Donald Trump ha vinto le elezioni. Nessun presidente, dai tempi tardo ottocenteschi di Grover Cleveland, era tornato alla Casa Bianca dopo averle perse alla fine del primo mandato. Il tycoon ha battuto Kamala Harris in tutti e 7 gli Stati in bilico, conquistando il collegio elettorale con 312 grandi elettori e prevalendo pure, a sorpresa, nel voto popolare. Trump ha preso 2,6 milioni di voti in più della sua avversaria, come non succedeva ai repubblicani dal 2004 con George W. Bush. Il suo consenso si è nazionalizzato, come confermano gli ottimi risultati in roccaforti democratiche come la California e New York. La sua base elettorale si è allargata, specie tra giovani e latinos. Ha dimostrato, ancora una volta, di non essere un accidente della storia. Com’è stato possibile? Cosa faranno i repubblicani, che hanno anche il controllo del Congresso? E i democratici, in cerca di riscatto? Senza dimenticare i Paesi europei, in primis l’Italia. A queste domande rispondiamo nella nuova puntata di Telescope, realizzata grazie agli spunti e alle analisi – raccolti nel corso del nostro ultimo evento – di John Ferejohn e Bruce Cain (Stanford University), Daniela Giannetti (Università di Bologna), Roberto D’Alimonte e Sergio Fabbrini (Luiss).
Trump, un candidato diventato normale
La vittoria di Trump non è in sé una sorpresa. Che fosse possibile e per certi versi probabile, lo sapevamo da tempo. Guardando al collegio elettorale, non registriamo cambiamenti epocali: è vero che il tycoon ha prevalso in tutti e sette gli Stati in bilico, ma in cinque di questi (Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, North Carolina e Georgia) lo ha fatto in realtà con un margine minimo, tra lo 0,9 e il 2%. Significa che le elezioni, pure stavolta, sono state comunque competitive, anche se meno del solito. Il successo di Trump è però significativo, oltretutto consacrato dal primato nel voto popolare. Per capirlo dobbiamo partire proprio da lui. Dopo 8 anni in politica, il tycoon è diventato un candidato “normale”, ben conosciuto dagli americani che hanno dimostrato, in larga parte, di non considerarlo un pericolo per la democrazia. Peraltro, il presidente eletto si è dimostrato capace di spostarsi al centro su questioni come sicurezza sociale e assistenza sanitaria, e di mostrarsi più neutrale sull’aborto, che era costato caro ai repubblicani nelle ultime elezioni di midterm.
Ma soprattutto Trump è stato considerato più credibile per gestire i temi prioritari dell’opinione pubblica americana: l’immigrazione e l’economia. Su quest’ultima, dati alla mano, occorre in particolare una riflessione. Sotto l’amministrazione Biden sono stati creati 16 milioni di nuovi posti di lavoro, la disoccupazione è scesa al 4,3%, il mercato azionario è andato a gonfie vele, sono aumentati persino i salari. Ma questo non è bastato, perché la crescita economica parrebbe non aver portato a benefici diffusi, anche perché l’inflazione ha colpito con durezza i ceti meno abbienti, a partire dal rincaro su alimenti di largo consumo come bacon e uova. La lezione per i democratici è dunque quella di prestare ancora più attenzione agli effetti delle politiche economiche (è vero che Biden ha speso moltissimo per creare lavoro, ma non è riuscito ad affrontare in modo convincente il problema del costo della vita) e per certi versi di rivedere ulteriormente la propria agenda, privilegiando tematiche economiche anziché identitarie. È evidente quanto sia diverso il loro impatto: Trump, come mostrato nel grafico in basso, ha guadagnato voti tra tutte le fasce di reddito.
L’incognita Congresso: cosa succede col trifecta
Come se non bastasse, il tycoon godrà anche del cosiddetto trifecta government, che si ha quando un partito, oltre a esprimere il presidente, controlla anche i due rami del Congresso. I repubblicani hanno ottenuto infatti la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Per Trump è un bene, ma non è affatto garanzia per la realizzazione del suo programma. I margini di maggioranza sui democratici infatti sono esigui in entrambe le camere, e per le proposte repubblicane più estreme venire a compromessi sarà un problema, specie con due partiti così polarizzati. Tutti gli ultimi presidenti che hanno goduto del trifecta lo hanno perso alle elezioni di midterm. C’è di più: per ogni inquilino della Casa Bianca il picco di potere si raggiunge il 20 gennaio, il giorno dell’insediamento, e la luna di miele col Paese dura circa 100 giorni. Trump allora, come i suoi predecessori, non può permettersi di “partire male”, pena una probabile sconfitta tra due anni nelle elezioni di midterm, col rischio di diventare un’anatra zoppa. Non è un elemento da sottovalutare, perché il controllo o meno della Camera o del Senato incide molto sull’azione dell’amministrazione. Il Senato ad esempio, dove i repubblicani hanno una maggioranza di tre seggi, è fondamentale per la politica estera.
L’arma dei dazi contro l’Europa
Dal 1948 tutti i presidenti americani hanno sostenuto il processo di integrazione europea, che altrimenti non sarebbe stato possibile. Tutti, appunto, tranne Trump. Il tycoon è riflesso della tradizione risalente a Lord Palmerston, premier inglese della seconda metà dell’Ottocento, secondo il quale “non ci sono alleanze permanenti, ma solo interessi permanenti”. Trump, per perseguire i propri obiettivi da deal maker, potrebbe dividere l’Europa rafforzando i dazi su singoli prodotti, così da colpire i Paesi che ritiene più opportuno. Un approccio unilaterale come il suo penalizzerebbe l’export del vecchio continente. Esiste una soluzione politica che possa evitarlo, proposta magari dal governo italiano di centrodestra? Allo stato attuale, se ci fosse, è quantomeno complicata, perché un’alleanza transatlantica tra nazionalisti non appare logica. Uno dei tratti che meglio caratterizza Donald Trump è peraltro l’imprevedibilità, tipica di un soggetto post ideologico che combina posizioni di destra e sinistra su diversi temi. E a differenza del suo primo mandato, il contesto è cambiato, con Francia e Germania politicamente deboli, e quindi un’Europa ancora più in difficoltà. Per l’Unione Europea è un’ora decisiva, perché le toccherà rispondere a chi, forse più di chiunque altro, si è affermato grazie alla sfiducia diffusasi gli ultimi 30 anni nei confronti delle élite tradizionali, quelle che negli Stati Uniti si trovano a Washington e in Europa proprio a Bruxelles e Strasburgo.