Il voto di preferenza alle comunali del 2018. Verso l’autofagia dei partiti?

Il voto di preferenza è uno strumento in grado di indebolire il potere dei leader di partito e sarebbe interessante comprendere se e in che misura esso possa anche contribuire allo sgretolarsi delle organizzazioni partitiche. Tuttavia, per quanto rilevante sia questo tema, in questa sede ci limiteremo innanzitutto a ricordare che, come noto, le elezioni comunali italiane permettono agli elettori di aggirare l’ordine di lista stabilito dai partiti – e, sempre più spesso, dalle formazioni cosiddette civiche – proprio attraverso la possibilità di esprimere una preferenza per uno dei candidati al consiglio comunale.

Così come già accaduto in passato (Rombi 2017), anche alle elezioni comunali del 2018 era consentita la doppia preferenza: ciascun elettore aveva la possibilità di esprimere fino a due preferenze, a patto che fossero destinate a due candidati di genere diverso. La possibilità di esprimere più di una preferenza ha implicazioni anche sotto il profilo della misurazione del fenomeno. Abbiamo già avuto modo di chiarire in altra sede (Rombi 2016; 2017), infatti, che l’Indice di preferenza (IP) è, in questo caso, il risultato del rapporto tra il numero di voti di preferenza e il doppio dei voti validi ottenuti dalla lista presa in considerazione.

Prima di procedere con l’analisi, si deve segnalare che sono stati esaminati i soli comuni capoluogo, con l’eccezione del comune di Massa, escluso per indisponibilità dei dati[1]. In particolare, sono state raccolte informazioni sul voto di preferenza per diciannove comuni, così distribuiti: cinque al Nord (Brescia, Imperia, Sondrio, Treviso e Vicenza); quattro nella ex Zona Rossa (Ancona, Pisa, Siena e Terni); dieci nell’area meridionale (Avellino, Barletta, Brindisi, Catania, Messina, Ragusa, Siracusa, Teramo, Trapani e Viterbo).

Fig. 1 – Indice di preferenza (IP) medio a livello regionalepreferenze_2018_fig1

Sotto il profilo territoriale, una rapida analisi dei dati raccolti indica, innanzitutto, la perdurante preminenza del meridione nell’utilizzo del voto di preferenza.

Mediamente, nei comuni meridionali l’IP è pari a 0,54, un dato significativamente maggiore rispetto allo 0,35 dei capoluoghi settentrionali e allo 0,30 di quelli collocati nella ex Zona Rossa i quali, così come nel 2017, si affermano come i meno inclini all’utilizzo delle preferenze. Come mostra la Figura 1, la Campania – comprensiva della sola città di Avellino – è la regione con l’indice di preferenza più elevato (IP = 0,59). All’estremo opposto, troviamo l’Umbria (IP = 0,29), rappresentata dalla città di Terni.

È opportuno a questo punto affiancare alla dimensione territoriale l’esame della dimensione demografica del comune, la cui rilevanza dipende dal fatto che, almeno in ipotesi, nelle città piccole e medie il ricorso al voto di preferenza dovrebbe essere più diffuso a causa della maggiore facilità nei rapporti diretti tra elettori e candidati. Come già osservato in altre occasioni (Rombi 2016; 2017), nelle città con popolazione inferiore a 100.000 abitanti l’indice di preferenza è maggiore rispetto a quelle superiori. In questo caso, l’IP è pari a 0,47 tra le prime e a 0,39 tra le seconde.

Bisognerebbe però comprendere se ciò che è appena emerso sia valido per tutte le aree geografiche del paese, ovvero: a parità di posizione geografica, quanto conta il numero di abitanti nello spiegare l’utilizzo delle preferenze? Per rispondere compiutamente a questa domanda sarebbe importante disporre di un numero di casi molto più elevato. Tuttavia, è possibile offrire alcune congetture anche in questa sede. Sinteticamente, sembra che la dimensione demografica del comune sia rilevante soprattutto nelle regioni del Nord, dove i comuni con una popolazione inferiore a 100.000 abitanti hanno un IP medio pari a 0,41, mentre i comuni con popolazione superiore si fermano a 0,28. Al Sud e nella ex Zona Rossa, invece, l’indice di preferenza non subisce differenze degne di nota tra i due gruppi.

Dall’analisi territoriale e demografica si deve necessariamente passare a indagare l’utilizzo del voto di preferenza da parte degli elettorati dei principali partiti italiani. La Figura 2 persegue questo obiettivo comparando l’uso delle preferenze tra gli elettori di Forza Italia (FI), Lega, Movimento 5 Stelle (M5S) e Partito Democratico (PD).

Fig. 2 – Indice di preferenza (IP) dei principali partiti italianipreferenze_2018_fig2

In prima battuta, emerge come Forza Italia e il Partito Democratico abbiano gli elettorati più inclini all’utilizzo del voto di preferenza, con un IP totale uguale, rispettivamente, a 0,47 e 0,46. Il partito di Berlusconi primeggia, oltreché nel valore complessivo, anche nei comuni settentrionali dove fa segnare un IP medio pari a 0,40. L’elettorato del PD, invece, è il più predisposto ad esprimere un voto personale (Shugart e Carey 1992) sia al Sud (IP = 0,58) sia nella ex Zona Rossa (IP = 0,33). Tuttavia, se nel 2017 nelle ex regioni rosse la differenza nell’uso delle preferenze tra FI e PD era marcata, suggerendo una ben diversa capillarità dei rispettivi candidati, nel 2018 questa distanza si è assottigliata fino a quasi scomparire, tanto che l’IP di Forza Italia sfiora quello del PD, arrivando a 0,32.

Decisamente meno frequente è l’impiego del voto di preferenza tra gli elettori della Lega e del Movimento 5 Stelle. Nel primo caso, il valore complessivo dell’IP è uguale a 0,34, con un picco non sorprendente nelle regioni meridionali (IP = 0,46). In occasione delle elezioni parlamentari del 4 marzo 2018, il partito di Salvini ha fatto a meno del riferimento esplicito al Nord, questa novità ha semplicemente preso atto del processo di nazionalizzazione dell’ex partito secessionista e, perciò, non ha causato una crescita dell’insediamento meridionale del partito. Ciò è indirettamente indicato dal fatto che già nel 2017 l’IP medio al Sud era ragguardevole, attestandosi a 0,48.

Il partito guidato da Di Maio, invece, presenta l’IP più basso in assoluto (IP = 0,27), confermandosi come una forza politica i cui candidati basano la raccolta del consenso non tanto sul rapporto uno-a-molti con i propri elettori, quanto sul riverbero sul livello locale di processi politici che si svolgono a livello nazionale.

Nel complesso, si nota una conferma dei livelli di utilizzo delle preferenze rispetto al 2017, quando, esattamente come nel 2018, l’indice medio nei capoluoghi inclusi nell’indagine era arrivato a 0,44. Tuttavia, rispetto alla tornata precedente, si registra una crescita piuttosto rilevante nell’uso delle preferenze nei principali partiti italiani. Forza Italia passa da 0,40 a 0,47, il PD da 0,43 a 0,46, la Lega da 0,26 a 0,34 e il Movimento 5 Stelle da 0,21 a 0,27. Il fatto che i partiti più strutturati facciano registrare una crescente rilevanza delle preferenze non dovrebbe lasciare indifferenti tutti coloro che ritengono i partiti l’istituzione fondamentale delle democrazie liberali. Si tratta, infatti, di un fenomeno perfettamente in linea con l’ormai conclamata crisi dell’organizzazione di partito. I partiti strutturati, caratterizzati da un simbolo riconoscibile e da un’organizzazione nazionale, operano all’interno di un sistema partitico destrutturato e affrontano un elettorato molto voltatile, il cui legame con la politica, a maggior ragione in occasione di elezioni locali, è sempre più veicolato dalla relazione personale con i singoli candidati.

Tutto ciò sembra produrre un circolo vizioso in base al quale i partiti provano a rimediare all’impopolarità attraverso la ricerca di voti personali, accentuando in questo modo quei problemi che, lungi dall’essere risolti, sono semplicemente aggirati.

 

Riferimenti bibliografici

Rombi, S. (2016), ‘Tra fattori territoriali e strategia politica: il voto di preferenza alle comunali 2016’, in Emanuele, V., Maggini, N. e Paparo, A. (a cura di), Cosa succede in città? Le elezioni comunali 2016, Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 121-128.

Rombi, S. (2017), ‘L’uso del voto di preferenza alle elezioni comunali del 2017’, in Paparo, A. (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017, Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 83-87.

Shugart, M.S. e Carey, J.M. (1992), President and Assemblies. Constitutional Design and Electoral Dynamics, Cambridge, Cambridge University Press.


[1] Alla data in cui scriviamo – 16/07/2018 – il sito internet del comune di Massa non risulta del tutto accessibile. In particolare, nonostante le rassicurazioni dell’ufficio elettorale comunale, è impossibile accedere alla sezione dedicata ai risultati delle elezioni.

Stefano Rombi è ricercatore in Scienza Politica all’Università di Cagliari. I suoi interessi riguardano i partiti politici, le elezioni e la qualità della democrazia. Ha pubblicato numerosi articoli in riviste italiane e internazionali quali Paliamentary Affairs e Italian Political Science Review. Inoltre, ha contribuito a numerosi volumi collettanei, tra cui "Democratizing Candidate Selection. New Methods, Old Receipts?" (Palgrave, 2018), "Challenges of Democracy in the 21st Century" (Routledge, 2018) e "The Selection of Politicians in Times of Crisis" (Routledge, 2018). Oltre ad essere membro della SISP e della SISE, è co-coordinatore nazionale del gruppo di ricerca Candidate and Leader Selection (CLS) e membro della redazione dei Quaderni dell'Osservatorio Elettorale.