Autore: Bruce E. Cain

  • Illusioni tattiche e risultati contraddittori

    Illusioni tattiche e risultati contraddittori

    Traduzione di un articolo in inglese originariamente e pubblicato su The American Interest.
    Copyright © The American Interest LLC 2005-2018.

    Bruce E. Cain è il Professore Charles Louis Ducommun di Scienze Umane presso il dipartimento di Scienze Politiche alla Stanford University. Inoltre, è il direttore Spence e Cleone Eccles Family del Bill Lane Centro per l’Ovest Americano e Senior Fellow presso il Woods Institute for the Environment, il SIEPR, e il Precourt Institute for Energy. Da alcuni anni è partner del CISE per studi comparati in ambiti quali le conseguenze dello sviluppo tecnologico sul processo democratico e la competizione politica.

    Traduzione di Elisabetta Mannoni.

    Vaticinare un mandato politico sulla base dei risultati delle elezioni negli Stati Uniti può essere problematico, perché la competizione elettorale si svolge di diversi livelli di governo. Diventa essenzialmente un test di Rorschach per gli esperti[1], specialmente quando gli spostamenti di seggi al Congresso avvengono in direzioni opposte (Cuccurullo e Paparo 2018). Per avere un quadro che sia coerente con i modelli spaziali di competizione politica, i democratici alla Camera dovrebbero spostarsi un po’ più a destra e i repubblicani al Senato un po’ più a sinistra. Perché? Perché i democratici hanno vinto la Camera ottenendo seggi che erano prima dei repubblicani, mentre i repubblicani hanno fatto cadere dei seggi al Senato occupati dagli incumbent democratici. Partendo dal presupposto che entrambi i partiti vogliano mantenere le loro maggioranze nelle rispettive Camere, questo dovrebbe porre le basi per compromessi bipartisan alla Camera e al Senato, su varie questioni di reciproco vantaggio. Potrebbe anche succedere, ma i risparmi di famiglia non ce li scommetterei.

    La spaccatura netta nel risultato elettorale del 2018 ha minato alcune ipotesi chiave che entrambe le parti avevano fatto in merito a queste elezioni. I democratici avevano ideato una buona strategia, ma hanno mancato il bersaglio su alcune scelte tattiche. Come nel 2006, quando alla guida della Commissione Democratica per le Campagne al Congresso (DCCC) c’era Rahm Emmanuel, hanno selezionato per lo più candidati con i profili giusti per i loro collegi e mantenuto con rigore una comunicazione basata sull’assistenza sanitaria e sui posti di lavoro, rivolta agli indipendenti e ai repubblicani moderati.

    Quello in cui hanno sbagliato sono stati i precedenti due anni di tempo ed energia sprecati nel tentativo di convincere la Corte ad adottare un nuovo criterio interpretativo sul gerrymandering. Guidati dal Presidente Obama e da Eric Holder, una cospicua fazione di democratici si era convinta che le elezioni congressuali fossero così truccate contro di loro che il partito avrebbe dovuto vincere con un ampio margine di voti anche solo per ottenere uno stretto margine di seggi (Tucker 2018). Solo una riforma che ridefinisse i collegi elettorali, pensavano, poteva risolvere questo problema. Alla fine, i democratici hanno ottenuto un avanzamento storico in termini di seggi ottenendo il 52% dei voti, decisamente all’interno del range normale registrato negli ultimi decenni.

    A dire il vero, a partire dal censimento del 2010 i repubblicani hanno tenuto le redini del gioco nella maggior parte dei processi legislativi relativi alla ridefinizione dei collegi, e li hanno utilizzati a loro vantaggio. Ma i presunti muri che avrebbero costruito in questo senso non si sono rivelati poi così alti – quantomeno non così alti da fermare l’ondata anti-Trump emersa nelle periferie delle grandi città. I democratici sono stati in grado di assicurarsi,  fino ad oggi, almeno 232 seggi, un’avanzata più grande rispetto a quella del 2006. Inoltre, avendo strappato 7 governatori, entreranno nel prossimo ciclo di riorganizzazione dei collegi con una maggiore protezione politica contro il gerrymandering a loro sfavorevole. Gli svantaggi politici si risolvono più facilmente con strategie politiche intelligenti che con costose dispute legali.

    Tuttavia, non è difficile comprendere la diffusa ossessione dei democratici rispetto alla questione dell’imparzialità del processo elettorale. In aggiunta alla questione dei collegi e del gerrymandering che li svantaggia alla Camera, il criterio di (mal)ripartizione dei seggi al Senato previsto dalla Costituzione favorisce gli Stati rurali (Tucker 2018), in cui i messaggi del Presidente Trump hanno maggiore risonanza. Inoltre i democratici hanno perso due elezioni presidenziali in questo secolo, nonostante avessero vinto il voto popolare in entrambi i casi (Tucker 2018). Se a questo aggiungiamo anche gli sforzi fatti dai repubblicani nel tentativo di istituire vari tipi di restrizioni all’esercizio del diritto di voto, che troppo spesso sembrano mirate agli elettori non bianchi, diventa facile capire perché i democratici avvertano che il gioco sia stato truccato a loro svantaggio. Le democrazie dovrebbero dare al gruppo più numeroso potere su quello meno numeroso, non viceversa.

    Detto questo, la soluzione migliore affinché i democratici riescano ad ottenere il potere politico non è fatta di vittorie tattiche e riforme elettorali, anche se queste cose meriterebbero di essere messe in atto per altre valide ragioni. Piuttosto, quello di cui i democratici hanno bisogno è espandere la loro gittata politica per riconquistare il consenso di alcuni elettori delle zone rurali che si sentono abbandonati ed alienati. È chiaro dalle vittorie in Arizona, Texas, New Mexico, Oklahoma e Colorado che i processi di urbanizzazione e gentrificazione della zona occidentale non costiera del paese andranno a favore dei democratici nel lungo termine, ma i democratici devono anche trovare il modo di condividere la prosperità dell’economia tecnologica e affrontare dei problemi cruciali al di fuori delle loro bolle urbane (dipendenze, scarse prospettive di lavoro, obesità) se vogliono ridurre il vantaggio che i repubblicani hanno oggi in quel tipo di Stati.

    D’altro canto, i repubblicani rischiano di seguire il percorso di Pete Wilson e dei repubblicani californiani negli anni ‘90. Pete Wilson ha cavalcato le paure dell’immigrazione e l’ostilità alla politica dell’Affirmative action per vincere nel 1994[2], ma così facendo ha indirizzato il Partito Repubblicano verso una spirale discendente dalla quale si deve ancora riprendere. Architettare regole di voto che escludano cittadini idonei per minori infrazioni di carattere burocratico o basarsi unicamente sull’appello di Trump rivolto agli elettori rurali e meno istruiti per i prossimi due anni, anziché dedicarsi a politiche di sviluppo e ad una linea di partito che possa riconquistare gli elettori della classe media, sembra l’avvio di una nuova spirale negativa. Ciò non solo costerebbe loro quote crescenti di voto nel corso tempo, ma potrebbe anche significare cedere  ai democratici la loro supremazia nella raccolta di contributi elettorali per il futuro più prossimo. Questa dinamica per cui cercano di mantenere il potere senza di fatto riuscire a vincere il voto popolare, come è successo nelle ultime due presidenziali vinte, è qualcosa che non può durare ancora a lungo. I repubblicani devono riconquistare i cittadini istruiti della classe media che vivono nelle zone suburbane e tenerli nella loro coalizione.

    Senza dubbio gli operatori politici repubblicani sono rimasti sorpresi tanto quanto tutti noi del poco peso che i tagli alle tasse hanno avuto per alcuni blocchi sociali cruciali nella basa repubblicana. In parte è stata colpa del presidente Trump, che ha preferito fare appelli nativisti e preoccuparsi di Kavanaugh alle sue manifestazioni piuttosto che veicolare messaggi che avrebbero contribuito a garantire il consenso dei collegi delle periferie (Cain 2018). A parte i tagli alle tasse e l’allentamento alle regolamentazioni, i repubblicani hanno anche bisogno di affrontare in modo più efficace e persuasivo di quanto abbiano fatto finora questioni come sicurezza scolastica, cambiamento climatico, infrastrutture in decadimento e assistenza sanitaria, se vogliono il voto di elettori istruiti. Hanno anche bisogno di indirizzare un messaggio diverso alle donne, e di farlo in fretta, perché nei prossimi anni il ricambio generazionale sostanzialmente demolirà il fascino delle politiche dello ‘Stand by your man[3].

    Infine, vorrei dare qualche consiglio ad entrambi i partiti in merito alla riorganizzazione dei collegi. Da persona che ha disegnato collegi a vari livelli di governo: un disegno dei collegi di parte avvantaggia un partito se gli consente di espandere o almeno mantenere la sua coalizione. Altrimenti gli si ritorce contro. Un progetto di organizzazione di parte funziona distribuendo gli elettori del partito fra i vari seggi in modo più efficiente, cioè spostando i voti in eccesso di un collegi già conquistato in un altro collegio che si spera di conquistare. Tuttavia, se la marea cambia a tuo svantaggio, i collegi ‘efficientati’ cedendo propri elettori in eccesso diventano più soggetti ad ondate ostili. Un partito che anticipi un’ondata ostile verterebbe in una migliore condizione se mettesse in atto una strategia bipartisan che metta al riparo tutti i politici in carica. Promuovere politiche che espandano la coalizione sociale del partito verso nuovi bacini di elettori rende più efficace il gerrymandering. Per dirla come la direbbe Yoda: se il gerrymandering applicare tu devi, le tue scelte politiche prima sistema, e il tuo bonus tattico raccogli poi.

    Riferimenti bibliografici

    Cain, Bruce E. (2018), ‘Un Presidente “Me-First” all’epoca del “#MeToo”‘. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/03/un-presidente-me-first-allepoca-del-metoo/

    Cuccurrullo, Davide e Aldo Paparo (2018) ‘Elezioni di midterm: Trump perde la Camera ma avanza al Senato’. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/14/elezioni-di-midterm-trump-perde-la-camera-ma-avanza-al-senato/

    Tucker, Joshua A. (2018), ‘Intervista con Joshua A. Tucker (NYU) sulle elezioni americane di midterm’. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/15/intervista-con-il-professor-tucker-della-nyu-sulle-elezioni-di-midterm/


    [1] Test psicologico in cui il soggetto, descrivendo cosa vede in immagini intenzionalmente ambigue e quindi prive di un contenuto univoco, proietta la propria personalità rivelandone i tratti.

    [2] L’Affermative Action è un insieme di leggi, politiche, linee guida e pratiche amministrative tese a porre fine e correggere gli effetti di una specifica forma di discriminazione, che include programmi imposti dal governo a privati, approvati dal governo e volontari. I programmi sono costituiti da azioni positive e si concentrano sull’accesso all’istruzione e all’occupazione, garantendo una considerazione speciale ai gruppi storicamente esclusi, in particolare alle minoranze razziali o alle donne.

    [3] Letteralmente, ‘stai accanto al tuo uomo’. Si intendono politiche volte a tutelare il ruolo tradizionale della donna, piuttosto che a favorirne il pieno inserimento e l’effettiva parità nel mondo del lavoro.

  • Un Presidente ‘Me-First’ all’epoca del ‘#MeToo’

    Un Presidente ‘Me-First’ all’epoca del ‘#MeToo’

    Traduzione di un articolo in inglese originariamente e pubblicato su The American Interest.
    Copyright © The American Interest LLC 2005-2018.

    Bruce E. Cain è il Professore Charles Louis Ducommun di Scienze Umane presso il dipartimento di Scienze Politiche alla Stanford University. Inoltre, è il direttore Spence e Cleone Eccles Family del Bill Lane Centro per l’Ovest Americano e Senior Fellow presso il Woods Institute for the Environment, il SIEPR, e il Precourt Institute for Energy. Da alcuni anni è partner del CISE per studi comparati in ambiti quali le conseguenze dello sviluppo tecnologico sul processo democratico e la competizione politica.

    Tra pochi giorni, molti americani parteciperanno ad ancora un’altra elezione critica. Dico ‘ancora un’altra’ perché di recente abbiamo sperimentato un’insolita sequenza di tornate elettorali di midterm che sono state critiche. Per la maggior parte del periodo successivo alla seconda guerra mondiale, infatti, le elezioni di metà mandato erano più sonnolente e meno influenti. I Democratici hanno controllato la Camera dei Rappresentanti ininterrottamente per 40 anni, fino al 1994, e il Senato degli Stati Uniti per 26 anni di seguito, fino al 1980. Al contrario, a partire dal 1994, la Camera ha cambiato due volte colore e il Senato quattro volte. Se i sondaggi e le proiezioni sono corretti, la Camera passerà nuovamente di mano il prossimo 6 novembre.

    Cosa rende critica un’elezione? Innanzitutto, è la prospettiva che il risultato elettorale cambierà il potere politico e le dinamiche politiche a Washington (Brady 1978). In un’elezione terremoto, le forze nazionali prevalgono sulle personalità, il contesto e le questioni locali, spingendo i risultati del Congresso verso una direzione prevalente. Brady e Parker (2018a) hanno sostenuto che un terremoto abbia storicamente significato uno spostamento di 30 o più seggi. Questa volta, tuttavia, i democratici hanno bisogno di una piccola scossa tellurica, di 24 seggi alla Camera, per conquistarne la maggioranza[1], ma hanno bisogno di qualcosa di più simile a un’ondata di marea per prendere il Senato degli Stati Uniti. Le gare del Senato del 2018 ci ricordano che le elezioni terremoto non si ottengono solo conquistando seggi del partito rivale, ma anche di mantenendo i propri seggi a rischio.

    I soliti sospetti quanto a elezioni negative a midterm (vale a dire dove il partito del Presidente perde molti seggi) sono cattive condizioni economiche, presidenti impopolari e politiche pubbliche fallimentari, oltre al consueto declino del partito al governo (Paldam 1986), che segue le mobilitazioni per le elezioni presidenziali (Stimson 1976). In questo caso, abbiamo un Presidente impopolare, sostenuto da condizioni economiche relativamente buone, in corsa per la rielezione in circostanze di crescente polarizzazione. Il Presidente è particolarmente impopolare presso le donne democratiche e indipendenti per ovvi motivi. Spera di compensare questa debolezza con gli appelli agli uomini bianchi e arrabbiati.

    Ad aggiungere ulteriore incertezza al risultato del 6 novembre, ci sono le diverse dinamiche che si osservano nelle contese fra Camera e Senato. I repubblicani difendono 25 collegi della Camera in cui Hilary Clinton ha vinto nel 2016, contro i 13 rappresentati dai democratici e vinti da Trump. Al contrario, 10 senatori democratici sono in corsa per la rielezione in Stati vinti dal Presidente Trump due anni fa (cinque dei quali vinti da Trump con margini a due cifre), rispetto al solo seggio repubblicano del Senato in uno stato vinto da Clinton – in Nevada dove l’incumbent Dean Heller corre per la rielezione.

    Il Presidente Trump pone un dilemma strategico alla Camera per i repubblicani vulnerabili nei collegi suburbani. Se abbracciano il Presidente, probabilmente mobiliteranno contro di loro la base democratica, possibilmente alienandosi anche molti indipendenti e alcune moderati con inclinazioni repubblicane. Se si allontanano dal Presidente, rischiano di smobilitare la loro base repubblicana.

    In teoria, il Presidente Trump, il leader del Partito Repubblicano, dovrebbe essere preoccupato per questo dilemma tanto quanto lo sono gli incumbent repubblicani della Camera, ma Donald Trump è l’emblema del candidato ‘Me-First’: ogni cosa è sempre, innanzitutto, su di lui. Trump sa che non può conquistare alcun democratico e forse anche molti indipendenti. In passato, un’economia forte avrebbe potuto neutralizzare o smobilitare alcuni di questi democratici, ma come sottolineano Brady e Parker (2018b), sempre più gli elettori vedono l’economia attraverso un filtro partigiano. Qualunque sia la realtà oggettiva, l’economia sembra migliore per gli elettori identificati con un partito quando il loro partito è al governo e più debole quando al governo c’è il partito rivale.

    Per istinto o per calcolo, il Presidente Trump ha adottato una strategia politica divisiva, facendo appello alla sua base elettorale, attirando l’attenzione sulla ‘marmaglia di sinistra’, ritraendo il giudice Kavanaugh come l’ennesima vittima innocente del furore femminista e mettendo in guardia contro politiche liberal estremiste come ‘Medicare per tutti’. Nessuno di questi feticci partigiani aiuterà gli incumbent repubblicani della Camera che rischiano in collegi vinti dalla Clinton nel 2016. Ma potrebbe essere proprio quello che il dottore ha ordinato per sconfiggere i deboli uscenti democratici del Senato in Stati come il Nord Dakota, il West Virginia e il Missouri, dove grande è la base di voto repubblicano.

    Perdere la Camera sarebbe ovviamente problematico per il Presidente Trump, poiché potrebbe innescare numerose indagini e ostacolare l’attuazione di un programma politico conservatore. Perdere il controllo del Senato, tuttavia, sarebbe un colpo potenzialmente devastante, perché bloccherebbe le nomine giudiziarie conservatrici che hanno rafforzato il suo sostegno presso la tradizionale base repubblicana. Probabilmente aumenterebbe anche le probabilità di impeachment. Il Presidente ha forti istinti di sopravvivenza, basati su una vita di successo, nonostante sia disprezzato da molti. Capisce che il Senato è la chiave della sua sopravvivenza politica. C’è una chiara logica politica nelle sue azioni, anche se a molti sembrano una follia.

    Il dilemma strategico per i senatori democratici la cui rielezione è a rischio è stato chiaramente visibile durante le udienze di conferma della Corte Suprema di Brett Kavanaugh. Qualunque senatore democratico che avesse votato per confermare Kavanaugh avrebbe guadagnato l’ostilità della base democratica. D’altro canto, un voto contro Kavanaugh avrebbe favorito la strategia di mobilitazione del Presidente Trump. Mentre diversi recenti sondaggi mostrano che la maggioranza del pubblico americano si oppone al fatto che Kavanaugh sia giudice della Corte Suprema, ciò potrebbe non avere importanza in un’elezione del Senato che fortuitamente chiama alle urne più seggi democratici vinti da Trump nel 2016 che non seggi repubblicani complessivamente (10 contro 9).

    Quindi quali saranno i principali spunti di riflessione se il Presidente, altamente imprevedibile e personalmente impopolare, sopravviverà a questo referendum di metà mandato, e i repubblicani riusciranno a mantenere la maggioranza al Senato? Come prevedibile, molti democratici si concentreranno sui vantaggi strutturali di cui godono i repubblicani, come la piccola sovrarappresentazione a livello di Stati, le restrizioni di legge al voto, il disegno dei collegi e simili. Tutte questioni legittime, ma che oscurano un punto importante che Donald Trump ha colto: c’è molto disagio economico al di fuori dei centri urbani del paese. Nessuno ha una buona risposta su come sostituire la vecchia economia con una nuova in molti stati tradizionalmente repubblicani, ma il Presidente Trump continua a raccogliere dividendi politici facendo leva con forza su queste paure, insieme a una buona dose di nativismo.

    In secondo luogo, anche se negli ultimi anni abbiamo avuto degli esseri umani molto dignitosi alla Casa Bianca, non è chiaro che il carattere sia più così importante per gli elettori. L’elezione di una persona ragionevolmente buona potrebbe essere solo secondaria. Un motivo forse potrebbe essere che presidenti personalmente rispettabili (come Jimmy Carter, Gerald Ford ed entrambi i Bush) sono considerati retrospettivamente deboli e inefficaci, mentre alcuni fra quelli eticamente più dubbi (quali Lindon Johnson, Bill Clinton e Richard Nixon) hanno ottenuto risultati significativi durante i loro mandati.

    In un’ottica di più lungo respiro circa il carattere presidenziale, l’ideale dei primi del diciottesimo secolo di rappresentanti come trustee – che facevano ciò che era meglio per i loro elettori (Pitkin 1967) – ha da tempo lasciato il posto all’ideale moderno dei rappresentanti che fanno esattamente quello che vogliono i loro elettori (Rehfeld 2009). Oggi, il messaggero deve solo consegnare il messaggio fedelmente, senza esercitare alcun giudizio indipendente. I titolari di cariche elettive sono meri strumenti della volontà popolare, non esperti neutrali o leader saggi con la responsabilità di correggere o controllare il giudizio del popolo. D’altro canto, se i connazionali di diverso colore politico sono nemici, quale può essere la funzione di rappresentanti compassionevoli ed empatici?

    Mettere facce nuove nello stesso sistema politico, con gli stessi incentivi e le stesse pressioni non ripristinerà il ruolo del carattere nella rappresentanza politica. Ma cosa potrà? Il problema potrebbe essere radicato troppo in profondità nelle nostre aspettative ristrette e populiste sulla rappresentanza e su ciò che serve per navigare nel materiale trincerato e negli interessi ideologici dell’America contemporanea.

    Riferimenti bibliografici

    Brady, David W. (1978), ‘Critical elections, congressional parties and clusters of policy changes’, British Journal of Political Science, 8(1), pp. 79-99.

    Brady, David W. e Scott Parker (2018a), ‘Verso un terremoto elettorale nelle midterm elections?’. https://cise.luiss.it/cise/2018/10/30/verso-un-terremoto-elettorale-nelle-midterm-elections/

    Brady, David W. e Scott Parker (2018b), ‘La matematica delle elezioni di midterm’. https://cise.luiss.it/cise/2018/09/25/la-matematica-delle-elezioni-di-midterm/

    Paldam, Martin (1986), ‘The distribution of election results and the two explanations of the cost of ruling’, European Journal of Political Economy, 2(1), pp. 5–24.

    Pitkin, Hanna F. (1967), The concept of representation. Berkeley, University of California Press.

    Rehfeld, Andrew (2009), ‘Representation rethought: on trustees, delegates, and gyroscopes in the study of political representation and democracy’, American Political Science Review, 103(2), pp. 214–230.

    Stimson, James A. (1976), ‘Public Support for American Presidents A Cyclical Model’, Public Opinion Quarterly, 40(1), pp. 1–21.


    [1] Questo rispetto ai seggi conquistati nel 2016. L’avanzata richiesta è di soli 23 seggi, invece, se prendiamo, come punto di partenza, i seggi in questo momento detenuti da candidati democratici nelle più recenti elezioni (compreso quindi il 18° della Pennsylvania, vinto in elezioni suppletive nel marzo di quest’anno.