Ripubblichiamo qui il testo di Lorenzo De Sio pubblicato come Policy Brief n6: “Le elezioni regionali come check-up per la politica nazionale” della Luiss School of Government. Il testo è stato anche ripreso da SKY Tg 24.
I prossimi 20 e 21 settembre gli elettori di Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia saranno chiamati a votare per il rinnovo della Presidenza e del Consiglio regionale. Tra i tanti approcci possibili per interpretare dinamica e conseguenze delle elezioni regionali, in questo Policy Brief faremo alcune considerazioni sui comportamenti di voto degli elettori italiani. Di tali comportamenti sottolineeremo alcune recenti tendenze di fondo, tendenze ulteriormente analizzate alla luce dei recenti sondaggi Cise-Winpoll (le cui principali conclusioni sono schematizzate in calce al documento). Ricorrendo a un simile approccio, suggeriamo tra l’altro alcune direzioni per trarre dal prossimo voto locale utili indicazioni riguardo agli orientamenti politici degli elettori in termini di politica nazionale.
Elettori che potrebbero premiare un centrodestra più dinamico
Secondo tutte le principali rilevazioni demoscopiche, la prossima tornata elettorale confermerà che il centrosinistra è in una fase di difficoltà – rispetto al centrodestra – nel catturare il consenso degli elettori. L’asimmetria tra i due schieramenti, se guardiamo al medio-lungo termine, può essere spiegata con la diversa reazione dei due blocchi alla novità degli ultimi anni, ovvero la sfida dei movimenti e dei partiti anti-establishment (in primis il M5S), tra l’altro strettamente legata alla crisi delle leadership consolidatesi nella Seconda Repubblica.
A destra la transizione è stata più rapida ed efficace dal punto di vista elettorale. Anzitutto perché la risposta alla sfida del M5S è partita dallo stesso interno della coalizione, con la nuova strategia “populista” introdotta nel 2014 da Matteo Salvini, che gli ha permesso di affermarsi nel 2018 come primo leader della coalizione (con una sostituzione relativamente indolore della ormai logora leadership di Berlusconi), e nei mesi successivi, al governo, di raccogliere molti voti ex Fi, ed altri voti di elettori di centrodestra “tornati all’ovile” dopo essere passati dal M5S, fino al 33% delle europee 2019. Questo è stato anche possibile perché già Silvio Berlusconi, negli anni, aveva fatto ampio ricorso a temi e toni tipicamente “populisti”, così che per i suoi elettori non è stato (e non è oggi) alla fine difficile accettare i messaggi oggi proposti da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Infine, gli elettori di centrodestra sono in genere più pragmatici, e accettano facilmente – in funzione anti-sinistra – anche leader non graditi al 100%.
A sinistra, invece, il tentativo di rispondere alla sfida del M5S con una nuova offerta adatta a tempi “populisti” – quello di fatto lanciato da Matteo Renzi dal 2014 – è sostanzialmente fallito. Renzi infatti all’inizio ha risposto efficacemente alla sfida sul piano comunicativo, ma in seguito – in termini programmatici – ha proposto una sorta di “rivoluzione liberale” mirata ai moderati, che: 1) è andata in contrasto con entrambe le matrici originarie dell’elettorato Pd (la socialdemocratica e la cattolica progressista); 2) ha preso una deriva elitista e si è messa in contrapposizione frontale non solo con la leadership ma anche con l’elettorato del M5S, mettendosi quindi nella peggiore posizione per conquistarne i voti. Il risultato purtroppo è stato il disastro del 2018. Disastro cui quindi segue la situazione attuale. Se nel (lontano) passato i partiti di sinistra tenevano insieme capacità tecnico-gestionali e attitudine a dare voce al “popolo” – specie a livello locale, e quando ancora c’era un’organizzazione di massa –, oggi questi due aspetti appaiono tra loro separati e incomunicabili. Il M5s tenta di dare voce alle domande di una “massa” popolare e populista (ma con capacità gestionali chiaramente inadeguate) e il Pd ha difficoltà ad uscire da un confinamento in un’“élite”, peraltro insistendo nel rivendicare la sua alterità rispetto al populismo e una fiducia acritica nell’Europa. Stiamo semplificando, ovviamente, ma è indubbio che la difficoltà di dialogo attuale tra Pd e M5s nasca da questo problema di fondo. Tale difficoltà si riflette anche a livello locale. Non a caso l’unico tentativo di alleanza organica tra Pd e M5s, quello incarnato in Liguria dalla candidatura a Presidente di Ferrucio Sansa, non sembra premiare in termini di consensi elettorali (così come, tra l’altro, successe con la precedente alleanza M5s-Pd in Umbria nel 2019).
Elettori sempre meno affascinati dalle sirene della “società civile”
Le performance elettorali del Movimento 5 Stelle, a livello locale, non si preannunciano brillanti, seppure questa non sia ormai una novità. Dopo le affermazioni degli scorsi anni in molte realtà locali, soprattutto nel Centro-sud, la prova di governo locale tutt’altro che esaltante di molti esponenti grillini non ha soddisfatto l’elettorato. Soprattutto a livello locale, dunque, dove la “politica” è spesso percepita come sinonimo di “servizi” e “qualità della vita”, esperienza, pragmatismo e capacità di governo sono considerate qualità importanti dei candidati. Ragioni simili spiegano anche quello che appare come un declino della fascinazione per la cosiddetta “società civile”. Così, in questa tornata elettorale, le liste genuinamente “civiche” paiono decisamente meno rilevanti che in passato. Né bisogna farsi ingannare dalle “liste del Presidente” o dall’alto numero di liste civiche in realtà come la Puglia. Il candidato del Pd, Michele Emiliano, ne ha dalla sua parte addirittura quindici. C’è di tutto: Pd, Sinistra alternativa, Democrazia Cristiana, Liberali, Partito Animalista, Partito del Sud, Pensionati e invalidi, Sud Indipendente Puglia e così via. Tante liste, però, uguale tanti candidati. Ogni lista è una rete acchiappa-voti. Insomma, le attuali “liste civiche”, svuotate dal loro significato originario, sembrano voler replicare solo gli aspetti meno esaltanti delle fu organizzazioni di massa.
Elettori che non premiano un “Terzo polo” centrista
Il “Terzo polo” centrista, quello per intenderci che potrebbe essere costituito da Italia Viva, Azione, Più Europa, ecc., non sembra avere chance nel prossimo voto regionale. In parte ciò è dovuto al fatto che le elezioni locali continuano a essere governate da leggi elettorali con logiche chiaramente maggioritarie, nonostante a livello nazionale si assista all’opposto a una crescente proporzionalizzazione della rappresentanza politica. Così, attualmente, le forze politiche di ispirazione centrista animano una battaglia perlopiù “identitaria”, puntando a coltivare un rapporto privilegiato con alcune categorie specifiche di elettori e alcuni gruppi di interesse piuttosto che rivolgendosi all’elettorato tutto in cerca di una notevole consistenza numerica. Un partito come Italia Viva, per esempio, per evidenziare il proprio connotato riformistico, nel breve termine punta essenzialmente a massimizzare il proprio potere di interdizione all’interno della coalizione; da qui il tentativo di far pesare il proprio essere “decisivi” per una vittoria o una sconfitta del centrosinistra (vedi la candidatura di Ivan Scalfarotto in Puglia) o di influenzare qui e lì la scelta dei candidati dell’intera coalizione (vedi la candidatura dell’ex “renziano” Eugenio Giani in Toscana).
Elettori che premiano il “buon governo” a livello locale
Come regola generale, in ogni elezione i candidati incumbent sono moderatamente avvantaggiati sugli sfidanti. Il candidato già in carica, infatti, ha di solito il vantaggio dello status quo dalla sua parte: se proprio non ha fatto danni tremendi, l’elettore lo riconosce quantomeno in grado di governare, capacità che lo sfidante outsider deve ancora dimostrare. Questa regola appare confermata anche in occasione dell’attuale tornata di elezioni regionali. Tutti i governatori uscenti godono di un consenso discreto se non decisamente buono. Michele Emiliano (Pd), in Puglia, sembra costituire un’eccezione per il momento, considerato che solo il 46% degli intervistati ne dà una valutazione molto o abbastanza positiva. La gestione di dossier come la sanità o la crisi della Xylella potrebbero aver pesato sulla sua popolarità.
Elettori che sembrano non legare il referendum
al voto regionale
I prossimi 20 e 21 settembre gli elettori italiani di sei Regioni (Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia) potranno votare, nello stesso momento, per il rinnovo della Presidenza e del Consiglio della propria Regione da una parte, e per il referendum costituzionale sulla legge che riduce il numero dei parlamentari dall’altra. Secondo le principali rilevazioni demoscopiche, però, non si registra al momento un particolare effetto di “trascinamento” di un voto sull’altro. Storicamente, infatti, sono tutt’al più considerazioni sulla politica nazionale (e non regionale) a influenzare eventuali scelte referendarie da compiere nello stesso momento. Emblematico il caso del referendum costituzionale del dicembre 2016; allora la consultazione referendaria, per la volontà dello stesso Presidente del Consiglio di allora, Matteo Renzi, fu caratterizzata da un’estrema “personalizzazione”, trasformandosi per molti elettori in un voto pro o contro il governo in carica. Ad oggi questa “sindrome Renzi 2016” non sembra così forte e diffusa, anche se è indubbio che tra gli elettori del Pd e quelli del M5s i “sì” alla riforma costituzionale sono in maggioranza, mentre nell’elettorato dei partiti di centrodestra potrebbe prendere piede l’idea di usare questo referendum per indebolire il governo.
Qualche numero per stabilire chi vince o chi perde alle prossime Regionali
Attualmente, delle 6 Regioni che andranno al voto i prossimi 20 e 21 settembre, 4 sono governate dal centrosinistra e 2 dal centrodestra. Sembra quasi impossibile, al momento, che il centrosinistra riesca a mantenere un simile risultato all’indomani del voto. Detto ciò, anche le aspettative – che riflettono il clima politico attuale –giocheranno un ruolo nel giudizio post Regionali.
Un 3 a 3, per esempio, sarebbe tutto sommato un risultato accettabile per il centrosinistra, e soprattutto per il Pd; psicologicamente (e mediaticamente) si tratterebbe pur sempre di un pareggio (che secondo i sondaggi significherebbe tenere regioni importanti come Toscana e Puglia).
Una sconfitta del centrosinistra per 2 a 4 al momento potrebbe rappresentare il “minimo sindacale” del Pd; il segretario Nicola Zingaretti, pur senza trionfalismi, potrebbe provare a difendere un simile risultato. Anche se è d’obbligo osservare che perdere il governo di quattro delle sei Regioni vorrebbe dire consegnare al centrodestra una storica “Regione rossa” come le Marche, un esito oramai dato tendenzialmente per scontato, e una tra Puglia e Toscana, governate dal centrosinistra rispettivamente da quindici anni o da quando esistono le Regioni.
Infine una sconfitta del centrosinistra per 1 a 5, e dunque col passaggio della Toscana al centrodestra, sarebbe difficilmente difendibile per l’attuale leadership del Pd e probabilmente avrebbe importanti conseguenze politiche.