appoggiato dalla sinistra radicale, il Movimento 5 Stelle candida la trentunenne dottoranda in lingue straniere Alice Salvatore. Gli altri tre candidati (Antonio Bruno per ‘Altra Liguria’, Matteo Piccardi del Partito Comunista dei Lavoratori e Mirella Batini per ‘Fratellanza Donne’) sono destinati a recitare un ruolo di contorno. Gli ultimi sondaggi registrano una situazione di incertezza e grande frammentazione del voto. Ci sarebbe un testa a testa tra la Paita e Toti, entrambi attorno al 30-33%, con l’esponente di Forza Italia addirittura in vantaggio secondo l’ultima rilevazione (effettuata da Ferrari Nasi & Associati). Più staccata la candidata del M5S, attorno al 19%, e Luca Pastorino che raggiungerebbe comunque un sorprendente 14%.

    Ricordiamo, infine, che la Liguria è l’unica delle 7 regioni al voto a non aver adottato una propria legge elettorale regionale. Si voterà ancora una volta con la vecchia legge Tatarella (l.43/1995), ma con una significativa novità: i seggi in Consiglio si sono ridotti da 40 a 30. Così 24 seggi (l’80%) saranno assegnati in collegi provinciali (13 a Genova, 4 a La Spezia e Savona, 3 ad Imperia) con la formula del quoziente Hagenbach-Bischoff (più eventuale ripartizione dei più alti resti in un collegio unico regionale con formula Hare), mentre i restanti 6 seggi (il cosiddetto ‘listino’) saranno assegnati alla coalizione del candidato Presidente arrivato primo. Il premio si riduce a 3 seggi se la coalizione del Presidente raggiunge o supera il 50% dei seggi nella quota proporzionale. Ma, dato il livello di frammentazione, non appare questo il caso. Una possibilità tutt’altro che remota è però quella di non conseguire una maggioranza certa in Consiglio regionale. Infatti, mentre la l. 43/1995 prevedeva l’assegnazione di seggi aggiuntivi, nel caso in cui, dopo l’assegnazione del premio, la coalizione vincente fosse ancora sotto il 55%, il d.l. 138 del 2011, nella logica di contenimento dei costi, ha previsto limiti al numero dei consiglieri regionali che sono stati recepiti dagli statuti. Poiché lo statuto ligure già prevede il numero massimo (trenta), la non attribuibilità di seggi aggiuntivi potrebbe privare della maggioranza in Consiglio il Presidente eletto. La legge regionale, quindi, non è ‘majority assuring‘. Infine, la soglia di sbarramento è del 3%, ma per le liste collegate ad un candidato Presidente che ottiene il 5% non c’è alcuna soglia legale. E’ possibile il voto disgiunto e l’espressione di un solo voto di preferenza.

     

    Riferimenti bibliografici:

    Corbetta, P., Parisi, A. e Schadee, H. (1988), Elezioni in Italia. Struttura e tipologia delle consultazioni politiche, Bologna, Il Mulino.

    Cataldi, M. e Emanuele, V. (2014), Regionali in Emilia-Romagna, chi può insidiare Bonaccini? /cise/2014/11/18/regionali-in-emilia-romagna-chi-puo-insidiare-bonaccini/



    [1] Sul punto vedi Cataldi e Emanuele (2014).