Autore: Aldo Paparo

  • Gli elettori in movimento nell’analisi dei flussi elettorali fra ricordo e intenzioni di voto

    di Aldo Paparo

    I primi dati del sondaggio dell’Osservatorio Politico del Cise indicano un quadro di sostanziale continuità con il risultato osservato alle scorse elezioni europee. In caso di elezioni anticipate, il Pd sarebbe intorno al 40% delle intenzioni di voto valide. Di poco inferiore alla metà la percentuale del M5s (18,6). La più rilevante novità sembra essere rappresentata dal riequilibrio dei rapporti di forza nel centrodestra, dove la Lega Nord continua ad avanzare, a scapito di un ulteriore arretramento di Forza Italia.

    Sembrerebbe dunque che stia accadendo poco, o meglio che l’elettorato non stia rispondendo agli eventi degli ultimi mesi con significativi cambiamenti nelle scelte di voto. In questo articolo indaghiamo più in profondità i dati del nostro sondaggio per cercare di comprendere se questo sia poi del tutto vero, o se, al contrario, in questo frangente sia intercorsa una più rilevante volatilità che però non emerge chiaramente dalle intenzioni di voto in quanto entrate e uscite sono più o meno pari per i diversi partiti.

    Per rispondere a questo interrogativo possiamo incrociate le intenzioni di voto in caso di immediate elezioni politiche anticipate con il ricordo del voto in occasione delle elezioni europee della scorsa primavera. Le tabelle 1 e 2 riportano i risultati di tale analisi.

    In particolare, la tabella 1 mostra come si distribuirebbero percentualmente fra le possibili scelte di voto alle eventuali politiche i bacini elettorali dei diversi partiti delle elezioni europee. Come possiamo osservare, la Lega mostra il tasso di fedeltà più alto. Nove su dieci dei suoi elettori delle europee la rivoterebbero, e non si registra nessuna defezione significativa. Il buono stato di salute del partito guidato da Salvini è confermato anche dalla sua capacità di crescere, rispetto alle europee, non solo sottraendo voti dall’altro principale partito del centrodestra, Forza Italia. La tabella mostra infatti come il 6% degli elettori di Berlusconi voterebbero oggi la Lega, ma lo stesso farebbero un ventesimo degli elettorati di Pd e M5s. E ancora una pari quota degli astenuti alle europee.

    I tre grandi partiti presentano flussi assai simili. Sia il Pd che il M5s che Fi manterrebbero circa i due terzi dei propri voti delle europee, cedendone fra un quarto e un quinto verso il non voto. Ricordiamo che la categoria del non voto nelle intenzioni di voto comprende chi si dichiara intenzionato a non votare, ma anche chi è incerto – se votare o meno, o quale partito votare -. Si tratta comunque di risultati assai interessanti. A soli sei mesi di distanza, un terzo degli elettori dei tre più grandi partiti italiani appare in libera uscita ed è quindi contendibile sul mercato elettorale. Al di là delle perdite verso il non voto, il Pd ha smarrito quote piccole ma significative sia verso la Lega che verso il M5s. Il partito di Grillo perde sia verso il centrosinistra che verso il centrodestra, ma soprattutto verso quest’ultimo. Forza Italia, invece, registra un flusso rilevante verso il partito di Salvini.

    L’instabilità delle scelte di voto nell’attuale contesto politico italiano è anche confermato dai flussi relativi a chi si è astenuto alle europee. Possiamo infatti osservare come meno dei due terzi di questi elettori rientrino oggi nella categoria del non voto. Quasi il 40%, invece, dichiara che si ci fossero le politiche domani non solo si recherebbe alle urne, ma sa anche quale partito voterebbe. Oltre al 5% che voterebbe oggi la Lega, cui abbiamo accennato sopra, un po’ tutti i partiti si dimostrano capaci di recuperare voti dal bacino dell’astensione. In particolare il Pd, che potrebbe contare sul voto di un astenuto su sei. M5s e Fi rimobilitano quote assai simili a quelle della Lega. Ma anche Sel si dimostra capace di recuperare un astenuto ogni venticinque. E persino Fdi potrebbe raccogliere il voto del 2% degli astenuti delle europee.

    La stessa immagine di profonda instabilità emerge anche guardando agli elettorati dei partiti minori. Naturalmente bisogna essere assai più cauti nel commentare questi flussi vista la scarsa numerosità dei relativi gruppi. In ogni caso, dal momento che appaiono coerenti con il quadro generale che si viene delineando, ci sentiamo di includerli nella nostra presentazione. In effetti, sia Ncd che Fdi confermano fra i tre quinti e i due terzi dei propri elettori delle europee, mentre cedono quote rilevanti verso il non voto. Nel caso del partito di Alfano, inoltre, si segnala anche la fuoriuscita verso la Lega di un elettore su cinque.

    Il caso che presenta, infine, le minori continuità rispetto alle europee è la lista Tsipras. Certo, non si tratta di un vero partito ma di una mera alleanza elettorale, ragion per cui non è poi così sorprendente che i suoi elettori siano i più propensi a disperdersi su diverse opzioni, anche in considerazione del fatto che tale alleanza non esiste più. Da rilevare, però come meno di un quinto degli elettori dei tale lista si dichiari oggi intenzionato a votare partiti minori di sinistra, quali i Verdi o Rifondazione. Se sommiamo questi al 28% che intende votare Sel, ci accorgiamo come il tasso totale di fedeltà sia inferiore al 50%. La porzione più numerosa non dichiara oggi una intenzione di voto valida, mentre una quota rilevante – un sesto circa – sarebbe intenzionata a votare il Pd.

    Tab. 1 – Destinazioni nelle intenzioni di voto dei bacini elettorali delle Europee

    La tabella 2 mostra invece la composizione percentuale, in termini di comportamento di voto alle europee, degli attuali bacini elettorali dei diversi partiti se si svolgessero elezioni immediate. In pratica, cosa avevano votato alle europee gli elettori che oggi dichiarano che voterebbero i diversi partiti in campo.

    Possiamo innanzitutto osservare l’incapacità dei partiti figli del Pdl di attrarre nuovi consensi. I tre quarti delle intenzioni di voto a Ncd e Fi, infatti, provengono da quanti già li hanno votati alle europee. Il partito di Berlusconi sembra potere rimobilitare qualcosa solo dal bacino del non voto, mentre quello di Alfano riesce a recuperare qualcosa a Fi, da cui proviene un ottavo dei suoi attuali voti – oltre che, di nuovo, dal non voto alle europee. Certo, se come il Cavaliere afferma convintamente, i suoi elettori del passato non hanno trovato una nuova collocazione ma sono passati all’astensione, essere capaci di ottenere nuovi consensi solo in tale bacino potrebbe essere sufficiente per crescere anche in maniera significativa elettoralmente. Certo che, però, la strada per tornare i fasti di qualche anno fa per gli eredi del Pdl appare ancora parecchio lunga.

    All’estremo opposto – fra i partiti sopra il 10% nelle intenzioni di voto – si colloca la Lega. Questa, infatti, otterrebbe oggi meno della metà dei propri voti da quanti l’hanno già scelta alle europee. Si registrano ingressi rilevanti da tutti i bacini più numerosi. Innanzitutto dal non voto alle europee, ma in questo appare del tutto simile agi altri tre partiti più grandi. Tutti e quattro, infatti, riceverebbero fra un quarto e un quinto dei propri voti attuali da astensionisti delle europee. Le provenienze della Lega sono uniche perché arrivano anche dagli altri partiti, nessuno escluso. Oltre un decimo dei suoi attuali voti proverrebbe da elettori del Pd alle europee. Un elettore leghista su cinque, invece, avrebbe votato alle europee Fi o Ncd o il M5s. In quote pressochè identiche fra i tre bacini elettorali.

    In mezzo fra i partiti ex Pdl e la Lega si collocano Pd e M5s. Entrambi ottengono oggi poco più dei due terzi dei propri voti dal proprio elettorato delle europee. Entrambi registrano un recupero rilevante dal non voto, e sostanzialmente nessun altro ingresso significativo. Fa eccezione il flusso da Pd verso il M5s, che vale per quasi un decimo degli attuali voti del M5s.

    Sel e Fdi sono i partiti i cui elettorati appaiono maggiormente in trasformazione. Sempre premettendo il caveat relativo alla scarsa numerosità di questi gruppi – che in realtà nel caso di Sel non è poi così ridotta -, possiamo osservare come entrambi pescherebbero oltre il 40% dei propri voti da quanti non avevano votato alle europee. In entrambi i casi si tratta di quote più cospicue di quelle provenienti dai propri elettori delle europee. Il partito di Vendola ottiene poi quote rilevanti dei propri voti sia dal Pd (quasi un quinto) che dal M5s (un ottavo).

    Tab. 2 – Provenienze dai bacini elettorali delle Europee delle intenzioni di voto ai diversi partiti

    Nel nostro sondaggio abbiamo anche chiesto ai rispondenti come si siano comportati alle elezioni politiche dello scorso anno. Questo ci consente di tracciare gli spostamenti di elettori intercorsi lungo un periodo di tempo più ampio: non solo gli ultimi sei mesi, ma gli ultimi venti mesi. Nelle tabelle 3 e 4 riportiamo i dati relativi alle intenzioni di voto attuali incrociate con il ricordo del voto alle politiche. Come già per le europee, presentiamo sia le destinazioni (tab. 3), che le provenienze (tab. 4).

    Di nuovo, la Lega è il partito con il più alto tasso di fedeltà (quasi quattro elettori su cinque) e contemporaneamente quello più capace di andare oltre i propri precedenti elettori per attrarre nuovi consensi: meno della metà degli intenzionati a votarla l’ha già fatto alle politiche. Il partito di Salvini otterrebbe qualcosa dal bacino del voto 2013, ma meno degli altri partiti. Riesce invece ad avanzare meglio degli altri fra gli elettorati di altrui. Oltre un decimo di chi ha votato Pdl dichiara che voterebbe oggi il Carroccio: da qui proviene quasi un quinto delle intenzioni di votare Lega. Lo stesso farebbe un elettore su quindici del M5s alle politiche, ovvero un settimo dei voti attuali della Lega. Un po’ meno permeabile alle sirene leghiste si dimostra l’elettorato del Pd di Bersani: solo un venticinquesimo dichiara l’intenzione di votare oggi la Lega. Comunque questo flusso vale oltre un decimo degli attuali voti alla Lega.

    Il Pd di Renzi si dimostra capace di mantenere i due terzi degli elettori delle politiche e poi cresce in tutte le direzioni. Innanzitutto è il partito più premiato da chi alle politiche non aveva votato. Oltre il 10% lo farebbe oggi e per votare il Pd: un ottavo degli attuali voti per il Pd proverrebbe da tale bacino. Inoltre conquista quasi la metà dei voti della coalizione guidata da Mario Monti (mentre solo un ottavo circa sceglierebbe oggi Ncd-Udc): questo ingresso pesa circa un dodicesimo delle intenzioni di votare Pd. Ma ingressi significativi si registrano anche dal M5s 2013 (un ottavo di tale gruppo, pari a quasi un decimo dei voti odierni del Pd), così come dal Pdl (oltre un elettore berlusconiano 2013 su quindici, che pesa per un venticinquesimo dell’attuale bacino elettorale del Pd).

    Se guardiamo, poi, al bacino elettorale del M5s alle politiche, ci accorgiamo come questo presenti un tasso di fedeltà davvero basso. Oggi, infatti, meno della metà di quegli elettori si dichiara propensa a ripetere tale scelta se si svolgessero elezioni anticipate. Un terzo non dichiara oggi di essere intenzionato ad esprimere un voto valido. Fuoriuscite significative si registrano anche verso il Pd (12%) e la Lega (7%). Alla luce di ciò, non sorprende che oltre i tre quarti degli attuali voti del M5s provengano dal proprio elettorato delle politiche. L’unico ingresso rilevante è quello dal non voto, mentre nessun flusso significativo si riscontra in entrata da altri partiti.

    Fi, infine, mantiene poco più della metà dei voti del Pdl, da cui provengono i cinque sesti dei suoi attuali elettori. Appena uno su trenta dichiara l’intenzione di votare per il Ncd, il cui elettorato sembra attualmente per lo più composto da elettori dell’Udc delle politiche rimasti fedeli al proprio partito nel nuovo progetto politico. Quasi il 45% dell’elettorato del Pdl è oggi dunque in fuoriuscita: verso l’astensione, soprattutto, ma in realtà un po’ in tutte le direzioni.

    Tab. 3 – Destinazioni nelle intenzioni di voto dei bacini elettorali delle Politiche 2013

    Tab. 4 – Provenienze dai bacini elettorali delle Politiche 2013 delle intenzioni di voto ai diversi partiti

    I dati presentati in questo articolo mostrano il quadro di un elettorato tutt’altro che stabilizzato sulle scelte di voto delle Europee. Per quanto se ci fossero elezioni politiche immediate il risultato potrebbe assomigliare molto a quello osservato qualche mese fa nelle elezioni per il Parlamento di Strasburgo, incrociando gli stessi dati con i ricordi di voto passato abbiamo potuto osservare una notevole volatilità.

    Apparentemente, tutto sembra immobile attorno al dominio strategico del Pd renziano, ma in realtà nell’elettorato si segnalano movimenti e riequilibri assai rilevanti in termini numerici. Certamente grandi spostamenti si sono verificati fra politiche 2013 ed europee 2014. I dati presentati qui suggeriscono, però, che la scenario oggi tutt’altro che stabilizzato: emerge infatti con chiarezza come l’elettorato italiano sia in continua evoluzione.

    Basti pensare al fatto che, seppur con affluenze complessive molto simili – attorno al 60% -, vi sia una notevole permeabilità del bacino del non voto. Già oggi il 40% di chi si è astenuto alle europee sa cosa voterebbe alle politiche e lo dichiara: si tratta di una rimobilitazione notevole. Dall’altra parte, un quarto di chi ha votato alle europee è oggi incerto su cosa votare o intenzionato ad astenersi. Anche questo è un bacino molto interessante da analizzare. Dobbiamo infatti considerare che, se davvero ci fossero le elezioni politiche, l’affluenza sarebbe certamente più alta del 60% attualmente registrato, e questi elettori potrebbero essere i più facilmente persuadibili a tornare alle urne – visto che lo hanno già fatto in elezioni meno importanti, come le europee.

    Più in generale abbiamo potuto osservare come per tutti i partiti si registri un profondo ricambio all’interno dei relativi bacini elettorali, anche guardando solamente agli spostamenti fra europee ed oggi. Soprattutto attraverso il meccanismo dell’astensionismo asimmetrico, che pare giustificare la maggior parte dagli movimenti di elettori. Ma si segnalano anche diverse direttrici di spostamento diretto fra alcuni partiti. Soprattutto a vantaggio della Lega, che appare oggi il partito maggiormente in salute e capace di attrarre consensi un po’ da tutti gli altri partiti.

  • Midterm elections: i numeri finali del trionfo repubblicano alla Camera

    di Aldo Paparo

    Lo scorso sabato 6 dicembre si sono svolti i ballottaggi in Louisiana per l’assegnazione dei due seggi della Camera e del seggio senatorio non assegnati al primo turno il 4 novembre per via del particolare sistema elettorale in vigore in tale Stato. Alla luce di questi risultati, abbiamo adesso il quadro completo del prossimo Congresso, il 114°, che si insedierà in gennaio[1]. Iniziamo col dire che Mary Landrieu, l’incumbent democratica in Senato per lo Stato di New Orleans, è stata sconfitta al ballottaggio dallo sfidante repubblicano Cassidy, con un margine superiore ai 10 punti percentuali. Ciò significa che la maggioranza del GOP nel prossimo Senato sarà formata da 54 membri sui 100 totali.

    I democratici si ritrovano quindi, all’indomani del midterm 2014, senza alcun rappresentante eletto a livello statale in tutto il profondo Sud. Nessun mandato, infatti, sui 15 disponibili fra Louisiana, Mississippi, Alabama, Georgia e Carolina del Sud è di un democratico. E diventano addirittura zero su trenta se allarghiamo un poco lo sguardo e includiamo Texas, Arkansas, Oklahoma, Tennessee e Carolina del Nord. I repubblicani esprimono ogni Senatore, ogni Governatore, e la maggioranza in tutte le assemblee legislative statali dalle pianure del Texas alle coste atlantiche della Carolina: una cintura blu di 10 Stati davvero impressionante.

    Venendo in particolare al risultato elettorale alla Camera, i repubblicani hanno conquistato 246 seggi contro i 188 del Partito Democratico. Candidati del GOP hanno strappato 15 seggi precedentemente detenuti da democratici; in 3 occasioni sono stati i candidati democratici a conquistare seggi che erano repubblicani nel 113° Congresso. In due di queste occasioni hanno sconfitto gli uscenti repubblicani, mentre nel trentunesimo distretto della California Pete Aguilar ha conquistato un open seat. Esattamente identica la composizione dei nuovi seggi repubblicani fra seggi con e senza l’incumebent democratico in campo. Dei 15 totali, infatti, 10 sono stati vinti contro l’uscente, 5 invece erano corse aperte.

    Ricapitolando, l’avanzata netta dei repubblicani è pari a 12 seggi, che li porta ad avere la più ampia maggioranza alla Camera del dopoguerra, eguagliando il risultato del 1946 [2]. Guardando nel complesso al controllo del Congresso, sommando quindi le percentuali dei seggi detenuti nei suoi due rami, di nuovo il risultato dei repubblicani appare senza precedenti nel dopoguerra. Come ulteriore riprova del carattere storico dei risultati osservati in queste elezioni 2014, possiamo citare il nuovo record ogni epoca del numero di seggi persi da candidati del partito del Presidente nell’arco dei suoi due mandati. Sotto Obama sono stati ben 75, superando quindi i 74 dell’era Truman.

    Agli 11 incumbent sconfitti nelle elezioni generali dagli sfidanti del partito rivale, vanno aggiunti i 4 sconfitti nelle primarie di partito. Tre di questi erano repubblicani. Completa il quadro il quinto distretto della Louisiana, dove l’incumbent repubblicano McAllister è stato sconfitto nelle “primarie non partitiche” dello scorso 4 novembre, ovvero al primo turno. Questi non è infatti riuscito a qualificarsi per il ballottaggio, giungendo addirittura quarto con poco più del 10% dei voti. In tutti e 5 i questi casi, i seggi sono poi stati mantenuti dal partito che li aveva nel 113° Congresso, facendo quindi registrare un cambiamento solo nella persona del rappresentante, non nella sua affiliazione politica.

    Considerando poi che 41 deputati in tutto non hanno corso per la rielezione nel 2014, il tasso di riconferma degli incumbent in questa tornata legislativa è straordinariamente alto: addirittura superiore al 95%. Se però guardiamo a questo dato disaggregato per partito, rileviamo una certa disparità. Infatti, meno del 3% dei deputati repubblicani che avrebbero voluto un nuovo mandato non lo hanno ottenuto, mentre ciò è accaduto in oltre il 6% dei casi per i democratici.

    Un ulteriore dato merita di essere sottolineato preliminarmente, per inquadrare al meglio il risultato elettorale che andremo fra poco ad analizzare in maggiore dettaglio geografico. Il voto popolare complessivo. In totale i candidati repubblicani hanno raccolto quasi 40 milioni di voti, contro i 35,4 milioni dei candidati democratici. Anche questo elemento testimonia lo straordinario successo del GOP (o insuccesso dei democratici – o di Obama -, a seconda delle prospettive). Si tratta infatti di un margine che sfiora i sei punti percentuali sul totale dei voti espressi in queste elezioni legislative. Due anni fa, in occasione del precedente rinnovo della Camera, i repubblicani avevano vinto la maggioranza dei seggi (234, comunque 12 in meno di oggi), ma i candidati democratici avevano, in totale, raccolto la maggioranza dei voti. La vittoria repubblicana nasceva quindi soprattutto del ritaglio del collegi e della maggiore concentrazione dei voti dei rivali democratici[3]. Ecco, questo non è più un argomento spendibile nell’analisi del risultato del 2014: i repubblicani vincono perché hanno più voti; è del tutto connaturato con la natura disproporzionale del collegio che un successo di 6 punti nei totali di voto si trasformi in un margine circa doppio nel numero di seggi vinti.

    Veniamo adesso ad analizzare il risultato elettorale dal punto di vista geografico. La figura 1 mostra la mappa degli Stati Uniti in cui ciascun distretto è colorato di rosso o di blu a seconda del partito di appartenenza del candidato vincitore del relativo seggio nel 2014. Tale figura contiene anche l’informazione circa il passaggio di mano o meno dei diversi seggi fra le elezioni del 2012 e quelle del 2014.

    Osservando la figura possiamo avanzare una serie di considerazioni interessanti. A cominciare dalla grande continuità che emerge con il 2012: le aree colorate di scuro (rosso o blu) sono largamente maggioritarie, ad indicare come la stragrande maggioranza dei collegi abbia mantenuto invariato il proprio colore politico. In questo senso, il quadro geografico che emerge ne 2014 non può che apparire assai simile a quello di due anni fa. Successi GOP più o meno ovunque, tranne che in alcune roccaforti democratiche ben individuabili: il Nordest, il Pacifico e il Midwest fra Minnesota, Wisconsin e Illinois. E in effetti la figura conferma tale scenario.

    Possiamo poi evidenziare come l’avanzata repubblicana appaia, per quanto sempre limitata ad una sparuta minoranza dei collegi, piuttosto trasversale e non concentrata geograficamente. Macchie rosso chiaro si registrano, infatti, nel Nordest, al Sud, nel Midwest e anche nel West. Facendo bene i conti, infatti, si osserva che il GOP appare in crescita in ciascuna delle macroaree del paese. Guadagna un seggio nel West, passando da 39 a 40 rappresentanti su 102. L’avanzata è leggermente più marcata al Sud (4 seggi netti su 161) e nel Midwest (2 seggi in più sui 94): poco sopra ai due punti percentuali. La crescita più rilevante si registra nella roccaforte democratica, il Nordest: qui il GOP guadagna 5 seggi, passando da 25 a 30 sui 78 complessivi. Con una crescita, quindi, superiore ai 6 punti percentuali. Si trova qui anche lo Stato con il maggior numero di seggi netti di crescita per uno dei due partiti: a New York i repubblicani avanzano di 3 seggi, dai 6 del 2012 ai 9 del 2014.

    Naturalmente la diseguale composizione di partenza delle rappresentanze partitiche delle quattro macroaree può influenzare questo risultato. Se misuriamo le avanzate nette repubblicane, che comunque si sono registrate in tutte e quattro le aree, come percentuale sui seggi precedentemente in mano ai democratici, ovvero come percentuale dei seggi che i repubblicani sono riusciti a strappare fra quelli che era loro possibile strappare, ci accorgiamo come, comunque, il quadro appaia sostanzialmente immutato. Nel Nordest i repubblicani vanno a segno nel 9% abbondante dei seggi democratici del 113° Congresso. Nel Sud questa percentuale è pari all’8%, nel Midwest sfiora il 6%, mentre nel West è inferiore al 2%.

    Da notare come la crescita del numero dei rappresentanti repubblicani non è più una costante se guardiamo alle varie zone che compongono le quattro macroaree. Sono sei sulle nove totali quelle in cui il GOP è in crescita rispetto al 2012. Nel nordovest centrale e nel sudest centrale il risultato aggregato è identico a quello del 2012. Nella regione del Pacifico sono i democratici ad essere in crescita, grazie al +1 fatto registrare in California.

    I tre nuovi collegi conquistati da candidati democratici appaiono anch’essi piuttosto sparsi geograficamente: uno in California, uno in Florida e uno in Nebraska. Uno a testa, quindi, per il West, il Sud e il Midwest. Nessuno nel Nordest. In questo caso, vista l’esiguità del numero assoluto, più che di fenomeno omogeneo geograficamente appare opportuno parlare di casi sporadici. Comunque interessante rilevare come questi si siano verificati in Stati in cui i democratici si sono, in generale, difesi meglio che altrove.

    Fig. 1 – Mappa del risultato elettorale alla Camera

    Per comprendere al meglio il risultato elettorale, nella tabella 1 riportiamo il dettaglio dei seggi vinti da candidati dei due partiti nei diversi Stati. Come possiamo osservare, in totale vi sono 32 Stati con una rappresentanza in maggioranza repubblicana, contro i 14 che hanno eletto più democratici. In attesa di conoscere chi conquisterà il decisivo nono seggio in Arizona, possiamo comunque già affermare che 3 Stati avranno una rappresentanza perfettamente divisa fra i due schieramenti.

    Curiosamente si tratta di tre Stati del Nordest: New Hampshire e Maine nel New England con i propri due seggi ciascuno, il New Jersey (12 seggi) nel Medio Atlantico. Questo denota la maggiore competitività dei candidati repubblicani in questa regione del paese. In ogni caso, anche nel 2014 il Nordest si conferma in maggioranza democratico: oltre il 60% dei deputati eletti, infatti, appartengono al partito dell’asinello. Dei nove Stati che formano questa regione, solo la Pennsylvania ha una maggioranza di rappresentanti del GOP, contro i 5 in maggioranza democratici (erano 7 due anni fa). Da notare, inoltre, come il Medio Atlantico sia ormai equamente diviso fra i due partiti, mentre solo il New England rimane a dominio democratico (19 deputati contro i 2 repubblicani). E peraltro, anche in questo caso si registra una avanzata repubblicana, dal momento che due anni fa era finita 21 a 0.

    L’altra regione che si conferma a maggioranza democratica è il West. Seppur in calo, i democratici mantengono il 60% circa dei seggi della regione. Da notare come, però, negli Stati occidentali non bagnati dall’oceano la maggioranza dei deputati sia repubblicana. Lo era già due anni or sono, ma oggi ci sono due repubblicani per ogni democratico eletto. Il che però è più che bilanciato dal 70% abbondante di rappresentanti democratici dei 5 Stati della zona Pacifica. A conferma della divisione interna al West, basta guardare la delegazioni dei vari Stati. Ci accorgiamo così che la maggioranza è formata dagli Stati che hanno eletto a Washington più candidati repubblicani: 7 contro i 5 con una maggioranza di deputati democratici. Anche una vittoria nell’ultimo collegio ancora in palio in Arizona non cambierà questa evidenza.

    Le rimanenti due regioni del paese sono a maggioranza repubblicana. Nel Midwest il GOP esprimerà i due terzi dei Representatives del prossimo Congresso. Risultato abbastanza omogeneo fra le porzioni occidentale e orientale della regione. Si segnala ancora – come già nel 2012 – una certa maggiore rilevanza della componente repubblicana nel Nordovest centrale. Tuttavia si registra anche come la crescita complessiva del GOP nel Midwest provenga interamente dal Nordest centrale, che quindi appare nel 2014 più simile alla zona occidentale della regione in quanto a composizione partitica dei propri deputati. Anche guardando agli Stati in maggioranza democratici o repubblicani, il quadro non cambia. Solo il Minnesota nel Nordovest centrale e l’Illinois nel Nordest centrale hanno eletto più democratici, gli altri 10 Stati del Midwest sono tutti in maggioranza repubblicani.

    Come abbiamo avuto già modo di accennare, nella geografia elettorale degli Stati Uniti contemporanei la porzione meno competitiva del paese è il Sud a favore dei repubblicani – e non più il Nordest per i democratici. Questo è confermato anche dal risultato delle legislative 2014 alla Camera. Al Sud, infatti, oltre il 70% dei deputati eletti per il 114° Congresso è repubblicano. Gli unici Stati del Sud con una rappresentanza alla Camera in maggioranza democratica sono il Delaware e il Maryland, ovvero l’estrema periferia nordorientale della regione, ai confini con la capitale federale e il Nordest. Se li escludiamo, e guardiamo ai rimanenti 14 Stati meridionali con una rappresentanza in prevalenza GOP, scopriamo che oltre i tre quarti dei collegi sono stati vinti da candidati repubblicani. E questo uniformemente fra le tre zone in cui è possibile dividere analiticamente il Sud del paese.

    Tab. 1- Riassunto dei seggi conquistati dai candidati democratici e repubblicani, dettaglio per Stato

    Naturalmente bisogna essere molto cauti nell’interpretare questi risultati in chiave nazionale, e specialmente nell’ottica delle elezioni 2016. La tentazione di leggervi un chiaro segnale di una vittoria annunciata per i repubblicani nelle prossime elezioni presidenziali è molto forte, vista la roboante proporzione del successo del GOP. Ci sono però alcuni di elementi che sconsigliano una simile interpretazione di questo risultato.

    Innanzitutto si è votato per eleggere rappresentanti “locali” in 435 collegi uninominali. Nel 90% circa dei casi, come abbiamo visto, gli elettori dovevano scegliere se confermare o meno il rappresentante eletto nel 2012. Naturalmente il risultato aggregato osservato dipende dal combinato disposto di questa moltitudine di contese, in cui – certamente – hanno un ruolo rilevante specifici fattori locali. D’altro canto, appare innegabile che, specialmente in questa circostanza, il risultato sia anche il frutto di un voto “nazionale” contro Obama. Che però non sarà in campo nel 2016. E, per assurdo, sulla capacità di distanziarsi dalla sua eredità si giocherà molta della credibilità della sfida democratica alla Casa Bianca nel 2016.

    In ogni caso, non essere tenuto in considerazione il fattore collegi. I risultati del 2014 ci dicono che possiamo con assoluta tranquillità prevedere che i repubblicani avranno ancora la maggioranza alla Camera dopo le elezioni del 2016, che si disputeranno negli stessi collegi uninominali. Non così, però, si svolgono le elezioni presidenziali, nelle quali per conquistare i grandi elettori occorre vincere a livello statale. Quindi il vantaggio repubblicano, derivante dalla loro capacità di ottimizzare la distribuzione dei propri voti nei collegi, viene meno.

    Bisogna poi valutare lo straordinario calo dell’affluenza alle urne: anche se mancano ancora i dati definitivi degli elettori registrati su cui poi calcolare la relativa proporzione, appare quasi certo che si attesterà attorno al 40%, probabilmente leggermente al di sotto di tale soglia simbolica. Sarà comunque la più bassa di sempre, con un calo di circa 2 punti rispetto al 2010 – le precedenti legislative senza concomitanza con le presidenziali-. Per la nostra interpretazione del risultato questo elemento è assai rilevante, dal momento che significa, con tutta probabilità, che i repubblicani hanno vinto più per l’incapacità dei democratici di mobilitare i propri elettori in queste elezioni, che non perché hanno sfondato nell’elettorato altrui. Tra due anni, con un nuovo candidato scelto attraverso la mobilitazione delle primarie, i democratici potrebbero essere nuovamente in corsa.

    Inoltre bisogna considerare come, nel sistema bipartitico statunitense, i repubblicani abbiano potuto oggi capitalizzare al massimo l’insoddisfazione dell’elettorato nei confronti dell’amministrazione Obama, e più in generale della stagnazione economica. Hanno adesso, però, il compito di dimostrarsi capaci di migliorare le cose, altrimenti fra due anni potrebbe toccare a loro essere travolti dall’ondata di malcontento. A favore, magari, di qualche volto nuovo del Partito Democratico che possa presentarsi come un’alternativa allo status quo pur appartenendo al partito che ha guidato il paese dalla Casa Bianca nei precedenti otto anni.


    [1] In realtà manca ancora l’attribuzione ufficiale del seggio del secondo distretto dell’Arizona. L’incumbent democratico Ron Barber ha ricevuto meno voti della sfidante repubblicana Martha McSally stando ai risultati pubblicati dal dipartimento di stato di Tucson. Il margine è però talmente esiguo che si sta provvedendo alle operazioni di riconteggio in ottemperanza ad una legge statale che lo impone in casi in cui lo scarto sia inferiore ai 200 voti. Si tratta peraltro della prima occasione in cui tale legge viene applicata. Il risultato definitivo sarà proclamato non prima del prossimo 15 dicembre. In questo articolo non consideriamo questo seggio e ci comportiamo come se la House fosse composta di 434 Representatives.

    [2]Se poi dovesse essere confermata la vittoria della McSally nel secondo distretto in Arizona, sarebbe necessario tornare indietro a prima della Grande Depressione per trovare un’analoga maggioranza GOP alla Camera (1928).

    [3] Da notare che le elezioni del 2012 erano le prime svoltesi dopo il ridisegno dei collegi avvenuto a seguito del censimento del 2010. Dopo le elezioni di midterm del 2010, i repubblicani controllavano già la maggioranza delle assemblee legislative statali – che sono gli organi predisposti ad effettuare il ridisegno dei collegi – e avevano potuto sfruttare tale posizione per avvantaggiarsi attraverso il gerrymandering. Pratica del tutto accettata come legittima nel gioco politico, purché all’interno dei confini (piuttosto permissivi ai nostri occhi) dettati da una serie di sentenze delle Corti Supreme statali e federale. Peraltro, per comprendere completamente le ragioni del vantaggio competitivo dei repubblicani nei collegi uninominali bisognerebbe anche considerare la questione dei minority-majority districts, i quali garantiscono alla minoranza afroamericana di avere rappresentanti affini ma, data la straordinaria prevalenza degli elettori democratici in tale settore della popolazione, penalizza il partito dell’asinello nel quadro generale. In ogni caso, è dal 1942 che i democratici non conquistano la maggioranza dei seggi alla Camera senza avere anche la maggioranza dei voti a livello nazionale.

  • Midterm elections: dove, come e perchè Obama ha perso il Senato

    di Aldo Paparo

    Adesso che anche il seggio dell’Alaska può considerarsi assegnato allo sfidante repubblicano Sullivan, con buona pace dell’incumbent democratico Begich che ancora non ha concesso la vittoria al rivale, in attesa che il riconteggio dei voti si concluda, abbiamo il quadro quasi definitivo dei risultati elettorali per il Senato statunitense. Quasi perché, come avevamo avuto modo di anticipare, il seggio della Louisiana sarà assegnato il prossimo 6 dicembre in un ballottaggio fra la senatrice uscente, la democratica Landrieu, e lo sfidante repubblicano, Cassidy. Al primo turno, l’incumbent è risultata il candidato più votato, con circa un punto percentuale di vantaggio sul rivale, che però potrebbe poter contare sul 15% circa di votanti che si è espresso in favore di un altri candidati repubblicani lo scorso 4 novembre.

    Alla Camera, invece, il numero dei seggi ancora da attribuire è più cospicuo: 5, di cui solo i due in Louisiana andranno al ballottaggio. Naturalmente non è in discussione il largo successo repubblicano anche nella camera bassa del Congresso, ma questa manciata di seggi segnerà la dimensione storica di tale successo. Al momento, il GOP ha vinto in 244 collegi, contro i 18 dei democratici. Come abbiamo già evidenziato, quota 246 seggi rappresenta una soglia simbolica molto importante. Aspettiamo quindi ancora qualche giorno prima di stilare un bilancio definitivo delle elezioni per la House. Al Senato, invece, l’unica variabile è il seggio della Louisiana: le alternative possibili sono quindi solo due, ed assai facili da identificare.

    Riassumendo, dei 36 seggi in palio, i repubblicani ne hanno già conquistati 23, i democratici 12. La figura 1 riporta i vari Stati chiamati al voto, indicando l’appartenenza partitica del candidato vincitore insieme all’appartenenza del Senatore uscente.[1] Sul totale dei 36 seggi, ne servivano 21 al GOP per conquistare il controllo dell’assemblea, toccando quota 51. In attesa della Louisiana, i repubblicani sono già due vittorie sopra tale soglia, il che significa che avranno 53 o 54 Senatori nel prossimo Congresso, il 114°.

    Sempre nella figura 1 possiamo osservare come il GOP abbia strappato ai rivali democratici 8 seggi, senza cederne nessuno. I cambi di colore politico dei seggi della seconda classe senatoriale sono avvenuti in Alaska, Arkansas, Colorado, Iowa, Montana, Nord Carolina, South Dakota and West Virginia. In 4 casi (Alaska, Arkansas, Colorado e Nord Carolina) a venire sconfitto è stato il Senatore uscente democratico. Sempre in attesa della Louisiana. Ricapitolando, nessuno swing è avvenuto quindi nel Nordest, mentre i democratici registrano perdite in tutte le altre regioni: 3 ad Ovest e nel Sud, 2 nel Midwest.

    Più in generale, possiamo osservare come i repubblicani abbiano vinto tutti quasi tutti i seggi in palio al Sud: 13 su 15, venendo sconfitti solo nelle porzioni più nordorientali della regione, attorno alla capitale federale (Delaware e Virginia). I democratici, al contrario, vincono quasi tutti i – pochi – seggi del Nordest: 4 su 5. Solo la Collins in Maine ha vinto per i repubblicani – era anche l’unico incembent del GOP nella regione. Sia nel Midwest che nel West i repubblicani hanno conquistato la maggioranza dei seggi, in contesti assai più competitivo: 4 contro i 3 dei democratici nel primo caso, 5 a 3 nel secondo.

    Fig. 1 – Mappa del risultato elettorale al Senato

    Dopo avere visto la geografia del risultato 2014, nella figura 2 possiamo osservare quale sarà la composizione partitica delle delegazioni dei diversi Stati nel 114° Congresso. Come detto, al momento sappiamo che vi saranno 53 Senatori repubblicani, 44 democratici e 2 indipendenti iscritti fra i democratici. Se, per semplicità, contiamo gli indipendenti fra i democratici, abbiamo al momento un totale di 19 Stati con una delegazione interamente appartenente al GOP, 16 Stati con due Senatori democratici e 14 Stati con delegazioni miste.

    Guardando alla composizione partitica per macroaree, possiamo dire che i democratici hanno mantenuto invariata la propria posizione di predominio nel Nordest, dove i repubblicani continuano ad esprimere un sesto appena dei Senatori (3 su 18). Hanno invece perso il vantaggio numerico fra i 26 seggi dell’Ovest, che sono oggi equamente divisi fra i due partiti. Nell’attuale Congresso sono democratici la metà dei Senatori del Midwest, nel prossimo lo sarà meno del 40% (10 su 24). E poi c’è  il Sud, che da solo pesa un terzo del Senato (32 seggi). Nel prossimo Congresso appena un quarto dei Senatori di questa regione saranno democratici. E’ forse questo il dato più impressionante che la figura mette in risalto: a sudovest della Virginia, sui 23 seggi già assegnati per il prossimo Congresso, appena uno è detenuto da un democratico: Nelson in Florida. Gli altri 22 sono tutti repubblicani.

    Fig. 2 – Composizione partitica delle delegazioni in Senato dei 50 Stati nel prossimo Congresso

    Venendo all’analisi del risultato elettorale, cominciamo col dire che si sono verificate le previsioni della vigilia. Qualche settimana or sono, avevamo azzardato una previsione in 31 seggi sui 36 totali, lasciandone 5 come vere e proprie sfide impronosticabili. Ebbene, in 30 istanze su 31 il nostro pronostico  si è rivelato esatto. Solo in Nord Carolina, la senatrice democratica uscente, Hogan, è stata sconfitta a sorpresa – ma non poi così tanto: noi stessi non l’avevamo considerata fra le sfide già chiuse e negli ultimi giorni la sua rielezione appariva sempre più incerta.

    La sconfitta della Hagan è forse il risultato più sorprendente, ma l’unico. Ad esempio, il seggio della Virginia è stato confermato dai democratici, ma l’incumbent Warner ha dovuto aspettare che venissero contate le ultime schede per potere celebrare una vittoria che sembrava abbastanza scontata alla vigilia. Tanto che, probabilmente, una quota rilevante di elettori democratici non si  recata alle urne nella convinzione che non fosse necessario il proprio voto per la vittoria del candidato preferito. E anche le risorse di partito non sono certo state concentrate in questa sfida che, alla fine, è risultata la più ravvicinata.

    Come detto, comunque, i pronostici sono stati generalmente rispettati. E queste elezioni si sono giocate nelle  sfide chiave che avevamo individuato alla vigilia. In attesa del ballottaggio in Louisiana, in questi cinque casi cruciali, i repubblicani hanno già vinto 4 seggi, mentre i democratici nessuno. E solo in Colorado la corsa è stata davvero serrata; in Iowa, Kansas e Georgia i candidati repubblicani hanno prevalso con margini compresi fra gli 8 e gli 11 punti percentuali.

    Possiamo quindi sintetizzare dicendo che la vittoria del GOP nasce dal fatto che i candidati repubblicani siano riusciti a vincere in tutte le sfide più incerte e combattute, e anche a rendere al fulmicotone alcune sfide  –  tutte concentrate nel Sud del paese – in cui i democratici sembravano più o meno in controllo, riuscendo perfino a vincerne una (in Carolina del nord, per l’appunto).

    Per comprendere meglio il quadro dei risultati, nella tabella 1 mostriamo il dettaglio di ciascuna delle 36 sfide. I 35 candidati repubblicani – eccezion fatta per Sessions in Alabama che ha corso senza rivali – hanno ottenuto mediamente la maggioranza assoluta dei consensi: il 52%. I 34 candidati democratici – escludendo quindi l’indipendente Orman – si sono fermati al 43.8. Lo scarto medio in favore dei repubblicani è quindi pari ad un ragguardevole 8% abbondante.

    Il tasso di rielezione degli incumbent si è confermato assai elevato: l’86%. Se anche la Landrieu dovesse perdere, sarebbe comunque pari all’80%. Bisogna però sottolineare come questo dato non sia affatto uniforme fra i due partiti. Infatti i repubblicani hanno visto rieletti tutti i propri incumbent: 11 su 11. I democratici, al contrario, hanno già visto sconfitti 4 dei propri incumbent. Presentano un tasso di rielezione straordinariamente basso. Già adesso è poco superiore al 70; se poi dovesse essere persa la Louisiana, scenderebbe ai due terzi esatti.

    Se ai 4 incumebent sconfitti sommiamo gli 8 open seats, abbiamo un totale di 12 matricole che entreranno nel nuovo Congresso, un terzo esatto dei 36 seggi assegnati nel 2014[2]. Potrebbero poi diventare addirittura 13 se Cassidy sarà eletto in Louisiana. Di questi 11 sono i repubblicani, mentre l’unico volto nuovo in Senato fra le fila democratiche è Peters, eletto in Michigan.

    L’anzianità media di servizio per i 35 Senatori già eletti è esattamente pari a 8 anni. Sfiora i 9 per i 23 Senatori repubblicani. Supera di poco i 6 per i 12 democratici. Nonostante i molti esordienti, i repubblicani esprimono infatti anche i due Senatori con la più alta anzianità di servizio nella seconda classe: McConnell è stato eletto per la sesta volta in Kentucky, Cochran in Mississippi addirittura per la settimana. Nessun altro Senatore eletto ha alle spalle più di tre mandati. Dall’altra parte, i democratici hanno fra le loro fila 5 Senatori eletti su 12 con meno di un mandato completo alle spalle. Il risultato della Louisiana produrrà comunque un leggero riequilibrio su questo piano: la media democratica toccherà i 7 anni se la Landrieu riuscirà ad ottenere un quarto mandato, in caso contrario l’anzianità media di servizio per i Senatori eletti repubblicani scenderà ad 8,6 anni.

    I repubblicani si aggiudicano poi entrambe le contese tutte rose: in Maine l’incumbent Collins ha più che doppiato la sfidante democratica Bellows. Non troppo meglio  è andata comunque alla Tennant contro la Moore Capito in West Virginia. In totale sono 4 le Senatrici elette nella seconda classe per il 114° Congresso – in attesa di conoscere il destino della Landrieu. Si tratta del medesimo numero della precedente legislatura. Da notare, però, l’inversione nella composizione partitica della rappresentanza femminile. Se le incumbent erano tre democratiche, con la sola Collins per i repubblicani; comunque vada in Louisiana, nel prossimo Congresso la maggior parte delle Senatrici della seconda classe saranno repubblicane. Questa classe resterà comunque quella con la più bassa rappresentanza femminile. Ma non così per il GOP, che avrà appena 6 Senatrici in tutto, ma la metà di queste proverranno dalla seconda classe.

    Tab. 1 – Le 36 competizioni elettorali del 2014 per un seggio in Senato: risultati elettorali

    Abbiamo fin qui indagato i primi due aspetti richiamati dal nostro titolo: dove e come si sono verificati i successi repubblicani che sono costati al partito del Presidente la maggioranza del Senato, rendendolo a tutti gli effetti un’anatra zoppa di qui alla fine della sua amministrazione. Nel concludere questo articolo, cerchiamo adesso di rispondere al terzo punto indicato nel titolo, andando alla ricerca delle ragioni dell’esito elettorale osservato e fin qui descritto.

    Il punto centrale attorno a cui ruota la comprensione del risultato elettorale sembra essere il malcontento nei confronti del Presidente. Certo, se meno di 50,000 elettori fra Alaska, Colorado e Nord Carolina avessero dato fiducia agli incumbent democratici, invece di preferire loro gli sfidanti repubblicani, il controllo del Senato sarebbe ancora in palio nel ballottaggio della Louisiana e il quadro complessivo assai diverso. Tutte e tre queste sfide sono state perse con margini percentuali contenuti fra il punto e mezzo ed i tre punti. Ma per come stanno le cose, il risultato elettorale nel suo complesso appare come un vero e proprio voto contro il Presidente.

    La sconfitta democratica non è infatti circoscritta, come i vertici di partito si auguravano alla vigilia, ad un qualche arretramento nelle due Camere – auspicabilmente senza perdere il controllo del Senato -, in parte giustificabile alla luce della sfavorevole composizione degli Stati al voto per il Senato e del tradizionale arretramento a midterm del partito del Presidente. Investe pienamente anche le corse per i mandati a Governatore: i repubblicani sono infatti riusciti non solo a replicare il risultato ottenuto nel 2010 sotto la spinta del Tea Party, ma hanno guadagnato 3 ulteriori amministrazioni statali, vincendo in 27 elezioni su 38. Un’ondata repubblicana che attraversa tutto il paese. Anche nelle elezioni per le assemblee legislative degli Stati, infatti, i repubblicani registrano un successo senza precedenti in epoca moderna. D’altronde, la popolarità di Obama è ormai stabilmente attorno a quella quota 40%, che nella storia americana rappresenta un chiaro presagio di sconfitta elettorale.

    Eppure, a ben guardare, la situazione economica del paese non pare poi così negativa, soprattutto se vista attraverso le lenti di quella italiana. Ma dai sondaggi degli ultimi mesi emerge sempre più con chiarezza che la maggioranza degli elettori non crede più al sogno americano, alla possibilità di farsi strada e garantirsi un futuro di prosperità economica per la propria famiglia attraverso il duro lavoro.  Oggi la classe media d’oltreoceano fronteggia un qualcosa che a noi appare assai familiare: la prospettiva di non riuscire a far avere ai propri figli la stessa qualità della vita di cui ha potuto godere.

    I successi, per quanto parziali, sul piano economico non sono comunque gli unici risultati raggiunti nei primi sei anni di presidenza Obama. Certo, la riforma sanitaria non sarà stata rivoluzionaria, ma rappresenta pur sempre un miglioramento notevole delle condizioni di vita per milioni di americani. Obama ne è stato l’artefice. E’ la sua amministrazione che ha scovato Bin Laden e ritirato le truppe da Iraq e Afghanistan. Eppure la sua presidenza rischia di passare alla storia come una delle più incolori, infruttuose e impopolari, per lo meno fra quanti hanno ricevuto due mandati alla Casa Bianca. Come è possibile una simile impopolarità per un Presidente non poi così inconcludente?

    Per venire a capo di questo rompicapo dobbiamo necessariamente guardare ai successi elettorali di Obama, e alla sua straordinaria capacità di mobilitare un elettorato profondamente sfiduciato. Questi si è presentato nel 2008 e poi ancora nel 2012 come il volto nuovo, l’uomo del cambiamento. Colui che, una volta ricevuta l’investitura popolare, avrebbe trasformato la politica di Washington verso la quale la stragrande maggioranza degli americani guarda con distacco se non disgusto. Avrebbe dovuto sconfiggere le lobby e Wall Street per riportare al centro l’interesse collettivo e contrastare la crescente diseguaglianza di reddito. Ecco, è qui che si radica la sua sconfitta: non c’è riuscito. E ormai ha anche l’atteggiamento corporeo di chi ne è consapevole: nelle sue più recenti uscite pubbliche pare più un cane bastonato che non il consueto guerriero politico.

    Promettere quei cambiamenti lungamente attesi e agognati sembra essere la strada maestra per il successo elettorale, soprattutto di fronte a diffuso malcontento. D’altro canto, fallire nel realizzare le radicali riforme prospettate, appare come un percorso altrettanto diretto verso la disillusione e la sfiducia dei propri stessi elettori. In fondo, non è certo una novità che chi suscita grandi aspettative deve necessariamente confrontarsi col problema di mantenerle, in politica come nella vita in genere.

    Chissà che a Roma non debba cominciare a preoccuparsi qualche altro politico che ha costruito uno straordinario consenso attorno alla propria figura promettendo un radicale cambiamento di una classe politica assai impopolare, ed altre riforme di policy largamente ragionevoli e apprezzabili, ma non certo di semplice realizzazione…


    [1] In Oklahoma e Sud Carolina, per via di elezioni suppletive, sono stati eletti entrambi i Senatori dello Stato. Per questo nella mappa tali Stati sono tagliati a metà da una linea trasversale nera: l’intero territorio dello Stato rappresenta in questi casi i due seggi senatoriali; ciascuna porzione, invece, un singolo seggio. In entrambi questi Stati i repubblicani hanno fatto bottino pieno, aggiudicandosi ambedue i seggi.

    [2] A questi dovrebbero sommarsi anche il democratico Schatz alle Hawaii ed il repubblicano Scott in Sud Carolina, che non sono degli esordienti in Senato, ma vi sono stati eletti per la prima volta. Infatti erano divenuti membri durante il 113° Congresso a seguito di nomina governatoriale in supplenza. I entrambi i casi sono adesso stati eletti per completare un mandato della terza classe, che sarà rinnovato nel 2016.

     

  • Verso le midterm elections: la situazione di partenza al Senato

    di Aldo Paparo

    Dopo avere presentato le prossime elezioni legislative per la House of Reprentatives, in questo articolo ci concentriamo sulle competizioni per il Senato. Queste segneranno il centenario dell’elezione diretta dei Senatori. Fino al 1914, infatti, erano selezionati attraverso la procedura prevista originariamente della Costituzione, ovvero venivano eletti indirettamente dagli organi legislativi degli Stati.

    Dopo le elezioni di due anni fa, i democratici hanno mantenuto la maggioranza segnando una avanzata marginale rispetto al 2010: due seggi netti in più, per un totale di 53, cui si devono aggiungere i due indipendenti iscritti nel loro gruppo. I Repubblicani si sono invece fermati a 45 Senatori, contro i 47 della precedente legislatura.

    La figura 1 presenta il quadro della composizione attuale del Senato disarticolata per Stato. Possiamo osservare come in due Stati la delegazione senatoriale comprenda un Senatore indipendente, presentatosi alle elezioni senza il sostegno di alcun simbolo di partito: ciò avviene in Maine e Vermont. Come abbiamo già detto, entrambi questi Senatori sono iscritti al gruppo dei democratici. Se li contiamo fra i democratici, abbiamo 19 Stati con due Senatori democratici, 14 Stati con due Senatori repubblicani e 17 Stati con una delegazione mista.

    Gli Stati blu sono concentrati nell’estremità occidentale del paese – incluse le Hawaii -, e nel nordest allargato. A nord della Carolina, infatti, i repubblicani esprimono al momento solo 3 Senatori su 22: uno in Maine, uno in New Hampshire e uno in Pennsylvania. Delegazioni tutte democratiche arrivano anche dalla regione dei laghi (Michigan e Minnesota) e lungo la verticale che dal New Mexico porta al Montana, passando per il Colorado ma con l’eccezione del Wyoming.

    Le delegazioni interamente repubblicane sono concentrate nel cuore del Sud. A sudovest della Virginia, i democratici hanno oggi appena 4 Senatori su 24 nel Sud, uno a testa per Florida, Nord Carolina, Arkansas e Louisiana. Stati rossi si trovano poi nel Midwest più occidentale e in buona parte del West, con la rilevante eccezione degli Stati pacifici.

    Fig. 1 – Composizione partitica delle attuali delegazioni in Senato dei 50 Stati

    Come possiamo osservare nella figura 2, in questo 2014 al Senato sono in tutto in palio 36 seggi in 34 Stati[1]. Di questi, 21 sono attualmente in mano a democratici, 15 ai repubblicani. Fra i Senatori uscenti appena 4 su 36 (il 9%) sono donne, di cui tre nelle file democratiche[2].

    I rimanenti 64 seggi sono 32 per i democratici, 30 per i repubblicani e 2 di indipendenti iscritti nel gruppo dei democratici. Ciò significa che i repubblicani, per controllare effettivamente il Senato devono conquistare 21 dei 36 seggi in palio, avanzando quindi di  6 seggi netti[3]. Dall’altra parte i democratici devono quindi vincere almeno 16 seggi per mantenere il controllo dell’assemblea: possono quindi permettersi di subire un arretramento, purché sia contenuto entro i 5 seggi netti persi.

    Scendendo in dettaglio, nelle 33 competizioni ordinarie per i mandati di sei anni della seconda classe, ci sono 26 incumbent ai nastri di partenza (ovvero il 79%). Di questi 15 sono democratici (il 75% degli uscenti di tale partito), mentre 11 sono repubblicani (l’85%).  Tutte e quattro le Senatrici della seconda classe sono in corsa per un nuovo mandato.

    L’anzianità di servizio media di questi 26 Senatori è appena superiore ai 12 anni, ovvero 2 mandati pieni. Quasi la metà di loro (12) cerca in questo 2014 il proprio secondo mandato. Nove dei dieci Freshman dell’ultima elezione della seconda classe, nel 2008, sono di nuovo in campo. Solo Johanns in Nebraska lascia dopo un solo mandato.

    Per arrivare ai 12 Senatori in cerca della prima rielezione, dobbiamo includere anche i tre particolarmente freschi di nomina, che non sono entrati in Senato insieme agli altri sei anni or sono. Vediamo come. Nel Delaware sei anni fa il seggio fu vinto per la settima volta da Biden, che nelle stesse elezioni era anche candidato alla vicepresidenza e non poté quindi esercitare il mandato. Dopo una supplenza biennale di un collaboratore di Biden (Ted Kaufman), nell’election day 2010 il democratico Chris Coons è stato eletto per completare il mandato: è quindi in carica da soli 4 anni. Ancor più junior gli altri due Senatori eletti dopo il 2008: entrambi sono entrati a far parte dell’assemblea nel corso del 2013, a seguito di elezioni speciali: in Massachusetts per sostituire Kerry, nominato Segretario di Stato da Obama nel Cabinet del suo secondo mandato; in New Jersey per rimpiazzare il defunto Lautenberg.

    Tutti e tre questi Senatori con un’anzianità di servizio inferiore al mandato completo sono democratici. Dall’altra parte, i repubblicani contano tutti e tre i Senatori nuovamente candidati con più di tre mandati alle spalle. I democratici vedono infatti ritirarsi i tre Senatori in carica da più tempo del proprio gruppo. Sarà anche per questo che l’anzianità di servizio media dei Senatori democratici che si ricandidano è meno della metà di quella dei repubblicani: esattamente 8 anni contro i 18 abbondanti dei colleghi. Curiosamente è l’opposto di quanto si osserva per gli incumbent della Camera: lì i democratici sono mediamente in carica da più tempo.

    Completano il quadro dei 33 seggi della seconda classe regolarmente al voto i sette open seats, un quinto abbondante del totale (21%): cinque di questi erano precedentemente in mano a democratici, mentre solo in Georgia e Nebraska Senatori repubblicani non si ricandidano.

    Le tre elezioni suppletive rimpiazzano due repubblicani e un democratico. In un solo caso il seggio è davvero open: in Oklahoma, dove le dimissioni di Cuborn (R) diventano operative alla fine dell’anno. Alle Hawaii e in Sud Carolina, i supplenti nominati dai Governatori al posto del defunto Inouye (D) e del dimissionario DeMint (R) – ormai in carica da quasi due anni, anche se non sono mai stati eletti in Senato[4]– sono entrambi in corsa per venire eletti e completare i rimanenti due anni dei mandati della terza classe.

    Fig. 2 – Mappa delle 36 competizioni elettorali del 2014 per un seggio in Senato: partito di appartenenza e ricandidatura o meno del Senatore uscente 

    La tabella 1 riporta l’elenco delle 36 elezioni senatoriali cui stiamo per assistere. Mostra come nei due terzi delle contese elettorali i giochi sembrino ormai decisi. Possiamo infatti considerare assegnati 14 seggi a candidati repubblicani e 10 a candidati democratici. Di questi 24 seggi, 22 confermano il precedente colore politico. Solo in West Virginia e Montana appare assodato il cambio di colore da blu a rosso. E sono entrambi open seats. Ciò significa quindi che nessun Senatore uscente appare già sconfitto, e che tutti gli incumbent in questi 24 elezioni sono “certi” della rielezione. Questi sono 18, cui vanno sommati i due supplenti in Sud Carolina e Hawaii. Sono quindi quattro i Freshmen già sicuri di entrare in Senato, che andranno tutti ad occupare un open seat. Sono tutti repubblicani e tre li loro servono attualmente come deputati per uno dei distretti dello Stato che si apprestano a rappresentare.

    Veniamo per un momento ai due probabili cambi di colore cui accennavamo poc’anzi. In West Virginia si ritira dopo cinque mandati Jay Rockfeller. Entrambi i seggi senatoriali dello Stato appartengono ai democratici dai tempi di Eisenhower, ma il clima politico sembra ormai maturo per lo storico cambio di colore. Lo Stato si  è infatti lentamente spostato verso il GOP, tanto che nel 2012 Romney ha sconfitto Obama in tutte le sue contee. La repubblicana Shelley Moore Capito dovrebbe quindi aumentare l’esigua rappresentanza femminile in Senato.

    In Montana Max Baucus ha lasciato vacante il suo seggio dopo 35 anni in febbraio, quando è stato nominato da Obama ambasciatore in Cina. Il suo sostituto, John Walsh ha dovuto ritirare la propria candidatura dopo avere vinto le primarie a seguito di uno scandalo, e la candidata scelta dal partito all’ultimo minuto (la deputata statale Amanda Curtis) appare nettamente in ritardo nei sondaggi.

    Fra questi 24 seggi “già assegnati”, le donne sono appena 2 (l’8%): oltre alla Moore Capito, solo la Collins nel Maine può dirsi sicura della rielezione.

    Nei rimanenti dodici Stati si decideranno le sorti di queste elezioni. Nove esprimono al momento Senatori democratici, tre sono invece i repubblicani. Se accettiamo le previsioni sulle altre 24 contese, il GOP ha bisogno di sette vittorie fra questi dodici seggi competitivi per strappare la maggioranza ai democratici. Per il partito del Presidente è invece sufficiente pareggiare in questo insieme ristretto per mantenere il controllo del Senato. Vediamo nel dettaglio queste cruciali competizioni.

    Otto di esse vedono in campo il Senatore uscente per la rielezione, in sei istanze questi è un democratico. Sono quattro invece gli open seats nella nostra selezione di casi competitivi; fra questi, tre vedono ritirarsi un Senatore democratico.

    Concentrandosi su questi ultimi, i democratici dovrebbero riuscire a tenere il seggio del Michigan, mentre appare assai probabile il cambio di colore a favore dei repubblicani in Sud Dakota. In Georgia e Iowa le sfide sembrano più aperte, ma i candidati del GOP appaiono in entrambi i casi in leggero vantaggio. In quest’ultimo caso sarebbe una donna ad entrare in Senato e strappare il seggio ai democratici: Joni Ernst. Lo stesso accadrebbe – una nuova donna in Senato – se i democratici, con Michelle Nunn, dovessero alla fine strappare ai repubblicani il seggio della Georgia; o se viceversa i repubblicani dovessero vincere in Michigan con Terri Lynn Land.

    I due incumbent repubblicani nei 12 seggi competitivi non sembrerebbero dovere avere particolari insidie ad ottenere un rinnovo dei propri, già più volte confermati, mandati in stati profondamente rossi, e in quest’elezione che si preannuncia favorevole al proprio schieramento. Così non è: cerchiamo di capire come mai. In Kentucky McConnell insegue la sua quinta rielezione. E’ quindi in sella da 30 anni ed è il capogruppo repubblicano in Senato da dopo le elezioni 2006. E’ un uomo di 72 anni che ne avrà 78 quando scadrà il mandato di cui va in cerca. I tempi sembrano maturi per un avvicendamento. Già nel 2008 ha fatto registrare un risultato elettorale piuttosto magro, se comparato con i propri migliori. Ancor più preoccupante è il 60% con cui ha riconquistato la nomination repubblicana alle primarie: si tratta del risultato più basso in Kentucky per un incumbent dal 1938, a prescindere dal partito. A sfidarlo è la trentacinquenne segretario di Stato del Kentucky Alison Lundergan Grimes. In ogni caso, la rielezione dell’anziano incumbent repubblicano appare più probabile della sua sconfitta[5].

    Completamente incerto è invece il destino del collega di partito del Kansas, il settantottenne Pat Roberts. Questi cerca in novembre il suo quarto mandato, e sei anni or sono ha vinto con quasi 25 punti di scarto sullo sfidante democratico. Il punto è che stavolta la concorrenza non viene dal tradizionale competitor. Ad insidiare il suo seggio è un candidato indipendente, per far posto al quale i democratici hanno ritirato la propria candidatura. Il candidato in questione si chiama Greg Orman ed i sondaggi lo danno alla pari di Roberts. Questi è divenuto uno dei protagonisti di queste elezioni. Si tratta di un quarantacinquenne nativo del Montana, laureato in economia a Princeton, ed imprenditore di notevole successo. E’ stato registrato come elettore repubblicano all’inizio della sua età adulta, in seguito si è registrato come democratico, ed è registrato senza affiliazione partitica dal 2010. Sostiene di avere votato Obama nel 2008 e Romney nel 2012. Ha lavorato per la campagna presidenziale di Bush nel 1988 ma ha votato il suo assassino elettorale del 1992 – e kingmaker di Clinton –, Ross Perot. Insomma, un vero e proprio enigma. Ha fondato la Coalizione per il Buonsenso e si propone come un “centro ragionevole”. Il grande dilemma è rappresentato dal partito nel cui gruppo si iscriverà se dovesse essere eletto. A precisa domanda ha risposto che si iscriverà con il partito che avrà la maggioranza, perché ciò è nel massimo interesse del Kansas. E se la sua scelta dovesse essere decisiva per attribuire all’uno o all’altro la maggioranza, chiederà a entrambi i partiti di impegnarsi sulle riforme che più gli stanno a cuore (immigrazione e fisco in primis) e si iscriverà con chi accetterà di portarle avanti. Ha anche dichiarato che non avrebbe timore di cambiare affiliazione nel corso della legislatura, rovesciando quindi la maggioranza, se si dovesse accorgere che il partito cui si è iscritto fa la “vecchia politica”.

    I sei incumbent democratici nei nostri 12 collegi competitivi affrontano sfide dai coefficienti di difficoltà variabili. In Alaska e soprattutto in Arkansas la situazione appare quasi disperata per Begich e Pryor. Le colleghe Jeanne Shaheen e Kay Hagan dovrebbero invece riuscire a mantenere I propri seggi in New Hamsphire e Nord Carolina, conquistandosi un secondo mandato. Anche Mark Udall in Colorado è in corsa per un secondo mandato: al momento non si può definirlo front-runner, ma appare pienamente in corsa in una delle sfide più difficili da pronosticare, che lo vede opposto al repubblicano Cory Gardner.

    L’ultima sfida, del tutto sui generis, si svolge il Louisiana. La particolarità sta nel sistema elettorale. Qui infatti non si hanno primarie di partito: tutti i candidati si presentano direttamente alle elezioni. Se nessuno ottiene la maggioranza assoluta dei voti validi, si procede al ballottaggio fra i due candidati più votati. L’incumbent democratica, Mary Landrieu, è alla ricerca del suo quarto mandato. Solo nel 2008 ce l’ha fatta al primo turno, nelle due precedenti circostanze ha dovuto ricorrere al ballottaggio. Al momento appare improbabile che possa conquistare il seggio il prossimo 4 novembre: i sondaggi la accreditano in testa, ma attorno al 40%. Al contempo, appare del tutto incerto come potrebbe finire il quasi sicuro ballottaggio.

    Tab. 1 – Le 36 competizioni elettorali del 2014 per un seggio in Senato: anzianità di servizio dei Senatori uscenti, principali candidati e possibile esito

    Tirando le somme, fra i dodici seggi competitivi che abbiamo segnalato, ne abbiamo 3 con i democratici in testa, 4 con i repubblicani avanti e 5 con i due candidati principali più o meno appaiati. Queste sono le partite chiave di questa tornata elettorale: Colorado, Georgia, Iowa, Kansas e Louisiana. Se accettiamo che quest’ultimo Stato andrà al ballottaggio, consideriamo che i candidati leggermente in vantaggio porteranno a casa gli altri 7 seggi competitivi, e ipotizziamo che i repubblicani vincano due delle rimanenti quattro sfide chiave – e altrettante se le aggiudichino candidati democratici -, la sera delle elezioni ci troveremmo di fronte al seguente scenario: i repubblicani hanno 50 seggi, i democratici – includendo i 2 indipendenti – 49. Tutto sarebbe deciso il 6 Dicembre nel ballottaggio della Louisiana fra la Landrieu e il più votato dei suoi sfidanti repubblicani, che al momento sembra poter essere il Congressman del sesto distretto Bill Cassidy. Un mese di fuoco sotto i riflettori nazionali attenderebbe il piccolo Stato del Sud[6], con tutti gli occhi della nazione ad osservarne la campagna elettorale per il ballottaggio.

    E non abbiamo inserito in questa equazione la variabile Orman. Se dovesse essere eletto, la maggioranza del Senato potrebbe restare in bilico fino alla convocazione del 114° Congresso nel prossimo gennaio. E, chissà, essere messa in discussione nel corso della legislatura.

    Un ulteriore fattore potrebbe poi stravolgere tutti i calcoli: abbiamo detto come al momento in Senato vi siano due indipendenti iscritti fra i democratici. Il rappresentante del Vermont, Bernie Sanders, è un autodichiarato socialista che propugna un sistema di welfare scandinavo. E’ probabilmente il Senatore più di sinistra di tutta l’aula e non si iscriverebbe mai al gruppo dei repubblicani. Lo stesso non può dirsi per Angus King del Maine. Questi è entrato in Senato due anni or sono, sconfiggendo sia un democratico che un repubblicano, e per tutta la campagna elettorale ha rifiutato di dichiarare in che gruppo si sarebbe iscritto se avesse vinto il seggio. Una volta eletto si è iscritto fra i democratici dicendo che non poteva non iscriversi ad un gruppo per via delle assegnazioni alle Commissioni, e che iscriversi col partito di maggioranza aveva molto più senso. Naturalmente potrebbe non essere più così dopo queste elezioni e quindi potrebbe cambiare la propria affiliazione nel 114° Congresso.

    Come avrete ormai avuto modo di comprendere, i molteplici possibili incastri dei vari pezzi del puzzle senatorio che abbiamo delineato ci portano in complicati scenari fantapolitici, dai quali potremmo non riemergere più se ci dovessimo addentrare troppo. Quel che è certo è che il controllo del Senato balla sul filo di lana. E con esso anche i margini di iniziativa politica di Obama per i prossimi due anni.


    [1] Abbiamo già spiegato come i 100 seggi del Senato siano divisi in tre classi, una delle quali vota ogni due anni e ciascuna delle quali ogni sei. Nel 2014 è chiamata al voto la seconda classe, costituita da 33 seggi. A questi si aggiungono tre elezioni suppletive per tre seggi della terza classe, i cui vincitori vedranno scadere il proprio mandato nel 2016. Alle Hawaii, in Oklahoma e in Sud Carolina i Senatori eletti nel 2010 non concludono il relativo mandato: nel primo caso per via del decesso, negli altri due a seguito di dimissioni volontarie. Ecco perché accade che due stati – Oklahoma e Sud Carolina – votino contemporaneamente per entrambi i seggi al Senato, nonostante ciascuno Stato abbia i suoi due seggi divisi in due classi distinte. Fatto quest’ultimo che consente di avere sempre un Senatore più anziano e uno più giovane fra i due dello Stato.

    [2] La seconda classe è quella con la più bassa rappresentanza femminile. Nel 113° Congresso le donne il Senato sono 20, e si tratta del massimo numero nella storia. Ben 11 provengono dalla prima classe (un terzo esatto del totale), rinnovata più recentemente nel 2012, quando 5 nuove donne hanno conquistato un seggio. Cinque sono le Senatrici nella terza classe (il 15%), e solo, appunto, quattro provengono dalla seconda classe (ovvero il 12%). Se poi guardiamo ai due diversi schieramenti, i democratici esprimono 16 Senatrici (il 30% del proprio gruppo, se escludiamo gli indipendenti), i repubblicani 4 (l’8%).

    [3] Infatti, in caso di parità in una votazione, con 50 Senatori a favore e 50 Senatori contrari, il Vicepresidente Biden, che formalmente presiede l’assemblea, avrebbe la possibilità di sciogliere l’impasse, esprimendo in via eccezionale il proprio  voto (cfr. Costituzione, 1.3.4).

    [4] Ancora una volta possiamo intuire una delle specificità statali relativamente agli organi legislativi federali. In alcuni Stati, come ad esempio alle Hawaii, la legge statale delega al Governatore la nomina dei supplenti, che restano in carica come tali fino al successivo election day nel primo martedì di novembre del successivo anno pari. In altri Stati, fra cui il New Jersey, l’interim è assai più breve e serve a coprire i tempi dei svolgimento delle primarie e dell’elezione suppletiva.

    [5] Decisivo potrebbe essere il ruolo del candidato del Partito Libertario, l’ufficiale di polizia David Patterson. Questi è accreditato dai sondaggi di una percentuale di intenzioni di voto significativa per quanto marginale (fra il 3 e il 5%). In una competizione uninominale così serrata quale si preannuncia quella fra la Grimes e McConnell, i suoi voti potrebbero risultare decisivi. Già trenta anni fa, in occasione della sua prima elezione in Senato di McConnell, un candidato minore ebbe un ruolo chiave. L’attuale Senatore repubblicano vinse infatti di circa 5.000 voti sull’allora incumbent democratico Huddleston, mentre il candidato del Partito Socialista dei Lavoratori ne raccolse circa 7.500.

    [6] Vi risiede, infatti, meno dell’1,5% del totale della popolazione statunitense: una dimensione analoga a quella dell’Umbria in Italia.

  • Verso le midterm elections: la situazione di partenza alla Camera

    di Aldo Paparo

    Come abbiamo già avuto modo di segnalare, siamo ormai alle porte delle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. In questo articolo presentiamo con maggiore dettaglio l’imminente tornata per la House of Representatives.

    Tale assemblea sarà rinnovata completamente: tutti i suoi 435 seggi saranno assegnati per nuovi mandati biennali. In occasione del suo più recente rinnovo, due anni fa, i repubblicani hanno conquistato 234 seggi, contro i 201 dei rivali democratici. La figura 1 mostra la mappa del risultato elettorale del 2012: ciascuno dei 435 collegi elettorali è colorato di rosso o di blu a seconda del partito di appartenenza del candidato vincitore.

    Come si può osservare, la vittoria repubblicana appare assai estesa territorialmente. I successi democratici sembrano essere relegati in alcune aree ben individuabili: vincono infatti tutti i seggi in palio nel New England; quasi tutti lungo la costa pacifica e il confine con il Messico; e conquistano poi diversi collegi nel Midwest più settentrionale (fra Iowa, Wisconsin, Illinois e – soprattutto – Minnesota). Infine, il colore blu appare in misura non del tutto marginale negli Stati costieri del Sud. Per il resto il rosso delle vittorie repubblicane colora praticamente incontrastato la cartina.

    Fig. 1 – Mappa elettorale del risultato alla Camera nel 2012

    Uno sguardo sommario alla figura 1 restituisce però un’immagine un po’ diversa dalla realtà elettorale. Appare colorata di blu una porzione davvero ridotta della mappa, inferiore ad un quarto. Invece, come abbiamo detto, anche nella sconfitta del 2012 i democratici hanno comunque vinto oltre il 46% dei seggi. Naturalmente la concentrazione demografica nei grandi centri, unita alla maggiore forza relativa del partito dell’asinello nelle zone urbane del paese spiega questo squilibrio fra impressione visiva e risultato reale. Per comprendere al meglio l’attuale geografia elettorale statunitense, nella figura 2 i vari Stati sono colorati in funzione della composizione percentuale della propria rappresentanza alla Camera.

    Il colore rosso appare naturalmente sempre largamente predominante nella mappa, ma gli Stati blu non sono poi così pochi: 17 in tutto. Innanzitutto, si conferma il predominio democratico lungo il Pacifico e il confine messicano, stavolta però esteso agli interi Stati (5). Inoltre si allarga la porzione blu nel Nordest – con la sola eccezione della Pennsylvania -: conta infatti 9 Stati ed arriva fino a quelli attorno la capitale (Maryland e Delaware). Infine, nel Midwest, oltre al Minnesota, anche l’Illinois ha una maggioranza di deputati democratici. Sono tre gli stati che hanno diviso equamente la propria rappresentanza alla Camera fra i due partiti: Nevada, Iowa e New Jersey; ciascuno di essi si trova ai confini di una delle tre aree blu appena descritte. Se escludiamo le Hawaii, tutti gli altri Stati hanno mandato a Washington una compagine di deputati in maggioranza repubblicana: sono in tutto 30.

    Fig. 2 – I 50 Stati in base alla composizione partitica dei deputati eletti nel 2012

    Le ultime elezioni legislative, che hanno eletto il Congresso attualmente in carica, il 113°, hanno segnato i cento anni dell’attuale dimensione della Camera: infatti nel 1912 furono eletti per la prima volta 435 deputati[1]. La tabella 1 riporta il peso dei diversi Stati sul totale dell’assemblea a partire da tale fondamentale momento[2]. Ci consente di visualizzare agevolmente l’attuale composizione per Stati della Camera, ma anche di farci un’idea circa l’evoluzione demografica delle diverse zone del paese[3].

    Come possiamo osservare, la California è oggi lo Stato più rappresentato alla Camera, con 53 deputatati, ovvero il 12% del totale. E’ lo stato con più seggi da ormai oltre 40 anni, quando ha strappato il primato allo Stato di New York. Il numero dei deputati del grande Stato pacifico è cresciuto piuttosto stabilmente di circa 10 ogni 20 anni per i primi 80 del lasso considerato, ad indicare la prorompente crescita demografica osservata in tale periodo. Nelle ultime due rilevazioni censuarie, invece, l’aumento della popolazione californiana è stato sostanzialmente in linea con quello del resto del paese. Con il conseguente arresto della crescita della rappresentanza alla Camera. In ogni caso, il +42 nel numero di seggi alla Camera fatto registrare nel corso dell’ultimo secolo rappresenta la massima crescita in valore assoluto nel periodo considerato.

    La seconda compagine più numerosa proviene dal Texas, che può contare oggi su 36 seggi (l’8% dei 435 totali). Anche in qui si osserva un trend di costante crescita nel corso di tutto il secolo considerato, in questo caso particolarmente marcato negli ultimi trent’anni.

    Sul terzino gradino del podio si collocano due Stati a pari merito con 27 seggi ciascuno, ovvero il 6% dell’assemblea a testa. Questi sono la Florida e New York. Nel primo caso possiamo notare una crescita ancor più significativa di quella registrata in California. Il numero di seggi è più che sestuplicato nell’arco del periodo considerato, ad indicare una vera e propria esplosione del peso demografico della penisola atlantica sul totale della popolazione statunitense. Nel caso invece dello Stato di New York, si segnala una notevole diminuzione del numero di seggi attribuiti: nei primi anni Trenta erano ben 45, da allora ne sono stati persi il 40%. Il -18 che lo Stato di New York fa segnare fra 1932 e 2012 nel numero di Representatives rappresenta il massimo calo in valore assoluto in tale arco di tempo.

    Nessun altro Stato può oggi contare su almeno 20 seggi, per cui tutti i rimanenti 46 Stati pesano meno del 5% del totale della Camera. Segnaliamo comunque i tre Stati sopra i 15 deputati: l’Illinois e la Pennsylvania con 18, e l’Ohio con 16. Si tratta di tre Stati che hanno perso quote rilevanti dei propri seggi nell’arco del periodo di tempo considerato. In particolare, la Pennsylvania ha esattamente dimezzato i suoi 36 seggi di un secolo fa, facendo registrare il massimo calo in valore assoluto nel periodo 1912-2012.

    Vi sono poi 7 Stati che hanno un solo rappresentante alla Camera, eletto nell’intero Stato at-large, e che dunque hanno più Senatori – sui 100 totali – che deputati -su 435-. Questi sono: l’Arkansas, il Delaware, il Montana, il Nord e Sud Dakota, il Vermont e il Wyoming. Sono invece 5 gli Stati con due deputati, e quindi un pattuglia senatoriale di pari dimensione a quella alla Camera: le Hawaii, l’Idaho, il Maine, il New Hampshire e il Rhode Island.

    Guardando più in generale all’evoluzione nel corso del tempo del peso non già dei singoli Stati, ma delle macro-regioni che compongono gli Stati Uniti, alcune considerazioni meritano di essere fatte. Innanzitutto emerge il calo del Midwest. Tale regione può contare oggi su 94 seggi contro i 143 di un secolo fa: ha quindi perso 49 seggi, il 34% del suo peso nella composizione della Camera. Praticamente tutti gli Stati facenti parte di questa regione hanno perso seggi, quali più e quali meno. Solo il Michigan appare in crescita nel periodo 1912-2012 ma in realtà è in forte calo negli ultimi 40 anni. Il calo è particolarmente marcato nella zona occidentale della regione, dove è stata persa la metà dei seggi; mentre è più contenuto nel Midwest orientale (-24%).

    Ancora più grande appare il calo nella regione del Nordest. Se infatti in valore assoluto i seggi persi sono solo 45, questi rappresentano il 37% di quelli del 1912. Il calo è alquanto uniforme nelle due zone che compongono la regione: -34% nel New England e -37% nel medio Atlantico. In questo caso, però, non tutti gli Stati hanno perso seggi. Infatti un terzo dei novi Stati della regione (Connecticut, New Hampshire e New Jersey) hanno mantenuto i propri seggi originari.

    Nel Sud e nel West i seggi sono invece aumentati, ma con alcune differenze. La frontiera, crescendo in tutto di quasi 70 seggi, ha più che triplicato i propri deputati. La crescita è particolarmente marcata sul Pacifico, dove il numero di seggi è cresciuto del 373%, mentre è un po’ più ridotta nella zona delle montagne, dove comunque il numero totale di seggi è più che raddoppiato. In quest’ultima zona sono concentrati gli Stati occidentali che non hanno aumentato i propri seggi: il Montana, che è arretrato di 1, Idaho e Wyoming, che hanno mantenuto invariati i propri seggi. Tutti gli altri 10 Stati del West sono cresciuti in termini di seggi.

    Al Sud la crescita è meno marcata, con 25 seggi guadagnati in tutto, e non certo uniforme. Innanzitutto, la zona del Sudest centrale ha visto diminuire i propri seggi di 13 unità, da 39 a 26, perdendo quindi un terzo esatto dei suoi deputati. Tutti gli Stati di questa zona appaiono in calo. Il Sudovest centrale è invece cresciuto, anche se non prepotentemente: di circa un quarto, passando da 41 a 51 seggi. Infine, il Sud atlantico è sensibilmente avanzato: di 28 seggi, facendo registrare un +50% rispetto ai 56 originari. A dimostrazione della maggiore variabilità interna al Sud, segnaliamo anche come siano qui più frequenti segni diversi relativamente alla variazione del numero di seggi nell’arco del periodo considerato fra Stati della stessa zona. Particolarmente significativo il caso della zona occidentale: qui la crescita complessiva è data dal combinato disposto della notevole avanzata del Texas e dai concomitanti cali di Arkansas, Louisiana e Oklahoma. Ma anche nel Sud atlantico, nonostante la significativa crescita complessiva, il West Virginia ha dimezzato i propri seggi, mentre Sud Carolina e Delaware sono fermi ai seggi del 1912: è infatti la Florida il vero motore dell’avanzata dell’intera zona.

    Riassumendo, cento anni fra il West aveva appena il 7,5% dei seggi alla Camera, mentre le altre tre regioni pesavano in maniera sostanzialmente analoga: il 33% il Midwest, il 31% il Sud e il 28% il Nordest. Oggi il quadro appare alquanto cambiato: il Sud è largamente la regione più pesante dal paese: vale infatti il 37%. Le altre tre regioni sono invece piuttosto vicine fra loro: il West ha il 23% dei seggi, il Midwest il 22% e il Nordest il 18%.

    Abbiamo già segnalato lo straordinario tasso di crescita dei seggi registrato in Florida, che sfiora il 700%. Ebbene non si avvicina neppure al valore massimo, fatto segnare dall’Arizona. Questo Stato in mezzo al deserto è cresciuto al punto di avere moltiplicato per nove il proprio seggio degli anni Dieci. Sono in tutto cinque gli Stati che hanno più che raddoppiato i propri seggi: oltre a Florida, Arizona e California ci sono anche il Nevada e il New Mexico. A questi si aggiungono lo Utah, il Texas e lo stato di Washington che hanno esattamente raddoppiato i propri seggi del 1912.

    Dall’altra parte, per quanto riguarda il massimo calo di seggi assegnati, vi sono tre Stati che abbiano perso oltre la metà dei propri seggi: l’Iowa, sceso da 11 a 4, il Nord e il Sud Dakota da 3 a 1. Ad ogni modo, il calo massimo è ad un terzo del valore originario, assai più basso quindi degli aumenti più grandi. Vi sono poi ben 9 Stati che hanno esattamente dimezzato la propria pattuglia di deputati. Tutto questo indica un quadro di crescite molto concentrate in alcune aree ben localizzate (soprattutto in Florida, California e Texas, che insieme hanno guadagnato 83 seggi), cui fa da contraltare un calo più generalizzato nel resto del paese.

    Tab. 1 – Evoluzione del numero di seggi alla Camera assegnati ai diversi Stati nell’ultimo secolo

    Venendo adesso alle elezioni 2014, iniziamo col dire che quasi il 90% dei deputati eletti nel 2012 si ripresenta alle elezioni alla ricerca di un nuovo mandato: 388 in tutto. Di questi, 206 sono repubblicani contro i 182 democratici. Sarà interessante verificare quanti riusciranno a tornare a Capitol Hill: se si confermeranno i tradizionali tassi di rielezione, o se invece osserveremo un ricambio più marcato. L’anzianità di servizio media degli incumbent è pari a 10 anni, il che significa che hanno mediamente già vinto 5 elezioni. Per i candidati democratici è di circa 3 anni superiore: 11 anni e mezzo contro gli 8 e mezzo dei colleghi repubblicani.

    Sono quindi i tutto 47 gli open seats. In 41 casi sono gli stessi Representatives che hanno deciso di non ricandidarsi: o perché si ritirano, per lo meno temporaneamente, dalla vita politica – la maggior parte -; o perché alla ricerca di un avanzamento di carriera nel proprio cursus honorum – soprattutto un seggio in Senato. Di questi 41, 25 sono repubblicani e 16 democratici. Vi sono poi due seggi vacanti i cui rappresentanti, entrambi democratici, si sono dimessi nei primi mesi di quest’anno: North Carolina 12 e New Jersey 1. Completano il quadro degli open seats i 4 seggi lasciati liberi da deputati che intendevano correre per la rielezione ma sono stati sconfitti nelle primarie del proprio partito. Tre di questi sono repubblicani. Merita certamente una speciale menzione il caso di Eric Cantor. Cinquantenne rappresentate del settimo distretto della Virginia dal 2000, è il capogruppo dei repubblicani alla Camera da quando hanno riconquistato la maggioranza nel 2010[4]. Alle primarie dello scorso giugno, nonostante i sondaggi lo dessero avanti di 30 punti e la sua campagna sia costata quaranta volte quella del rivale, è stato sconfitto dal candidato del Tea Party Dave Brat. Cantor è così divenuto il primo capogruppo di maggioranza della Camera a venire sconfitto alle primarie dall’introduzione di tale carica, nel 1899.

    Quanto agli esiti della competizione elettorale, le previsioni elaborate da molteplici istituti di ricerca sono stabili e coincidenti nell’indicare che non vi siano molti dubbi circa quale partito avrà la maggioranza. Non lasciano infatti alcuna possibilità ai democratici di spuntarla. La vera questione – tutta politica – è quanto sarà largo il successo repubblicano. O, vista dall’altra parte, quanto i democratici saranno capaci di difendersi.

    A questo proposito possiamo individuare alcune specifiche soglie simboliche. Il primo fondamentale spartiacque è costituito dal risultato di due anni fa: 234 a 201. Non sarebbe certo un successo per i democratici, ma non essere arretrati a midterm sarebbe già un risultato difendibile. Diciamo che la partita sarebbe finita in parità, un risultato che comunque sorriderebbe ai repubblicani. Qualunque numero superiore ai 201 sarebbe un successo per i democratici, ma al momento ciò appare alquanto improbabile. Un secondo livello nella vittoria repubblicana sarebbe una replica dal risultato del 2010: sotto la spinta del Tea Party i democratici furono allora fermati a 193 deputati, mentre ben 242 furono i repubblicani. Ancora più il là vi è l’ultima soglia: 246 seggi. Questo rappresenta il massimo storico mai raggiunto dal GOP nel dopoguerra (nel 1946 per l’esattezza): se dovessero raggiungere o superare tale numero di deputati si tratterebbe di un vero e proprio trionfo totale per i repubblicani.

    Un’altra fondamentale soglia simbolica è rappresentata dal voto popolare complessivo. Due anni or sono, complice la concomitanza con le elezioni presidenziali che avrebbero consegnato ad Obama il suo secondo mandato, i candidati democratici, pur venendo sconfitti nella maggior parte dei collegi, raccolsero comunque un milione e mezzo di voti in più dei candidati repubblicani. Nel 2010, invece, quasi sei milioni di elettori in più votarono per candidati del GOP alla Camera. Naturalmente, questo elemento non conta per niente nella determinazione della composizione dell’Assemblea, ma il Presidente sarebbe in una posizione assai più forte se potesse ancora sostenere di avere ancora la maggioranza degli elettori dalla sua parte.

    Il partito che esprime il Presidente perde in media oltre 25 seggi seggi nelle elezioni di midterm in tutto il dopoguerra. Se ci concentriamo poi su quelli al secondo mandato, il valore è sostanzialmente identico. Tutto questo non suona affatto favorevole per le prospettive di Obama. Certo, sembra essere in atto un trend di riduzione dello svantaggio competitivo del partito presidenziale: negli ultimi quaranta anni l’arretramento medio scende a 21 seggi, negli ultimi venti a 20 nonostante il -63 fatto registrare a midterm nel primo mandato di Obama. A ben guardare, in due delle ultime quattro elezioni di medio termine i partiti del Presidente sono riusciti ad avanzare: è accaduto sia durante il secondo mandato di Clinton che durante il primo di Bush, e si tratta degli unici due casi in tutto il dopoguerra. Obama si augura che non ci sia due senza tre…

    Certo, non potrà dire di essere andato mediamente bene se i suoi colleghi di partito alla Camera dovessero diminuire di venti unità. Potrà cantare vittoria solo se il numero di deputati democratici nel prossimo Congresso sarà superiore agli attuali 201. In questo senso, il precedente di Clinton può essere per lui di buon auspicio e, forse, anche il più comparabile. Entrambi presidenti democratici eletti dopo mandati consecutivi repubblicani, insediatisi insieme a maggioranze omologhe in entrambi i rami del Parlamento, che hanno subito visto sfumare tale situazione istituzionale venendo pesantemente sconfitti a midterm – vedendo così concretizzarsi il governo diviso che ha ingolfato la propulsione delle rispettive azioni di governo -, ma che sono riusciti a conquistarsi un secondo mandato alla Casa Bianca. Ecco, come accennavamo poco sopra, Clinton nel suo second term riuscì ad essere il primo Presidente del dopoguerra a fare avanzare il proprio partito nel numero di seggi alla Camera in una elezione di midterm. Non sembra proprio che per Obama le stelle abbiano in serbo una simile sorte; ma l’analogia c’è e la speranza è l’ultima a morire, anche per l’inquilino della Casa Bianca. In ogni caso, la partita più importante si gioca al Senato…


    [1] La Costituzione lascia aperto il numero dei componenti della House. Stabilisce solo un tetto massimo, oggi del tutto ininfluente dal momento che calcolato in base al numero di abitanti (non più di un deputato ogni 30.000 elettori), e che ciascuno Stato debba avere almeno un deputato.

    [2] Da allora, una nuova distribuzione dei 435 è avvenuta alla luce di ogni censimento, entrando in vigore a partire dalle elezioni svoltesi nel terzo anno del decennio. Il Congresso non è riuscito a varare la legge per riallocare i seggi a seguito del censimento del 1920. I seggi sono stati nuovamente allocati fra gli Stati solo dopo quello del 1930, in tempo per le elezioni del 1932. Ecco perché la tabella non presenta la colonna del censimento 1920.

    [3] Nei primi decenni del periodo considerato le Hawaii e l’Alaska non fanno ancora parte dell’Unione e vi sono quindi solo 48 Stati. Ad ogni modo, i tre seggi in tutto che si devono assegnare a partire dalle elezioni del 1962 –a seguito del loro ingresso nel 1959- non cambiano certo il quadro storico di avanzamenti e retrocessioni che emerge dalla tabella. Nel 1960 i due nuovi Stati, in attesa di essere censiti per la prima volta, mandarono a Washington un Representative ciascuno, che si andò ad aggiungere ai 435 assegnati agli altri 48 Stati in base al censimento del 1950.

    [4] Il capogruppo è la seconda più alta carica nell’organigramma del partito di maggioranza alla Camera, dopo lo Speaker. Di fatto, comunque, è spesso la figura più prominente del gruppo nelle sedute dell’aula, dal momento che lo Speaker normalmente non partecipa al dibattito e si astiene dalle votazioni.

  • Verso le midterm elections: una introduzione preliminare

    di Aldo Paparo

    Tra una quindicina di giorni, il prossimo martedì 4 novembre, negli Stati Uniti si svolgerà l’election day. Per quanto riguarda il livello federale, avranno luogo le elezioni legislative. Tutti gli elettori saranno chiamati a rinnovare il proprio rappresentante alla Camera: tutti i 435 seggi che la compongono sono infatti in palio. Nella grande maggioranza degli stati, si terranno anche le elezioni per il Senato: ci sono 36 seggi da assegnare nei 34 Stati chiamati al voto. Naturalmente, la presidenza Obama si concluderà nel 2016, quindi il Presidente non è direttamente interessato da questa tornata elettorale[1].

    Si tratta in ogni caso di un momento fondamentale anche per l’inquilino della Casa Bianca, che avrà inevitabili ripercussioni sulla sua capacità di essere efficace nell’azione di governo nei due anni rimanenti del suo mandato. Il sistema istituzionale americano è l’archetipo della separazione dei poteri alla Montesquieu. Il vertice dell’esecutivo è eletto ogni quattro anni in via (semi-)diretta: ha una sua propria investitura e legittimità, e non dipende dalla fiducia parlamentare. Ad ogni modo, il Congresso mantiene il potere legislativo: ecco perché risulta cruciale avere la maggioranza nei suoi due rami.

    Come accennavamo, il Parlamento statunitense è formato da due Camere: il Senato, composto da 100 membri, 2 per ciascuno dei 50 Stati, indipendentemente dalla relativa popolosità; e la Camera dei Rappresentanti, costituita da 435 rappresentati. L’intero Stato costituisce un’unica circoscrizione elettorale per le elezioni senatoriali; per la Camera, l’intero territorio nazionale è diviso in 435 collegi aventi grossomodo lo stesso numero di elettori. Alla Camera, quindi, il peso dei diversi Stati in termini di seggi è proporzionale alla loro popolosità[2]. Il sistema elettorale è il medesimo per le due assemblee: il plurality, ovvero l’uninominale di collegio in turno unico[3].

    Il caso statunitense è forse il bicameralismo più simile a quello italiano: entrambe le Camere devono approvare nella medesima redazione qualunque legge perché questa venga sottoposta al Presidente per la ratifica[4]. Naturalmente un simile impianto istituzionale può avere senso per un enorme paese federale, in cui una camera rappresenta il popolo americano e l’altra gli Stati che compongono, ciascuno con pari titolo, la federazione. In ogni caso, anche negli Stati Uniti il bicameralismo paritario crea notevoli problemi ad un’efficace azione di governo. Per potere approvare una norma ci vuole la maggioranza dei voti delle due Camere e il consenso del Presidente. Quando le tre istituzioni non esprimono lo stesso colore politiche le cose diventano assai complicate: il sistema politico appare in stallo e incapace di fornire risposte agli elettori. Dobbiamo inoltre considerare che tali istituzioni siano elette in momenti diversi e, come abbiamo visto, per rappresentare componenti diverse della nazione. Solo la metà delle volte la Camera è eletta insieme al Presidente, e, anche quando ci sono le presidenziali, solo un terzo dei seggi del Senato viene rinnovato. In buona sostanza, l’ordinamento statunitense è imperniato sulla protezione della minoranza dalla tirannia della maggioranza, il che però comporta serie difficoltà nel cambiare lo status quo: solo quando la maggioranza degli Stati e dell’elettorato vanno nella stessa direzione del Presidente, l’azione di governo può essere spedita. A questo si aggiunga che occorrono 60 Senatori per controllare efficacemente il Senato, ovvero per poter far scattare la ghigliottina (cloture) che conclude il dibattito e impone un voto immediato ponendo fine alle tattiche ostruzioniste -altrimenti piuttosto efficaci -.

    In riferimento al procedimento legislativo, l’unico potere del Presidente sta nella sua facoltà di veto: può rinviare un testo al Congresso, che deve riapprovarlo con maggioranze dei due terzi in entrambi i suoi rami. Nessun partito ha mai avuto tali maggioranze contemporaneamente nelle due camere negli ultimi 50 anni: quindi è corretto dire che il Presidente è effettivamente in grado di impedire l’approvazione di legislazione a lui sgradita. Il punto è che, però, l’uomo più potente del mondo non ha alcun reale potere per ottenere l’approvazione di legislazione gradita. Non può neppure presentare un disegno di legge a nome suo o del governo. Ecco perché le midterm elections sono così importanti. E queste in particolar modo, dal momento che – come vedremo – la maggioranza democratica al Senato è in bilico.

    Il corpo elettorale per le due Assemblee è il medesimo, a differenza di quanto avviene nel nostro paese[5]. Il mandato dura due anni alla Camera e sei al Senato. Ogni due anni si rinnova l’intera Camera e un terzo del Senato. In quest’ultimo caso, le elezioni dei 100 seggi complessivi sono sfalsate, in modo da avere il rinnovo parziale di un terzo dell’assemblea ogni due anni e totale ogni sei[6].

    Le elezioni del 2012, contestuali alla vittoria di Obama per il suo secondo mandato, hanno riconsegnato il medesimo quadro del 2010: un Parlamento diviso. I repubblicani controllano largamente la Camera, con 234 rappresentanti, mentre i democratici hanno mantenuto la maggioranza al Senato (53 seggi[7]). Se osserviamo (fig. 1) le elezioni dell’era Obama, notiamo infatti come solo nei primi due anni del suo primo mandato, il Presidente democratico abbia potuto contare su di una maggioranza dello stesso colore politico sia alla Camera che al Senato. A partire dalle elezioni del 2010, il controllo della Camera è invece passato in mano repubblicana. Sono ormai, quindi, quattro anni che la Presidenza Obama fronteggia la necessità di ottenere il sostegno per lo meno di una porzione non marginale dei rappresentanti repubblicani per vedere approvata qualunque sua iniziativa legislativa.

    Fig. 1 – Colore politico delle principali istituzioni elettive degli Stati Uniti durante la presidenza Obama

    Se allarghiamo ulteriormente il nostro orizzonte, e guardiamo all’evoluzione del controllo istituzionale nell’intero dopoguerra (fig. 2), due cose meritano di essere sottolineate. Innanzitutto quanto avvenuto nel 2010, la perdita del maggioranza parlamentare nelle elezioni di midterm da parte del partito che esprime il presidente, appare alquanto comune nei più recenti decenni. In effetti è accaduto ad entrambi gli ultimi due Presidenti, a Clinton nel primo mandato e a Bush nel secondo.

    In secondo luogo, inquadrando questa instabilità nella recente storia politica degli Stati Uniti in un contesto più ampio, possiamo certamente dire che si tratti di un fenomeno nuovo. Dalla figura 2 si ha chiaramente l’impressione di come gli ultimi due decenni rappresentino una chiara discontinuità rispetto al periodo precedente. Se guardiamo alla Camera, ci accorgiamo come per quaranta anni consecutivi (1954-1994) i democratici abbiano sempre avuto la maggioranza, fino a che non l’hanno persa a midterm del primo mandato di Clinton, come accennavamo sopra.

    Da allora, l’assemblea elettiva più stabile fra tutte le democrazie occidentali nel corso della guerra fredda è divenuta assai più competitiva, avendo registrato due ulteriori cambiamenti di maggioranza (nel 2006 a favore dei democratici e nel 2010 a favore dei repubblicani).

    Al Senato la discontinuità rappresentata dagli ultimi venti anni è meno lampante perché già negli anni Ottanta, ai tempi della presidenza Reagan, i repubblicani erano riusciti a conquistare la temporaneamente la maggioranza. Comunque sia, anche al Senato  si sono registrati più cambi i maggioranza negli ultimi venti anni che nei precedenti quaranta.

    Fig. 2 – Colore politico delle principali istituzioni elettive degli Stati Uniti dal 1946 ad oggi

    Per comprendere la stabilità dei successi democratici nelle elezioni legislative nello stesso periodo in cui i non sono mai stati alla Casa Bianca per più di otto anni consecutivamente, sarebbe necessario un livello di dettaglio eccessivo per gli scopi di questa introduzione. Ci limitiamo ad accennare alcune fra le principali componenti del vantaggio competitivo detenuto dai democratici nel corso della guerra fredda: a cominciare dalla New Deal Coalition. Con questa espressione si intende un blocco sociale ed elettorale (costituito da lavoratori sindacalizzati, minoranze religiose – quali cattolici ed ebrei-, bianchi del Sud e indigenti) che si è coagulato attorno ai democratici al momento delle politiche roosveltiane ed ha poi continuato a votare democratico per decenni. Il peso di questo fattore si affievolisce verso la fine degli anni Sessanta, quando però la svolta sui diritti civili di Johnson consegna ai democratici il consenso largamente maggioritario degli elettori afroamericani, a costo del voto bianco del Sud, in quello che è l’ultimo grande stravolgimento della geografia elettorale statunitense.

    L’ultimo fattore cruciale che non possiamo non citare in merito al predominio democratico nelle legislative è l’incumbency factor. Questo elemento è davvero cruciale per analizzare le elezioni statunitensi, specialmente quelle per la Camera. Viene infatti stimato che un candidato uscente abbia fra gli otto e i dieci punti percentuali di vantaggio rispetto ad un candidato identico che però sia uno sfidante. Negli ultimi 50 anni gli incumbent sono stati rieletti con tassi mai inferiori all’85% e con una media superiore al 90%[8] Anche qui, molti sono i fattori che andrebbero citati per spiegare questo fenomeno. Per limitarci ai principali, ricordiamo la maggiore facilità di ottenere finanziamenti stando a Washington ed essendo un membro del Congresso, in un momento in cui i candidati dipendono sempre più dalle proprie risorse per finanziare le campagne elettorali, venendo affievolendosi il ruolo dei partiti. Inoltre, ulteriori vantaggi derivanti dal fatto di essere il Representative eletto sono la maggiore visibilità, nonché la possibilità di ottenere risultati tangibili per il distretto su cui poi fare la campagna. Alla luce dei tassi di rielezione citati sopra, è più facile comprendere come, una volta ottenuta una solida maggioranza di seggi, possa essere non poi così difficile mantenerla per lungo tempo.

    Come detto, le elezioni legislative sono assai più competitive da un paio di decenni a questa parte. Al punto che fra il 2004 e il 2010, si sono susseguite quattro configurazioni diverse nel controllo delle tre principali istituzioni della democrazia a stelle e strisce. Si tratta di un qualcosa mai verificatosi in tutto il dopoguerra. Bisogna tornare indietro addirittura fino alla fine del XIX secolo per ritrovare una simile instabilità istituzionale[9]. Nel 2012 questo straordinario fenomeno si è interrotto, ma siamo ancora chiaramente al centro di una turbolenza. Non possiamo sapere se questa competitività delle elezioni legislative perdurerà in futuro, o se invece stiamo per assistere ad un riallineamento elettorale che fornirà ad uno dei due partiti un vantaggio competitivo simile a quello che i democratici hanno avuto lungo tutto il corso delle guerra fredda: ma al momento questa incertezza è un dato di fatto. Il che rende le midterm elections ancora più interessanti.

    Concludendo questo nostra breve presentazione delle prossime elezioni legislative statunitensi, speriamo di avere chiarito quale sia la posta in palio e quali siano i possibili esiti. Dei quattro scenari potenziali (vittorie repubblicane o democratiche in entrambe le camere o Parlamento diviso nelle due versioni cromatiche) al momento solo due appaiono realistici. I repubblicani manterranno la maggioranza alla Camera, mentre solo al Senato i giochi sono ancora aperti. Pertanto potremmo avere un Congresso con due maggioranze repubblicane, o altri due anni con lo stesso schema che abbiamo sperimentato negli ultimi quattro.

    Aldilà degli aspetti istituzionali, certamente assai rilevanti, non bisogna tralasciare il valore simbolico di queste elezioni. Certo, Obama – la cui popolarità appare di nuovo ai minimi storici di tre anni or sono – non è direttamente in campo. Ma il suo capitale politico è comunque in gioco. Potrebbe risultare ulteriormente ridotto, ad esempio, in caso di vittoria repubblicana nel voto complessivo alla Camera. E, soprattutto, in caso di passaggio di mano del Senato. Ciò potrebbe comportare conseguenze davvero nefaste per i suoi margini di azione politica. D’altro canto, se i democratici dovessero riuscire a mantenere la maggioranza dei seggi al Senato, gli ultimi due anni dell’amministrazione Obama inizierebbero con una rinvigorente ventata di aria fresca che potrebbe spolverare un po’ l’immagine del Presidente – al momento non certo scintillante – e aumentarne il potere contrattuale nel processo legislativo.

    Non resta ormai che aspettare un paio di settimane per scoprire quali contorni potranno avere gli ultimi due anni da Presidente del primo afroamericano mai eletto alla Casa Bianca.


    [1] L’election day coinvolge inoltre una variegata serie di ulteriori consultazioni nei vari Stati. A partire dalle 36 competizioni per la carica di Governatore, proseguendo con i rinnovi – parziali o totali –  che interessano 87 delle 99 assemblee legislative statali, fino ad arrivare ad elezioni di giudici e procuratori, o specifici referendum  locali.

    [2] E’ la Costituzione stessa a dettare la procedura per l’assegnazione in base alla popolazione dell’ultimo censimento dei seggi agli Stati, le cui assemblee legislative ritagliano poi il disegno del numero assegnato di collegi.

    [3] Vi sono comunque alcune eccezioni. Sono infatti gli organi legislativi degli Stati – e non il Congresso federale – ad avere la competenza relativamente alla normativa elettorale anche per quanto concerne il livello federale. Come vedremo, una eccezione piuttosto rilevante in queste elezioni 2014 è rappresentata dalla Louisiana.

    [4] Il Senato ha alcune prerogative speciali, quali l’approvazione delle nomine presidenziali – ad esempio giudici della Corte Suprema o i membri del governo – o la ratifica dei trattati internazionali.

    [5] Vi sono, invece, delle differenze per quanto concerne l’elettorato passivo, analogamente a quanto avviene in Italia, ma con cifre assai inferiore. Per essere eletti alla Camera occorrono 25 anni compiuti, per il Senato ne servono 30.

    [6] I 100 seggi sono divisi in tre classi, ciascuna delle quali vota ogni sei anni. Nessuno stato ha i suoi due seggi nella stessa classe, quindi in ciascuno di essi gli elettori votano per il Senato due volte ogni tre elezioni. Nel 2014, in aggiunta alle 33 competizioni ordinarie per il rinnovo dei mandati della seconda classe, iniziati nel 2008, si vota anche per tre seggi delle terza classe divenuti vacanti nel corso dell’attuale legislatura (2012-2014).Questi ultimi tre mandati non saranno di sei anni, dal momento che scadranno comunque nel 2016, insieme agli altri della terza classe.

    [7] In realtà la maggioranza democratica al Senato può essere considerata di 55 seggi, dal momento che i due Senatori indipendenti sono entrambi iscritti nel gruppo democratico, mentre quello repubblicano conta 45 iscritti.

    [8] Potrebbe sembrare tautologico: i democratici mantengono la maggioranza perché i propri incumbent traggono vantaggio da tale condizione. Cosa ci dice che non sono gli incumbent che vengono rieletti in quanto si avvantaggiano del fatto di essere democratici? Innanzitutto, il fatto che i tassi di riconferma riportati siano calcolati comprendendo anche con gli uscenti repubblicani, che – seppur in minoranza – hanno sempre rappresentato una quota assai rilevante del totale. Inoltre, l’incumbency factor ha continuato a manifestarsi anche dopo la fine dell’egemonia democratica alla Camera, quindi non poteva essere causato da questa. Come ulteriore riprova, si pensi che il tasso medio di rielezione degli incumbent negli ultimi venti anni è addirittura superiore ai precedenti trenta.

    [9] Fra il 1886 e il 1894 sono state addirittura quattro le elezioni consecutive in cui almeno una delle tre istituzioni ha cambiato casacca, con quindi cinque pattern diversi consecutivi.


  • I flussi a Milano e Roma confermano il quadro del successo di Renzi

    di Aldo Paparo e Matteo Cataldi

    Sulla base dei dati elettorali che per alcuni capoluoghi sono stati resi disponibili già alcune ore dopo la fine degli scrutini, abbiamo, in un precedente articolo, provato a ricostruire i movimenti di voto intercorsi tra le elezioni europee del 25 maggio e le politiche del febbraio 2013. Con questo articolo estendiamo quella stessa analisi alle due più grandi città italiane, Roma e Milano. Assieme le due “capitali” d’Italia, quella finanziaria e quella politica, assommano circa il 7% degli elettori italiani. Si tratta di due città per molti aspetti diverse anche e soprattutto per storia elettorale. Milano fin dal ’94 ha rappresentato la capitale di quel fenomeno che Berselli (2007) definì “forzaleghismo” e che accomuna(va) il mondo politico ed elettorale della Lega e di Forza Italia. E Roma che ha più spesso messo in mostra una situazione di maggiore equilibrio tra gli schieramenti e dove la destra tradizionale rappresentata per molti anni da An aveva tutt’altro peso rispetto al capoluogo lombardo, come la candidatura di Fini e l’accesso al ballottaggio contro Rutelli nel ’93 dimostrano. O, per venire ad anni più recenti, la vittoria di Alemanno nel 2008.

    Tra 2013 (Camera) e 2014 (PE), il Pd è l’unico partito (assieme a Fdi) ad aumentare i propri voti in termini assoluti in entrambe le città. In percentuale il partito di Renzi, partito con la stessa quota di voti in entrambi i capoluoghi, finisce avanti di due punti a Milano.

    Una differenza significativa tra la città meneghina e quella laziale si riscontra invece nei voti che sono confluiti sul M5s e (naturalmente) sulla Lega. Nella capitale il partito di Grillo e Casaleggio è votato da un elettore su quattro (24,9%) confermandosi la seconda forza dietro il Pd. A Milano invece non raggiunge il 15%, quasi undici punti meno che a Roma, superato anche da Fi. Del resto la Lombardia era stata la regione (Trentino Alto Adige a parte) in cui il M5s aveva ottenuto meno voti già alle elezioni politiche. Da allora perde 40.000 voti passando dal 17 al 14,2%. A Roma il calo in punti percentuali rispetto al 2013 è grossomodo in linea con quello di Milano.

    Di Fi abbiamo detto che a Milano ottiene la seconda piazza, ci riesce non solo grazie alla debolezza del M5s ma grazie anche ad un risultato migliore rispetto a Roma (+3 punti).

    La sinistra, unita a sostegno del candidato alla Commissione, Tsipras, ottiene buoni risultati in entrambe le città attestandosi sopra il 6%. Infine è interessante notare che il Nuovo Centrodestra di Alfano supera il 5% a Milano mentre a Roma ottiene un risultato assai più modesto (3,7%) scavalcato da Fdi forti del 5,3% nella capitale.

    Venendo ora in dettaglio all’analisi dei flussi elettorali, possiamo innanzitutto evidenziare come la struttura dei movimenti di elettori intercorsi fra 2013 e 2014 nelle due città appaiano molto simili.

    Il primo elemento che si nota è l’alta fedeltà degli elettori del Pd. Come si può osservare nelle tabelle 1 e 2, il tasso di riconferma è di circa 4 elettori su 5 in entrambe le città. Sia a Milano che a Roma si segnalano le stesse defezioni, tutte piuttosto piccole ma comunque significative: verso la lista Tsipras, verso l’astensione, e anche verso il M5s. Questo primo elemento, una fedeltà significativamente superiore per gli elettori del Pd è in linea con quanto osservato nelle altre città di cui abbiamo presentato i flussi elettorali, dove il tasso varia fra il 70 e il 90%.

    Sempre in riferimento alla coalizione di centrosinistra, e sempre in continuità con gli altri casi già analizzati si osserva come gli elettori di Sel abbiano scelto la lista Tsipras assai più di quella del Pd, mentre una quota ancor più rilevante si è rifugiata verso l’astensione.

    Anche per il M5s le differenze tra le due città sono minime. Gli elettori del 2013 di Grillo si dividono equamente: una metà circa ha confermato la propria scelta di voto del 2013, altrettanti invece si sono astenuti. Da sottolineare come non si registrino significativi passaggi verso altre forze politiche, neppure verso il grande vincitore di queste Europee, il Pd. Solo a Milano si osserva un flusso appena significativo dal Movimento verso la Lega. Anche per quanto concerne il partito di Grillo, i flussi nelle due principali città italiane confermano quanto osservato precedentemente: tassi di fedeltà fra il 40 e il 50% degli elettori 2013 e grandi perdite verso l’astensione (dal 30 al 45%). In qualche città, come Firenze o Torino, il Movimento ha anche ceduto verso il Pd. Ecco su questo punto a Milano e Roma gli elettorati del M5s si sono dimostrati particolarmente refrattari alle lusinghe renziane.

    Per quanto riguarda la coalizione di Berlusconi alle politiche 2013, si nota una fedeltà davvero bassa. A Milano circa 4 elettori su 10 hanno scelto Fi nel 2014, a Roma appena uno su tre. In quest’ultimo caso, il gruppo di elettori di centrodestra più numeroso è quello che nel 2014 ha deciso di astenersi: il 42%. A Roma invece “solo” il 30% degli elettori 2013 di Berlusconi si è astenuto. Inoltre in entrambe le città si registrano perdite significative verso il Pd di Renzi, oltre che verso il Ncd dello scissionista Alfano e verso la Lega a Milano. Anche in questo caso Milano e Roma sono in linea con il resto dei flussi presentati. La fedeltà è sempre fra il 30 e il 45% dei voti 2013. Si ha una maggiore variabilità nei coefficienti verso l’astensione: fra il 20 e il 60%. Anche su questo aspetto Milano e Roma sono coerenti, vista la significativa differenza osservata. Infine anche le fuoriuscite verso il Pd erano già state riscontrate un po’ dappertutto: fra il 6 e il 17% dei voti 2013 di Berlusconi.

    Gli elettori che avevano scelto alle politiche l’area coagulatasi intorno alla candidatura dell’ex premier Monti si muovono in maggioranza (oltre la metà) verso il partito di Matteo Renzi. Sia a Roma che a Milano il secondo gruppo più numeroso, dopo quello che ha votato Pd, è quello che si astenuto, anche se con rilevanti differenze: a Milano circa un elettore su quattro, a Roma uno su sette. Una quota assai ridotta, fra il 10 e il 13% degli elettori 2013, ha scelto nel 2014 il Ncd di Alfano, che si presentava – ricordiamolo – assieme all’Udc, uno dei componenti della coalizione montiana del 2013. Anche per quanto riguarda il comportamento degli elettori montiani, Milano e Roma segnalano gli stessi fenomeni già osservati nelle precedenti analisi. L’unica città in cui meno del 40% di questo gruppo è confluita sul Pd è Firenze, dove il gruppo più numeroso ha scelto Fi.

    Tab. 1 – Destinazioni alle Europee 2014 degli elettorati delle Politiche 2013 a Roma

    Tab. 2 – Destinazioni alle Europee 2014 degli elettorati delle Politiche 2013 a Milano

    Diamo adesso un’occhiata alle provenienze, in termini di elettorati 2013, degli elettorati dei vari partiti alle Europee (tabelle 3 e 4). Come si può osservare, e come era facile aspettarsi semplicemente alla luce dei risultati, fra i tre grandi partiti il Pd è quello che più di tutti è riuscito ad andare oltre il proprio bacino del 2013. In entrambe le città, un terzo circa dei suoi non proviene da chi aveva votato la coalizione di Bersani l’anno scorso. Le entrate più rilevanti sono quelle dalla coalizione di Monti, che valgono fra un sesto e un quinto del Pd 2014. Circa un elettore del Pd su 15 aveva votato la coalizione di Berlusconi nel 2013.

    I voti a Forza Italia sono, per oltre i tre quarti, provenienti da quelli della coalizione di centrodestra nel 2013. Il “nuovo” partito di Berlusconi non si è dimostrato capace di sfondare in bacini elettorali altrui, anche se in entrambe le città si registra un flusso i entrata dal Pd 2013, minimo ma significativo, che vale circa fra il 5 e il 10% dei voti di Fi.

    Lo stesso – tre quarti dei voti 2014 provenienti dal proprio bacino 2013 – vale per il M5s a Roma. A Milano, invece, si registra un profondo turnout all’interno all’elettorato grillino. Nel capoluogo lombardo, infatti, oltre un terzo dei voti del M5s non proviene da chi aveva già votato il Movimento nel 2013. Si registrano ingressi un po’ da tutti i bacini 2013, ma i più pesanti numericamente sono quelli dal Pd (pari a circa un decimo dei voti 2014 del M5s); dal centrodestra e dall’astensione, che pesano un quindicesimo ciascuno dei voti 2014.

    Sempre a Milano si segnala la Lega. Il Carroccio pesca oltre la metà dei propri voti da chi non l’aveva votata un anno or sono. In particolare, oltre un quarto dei suoi voti arriva da elettori del Pdl e degli altri partiti di centrodestra nel 2013, e uno su otto dal M5s 2013.

    Tab. 3 – Provenienze dagli elettorati delle Politiche 2013 dei voti ai vari partiti nelle Europee 2014 a Roma

    Tab. 4 – Provenienze dagli elettorati delle Politiche 2013 dei voti ai vari partiti nelle Europee 2014 a Milano

    In conclusione possiamo dire come il quadro degli elettori in movimento che abbiamo descritto con riferimento alle due più popolose città italiane appaia in linea con quanto mostrato precedentemente in altre cinque importanti città del nostro paese, variamente caratterizzate sia dal punto di vista geografico che della propria tradizione elettorale. I punti fondamentali che accomunano tutte le città analizzate possono essere sinteticamente riassunti come segue. Il successo del Pd di Renzi deriva da due elementi. Da un lato la fedeltà dei sui elettori 2013: fa infatti registrare tassi di fedeltà molto alti, anche in considerazione del significativo calo dell’affluenza. Dall’altro lato si segnala la sua capacità di intercettare voti in uscita un po’ da tutti gli schieramenti. La tabella 5 riporta quanto pesano, nelle varie città, sull’elettorato del Pd alle Europee i diversi bacini elettorali del 2013. Come si può osservare, circa un terzo di quanti hanno votato il Pd di Renzi non aveva votato il Pd di Bersani un anno fa. L’unica eccezione è Firenze dove comunque un quinto dei voti al partito guidato da Renzi è nuovo. Le entrate più rilevanti sono dalla coalizione montiana, i cui elettori si spostano verso il Pd in misura massiccia: così, nelle varie città, fra un decimo e un quinto degli elettori democratici di oggi aveva votato la coalizione di Monti. Ma anche dal centrodestra berlusconiano si registrano fuoriuscite verso il Pd, per quanto in misura inferiore. La Lega cede in tutti i casi analizzati almeno un decimo del proprio elettorato al partito di Renzi, ma anche il Pdl con qualche eccezione fa registrare flussi diretti significativi. Nei vari casi, una quota variabile fra il 5 e il 7% del totale dei voti del Pd proviene da elettori della coalizione di Berlusconi del 2013. Invece, in controtendenza con quanto osservato nelle altre città, a Roma e Milano quasi niente arriva dal M5s: sono però questi gli unici due casi in cui il coefficiente è inferiore all’1% degli elettori. L’elettorato del M5s si dimostra infatti il meno uniforme nei suoi movimenti fra città e città: il suo contributo sul totale dei voti al Pd è praticamente nullo a Milano e Roma, ma è di circa il 10% a Torino, Venezia e Palermo. Come facilmente prevedibile in considerazione della bassa affluenza, non si registrano recuperi dal bacino del non voto. Molto interessante, invece, rilevare come quasi nessuno dei voti al Pd provenga da Sel o Rivoluzione Civile: solo a Palermo uno su 20 dei democratici 2014 aveva votato uno dei due partiti di sinistra alle Politiche.

    Tab. 5 – Provenienze dagli elettorati 2013 dei voti al Pd alle Europee 2014 in varie città


    Nota metodologica

    Le analisi dei flussi elettorali qui mostrate sono state ottenute applicando il modello di Goodman corretto dall’algoritmo Ras ai risultati elettorali delle 2600 sezione romane e le oltre 1200 milanesi. Per Roma sono state generate 10 matrici separate per unità omogenee costruite a partire da aggregazioni dei municipi poi unificate (previa ponderazione) nelle matrici cittadine riportate. A Milano è stata seguita analoga procedura generando in prima battuta 6 matrici separate a partire dai collegi uninominali per il Senato della vecchia legge elettorale Mattarella. Il VR è risultato essere sempre accettabile in tutte le unità d’analisi delle due città, con una media pari a 10.4 a Roma e 10.8 a Milano. 

  • Fi si salva alle Europee anche grazie alla concomitanza con le comunali

    di Aldo Paparo e Matteo Cataldi

    Dalle prime analisi sui risultati delle elezioni Europee sembra delinearsi il quadro di un successo del Pd largamente dovuto all’astensionismo asimmetrico che ha penalizzato maggiormente il centrodestra e il M5s. Certo sarebbe interessante potere verificare se questo fosse confermato dall’analisi dei flussi elettorali su tutta Italia. Ma, non potendo disporre delle oltre 60.000 sezioni elettorali in cui è diviso il territorio italiano, non è possibile determinare i flussi elettorali a livello nazionale. In questo articolo ci proponiamo di verificare se effettivamente vi sia una relazione fra l’andamento dell’astensione e le performance dei tre principali partiti a partire dai dati elettorali a livello di comuni. Naturalmente si tratta di un’analisi assai meno precisa di quella che sarebbe possibile con i dati a livello di sezione, ma comunque in grado di fornire degli spunti interessanti.

    Iniziamo col dire che, in quest’ottica, dobbiamo necessariamente considerare il ruolo delle elezioni comunali. In oltre la metà dei comuni italiani, infatti, contemporaneamente alle Europee si sono svolte anche le consultazioni per il rinnovo degli organi di governo locali.

    Nei circa 8.000 comuni italiani il calo medio dell’affluenza è stato di circa 13 punti fra Europe e Politiche. Guardando ai due distinti insiemi di comuni (tab. 1), quelli in cui si sono tenute anche le comunali e quelli senza, ci accorgiamo che nei primi l’affluenza è in media calata di appena 3,4 punti percentuali, mentre nei secondi il calo è stato superiore ai 23 punti. Si registra quindi una differenza pari a 20 punti percentuali nei tassi di partecipazione dei due tipi di comuni.

    Sempre nella tabella 1 è possibile osservare anche il dato per zone geopolitiche. Si nota come in tutte si registri un calo supplementare di circa 15 punti laddove non ci sono state le comunali. Fa eccezione il sud. Qui si segnala innanzitutto una variazione media positiva, ovvero si è votato di più alle Europee che non alle Politiche nella maggior parte dei comuni. Inoltre si registra anche la maggior variazione nei casi senza le comunali, superiore ai 26 punti di calo nella affluenza media. L’effetto finale combinato è quindi una differenza di quasi 27 punti nelle variazioni dell’affluenza fra comuni con e senza amministrative.

    Tab. 1 – Variazione media della partecipazione elettorale fra Europee e Politiche a seconda della presenza o meno delle elezioni comunali.

    Appare a questo punto evidente che, per poter interpretare al meglio le variazioni dei partiti a livello di comune fra Europee e Politiche, dobbiamo necessariamente tenere conto della presenza o meno di concomitanti elezioni comunali, visto che questo fattore è così determinante per la partecipazione elettorale. Questi dati sono riportati nella tabella 2. Scopriamo così che M5s e Pd vanno peggio nei comuni in cui si vota anche per il rinnovo dei sindaci e dei consigli comunali, mentre per Fi è il contrario.

    Il partito di Renzi cresce di 13 punti dove ci sono state le comunali e di quasi 16 nei comuni senza amministrative: quindi vi è una differenza di 2 punti e mezzo tra i due gruppi di comuni. Lo stesso avviene per il movimento guidato da Grillo: 5 punti in meno rispetto alle Europee nei comuni dove ci sono state le comunali e 3 invece dove queste non si sono tenute. La differenza sfiora i 2 punti percentuali. In questo caso però dobbiamo rilevare come, a differenza di quanto si osserva per il Pd, la differenza registrata sembra per lo più prodotta dalla composizione geografica dei due insiemi. Infatti nel centro-nord circa due comuni su tre avevano anche le comunali, mentre al sud, solo uno su tre. Se per il Pd ciò non ha influito sulla relazione fra presenza delle comunali e sue variazioni, che dovunque hanno lo stesso segno e sono significative, lo stesso non vale per il Movimento. Infatti, si nota come le differenze nelle variazioni del M5s nei due tipi di comuni abbiano segni variabili a seconda delle zone e non risultano mai significate, tranne che nelle regioni meridionali.

    Al contrario di quanto accade con i due principali rivali, il partito di Berlusconi perde 4 punti e mezzo nei comuni senza amministrative, ma poco più di 3 negli altri casi. Quindi per Fi la presenza delle comunali ha un effetto positivo: le consente di difendersi meglio rispetto a quanto non accada altrove. E questo si ripete in tutte e 4 le zone geopolitiche del nostro paese.

    Tab. 2 – Variazioni dei risultati elettorali fra Europee e Politiche per Pd, M5s e Fi a seconda della presenza o meno delle elezioni comunali

    Qui l’elemento da sottolineare è che nei due tipi di comuni si sono innescati meccanismi competitivi diversi, che hanno avuto effetti differenti sull’elettorato, soprattutto in termini di mobilitazione. Dove ci sono state le comunali si è votato molto di più: ciò significa che una parte di elettori che altrimenti alle Europee si sarebbero astenuti è stata portata alle urne, senza probabilmente avere un particolare interesse verso le Europee. In questo settore dell’elettorato Renzi, ma anche Grillo, pescano meno che nel resto. Invece Berlusconi è particolarmente votato da questi elettori.

    Pd e M5s paiono avere conseguito a queste Europee dei risultati “nazionali”, ovvero gli elettori che li hanno scelti hanno votato per una proposta di governo o comunque sulla base di una motivazione di carattere nazionale. In questo senso le estese campagne mediatiche e la centralità dei rispettivi leader, Renzi e Grillo, può essere stato l’elemento catalizzatore del loro consenso. Fi, invece, sembra avere raccolto anche alle Europee una considerevole quota di voti “locali”, ovvero di elettori che si sono recati alle urne per ragioni attinenti alla corsa per la poltrona di sindaco nel proprio comune, e che poi hanno votato anche alle Europee. Quindi si può dire che il catalizzatore dei voti di Berlusconi non sembra – più – essere il Cavaliere stesso, ma il notabilato locale del suo partito.

    Concludendo, infatti, non possiamo che evidenziare come sia stata la mobilitazione locale a salvare Berlusconi. Fi può contare su una classe dirigente locale che, evidentemente, anche nel momento di massima difficoltà del partito sul piano nazionale è ancora in grado di mobilitare i propri elettori nei diversi contesti locali. In questo senso si può inquadrare anche la battaglia che sta avvenendo all’interno del partito in questi giorni. Come sappiamo, dopo il significativo successo personale conseguito nelle elezioni Europee, Fitto sta cercando di imporre una svolta che implichi l’introduzione delle primarie quale strumento per legittimare i futuri dirigenti attraverso il consenso. Ecco, alla luce dei dati qui presentati, preferenze e primarie sembrano la strategia migliore per massimizzare i voti di Fi, dal momento che consentirebbero di inglobare tutti i voti mobilitati localmente nel contesto della competizione fra i candidati. D’altro canto l’introduzione di simili meccanismi per il reclutamento della classe dirigente del partito significherebbe anche una perdita di controllo di Berlusconi sul partito stesso. Le preferenze – e le primarie – sono dunque sia un’opportunità che una minaccia per lo storico leader del centrodestra italiano: potrebbero rendere il suo partito maggiormente competitivo nei confronti dei partiti rivali, ma anche maggiormente competitivo al suo interno. Sarà interessante vedere come finirà la lotta politica all’interno del principale partito del centrodestra italiano soprattutto per capire che direzione intraprenderà sotto questo profilo.

  • La competizione nelle province: dietro al Pd c’è ovunque il M5s, con Fi terza

    di Aldo Paparo e Matteo Cataldi

    Il risultato delle elezioni europee è stato chiaro e inequivocabile: una straordinaria affermazione del Pd targato Renzi. In questo articolo analizziamo tale risultato a livello provinciale, per capire se e come si articoli geograficamente il successo del Pd.

    Alle politiche di un anno fa il M5s si era classificato primo partito in 50 province italiane, avendo fatto meglio del Pd a guida Bersani, che era primo partito in 40 province. Tralasciando Bolzano e Aosta, vinte da partiti regionali (rispettivamente il Svp e la Valée D’Aoste), il Pdl aveva conquistato il primato in 17 province – tutte nel meridione tranne Varese -, mentre la Lega era il primo partito nella provincia di Sondrio.

    In questa europee si segnalano alcuni elementi di continuità, in un quadro però profondamente mutato. Lega e Svp mantengono i propri primati a Sondrio e Bolzano. Per il resto è un trionfo del Pd, ovunque partito più votato tranne che ad Isernia dove è Fi al primo posto. Si tratta anche sotto questo profilo di un risultato storico. Oggi 107 province su 110 vedono il Pd come primo partito. Mai nella storia della Repubblica un partito si era dimostrato altrettanto capace di imporsi su tutto il territorio nazionale.

    A questo punto ci pare interessante capire come si sia strutturata la competizione nelle diverse province: chi è arrivato secondo, alle spalle del partito di Renzi? Quale distacco si è registrato fra primo e secondo partito nelle diverse province? Sono queste domande particolarmente interessanti anche nell’ottica dell’eventuale approvazione dell’Italicum, sistema elettorale che prevede la possibilità di un ballottaggio fra i primi due competitor.

    Per rispondere a questi interrogativi guardiamo la figura 1, che mostra il secondo partito in ciascuna provincia, indicandone anche il distacco rispetto a quello che lo precede. Il colore che riempie ciascuna provincia indica il partito che è arrivato secondo. L’intensità cromatica rappresenta il distacco dal primo: più intensa la tonalità del colore, minore è il distacco dal primo partito e viceversa.

    Fig.1 – Secondo partito nelle 110 province italiane e suo distacco dal primo classificato

    Come si può osservare, il colore giallo è largamente prevalente nella mappa della nostra penisola. Il M5s, infatti, è il secondo partito in ben 84 province su 110, mentre il partito di Berlusconi, Fi, è riuscito ad arrivare secondo in soli 19 casi. Completano il quadro le tre province in cui il Pd non è primo, tutte e tre con il Pd al secondo posto; e le 4 province in cui è stato il Carroccio il secondo partito più votato.

    Guardando ai distacchi, possiamo osservare come quasi la metà delle province (46) si dimostrino scarsamente competitive, con un vantaggio del primo partito superiore ai 20 punti percentuali sul secondo. In particolare ci sono 45 province in cui il Pd ha un margine superiore ai 20 punti sul rivale più vicino: il 41% delle province totali. Più in dettaglio, nella zona rossa il M5s è secondo partito con oltre 20 punti di distacco in 24 delle 26 province complessive. Solo ad Ascoli-Piceno e Fermo il partito di Grillo ha subito distacchi inferiori, ma comunque oltre i 10 punti. In 19 province settentrionali su 38, cioè esattamente la metà, Il Pd mette oltre 20 punti di distanza tra sé e il primo inseguitore. Questo è il M5s in 13 istanze, Fi in 5 e la Lega a Lecco. In 16 delle rimanenti province del nord, il vantaggio del partito di Renzi è comunque superiore ai 10 punti: in questi casi 10 volte secondo è il M5s, 3 la Lega e altrettante Fi. Solo a Imperia il vantaggio sul secondo partito non è in doppia cifra: infatti M5s è staccato di 7,2 punti percentuali.

    Nel meridione il quadro politico appare assai più competitivo. Qui, infatti solo in 2 province su 46 si registra un vantaggio superiore ai 20 punti percentuali: Enna e Potenza. In 20 province il vantaggio del Pd è fra  10 e 20 punti, 13 volte sul M5s e 7 su Fi. In esattamente la metà delle province meridionali si segnala invece un Pd al primo posto ma con un margine inferiore ai 10 punti sul più votato rivale: in 19 casi questo è il M5s, in 4 è Fi.

    Nelle tre province non vinte dal Pd, il partito di Renzi è comunque secondo. Inoltre si registrano margini assai contenuti, con la sola eccezione dell’Alto Adige, in cui il Svp ha oltre 30 punti di margine. A Isernia Fi può contare su 5,3 punti di vantaggio; ancora meno la Lega a Sondrio (2).

    Diamo adesso uno sguardo più sistematico alla mappa in figura, per verificare se i diversi quadri della competizione presentati fino qui si articolino lungo precise direttrici geografiche. In effetti si osserva una grande rilevanza della prossimità geografica e si individuano chiaramente alcune zone.

    Innanzitutto, si vede il dominio del Pd sul M5s nella zona rossa: in ogni provincia oltre 20 punti di distacco, tranne che nell’estrema periferia sudorientale della questa area geopolitica (ovvero le province di Fermo e Ascoli Piceno, già segnalate in precedenza). Vittorie del Pd con un M5s al secondo posto staccato di oltre 20 punti si registrano anche in buona parte del triveneto. Solo a Padova, Vicenza e Treviso il distacco del partito di Grillo da quello di Renzi è compreso fra i 10 e i 20 punti. L’unica eccezione è la provincia di Verona in cui al secondo posto, e sempre con distacco intermedio, non c’è il M5s ma la Lega. Comincia lì la fascia pedemontana nella quale è appunto il Carroccio il secondo partito – anche se staccato dappertutto di almeno 15 punti-, che passa per Bergamo, Brescia e Lecco. Questa “cintura verde” si chiude a Sondrio, dove – come abbiamo visto – la Lega è risultato primo partito, anche se con un margine estremamente ridotto sul Pd.

    Nel nord-ovest il trionfo del Pd è più contenuto. Infatti i colori dei secondi classificati sono più intensi e nella maggior parte dei casi nelle fasce che indicano distacchi fra i 10 e i 20 punti dal Pd. Qui compare l’azzurro di Fi, che è secondo partito in particolare nelle province attorno a Milano, tranne quella del capoluogo stesso e di Monza e Brianza in cui il M5s è secondo dietro al Pd.

    Nella figura 1 si può poi visualizzare la maggiore competitività del Sud. Qui i colori chiari, indicanti margini di vantaggio del primo partito oltre i venti punti, sono l’eccezione; mentre nella maggioranza assoluta dei casi si segnalano distacchi in singola cifra.

    Si evidenzia infine l’altra area di relativa competitività di Fi, oltre quella già osservata intorno al capoluogo lombardo: la fascia tirrenica meridionale. Si può infatti vedere come il partito di Berlusconi sia al secondo posto lungo la costa da Latina fino a Reggio Calabria, con le sole eccezioni delle province di Napoli, Cosenza e Catanzaro. Anche Messina vede Fi al secondo posto. In tale area si inserisce anche Isernia che, pur non avendo accesso al mare, confina con questa fascia costiera ed è l’unica provincia italiana in cui Fi è in testa. Il colore azzurro ricompare poi nell’estremità meridionale della Puglia (province di Brindisi e Lecce).

    Nel resto del Sud è di nuovo il M5s ad inseguire Pd. Risulta particolarmente competitivo nei confronti del partito di Renzi in Sicilia, Sardegna e nelle provincie dell’Adriatico meridionale, con la sola eccezione di Foggia. Al contrario si registrano distacchi più elevati in Calabria, Basilicata e Lazio.

    Riassumendo, il quadro che emerge dai risultati elettorali a livello provinciale replica, con poche eccezioni, quello nazionale. Il Pd è infatti primo in 107 province su 110, il M5s è il secondo partito in 84 unità, mentre invece il partito di Berlusconi deve accontentarsi del terzo posto un po’ in tutta Italia (di nuovo 84 province), salvo che nella fascia tirrenica meridionale e intorno a Milano. A Trento, Verona, Vicenza, Belluno e Treviso Fi è addirittura il quarto partito più votato.

    Non è certo questa una situazione consueta per il centrodestra italiano e il suo storico leader. Certo, guardando bene i dati, si osserva che se Berlusconi fosse ancora capace di federare le varie anime dei moderati italiani e sommarne i voti (anche se non tutti per lo meno la maggior parte), ecco che tale campo potrebbe riconquistare se non il ruolo di front-runner, certamente quello di principale sfidante in vista delle future elezioni politiche. Ma probabilmente quei tempi sono definitivamente trascorsi e non si intravedono all’orizzonte nuove figure capaci di coagulare attorno a sé i voti degli elettori di Lega, Fi, Ncd e Fdi.

  • La questione occupazionale sempre più la priorità per gli italiani

    di Aldo Paparo

    Due anni e mezzo or sono abbiamo iniziato la serie dei sondaggi dell’Osservatorio Politico. Già allora il lavoro si era manifestato quale il primo problema da risolvere ad opinione degli italiani. La maggioranza assoluta dei rispondenti, il 54,9%, lo indicava infatti al primo posto. Oggi, dopo trenta mesi di inarrestata recessione della nostra economia, la questione occupazionale è ancor di più la priorità.

    Infatti quasi due italiani su tre rispondono “il lavoro” alla domanda che chiede loro quale sia il problema più importante che un governo deve affrontare oggi in Italia. Per l’esattezza si tratta di 956 rispondenti sui 1510 che rispondono alla domanda: ovvero il 63,3%. Si registra quindi una crescita di quanti citano il lavoro come questione più rilevante che sfiora i 9 punti percentuali nell’arco del periodo di tempo considerato.

    Ciò non può certo apparire un fatto sorprendente, se si considera il contesto occupazionale del nostro paese. Basti ricordare che oggi un italiano su otto non trova lavoro: il 12,3% per la precisione secondo gli ultimi dati Istat. Nelle regioni meridionali, poi, si registra quasi un raddoppio rispetto alla media nazionale della quota di disoccupati, che raggiunge il quinto della forza lavoro totale. Inoltre, fra gli italiani con meno di 25 anni, la percentuale di quanti non trovano una occupazione tocca il 40%.

    Per quanto riguarda il restante terzo del campione, quello che non considera il lavoro come la principale questione all’ordine del giorno, la risposta più frequente è lo sviluppo economico, con 133 rispondenti, poco meno del 9% del totale. Anche nell’aprile di due anni or sono lo sviluppo si era piazzato al secondo posto e con una percentuale sostanzialmente identica: il 9,5%. Rappresenta, invece, un elemento di novità di questa rilevazione il fatto che oggi un ugual numero di rispondenti indichi il funzionamento della politica, che dunque si colloca anch’esso al secondo posto, a pari merito con lo sviluppo, registrando una crescita di oltre due punti rispetto al precedente sondaggio (6,8%).

    Le altre risposte che raggiungono una qualche rilevanza numerica sono due, vicine fra loro, con poco più di un intervistato su venti, ovvero 80 teste circa. Queste sono, in ordine di numerosità dei rispondenti che le indicano, le tasse e la povertà. In entrambi i casi si tratta di novità rispetto alla primavera del 2011. Allora, infatti nessuna delle due risposte aveva raggiunto almeno il 3% dei rispondenti e quindi erano ricaduti nella categoria “altro”. Per la povertà si registra sostanzialmente un raddoppio della proporzione di intervistati che la indicano al primo posto. Ancora più dirompente la crescita della questione fiscale, se si pensa che, con appena 13 rispondenti, non raggiungeva l’1%.

    Infine rimane da segnalare la sparizione di due questioni che ebbero un certo peso nella rilevazione della primavera di due anni fa e che erano molto care all’allora governo in carica. Sono oggi appena 6, meno dello 0,5%, gli intervistati che mettono al primo posto il problema dell’immigrazione. Trenta mesi fa questa risposta era la terza più frequente, con l’8,5% a sceglierla. Lo stesso è avvenuto per la questione giustizia, che nell’aprile 2011 era indicata da un rispondente ogni 25, mentre oggi da poco più di uno su 100.

    Tab. 1 – Risposte alla domanda: “Secondo Lei, qual è il problema più importante che un governo deve affrontare oggi in Italia?”

     

    Abbiamo quindi mostrato come il lavoro rivesta sempre più il ruolo di problema più importante presso gli elettori italiani. Vediamo adesso come si è evoluta la percezione della capacità di risolvere tale questione. Possiamo indagare questo aspetto attraverso la successiva domanda del nostro sondaggio, che chiede agli intervistati chi sarebbe più capace di risolvere il problema da loro individuato. Le opzioni proposte – in ordine casuale ad eccezione dell’ultima – sono: un governo di centrosinistra; un governo di centrodestra; un governo di larghe intese, come quello attuale; un governo del M5s; nessuno dei quattro sarebbe capace. Analizzando le risposte valide a questa domanda di quanti hanno precedentemente detto che il lavoro è il problema principale, emerge innzanzitutto come si siano ulteriormente accresciute le fila degli sfiduciati. Ovvero chi ritiene non vi sia alcuna opzione politica in grado di risolvere il problema: questi sono oggi il 47,5%, trenta mesi or sono erano il 44,4%. Ormai, quindi, quasi un italiano su due crede che nessuna delle soluzioni in campo possa essere efficace.

    Si conferma poi anche una maggiore credibilità del centrosinistra rispetto al centrodestra, anche se con alcune differenze, dovute in parte alla nuova offerta elettorale. Se infatti nell’aprile 2011 le due coalizioni erano le due sole opzioni in campo, oggi abbiamo necessariamente dovuto includere fra le possibili risposte anche un governo di larghe intese ed uno guidato dal M5s. Vi sono dunque più modalità su cui i rispondenti si vanno a distribuire. Ecco quindi che, fra quanti citano il lavoro al primo posto e rispondono alla domanda successiva sulla competenza, la porzione che indica il centrosinistra come maggiormente capace scende da circa un quarto a circa un quinto. Il calo è pari esattamente a 4 punti percentuali: dal 24,8% al 20,8%.

    Nonostante ciò,”un governo di centrosinistra” è di gran lunga l’opzione più indicata e nel rapporto col centrodestra cresce in maniera sensibile. Se nella primavera 2011 per ogni elettore che riteneva il centrodestra maggiormente capace sull’occupazione ve ne erano 1,8 che indicavano il centrosinistra, ora sono 2,5 gli elettori che rispondono centrosinistra per ogni rispondente che indica il centrodestra. Oggi “un governo di centrodestra” è la risposta meno frequente in assoluto: la sceglie l’8,2% di quanti hanno messo il lavoro al primo posto. In quanto a competenza su questa materia, la coalizione moderata e’ scavalcata non solo dalle larghe intese (13,9%), ma anche dal M5s (9,5%).

    Tab . 2 – Risposte alla domanda: “Secondo Lei, chi sarebbe più capace di risolvere tale problema?” per gli intervistati che hanno indicato il lavoro come problema più importante

     

    Riassumendo, abbiamo osservato come anche dalle domande relative al problema più importante del paese si delinei il quadro di un elettorato sempre più duramente colpito dalla crisi economica e sfiduciato nei confronti della politica. Infatti, abbiamo visto come siano quasi due italiani su tre a indicare oggi il lavoro come priorità dell’agenda di governo, con una ulteriore notevole crescita rispetto al già significativo dato di due anni e mezzo fa. Inoltre sono sensibilmente cresciuti quanti citano altre voci legate alla precarietà economica, quali la povertà e le tasse, che insieme pesano oltre un decimo del campione. Mentre non risultano più essere delle priorità alcune questioni non immediatamente legate all’economia, come l’immigrazione e la giustizia.

    Concentrandoci poi su quei rispondenti che hanno indicato nel lavoro la priorità, abbiamo constatato come sia ulteriormente cresciuta la quota di chi pensa non vi siano all’orizzonte possibili soluzioni al problema, che sfiora ormai il 50%. E questo nonostante l’aumento delle possibili opzioni in campo fra cui scegliere: non più solo le due contrapposte coalizioni, ma anche il M5s o un governo di larghe intese. All’interno della risicata maggioranza che, al contrario, ritiene esista un governo capace di risolvere la questione lavoro, si conferma una maggiore credibilità del centrosinistra.