L’integrazione nella UE risposta al populismo

di Roberto D’Alimonte

Pubblicato sul Sole 24 Ore del 18 maggio 2014

Le elezioni europee sono sempre state elezioni un po’ particolari. Queste lo sono ancora di più.  La gente le sente come meno importanti di quelle nazionali. Si vota per un parlamento distante di cui si sa poco o niente. La posta in gioco è minore e si va meno a votare. A partire dal 1979 l’affluenza è sempre calata. Alle ultime elezioni del 2009 è stata il 43%, ma con rilevanti variazioni territoriali. Escludendo i paesi con voto obbligatorio (Belgio e Lussemburgo) si va dal massimo di Malta (79%) al minimo della Slovacchia (20%). L’Italia è sempre stata uno dei paesi in cui si è votato di più, il 65,1%  nel 2009. Ma il calo, a partire dal 1979, è stato costante anche da noi.

            La differenza tra quanto si vota alle politiche e quanto si vota alle europee è un altro dato che coglie bene il relativo disinteresse dei cittadini europei verso la competizione per il Parlamento di Strasburgo. Anche in questo caso gli andamenti sono molto diversi territorialmente. Mettendo a confronto l’affluenza alle europee del 2009 con quella alle ultime politiche tenutesi nei vari paesi (e sempre escludendo i paesi con voto obbligatorio)  si va da una differenza minima di 6 punti in Lettonia ad una massima di 39 punti in Svezia e Slovacchia. Tutto sommato- fino ad oggi- la differenza in Italia è stata modesta: 10 punti percentuali. In Germania è stata di 28 punti.

            Questo è il quadro storico della partecipazione al voto. Il 25 Maggio sarà la stessa cosa?  Sono due le novità che possono fare la differenza. (https://driventheatre.com) La prima è legata a quella norma del  Trattato di Lisbona che parla di un presidente della commissione nominato dal parlamento europeo su proposta del consiglio ‘tenuto conto del risultato delle elezioni europee’. Grazie ad una interpretazione estensiva di questa norma i maggiori partiti europei hanno nominato dei propri candidati alla presidenza della commissione. Così, per la prima volta i cittadini europei voteranno non solo per i propri rappresentanti nel Parlamento di Strasburgo ma anche per un candidato alla presidenza dell’esecutivo di Bruxelles. Quasi una elezione diretta. Peccato che pochi lo sappiano. Resta comunque una novità simbolicamente importante, per quanto controversa. Ma non cambierà molte le cose. Non questa volta almeno. Non è così invece per l’altra novità di queste elezioni. Sono le prime dopo la più grave crisi che la Comunità/Unione Europea abbia attraversato nella sua storia.

            Sono le crisi che producono il cambiamento, soprattutto quelle profonde e prolungate. E quella cominciata nel 2010 certamente lo è. Milioni di persone in tutti gli stati membri ne sono state toccate e sono state costrette a fare i conti con i costi e i benefici dell’appartenenza ad una comunità che prima della crisi era ancora una cosa vaga per i più. Oggi l’Euro e l’Unione sono diventati in molti paesi il tema centrale della campagna elettorale. Da questo punto di vista queste sono le prime vere elezioni europee. Lo sono perché l’Europa è diventata una linea di divisione tra i partiti, tra quelli che difendono le ragioni dell’Euro e dell’Unione e quelli che invece sono scettici o addirittura contrari all’uno e all’altra.

            Partiti populisti, euroscettici o eurofobi sono presenti in quasi tutti i paesi europei. Dove più e dove meno. Non c’è da meravigliarsi se avranno successo. Soprattutto in alcuni paesi. Tra questi in particolare in Gran Bretagna, dove lo UKIP di Lafarge è dato addirittura davanti a Laburisti e Conservatori, in Francia e in Italia.  La rabbia, il disincanto, la paura ne alimentano l’appeal. Giocano a loro favore molti fattori. La crisi economica è uno. Ma c’è anche il fatto che queste sono elezioni in cui, proprio perché la posta in gioco non è il governo nazionale, gli elettori si sentono più liberi di votare in modo diverso, più liberi di punire i partiti maggiori, e soprattutto quelli al governo, e di premiare i partiti più radicali e anti-sistema. Anche Il meccanismo elettorale proporzionale li favorisce.

            Il successo relativo di questi partiti domina il dibattitto sui media, ma in realtà non è un grave rischio di per sé. Anzi, la loro presenza, dando voce alla protesta, servirà a dar vigore al discorso sull’Europa e alla fine a legittimare maggiormente le istituzioni e le politiche dell’Unione. E’ finito il tempo del consenso acritico. E’ giusto che l’Europa non sia più un fatto scontato. I partiti europeisti saranno costretti a chiarire il loro messaggio e a difendere le ragioni dell’integrazione.

            Il vero rischio è che si faccia una lettura distorta del risultato del 25 maggio. E allora è essenziale che tutti tengano ben presente che non è affatto vero che l’idea di una Europa unita sia cosa del passato. Su questo i dati degli ultimi sondaggi dell’Eurobarometro sono molto istruttivi. Nonostante cinque anni di crisi profonda e lacerante, nemmeno l’Euro ha perso il sostegno della maggioranza dei cittadini europei. Questo è vero addirittura in Grecia. Ma ciò che colpisce di più è la convinzione che per affrontare la crisi e la sfida della globalizzazione non si possa più contare sui vecchi stati nazionali. Una convinzione che  è assolutamente maggioritaria e diffusa in maniera omogenea in tutti i paesi della UE. Su questo tema praticamente scompaiono le differenze tra paesi. Ed è la stessa convinzione che spiega il sostegno a una maggiore integrazione nei campi della politica di difesa e di sicurezza oltre che della politica estera.

            Per questo non sorprende che il sentimento di cittadinanza europea sia più diffuso di quanto molti credono. Certo, ci sono differenze importanti tra paesi su questa dimensione. La crisi pesa. Nei paesi più colpiti, come l’Italia, la Grecia, Cipro è un sentimento minoritario. I cittadini di questi paesi sono allineati, ma per ragioni diverse, agli inglesi nel sentirsi meno europei degli altri. E questo deve far riflettere. Non era così una volta. Ma nel complesso il quadro non è negativo. Non si può dire che sia in crisi l’idea di un destino comune dei popoli europei. E’ in crisi il messaggio sul come perseguirlo. Con quali politiche e con quali obiettivi.  Al messaggio nichilista dei partiti populisti, euroscettici e eurofobi si deve contrapporre con forza quello dei partiti convinti che l’Europa se non sarà una non sarà niente.

Roberto D’Alimonte (1947) è professore ordinario nella Facoltà di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli dove insegna Sistema Politico Italiano. Dal 1974 fino al 2009 ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della Università degli Studi di Firenze. Ha insegnato come visiting professor nelle Università di Yale e Stanford. Collabora con il centro della New York University a Firenze. I suoi interessi di ricerca più recenti riguardano i sistemi elettorali, elezioni e comportamento di voto in Italia. A partire dal 1993 ha coordinato con Stefano Bartolini e Alessandro Chiaramonte un gruppo di ricerca su elezioni e trasformazione del sistema partitico italiano. I risultati sono stati pubblicati in una collana di volumi editi da Il Mulino: Maggioritario ma non troppo. Le elezioni del 1994; Maggioritario per caso. Le elezioni del 1996; Maggioritario finalmente? Le elezioni del 2001; Proporzionale ma non solo. Le elezioni del 2006; Proporzionale se vi pare. Le elezioni del 2008. Tra le sue pubblicazioni ci sono articoli apparsi su West European Politics, Party Politics, oltre che sulle principali riviste scientifiche italiane. E’ membro di ITANES (Italian National Election Studies). E’ editorialista de IlSole24Ore. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.