Autore: Roberto D’Alimonte

  • Renzi vale il 6,4%: a chi sottrae voti Italia Viva?

    Renzi vale il 6,4%: a chi sottrae voti Italia Viva?

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del  22 settembre

    Italia Viva vale il 6,4%. Questa è la stima ricavata dal sondaggio Winpoll-Sole24Ore (Fig. 1) relativa al nuovo partito di Matteo Renzi. É un primo dato cui dovranno seguirne altri per avere una idea più precisa del suo peso effettivo all’interno del sistema partitico italiano. Con questa percentuale Italia Viva si colloca al quinto posto, dopo Fratelli d’Italia e prima di Forza Italia.

    Fig. 1 – Intenzioni di voto nel sondaggio Winpoll di settembre

    Come era prevedibile i suoi consensi vengono quasi tutti da quel bacino elettorale che va dal Pd al partito di Berlusconi (Fig. 2). Sorprendentemente non è il Pd a cedere il maggior numero di voti. L’analisi dei flussi fatta partendo dalle ultime elezioni europee dice che è +Europa la formazione che paga maggiormente la concorrenza del nuovo partito. Del 6,4% delle intenzioni di voto di Italia Viva, l’1,8% viene da lì mentre l’1,6% viene dal Pd e l’1,5% da Forza Italia. Da un’altra prospettiva possiamo dire che, fatto 100 l’elettorato di Italia Viva, il 28,1% sono ex elettori di +Europa, il 25% ex elettori del Pd e il 23,4% ex elettori di Forza Italia. Le provenienze dagli altri partiti e dall’area del non voto sono modeste, anche se sommate fanno pur sempre quasi il 25%.

    Fig. 1 – Provenienza degli elettori di Italia Viva. Fonte: Winpoll

    Questi flussi modificano, ma non sconvolgono, il quadro politico. Rispetto alla ultima rilevazione Winpoll-Sole24Ore del 14 Settembre il mutamento più significativo riguarda +Europa che perde la metà dei suoi elettori. Il Pd passa dal 23,3% al 20,7% e Forza Italia dal 6,8% al 5,7%. A livello di schieramenti, l’area di centro sinistra, prima dell’arrivo di Italia Viva valeva il 27,7%, ora vale il 29,7%. É un incremento modesto ma sembra comunque che il partito di Renzi contribuisca a rafforzare questa area, come è nelle intenzioni dichiarate del suo fondatore. Tuttavia, è presto per dare troppo peso a questa affermazione. Questi dati vanno presi con molta prudenza. La sfida di Renzi è solo agli inizi. Il 6,4% di oggi potrebbe essere un punto di partenza, ma potrebbe anche rivelarsi un punto di arrivo. Per capirlo davvero dovremo aspettare.

    Alle prossime elezioni regionali in Umbria Italia Viva non ci sarà. Non è chiaro se si presenterà il prossimo anno alle altre regionali che si terranno tra Gennaio e Maggio e che vedranno coinvolte regioni importanti come Emilia–Romagna, Campania e soprattutto Toscana. Sarebbe ben strano che nella sua regione Renzi rinunci a giocare un ruolo in proprio con il suo nuovo partito. Ma pare di capire che la sua strategia sia quella di radicarsi nel paese prima di affrontare le urne. Per ora dobbiamo accontentarci delle intenzioni di voto.    

    Il partito di Renzi avrebbe avuto ben altra consistenza se fosse nato nel 2012 all’indomani della sua sconfitta nelle primarie contro Bersani. A quell’epoca la sua immagine era quella dell’uomo nuovo, il rottamatore. Aveva intercettato lo spirito dei tempi. Avrebbe potuto essere l’antesignano di Macron. Ma allora prevalse l’idea di arrivare al governo conquistando il Pd e non facendo un proprio partito. E così è andata, ma Renzi non ha mai veramente conquistato il Pd. Come ha detto lui stesso recentemente è sempre stato percepito come un intruso. E alla fine ha perso quella carica innovativa che ne aveva fatto di punto in bianco il protagonista della politica italiana. Il resto lo hanno fatto i suoi errori.

    Adesso riparte da questo 6,4% che non è poco ma non è nemmeno molto. É una base che gli dà la possibilità di sviluppare una iniziativa politica autonoma. La polarizzazione attuale della politica italiana riduce l’appeal di un partito come Italia Viva, ma viviamo in tempi liquidi e questo offre opportunità che un politico abile può sfruttare. Resta da vedere se la strategia di Renzi sarà orientata a favorire la nascita di un nuovo bipolarismo. Se così, renderà un servizio utile al centro-sinistra e al paese. Ma a questo scopo serve una posizione chiara sulla riforma elettorale, di cui si continua a vociferare dietro le quinte. Su questa materia che, come lui ben sa, è cruciale per la governabilità del paese non può prevalere l’ambiguità. Se il Pd dovesse muoversi in direzione di un ritorno ad un sistema elettorale interamente proporzionale Renzi non può nascondersi dietro l’alibi della lealtà allo schieramento di cui fa parte. La posta in gioco è troppo alta, anche se interessa poco la massa degli elettori. Il paese non ha bisogno di vedere manipolate ancora una volta le regole del gioco dal vincitore di turno né ha bisogno di tornare a un sistema in cui i partiti decidono dopo il voto con chi fare e disfare i governi. Gli avversari si sconfiggono sul piano politico, non cambiando le regole. Questo è il contributo che Italia Viva dovrebbe dare per garantire un futuro migliore a quel mondo che aspira a rappresentare. 

  • Conte due: partenza in salita

    Conte due: partenza in salita

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 15 settembre

    Per Il secondo governo Conte è una partenza in salita. Il 55 % degli elettori ne dà un giudizio negativo (Fig. 1). É quanto emerge dalla rilevazione Winpoll-Sole 24 Ore. La differenza con il Conte uno è netta. A Luglio 2018 il suo indice di gradimento era superiore al 50%. Il dato negativo di oggi si spiega in gran parte con la distribuzione delle intenzioni di voto tra i partiti. Molto semplicemente gli elettori dei partiti di opposizione sono più dei sostenitori dei partiti di governo ed è ovvio che a loro l’attuale governo non piaccia.

    Fig. 1 – Gradimento governo M5S-PD. Fonte: Winpoll

    Nonostante il fallimento della sua strategia estiva, la Lega di Matteo Salvini resta di gran lunga il maggior partito (Fig. 2). Ha perso alcuni punti rispetto al picco raggiunto a fine Luglio, ma il 34% stimato ne fa ancora uno dei più forti partiti in Europa e il perno dello schieramento di destra. Lega e Fdi arrivano insieme al 42,9%. Con Forza Italia la percentuale sale al 49,7%.

    Fig. 2 – Intenzioni di voto. Fonte: Winpoll

    Per l’attuale governo non tutti i dati sono negativi. Ci si sarebbe potuti aspettare che la nascita di un esecutivo che vede insieme due formazioni con un passato caratterizzato da aspri conflitti avrebbe penalizzato significativamente i consensi di entrambe. Ma così non è. Rispetto al sondaggio Winpoll di fine agosto il M5s passa dal 16,6% al 15,5 % ma si tratta di un arretramento statisticamente insignificante. Lo stesso vale per il Pd che scende al 23,3% dal 24%. Il dato più importante è un altro. Gli elettori dei due partiti al governo dimostrano un grado di accettazione reciproca e di condivisione di questa esperienza del tutto inaspettato (Fig. 1). Il 93% degli elettori Pd e l’85% di quelli del M5s danno del nuovo governo un giudizio positivo, che per un elettore su tre è addirittura molto positivo. Tra l’altro il 70% dei cinque stelle dichiara di preferirlo a quello precedente in cui il M5s era alleato della Lega. 

    Rimangono tuttavia differenze importanti tra gli elettori dei due partiti. Per esempio sulla possibilità che l’accordo raggiunto a livello nazionale si trasformi in accordi elettorali alle prossime elezioni regionali e comunali. Tra gli elettori del Pd quelli che vedono questa possibilità molto positivamente o abbastanza positivamente sono addirittura l’81%. Gli elettori del Movimento sono più cauti. Solo il 47% di loro è favorevole mentre il 43% è contrario. Tenendo conto del passato non sono percentuali modeste ma è evidente che per molti elettori cinque stelle non è ancora arrivato il momento di una alleanza a tutto campo. 

    Ancora più netto è il diverso atteggiamento rispetto al valore strategico della alleanza di governo. Per quasi la metà degli elettori democratici (49%) la nascita del Conte due potrebbe rappresentare un primo passo verso la costituzione di un nuovo polo di centro-sinistra in contrapposizione ad un polo di centro-destra. Invece per il 58% degli elettori del Movimento il governo attuale rappresenta solo un fatto temporaneo senza alcuna valenza strategica. Questa opinione è largamente condivisa anche dagli elettori della Lega (63%), Fdi (58%) e Forza Italia (51%).

    Sulla durata del governo in carica invece le differenze spariscono (Fig. 3). Praticamente nella stessa misura, il 45-46%, i due elettorati si aspettano che duri fino alla fine della legislatura. Non è una percentuale elevatissima, ma considerando le residue diffidenze reciproche e la novità dell’impresa non si può dire che sia irrilevante. In ogni caso meno del 10% pensa che durerà solo pochi mesi. Cosa che invece si aspettano molti, ma non tutti, gli elettori dei partiti di destra.

    Fig. 3 – Durata del governo M5S-PD. Fonte: Winpoll

    In sintesi, a livello di elettorati la distanza tra Pd e Movimento è molto diminuita. Tanto che il 64 % degli elettori democratici pensa che i programmi dei due partiti siano abbastanza simili. Il fatto sorprendente è che la stessa opinione sia condivisa dal 58% degli elettori cinque stelle. Siamo di fronte a un cambiamento di atteggiamenti che fino a poco tempo fa era impensabile. La velocità con cui è avvenuto lascia perplessi, ma forse è semplicemente il segnale della mutata composizione dell’elettorato del Movimento. Come abbiamo segnalato più volte, nel corso della sua esperienza di governo con la Lega il Movimento ha perso molti suoi elettori di destra a favore del partito di Salvini. Gli elettori rimasti hanno un orientamento che su molti temi è ideologicamente vicino a quello degli elettori democratici, indipendentemente dal fatto che i cinque stelle continuino a rifiutare le etichette di destra e sinistra.

    In conclusione, il quadro che emerge da questa rilevazione evidenzia una opportunità per i vertici dei due partiti e per il paese. Come abbiamo già fatto notare, è ancora troppo presto per concludere che l’accordo che ha dato vita al governo Conte due configuri un ritorno ad un assetto bipolare della politica italiana.  Ma l’ipotesi non è da escludere a priori. Tra i due partiti esiste oggi la possibilità di gettare le basi di una vera svolta. Dopo un lungo periodo di contrapposizione frontale è iniziato un processo di convergenza che questi dati evidenziano. Eppure invece di assecondare questa prospettiva politica che assicurerebbe al paese un minimo di governabilità pare che i leader di Pd e M5s si preoccupino di manipolare ancora una volta le regole del gioco e reintrodurre un sistema elettorale proporzionale che è l’esatto contrario di quello di cui il nostro paese ha bisogno in questa fase storica così tormentata.

  • Il nuovo governo Conte e l’istituzionalizzazione del M5S

    Il nuovo governo Conte e l’istituzionalizzazione del M5S

    Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 6 settembre

    Il governo Pd-M5s-Leu c’è. Il voto di fiducia non sarà un problema. I numeri alla Camera e anche al Senato ci sono. È la sua durata il vero interrogativo. Nel nostro sistema politico mancano forti incentivi istituzionali e culturali, come in Francia e in Germania, a sostegno della stabilità dei governi. Durante la stagione del riformismo della Seconda Repubblica si è riusciti a stabilizzare i governi locali e regionali, ma non quello nazionale. A partire dal 1994 abbiamo avuto 15 governi che sono durati in media 20 mesi. Tra il 2013 e oggi i governi sono stati quattro con una durata media di 18 mesi. Come si fa a governare un paese in queste condizioni? Come si fa a contare in Europa con governi così effimeri? Ma la stabilità dell’esecutivo non è considerato da noi un valore. Anzi tanti arrivano a pensare il contrario. Dunque, il pronostico non è favorevole al Conte due.

    Eppure questo governo nasce in circostanze molto particolari. A suo favore giocano diversi fattori. In primis, il diverso clima che si è creato nei rapporti con l’Unione Europea e i mercati finanziari. Questo governo senza la Lega piace. E piacciono Conte, Gualtieri, Amendola e Gentiloni. Non solo. È cambiato l’atteggiamento del M5S nei confronti della Unione ed è cambiato l’atteggiamento delle istituzioni europee e dei mercati nei confronti del Movimento. La sua decisione di votare il presidente della commissione è stato un segnale importante a conferma di un processo di istituzionalizzazione che ne sta cambiando il profilo. Va da sé che questo nuovo clima rende meno problematica la definizione della legge di bilancio 2020 ed elimina, o quanto meno attenua di molto, una potenziale fonte di conflitto tra i partiti al governo.

    A favore del nuovo esecutivo gioca anche il fatto che i Cinquestelle di oggi non sono quelli di 14 mesi fa. L’esperienza di governo, pur tra mille contraddizioni, li ha costretti a fare i conti con la realtà. Si sono progressivamente istituzionalizzati. E questo faciliterà la vita del secondo governo Conte, non solo nel rapporto con l’Unione ma anche in quello tra alleati. E a questo proposito è positivo che all’interno della coalizione non ci sia un leader in una posizione dominante, ed elettoralmente redditizia, come è stato il caso di Salvini nel primo governo Conte. Alla lunga, come si è visto, un governo in cui uno dei partner guadagni tanto a spese dell’altro non può durare. L’ equilibrio elettorale è condizione di stabilità. Ma per questo occorre che l’azione del governo rispecchi gli interessi di tutti i suoi membri. Spetta a Conte la responsabilità delle necessarie mediazioni. (www.biolighttechnologies.com) Non è una impresa impossibile. Sui programmi la distanza tra i partiti alleati, e soprattutto tra Pd e Cinquestelle, è relativamente modesta. Soprattutto ora che il M5s ha perso la capacità di prendere voti da tutte le parti. Oggi il suo profilo elettorale è più omogeneo perché molti suoi elettori di destra sono tornati a destra. Su fisco, lavoro, casa, scuola i partiti di governo non sono distanti. Sulla green economy sono in sintonia. E su immigrazione e sicurezza le posizioni si sono avvicinate. Esistono ancora differenze sui temi istituzionali. Tuttavia non sarà il taglio dei parlamentari a creare problemi esistenziali a questo governo.

    Ma non è affatto detto che tutto fili liscio. Alla fine saranno gli elettori a pesare e di questi tempi le loro reazioni sono imprevedibili. E in una certa misura lo è anche il Movimento. Il suo processo di istituzionalizzazione è ancora incompleto. Nonostante tutto quello che si è detto, la creatura di Grillo e Casaleggio resta un attore ‘diverso’ con tante anime al suo interno. Come si è visto anche nei giorni scorsi. Nel passato la sua diversità lo ha aiutato a distinguersi e a conquistare un consenso amplissimo sfruttando la voglia di cambiamento di tanti elettori delusi e arrabbiati. Da questa diversità possono ancora discendere comportamenti eterodossi e destabilizzanti. Il rischio è che di fronte a un governo che dovesse risultare impopolare e a una grave perdita di consensi prevalga di nuovo la voglia di tornare ad essere la forza anti-sistema delle origini. In questo caso nemmeno la paura di perdere male eventuali elezioni anticipate sarebbe un collante sufficiente a tenere insieme il secondo governo Conte. Ma questo non è il momento del pessimismo.

  • Dilemma M5S-PD: elettori più vicini, militanti lontani

    Dilemma M5S-PD: elettori più vicini, militanti lontani

    Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 27 agosto

    Le crisi politiche, così come quelle economiche, creano spesso nuovi scenari. E’ quello che sta succedendo in questa fase convulsa della nostra vita politica. Il dato più importante del sondaggio pubblicato domenica scorsa su questo giornale (Sondaggio Winpoll-Sole24Ore del 25 agosto) non è il calo di cinque punti nella stima delle intenzioni di voto della Lega. È il fatto che oggi la maggioranza assoluta degli elettori del Pd (62%) e la maggioranza relativa di quelli del M5s (43%) sono disponibili ad accettare un governo formato dai due partiti. Non era così fino a poco tempo fa. È la crisi che ha avvicinato i due elettorati. La stessa cosa però non è ancora avvenuta, quanto meno non nella stessa misura, a livello di militanti.

    Questo è vero soprattutto all’interno del Movimento. Su questo non abbiamo dati, ma solo dichiarazioni e impressioni ricavate dai social media. A differenza dei suoi elettori, la base militante del Movimento fa più fatica a digerire un accordo di governo con un partito che ha rappresentato per anni l’antitesi del Movimento. In un certo senso si può dire che il M5s è nato contro il Pd che era visto come parte integrante di un sistema da abbattere. Ma agli albori il M5s era un fenomeno di nicchia. Poi è diventato un movimento di massa. Una trasformazione così rapida che ha sorpreso i suoi stessi protagonisti. Alle elezioni del 2013 ha preso più di 8 milioni di voti, diventando di punto in bianco il primo partito italiano. Cinque anni dopo gli elettori sono diventati addirittura più di 10 milioni. Oggi sono molti meno, ma sempre tanti e più del 40% di loro preferisce un governo con il Pd ad altre soluzioni. Molti dei militanti però sono ancora quelli di una volta. L’imprinting iniziale è difficile da modificare. Per questo un voto tramite Rousseau su un eventuale accordo con il Pd è un problema. Sulla piattaforma non votano i milioni di elettori del M5s ma qualche migliaio di militanti.

    Elettori da una parte e militanti dall’altra. Per ogni organizzazione partitica che miri a conquistare un consenso ampio la contrapposizione è quasi sempre inevitabile. Mutatis mutandis, è il problema con cui è alle prese oggi il partito democratico negli USA dovendo scegliere un candidato alla presidenza che sia appetibile alla sua base progressista, ma che sia anche capace di raccogliere consensi tra gli elettori più moderati. Nel caso del M5s il candidato in grado di tenere insieme elettori e militanti sembra essere Giuseppe Conte. L’insistenza del Movimento sul suo nome non è solo una questione di principio. È una necessità legata alle divisioni che lo stanno lacerando. Grazie alla credibilità che si è conquistato e all’appoggio esplicito di Grillo, Conte rappresenta all’interno del Movimento un punto di equilibrio che nemmeno lo stesso Di Maio può più garantire.

    Tutto è ancora possibile in questo momento. Altre sorprese potrebbero essere dietro l’angolo. Ma sembra che il Pd abbia fatto cadere il suo veto su Conte. Se questa decisione verrà confermata, si realizzerà una condizione necessaria per la nascita del governo Pd-M5s. Quanto però questo governo possa durare è un’altra questione. Tra gli elettori del Pd e quelli del M5s su questo punto le opinioni sono molto divergenti. Infatti, il 56% dei primi pensa che possa durare fino alla fine della legislatura, mentre solo il 34% dei secondi condivide questa opinione. Evidentemente molti elettori del Movimento, che pure preferiscono l’alleanza con il Pd ad altre soluzioni della crisi, si rendono conto delle difficoltà del progetto e del rischio che possa fallire in tempi brevi.

    Non c’è dubbio che questo rischio esista. Molti fattori giocano contro, a partire da una situazione economica che non promette nulla di buono. Ma ce ne sono altri che giocano a favore. Alcune delle questioni politiche più spinose, come la TAV, non sono più sul tappeto. Ed è molto probabile che la commissione europea dimostri nei confronti di un governo senza la Lega una maggiore disponibilità sui conti. Ma, in prospettiva, la durata dell’eventuale governo Pd-M5s è legata soprattutto al fatto che nessuno dei due alleati ne esca perdente a livello elettorale. Per questo sarà importante vedere in che misura il programma dell’eventuale esecutivo rappresenterà un punto di equilibrio tra i temi che ‘appartengono’ al Pd e quelli che ‘appartengono’ al M5s e ai suoi militanti. Se Conte verrà confermato presidente del consiglio sarà questo uno dei suoi compiti più delicati. Se ci riuscirà, potrebbe contribuire a gettare le basi di un nuovo bipolarismo.

  • Gli elettori M5S dicono si al PD, ma sarà un governo breve.

    Gli elettori M5S dicono si al PD, ma sarà un governo breve.

    Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 25 agosto

    Era prevedibile che questa crisi di governo costasse a Salvini e al suo partito consensi e credibilità. E così è stato. È quanto risulta dal sondaggio Winpoll-Sole 24 Ore. Alle europee la Lega aveva preso il 34,3%, nel sondaggio Winpoll-Sole del 30 Luglio era stimata al 38,9%, nel sondaggio di oggi è scesa al 33,7%. È presto per dire se questo dato rappresenti una battuta d’arresto oppure la fine di un ciclo. Ci vorranno conferme. E non dipenderà solo dalla Lega. Dipenderà molto da come verrà risolta questa crisi e dalle politiche che verranno attuate da un eventuale nuovo governo. Intanto c’è da rilevare che Il M5s recupera rispetto al sondaggio di Luglio e il Pd conferma la crescita che si era già manifestata negli ultimi mesi. Né l‘uno né l’altro però beneficiano significativamente del calo della Lega. In proporzione lo fa di più Fdi.

    A parte le intenzioni di voto, il dato più interessante riguarda le preferenze degli elettori rispetto alle soluzioni della crisi. La maggioranza relativa (il 41%) vorrebbe tornare al voto in autunno. Questo dato nasconde però una netta differenza tra destra e sinistra. Solo il 21% degli elettori del Pd vorrebbero le urne mentre il 62% preferisce un governo con il M5s. Dall’altra parte l’83% degli elettori della Lega vogliono le elezioni insieme a quelli di Fdi e di Forza Italia. In mezzo si collocano gli elettori del Movimento. Solo il 22% vuole il voto in autunno, mentre il 43% preferisce un governo con il Pd. Questi ultimi non sono la maggioranza assoluta, ma non sono pochi. Fino a poche settimane fa erano molti meno. Sono pochissimi invece gli elettori della Lega (solo il 7%) che preferiscono tornare al governo con i Cinque Stelle. E altrettanto pochi sono gli elettori M5s (16%) che vorrebbero tornare con la Lega.

    Questi dati inglobano certamente una componente emotiva legata all’andamento della crisi. Però, nel loro complesso segnalano dei cambiamenti in atto. Qualcosa si è rotto tra gli elettorati di M5s e Lega, mentre tra Pd e M5s non sembra esserci più quella distanza abissale che esisteva fino a poco tempo fa. Questo dato è in sintonia con un fenomeno che avevamo già fatto notare in passato. L’alleanza con la Lega ha fatto perdere al M5s una larga fetta del suo elettorato più orientato a destra. Gli elettori rimasti sono largamente elettori di sinistra, molti dei quali però hanno maturato nel tempo una avversione viscerale per il Pd. È un atteggiamento che persiste e che pesa sulle trattative in corso. È difficile cancellare in pochi giorni sentimenti negativi profondamente radicati soprattutto tra i militanti. E questo serve a spiegare perché tra gli stessi elettori del M5s, che pure sono in maggioranza (relativa) favorevoli a un governo con il Pd, solo il 34 % crede che un tale governo possa durare tutta la legislatura mentre il 37% pensa che durerà pochi mesi. Molto più ottimisti sono invece gli elettori del Pd.

    Oggi un esecutivo M5s-Pd non è più una ipotesi fantascientifica. Forse sarà necessario un governo intermedio prima di arrivare ad una alleanza organica. Ma quale che sia il governo, dovrebbe evitare due errori. Il primo è quello di dimenticare che i temi che hanno fatto crescere la Lega di Salvini dal 4 a oltre il 30% sono temi popolari. Tasse, immigrazione, sicurezza e sovranità sono questioni che generano largo consenso. Sono i temi vincenti di Salvini. Quelli su cui si è costruito una credibilità a prova di passi falsi. Sarà un compito non facile del prossimo governo, se nascerà, declinare queste preoccupazioni degli italiani in politiche che, pur tenendo conto di sensibilità diverse, non diano l’impressione di una brusca discontinuità. Il secondo errore è quello di farsi ammaliare dalle sirene del proporzionalismo pur di fermare l’avanzata della destra. Il taglio dei parlamentari non deve essere l’alibi per eliminare dal Rosatellum quel poco di maggioritario che c’è.

    Ma non bastano i numeri di un sondaggio a cambiare le cose. Non è affatto detto che M5s e Pd riescano a elaborare in poco tempo una piattaforma comune per un governo di legislatura. E le notizie di queste ore confermano i dubbi. Al di là delle differenze politiche e programmatiche resta il problema di come gestire la transizione da un governo all’altro e il retaggio di vecchie ruggini. Ma il fatto che i due partiti abbiano iniziato a dialogare non è irrilevante, comunque vadano le cose. Se dovessero trovare un accordo si aprirebbe una fase nuova della politica italiana con riflessi importanti anche a livello locale. Inoltre, se l’accordo fosse solido e premiato dagli elettori un ritorno al bipolarismo non sarebbe impossibile. Se fallissero le conseguenze sarebbero altrettanto rilevanti. Un nuovo governo M5s-Lega non è ancora da escludere del tutto. L’alternativa sono le elezioni. E in questo caso tutto quello che è stato scritto sugli errori del leader della Lega andrebbe completamente rivisto. Diventerebbe di colpo un genio della politica. Voleva le elezioni e le ha avute, dopo aver fatto credere a tutti di avere fatto una frittata. E sarebbero elezioni che vincerebbe meglio di quanto sarebbe successo se Pd e M5s non avessero cercato invano un accordo. Gli elettori sono mobili.

  • Il ritorno del bipolarismo

    Il ritorno del bipolarismo

    Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 14 agosto

    C’era una volta il bipolarismo. Dalle elezioni del 1994 a quelle del 2008 l’Italia ha vissuto una stagione politica nuova in cui si sono alternate al governo due coalizioni, una di centro-destra e l’altra di centro-sinistra, che sono riuscite a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. Si andava a votare e gli elettori decidevano chi avrebbe governato. Le elezioni erano decisive. Terzi poli ci sono sempre stati ma non sono riusciti a impedire che dalle elezioni, e non dagli accordi di partito, scaturisse il governo del Paese. Poi è arrivato il M5s e tutto è cambiato. I poli sono diventati tre e le elezioni non sono più state decisive. Oggi stiamo assistendo a un tentativo di tornare ad un assetto bipolare della competizione elettorale, grazie all’indebolimento del M5s.

    Uno dei due poli esiste già, ed è rappresentato dalla Lega una e trina di Salvini. Stando alla media dei sondaggi della ultima settimana di luglio è accreditata del 36,6% delle intenzioni di voto. Alle elezioni del 2018 tutta insieme la coalizione di centro-destra ha ottenuto alla Camera il 37%.  Pare che per un attimo il leader della Lega abbia pensato di poter presentarsi alle prossime elezioni da solo. Adesso forse ha capito che mettersi da solo contro tutti è una mossa troppo rischiosa. E non solo per ragioni elettorali. Deve essersi improvvisamente ricordato di Renzi e ha cambiato idea. Pare quasi certo che il polo di centro-destra vedrà insieme Lega e Fratelli d’Italia. Resta l’incognita di Forza Italia. Sarebbe straordinario se Salvini imbarcasse in coalizione il partito di Berlusconi dopo aver negato ripetutamente di volerlo fare a livello nazionale. Eppure ci sta pensando. L’incontro di ieri è andato male perché l’offerta di far sciogliere Forza Italia in un listone unico è stata rifiutata. Ma non è detto che sia finita qui. Sul piano strettamente elettorale Salvini potrebbe fare a meno di Berlusconi. (https://www.creditcadabra.com) Lui e la Meloni, sempre stando ai sondaggi citati, possono contare su circa il 43% dei voti. Con questa percentuale hanno ottime possibilità di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi sia alla Camera che al Senato. Certo è che aggiungendo a questa cifra il 7% circa di cui viene accreditato Berlusconi il successo non solo sarebbe sicuro ma anche ampio.

    In ogni caso, qualunque sia la sua configurazione definitiva, il polo di centro-destra c’è. Quello che manca per parlare di ritorno al bipolarismo è il polo di centro-sinistra. Lo si è visto l’ultima volta nel 2008 quando la coalizione di Veltroni arrivò al 37,9%. Poi è scomparso con l’arrivo del ciclone Cinque Stelle verso cui sono finiti una bella fetta di voti di sinistra. La coalizione di Bersani nel 2013 si è fermata al 29,5 %. Quella di Renzi nel 2018 al 22,9. La solita media dei sondaggi accredita oggi una coalizione targata Pd intorno al 25%. Questa percentuale non fa un polo. Al momento, a sinistra del polo di centro-destra non esiste un polo di centro-sinistra ma due partiti distanti tra loro, Pd e M5s.

    Tra questi due partiti si è creata nel tempo una distanza che non è solo politica, ma addirittura antropologica. Non solo a livello nazionale, ma soprattutto a livello locale, nei consigli comunali e regionali. Adesso è arrivata la crisi di governo e di fronte alla prospettiva di elezioni anticipate che Pd e M5s divisi non possono nemmeno sperare di vincere è forse cominciata una fase nuova che potrebbe portare ad un riassetto bipolare del nostro sistema. Per chi crede, come il sottoscritto, alla virtù della democrazia maggioritaria è una buona notizia. Si fa fatica però a pensare che un processo del genere possa essere portato a termine in tempi brevi, anche se si è creata una condizione importante a suo favore. 

    Il M5s non è più, sul piano elettorale, quello del 2013 e del 2018. Ha perso verso la Lega la sua componente di destra. Salvini è stato bravo, imitando i Grillo e i Di Battista, a convogliare su di sé quei voti che facevano del Movimento un attore trasversale. È così che si spiega anche la sua avanzata al Sud. La fase del Movimento come partito-pigliatutti è finita. A livello di elettorati la distanza tra Pd e M5s è diminuita. Resta il lascito di una ostilità maturata nel tempo che, come dicevamo, è più antropologica che politica. E resta un problema di credibilità. Male hanno fatto i due partiti a trascurare il dialogo nei mesi scorsi. L’impressione è che adesso sia troppo tardi. Ma il bisogno di creare un secondo polo del sistema che possa essere una credibile alternativa di governo non sparirà con la conclusione di questa crisi e con eventuali nuove elezioni. In sua assenza, continueremo a restare dentro un assetto tripolare, ma asimmetrico, con un polo dominante e due attori irrilevanti.   

  • It’s the economy stupid!

    It’s the economy stupid!

    Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 13 agosto

    It is the economy, stupid! Alla fine è l’economia che conta. È l’espressione diventata famosa coniata dallo stratega elettorale di Bill Clinton durante la campagna elettorale del 1992 che ha portato uno oscuro governatore dello stato dell’Arkansas a diventare presidente degli USA sconfiggendo un presidente in carica. Ed è forse proprio l’economia che spiega la ‘misteriosa’ decisione di Matteo Salvini di provocare la crisi in un momento così inusuale. Perché proprio ora? Ce lo siamo chiesti la settimana scorsa sulle pagine di questo giornale e ce lo chiediamo ancora. Non c’è dubbio che sia stata una decisione tardiva e inaspettata. È arrivata dopo due successi incassati dalla Lega, sul decreto sicurezza bis e sulla Tav. L’unico NO è stato sulla autonomia. Un NO pesante che ha accentuato le contraddizioni della Lega una e trina. Ma anche l’economia deve aver giocato un suo ruolo.  

    Tra il voto sulla TAV e la decisione di rompere è scattato qualcosa nella testa del leader della Lega. Un qualcosa che si è aggiunto a varie ragioni che lo spingevano a fare quel passo ma che fino all’ 8 Agosto non lo avevano convinto del tutto. Forse non sapremo mai con certezza cosa è stato quel qualcosa. Ma è possibile che, insieme ai fattori già discussi (si veda Il Sole 24 Ore di Sabato 10 Agosto), l’economia sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Forse qualcuno ha spiegato a Salvini cosa è successo a quel George W. Bush senior che fu spodestato da Clinton nel 1992. L’unico caso negli ultimi 37 anni di un presidente in carica che non è stato rieletto. Un anno prima delle elezioni la popolarità di Bush era alle stelle. Dopo la guerra del Kuwait quasi il 90% degli americani ne approvavano l’operato. Un anno dopo il 60% ne davano un giudizio negativo. Fu la recessione economica a fare la differenza e a aprire le porte della Casa Bianca a Clinton. It is the economy, stupid! La felice invenzione di Carville servì a focalizzare la campagna elettorale democratica sul tema che contava veramente, la recessione.  

    La recessione economica sta bussando alle porte anche da noi. A fine Luglio l’Istat ha certificato la crescita zero per il secondo trimestre italiano. Anche i segnali che vengono dall’esterno sono preoccupanti. I dati negativi sulla produzione tedesca sembrano preludere a un Pil piatto o in contrazione nella rilevazione sul secondo trimestre attesa per il 14 Agosto. Negli Stati Uniti gli economisti di Goldman Sachs scommettono su una prossima recessione globale indotta da guerra commerciale USA-Cina che non si risolverà fino a dopo le elezioni americane. In Europa, nel secondo trimestre il Pil del Regno Unito ha registrato la prima contrazione (-0,2%) da sette anni.

    Restare al governo con un alleato scomodo in un momento in cui la recessione incombe e l’Europa e i mercati vigilano sui nostri conti non è la posizione migliore se si vuole andare al voto in tempi brevi. L’elettorato è mobile. Gli umori del pubblico cambiano rapidamente e così i numeri dei sondaggi. Votare in primavera dopo una pesante manovra economica e lo spettro di un PIL in discesa e la disoccupazione in salita non era lo scenario migliore per Salvini. Doveva scegliere: elezioni subito per approfittare del ciclo elettorale ancora favorevole e governare avendo cinque anni davanti o restare dentro la scomoda alleanza con i Cinque Stelle fino al termine della legislatura (o fino a tempi migliori dal punto di vista della economia). La scelta è caduta sulla prima opzione. 

    La scommessa di Salvini è che la crisi porti al voto in autunno. Lo vedremo nei prossimi giorni. Ma se anche così non fosse il risultato potrebbe non essere per lui del tutto negativo. Se da questa crisi venisse fuori un governo provvisorio con una maggioranza temporanea sarebbe questo il governo che dovrà farsi carico di legge di bilancio, recessione incombente e rapporti con l’Europa. La Lega starebbe a guardare, come ha fatto ai tempi del governo Monti.  Mentre i Cinque Stelle starebbero dentro a logorarsi definitivamente. E così il Pd. Poi toccherebbe alla Lega governare ma con un orizzonte temporale lungo.

    Ma potrebbe non andare in questo modo. Se il governo provvisorio diventasse l’incubatore di un governo di programma con un orizzonte più lungo o se addirittura invece di un governo a tempo si formasse un governo di legislatura con un programma credibile, una linea politica sull’immigrazione non troppo dissimile da quella di Salvini e la capacità di strappare all’Europa un accordo favorevole, Salvini potrebbe non vincere la sua scommessa.  Non ci vorrà molto per capire se uno sviluppo del genere sia possibile. Vorrebbe dire il ritorno ad un assetto bipolare del nostro sistema politico. I pronostici sono decisamente sfavorevoli. Che Pd e M5s dopo anni di feroce ostilità tra di loro possano creare su due piedi una alternativa credibile a un governo del centro-destra è una ipotesi poco plausibile. Ma viviamo in tempi straordinari.

  • La scommessa di Salvini

    La scommessa di Salvini

    Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 10 agosto

    Matteo Salvini ha deciso di rischiare il tutto per tutto. Alla fine ha ceduto alle pressioni della Lega Nord, la vera Lega, che da mesi premeva per la rottura con i Cinque Stelle e a favore delle elezioni anticipate. Perché lo abbia fatto ora a ridosso di Ferragosto non è dato sapere con certezza. Le occasioni per rompere prima non sono mancate. Se non è successo è perché fino a ieri Salvini nutriva dubbi sulla opportunità di provocare la crisi in questo momento. Poi qualcosa è cambiato. La TAV è un alibi. Una ragione ben più solida è il mancato accordo sulla autonomia. Ma su quello non si poteva rompere con il rischio di fare una campagna elettorale Nord contro Sud. Ma la Lega Nord ha mal digerito l’ennesimo rinvio.

    Anche il taglio dei parlamentari ha avuto un peso. La riforma costituzionale avrebbe dovuto concludere il suo iter in Parlamento a Settembre. L’eventuale richiesta di referendum ne avrebbe allungato i tempi di applicazione. Una volta approvata definitivamente i collegi elettorali avrebbero dovuto essere ridisegnati. Il rischio di un rinvio a data incerta di eventuali elezioni anticipate era concreto. Senza contare che andare al voto dopo il taglio avrebbe drasticamente tagliato la rappresentanza parlamentare degli eventuali vincitori.

    E poi c’è la questione della legge di bilancio per il 2020. Fino ad oggi molti pensavano che Salvini preferisse farla insieme al M5S. Adesso evidentemente ha cambiato idea. Dice di essere pronto a farla lui da solo ma dopo il voto. In realtà non è affatto chiaro chi la farà. È difficile che eventuali elezioni si possano svolgere prima della fine di ottobre. A quel punto o sarà il governo in carica, qualunque esso sia, ad assumersene la responsabilità oppure sarà il nuovo governo scelto dagli elettori a farlo. A Salvini vanno bene entrambe le soluzioni. Nel primo caso perché non sarebbe la Lega a pagare le conseguenze politiche di una manovra onerosa. Nel secondo perché farla dopo il voto, a urne chiuse, è meglio che farla prima.

    Ma questi fattori non bastano a spiegare la decisione di Salvini. Senza le elezioni europee e i dati di sondaggio non ci sarebbe la crisi. La Lega è ancora sopra il 35 % delle intenzioni di voto. Secondo il sondaggio pubblicato recentemente nel nostro giornale (si veda il Sole 24 Ore del 2 Agosto), la maggioranza degli italiani preferisce il voto alla continuazione del governo Conte. (Phentermine) È molto probabile che questi dati, in combinazione con le pressioni dei leghisti del Nord, abbiano fatto cambiare opinione al leader della Lega. Oggi si è definitivamente convinto che gli convenga andare al voto subito puntando ad ottenere la maggioranza assoluta dei seggi.

    Da solo o in compagnia? La decisione è delicata. Serpeggia nelle file della Lega la tentazione di non fare accordi pre-elettorali con nessuno. Ma eventualmente farli dopo se necessario. Se così fosse sarebbe una novità clamorosa della politica italiana. Mai dal 1994 a oggi si è assistito alla corsa solitaria di un partito che punta alla maggioranza assoluta dei seggi senza alleati. Nemmeno il Pd di Veltroni lo ha fatto nel 2008. 

    Sarebbe una mossa rischiosa. Arrivare a superare il 50% dei seggi partendo da poco più del 35% dei voti, con questo sistema elettorale, è una impresa molto difficile. Alle elezioni del 2018, alla Camera, la coalizione di centro-destra ha ottenuto complessivamente il 42% dei seggi con il 37 % dei voti. Come abbiamo scritto più volte, per centrare l’obiettivo occorre vincere almeno il 40% dei seggi proporzionali e il 70% dei seggi uninominali.  È improbabile che la Lega ce la possa fare da sola. Ma a suo favore potrebbero giocare la divisione degli avversari e il meccanismo del voto utile. In ogni caso molto dipenderà dal suo risultato nelle regioni meridionali. Quanti collegi riuscirà a strappare in questa zona del paese ai Cinque Stelle? È il motivo per cui in questi giorni di crisi si vede Salvini in giro a far comizi nei lidi balneari del Sud. Come Di Battista tempo fa.

  • La prospettiva del voto anticipato nell’opinione degli elettori

    La prospettiva del voto anticipato nell’opinione degli elettori

    Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 2 agosto.

    Lega e M5s continuano a litigare. Il nuovo tema di scontro è la giustizia. Ma la crisi di governo non è alle porte. Così sembra. Eppure gli elettori italiani sono arrivati alla conclusione che questo governo sia arrivato al capolinea e che sia meglio tornare a votare (Tabella 1). È il risultato dell’ultimo sondaggio di Winpoll[1] condotto la scorsa settimana.

    Non è del tutto una novità perché già a maggio in un sondaggio simile il 64% degli intervistati aveva risposto nello stesso modo. In questo sondaggio la percentuale è salita. Adesso è il 72% a preferire il voto alla continuazione dell’attuale governo. È un’opinione condivisa dalla maggioranza degli elettori di tutti i maggiori partiti, con la sola eccezione di quelli del M5S. Questo dato però nasconde un piccolo mistero.

    Tab. 1 – Crisi di governo: secondo lei…

    Che addirittura l’88% degli elettori pentastellati preferiscano che, nonostante tutto, il governo Conte vada avanti non è difficile da spiegare. Visto che in Parlamento rappresentano oltre il 30% degli eletti mentre i sondaggi li danno intorno al 15% dei voti, è razionale che non vogliano nuove elezioni. Ma perché gli elettori del Pd e quelli di Forza Italia dovrebbero preferire il ritorno al voto? In questo sondaggio (Tabella 2), e in altri usciti recentemente, le intenzioni di voto alla Lega vengono stimate tra il 37% e il 39%. Nel nostro caso al 38,9%. Aggiungendo a questa cifra la percentuale stimata per Fratelli d’Italia, cioè il 7,4%, si arriva al 46,3%. Con questi numeri è praticamente certo che in caso di voto anticipato i due partiti otterrebbero insieme la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le camere. Forse gli elettori del Pd e quelli di Forza Italia non lo sanno. Deve essere un difetto di informazione che li spinge a favorire la vittoria di Salvini alle urne.

    Tab. 2 – Intenzioni di voto

    Nel caso degli elettori di Berlusconi, però, potrebbe esserci dell’altro. Dietro la loro preferenza per le elezioni anticipate potrebbe nascondersi la speranza che Salvini alla fine si convinca che sia meglio per lui mettere insieme tutte le componenti del centro-destra e quindi anche Forza Italia, in una coalizione pre-elettorale inclusiva. Un ritorno ai vecchi tempi, con la Lega al posto che una volta era di Forza Italia. Questa ipotesi non è fondata. Come ha fatto capire in tante occasioni, Salvini non ha nessuna intenzione di allearsi a livello nazionale con Forza Italia. Berlusconi rappresenta quel vecchio mondo da cui la Lega di Salvini vuole prendere le distanze. E, come si vede nel nostro sondaggio (Tabella 3), i suoi elettori sono d’accordo con lui. Il 64% preferisce che in caso di elezioni anticipate la Lega si allei solo con Fdi e altri del centro-destra, ad esclusione di Forza Italia. Solo il 18% vorrebbe includere il partito di Berlusconi. Nel sondaggio di maggio questi ultimi erano il 30%. La vecchia alleanza continua a perdere appeal. E questo è vero anche per gli elettori di Fdi, anche se tra di loro la percentuale di chi vorrebbe un centro-destra inclusivo (il 35%) è più alta che tra gli elettori della Lega. Per gli elettori di Forza Italia l’atteggiamento dei loro vecchi alleati è indubbiamente una brutta notizia, visto che addirittura l’85% di loro vorrebbero proprio quella alleanza che gli altri rifiutano.

    Tab. 3 – Secondo lei, se si andasse al voto anticipato, con chi dovrebbe allearsi la Lega?

    Resta il caso degli elettori leghisti. Il 58% di loro vuole le elezioni anticipate. Sono pochi o sono molti? Intanto c’è da dire che sono cresciuti rispetto a qualche mese fa.  Certo, se confrontiamo questa percentuale con quella, per esempio, degli elettori Pd e se aggiungiamo la considerazione che il voto anticipato li premierebbe sono relativamente pochi. Visto che i numeri li danno vincenti perché molti non vogliono andare a votare? D’altro canto però occorre sottolineare che si tratta di elettori di un partito il cui leader è manifestamente contrario ad aprire la crisi. E da questo punto di vista non si può dire che siano pochi. In ogni caso, pochi o molti che siano, il fatto è che il 42% di loro non vuole le elezioni anticipate. Forse è la prudenza. Forse molti non sono convinti che una crisi di governo porti al voto. Altri forse non si fidano dei numeri attuali che li danno vincenti e preferiscono aspettare. Sta di fatto che la loro prudenza è condivisa dal loro leader. Anche Salvini non sembra avere fretta. Le occasioni per aprire una crisi non sono mancate. Ma il leader non ne ha approfittato. Le tendenze elettorali in atto gli danno ragione. La Lega continua a crescere, nonostante i passi falsi moscoviti. Anche Fdi, il futuro alleato, sale e ha superato Forza Italia che continua a sfarinarsi. Il Pd di Zingaretti con il suo 23,8% non va male ma non ha prospettive e quindi non rappresenta un pericolo. E allora forse è meglio superare lo scoglio della prossima legge di bilancio insieme agli attuali alleati e intanto consolidare la crescita nei collegi elettorali del Sud. Poi si vedrà.


    [1] Il sondaggio è stato realizzato da Winpoll Srls con metodo Cawi-Cati-Cami nel periodo compreso tra il 27 ed il 30 luglio 2019 su un campione casuale rappresentativo della popolazione italiana adulta (+18 anni), ponderato per sesso, età ed intenzioni di voto alle europee 2019. Numero interviste: 1500. Margine di errore (con intervallo di confidenza al 99%): 2,3%.

  • La Lega una e trina di Salvini

    La Lega una e trina di Salvini

    Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 23 luglio.

    C’è voluta l’autonomia per alzare il velo sulla grande finzione della politica italiana. Fino ad oggi Matteo Salvini ha fatto credere che esista una sola Lega, una Lega Nazionale, nata nel momento in cui si è andati a votare nel 2018. Quella Lega in realtà non è mai esistita. Era ed è semplicemente un simbolo elettorale. La realtà è che le Leghe sono sempre state tre. La prima si chiama ancora Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, creata da Bossi nel 1991. La seconda è la Lega per Salvini premier, nata ufficialmente nel Dicembre 2017 con tanto di statuto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.  Questi sono i due partiti di cui Salvini è segretario. Unico caso in Europa. A queste due Leghe nel 2018 si è aggiunta la Lega-simbolo elettorale.

    Fino a oggi la finzione di una Lega Nazionale ha funzionato. Sembra che nessuno se ne sia accorto. Né i media, né il Pd, né Forza Italia, né il M5s. Tutti a credere, o a far finta di credere, che esistesse un’unica Lega che avesse messo nel cassetto l’articolo 1 dello statuto della Lega Nord, quello che prevede come missione del partito la creazione della Padania. È grazie a questa finzione che Salvini è riuscito a superare i confini tradizionali della Lega di Bossi.

    Lega Nord, Lega per Salvini premier e Lega-simbolo elettorale convivono. La Lega una e trina di Salvini è stata, e lo è tuttora, una straordinaria operazione politica. Rappresenta il tentativo di trasformare in maniera indolore un partito secessionista in un partito nazionalista e sovranista. Questo è l’obiettivo di Salvini. La scomparsa di AN ha lasciato uno spazio politico a destra che la Meloni non è riuscita a riempire. Ci ha provato Salvini e con successo. La prima tappa è stata la creazione della lista ‘Noi con Salvini’ con cui si è presentato al Sud a livello di elezioni regionali. Non è andata bene. Da lì è passato a ‘La Lega per Salvini premier’. Ma la vera furbizia, e la chiave del successo, è stata la presentazione di un unico simbolo alle politiche del 2018. Non più la Lega Nord al Nord e ‘Noi con Salvini’ al Sud. Semplicemente Lega. Con questa operazione il leader della Lega Nord è riuscito a far credere agli elettori del Sud che fosse sparita la Lega Nord, quella che sparava contro i terroni, e che fosse nata una Lega diversa, per l’appunto nazionale e patriottica.

    Perché Salvini non ha mai fatto un congresso per sancire la fine della Lega Nord e la nascita di una Lega Nazionale? La ragione è semplice. La Lega Nord è una realtà importante. Ha una storia, ha una organizzazione territoriale, ha delle regole. La secessione è cosa del passato, ma l’idea di una diversità del Nord e in particolare del Nord-Est dal resto del paese rimane. Fa parte anche oggi della identità del partito. Questo spiega perché nemmeno il Salvini trionfante nelle urne riesce a fare il passo di convocare un congresso per annunciare che la Lega Nord non esiste più e che è nata la Lega Nazionale. E così si continua con la finzione della Lega una e trina.

    Ma adesso è arrivata l’autonomia e le cose si complicano. I nordisti vogliono l’autonomia. I sudisti no. In mezzo c’è Salvini che vuole una Lega nazionale. Giustamente, dal loro punto di vista, le regioni del Nord governate dalla Lega Nord reclamano che la Lega di Salvini, arrivata al potere a Roma, realizzi almeno in parte quelli che da sempre sono gli obiettivi del partito in cui sono nati e cresciuti. Come andrà a finire dipenderà dal tipo di compromesso che Salvini, attraverso Conte, cercherà di fargli ingoiare e dalla loro reazione. Questo è il momento in cui si scoprono le carte. Il re è nudo. Non si può fare la Lega nazionale e allo stesso tempo realizzare veramente la missione -o il sogno- della Lega Nord. Detto ciò, è probabile comunque che Salvini riesca ancora una volta a spuntarla. Dalla sua ci sono gli straordinari risultati elettorali, la prospettiva di arrivare da solo al governo del paese e la insussistenza delle opposizioni. Alla fine la Lega Nord si dovrà accontentare. Almeno per ora.

    Il compromesso dunque si farà. In fondo non conviene ai leghisti del Nord rompere il giocattolo di una Lega che è diventata il primo partito del Paese. E non conviene ai leghisti del Sud abbandonare il carro del vincitore. E certamente non conviene a Salvini tirare la corda sulla autonomia. Come si fa a credere che possa fare una crisi di governo ora? Una crisi che metterebbe il Nord contro il Sud?  La Lega Nord contro la Lega per Salvini premier, mettendo a nudo la finzione su cui Salvini ha costruito la sua fortuna elettorale. No. Le elezioni adesso metterebbero a rischio il progetto della Lega Nazionale. Per conquistare da solo il governo del paese Salvini ha bisogno del Sud, dei collegi uninominali del Sud. Ha bisogno della pace armata con i Cinque Stelle per crescere al Sud, strappando voti proprio a loro. Ha bisogno di tempo. E per questo ha bisogno che la finzione continui ancora per un po’. Deve solo convincere i nordisti ad avere pazienza. Forse sarà proprio Conte a dargli una mano.