Midterm 2022: il contesto alla vigilia

Oggi gli Stati Uniti tornano al voto per le midterm elections, le elezioni che si tengono a metà del mandato presidenziale e che rinnoveranno tutti i 435 seggi della Camera e 35 seggi del Senato, determinando la composizione del 118esimo Congresso.

Come ricorda Paparo (2014) nell’articolo scritto in occasione delle midterm election di quell’anno, il Congresso degli Stati Uniti è formato da due Camere: la Camera dei Rappresentanti, che rappresenta il popolo americano ed è composta da 435 deputati eletti negli altrettanti collegi uninominali di quasi omogenea popolosità in cui sono divisi gli Stati Uniti, e il Senato, che rappresenta gli Stati della Federazione ed è composto da 100 membri, 2 per ciascuno dei 50 Stati. Il mandato da senatore ha una durata di sei anni, mentre quello da deputato ne dura due: ogni due anni le elezioni federali rinnovano la totalità della Camera e un terzo del Senato – al fine di un rinnovo parziale di un terzo ogni due anni e totale ogni sei.

Ogni quattro anni dunque, alla scadenza del mandato presidenziale, le elezioni legislative coincidono con le elezioni presidenziali. Ma anche nel caso delle elezioni di metà mandato, pur non coinvolgendo direttamente il Presidente, il rinnovo delle Camere ha un impatto rilevante: incide infatti sui due anni rimanenti del mandato presidenziale, e di conseguenza sulla sua capacità di portare avanti il programma di governo. La natura bicamerale del sistema statunitense, infatti, prevede che affinché una proposta possa essere sottoposta al Presidente per la ratifica (e quindi diventare legge), debba essere stata approvata da entrambi i rami del Parlamento. Il Senato, inoltre, è l’organo a cui è demandato il compito di confermare le nomine di natura presidenziale, tra cui quelle dei giudici della Corte Suprema.

Attualmente il Partito Democratico detiene la maggioranza sia alla Camera sia – sebbene tecnicamente sia un “pareggio”, come vedremo più avanti – al Senato. È improbabile che questa situazione si mantenga anche dopo l’8 novembre.

House of Representatives

I Democratici partono da 220 deputati, poco sopra la soglia della maggioranza (pari a 218) contro i 212 dei Repubblicani. I restanti 3 seggi sono vacanti. Se il Partito Repubblicano mantenesse tutti i seggi di cui dispone al momento, gliene sarebbero necessari solamente altri 6 per strappare la maggioranza al Partito Democratico. A favore di quest’ipotesi non ci sono solamente i trend dei sondaggi più recenti, ma anche un dato statistico rilevante: dal dopoguerra in poi, nelle elezioni di metà mandato il partito espressione del Presidente ha perso in media oltre 25 seggi.

Fig. 1 – riassunto della distribuzione dei seggi, Cook Political Report

Sulla complessità della situazione per il Partito Democratico sono concordi tutti gli istituti di analisi e ricerca. Le stime pubblicate sul Cook Political Report, per esempio, considerano “sicuri” 159 seggi per i Dem e 188 per il GOP. Un vantaggio importante per i Repubblicani, che li avvicina alla soglia della maggioranza, ancor più se considerati anche gli 11 seggi ritenuti probabili e i 13 tendenziali. Sommandoli, si tratta di 212 seggi: per arrivare a 218, al Partito Repubblicano basterebbe vincere in 6 collegi tra i 36 che sono ritenuti “in bilico”. Dei restanti 28, 13 sono probabili democratici e 15 tendenziali democratici: vale a dire che per ottenere la maggioranza, il Partito Democratico dovrebbe vincere almeno 21 collegi tra quelli in bilico, oltre a tutti i seggi che sono considerati solidi, probabili e tendenziali per i Dem.

Qual è la probabilità che si verifichi questa circostanza? Bassa. Il modello probabilistico elaborato da FiveThirtyEight, infatti, attribuisce una probabilità dell’85% alla “conquista” della Camera da parte del Partito Repubblicano. D’altro canto, alcuni analisti fanno notare che nelle elezioni speciali che si sono tenute da quando a giugno la Corte Suprema ha rovesciato la sentenza Roe v. Wade, il Partito Democratico ha sistematicamente superato le percentuali dei sondaggi.

Come evidenziano Cuccurullo e Paparo (2018, 1), due elementi depongono sistematicamente a sfavore dei Democratici nelle elezioni alla Camera: una svantaggiosa – dato il sistema elettorale maggioritario – concentrazione del loro elettorato in specifiche zone e il gerrymandering, la ridefinizione dei confini dei collegi da parte dei governi dei singoli Stati al fine di ottenere un vantaggio per la propria parte politica.

Senato

Attualmente la situazione in Senato è di fatto un pareggio: dei 100 senatori, 50 sono repubblicani e 50 democratici. La maggioranza è però detenuta dai Democratici, grazie alla regola della Costituzione per la quale il Vicepresidente degli Stati Uniti (oggi Kamala Harris, vice di Joe Biden) esprime il proprio voto in qualità del suo ruolo formale di Presidente del Senato. Ciò implica però che è sufficiente un solo seggio ai Repubblicani per ribaltare la situazione.

Fig. 2 – Composizione delle delegazioni in Senato. Tra i 100 senatori ne sono presenti due indipendenti (Angus King, Maine, e Bernie Sanders, Vermont). Entrambi sono iscritti al gruppo dei democratici in Senato e dunque ai fini di questa analisi li considereremo per comodità tra i Dem

La Figura 2 mostra la composizione per partito delle attuali delegazioni in Senato. Nel dettaglio, attualmente ci sono 22 Stati rossi, in cui entrambi i Senatori sono repubblicani; 22 Stati blu, in cui entrambi i Senatori sono espressione del Partito Democratico; e 6 Stati viola, con una delegazione mista.

Anche in questo caso vi è un elemento che rappresenta un vantaggio strutturale per il Partito Repubblicano. Come evidenziano Cuccurullo e Paparo (2018, 2), le roccaforti dei Repubblicani sono gli Stati meno popolosi, al contrario dei Democratici presenti prevalentemente negli Stati con un maggior numero di abitanti: dal momento che la funzione del Senato è rappresentare gli Stati e non la popolazione, i Repubblicani necessitano, di base, di meno voti dei Democrati per poter esprimere un numero di senatori pari o superiore al loro.

In apertura si ricordava che i 100 seggi senatoriali, il cui mandato dura sei anni, sono divisi in tre classi, ciascuna delle quali è a rotazione chiamata alle urne ogni due anni. Quest’anno è il turno della Terza classe: si tratta dei 34 Senatori che sono stati eletti nel 2016, l’anno dell’elezione di Donald Trump alla Presidenza. Si vota anche per un’elezione suppletiva, quella per il seggio del senatore repubbicano Inhofe, eletto nel 2020 ma dimessosi prima della fine naturale del mandato (2026). Sono quindi 35 i senatori uscenti. Di questi, 21 sono espressione del Partito Repubblicano e 14 del Partito Democratico.

Se qualche mese fa per i Democratici sembrava possibile consolidare la propria maggioranza, oggi l’obiettivo è riuscire a mantenerla difendendo i 50 seggi attualmente a disposizione. Secondo l’analisi del Cook Political Report, al Senato si prospetta un testa a testa, leggermente sfavorevole ai Democratici.

Dei 14 seggi uscenti democratici, 11 sono considerati riconfermabili a diversi gradi di certezza (8 sicuri, 1 probabile, 2 tendenziali). Dei 21 repubblicani, 20 sono riconfermabili (15 sicuri, 2 probabili, 3 tendenziali). Questo restringe il campo a quattro campi di battaglia, quattro competizioni elettorali – 3 in precedenza democratici, 1 in precedenza repubblicano – che determineranno le sorti della maggioranza al Senato: si tratta di Arizona, Nevada, Pennsylvania e Georgia.

L’ex astronauta Mark Kelly, democratico, è chiamato a difendere il suo seggio in Arizona, in cui era stato eletto nelle elezioni suppletive nel 2020 dove fece registrare addirittura un risultato migliore di due punti rispetto a quello di Joe Biden. Secondo i sondaggi, il suo vantaggio sul candidato repubblicano, Blake Masters, è molto risicato, e la situazione potrebbe stravolgersi nel caso di uno scenario particolarmente favorevole al Partito Repubblicano a livello nazionale.

In Nevada è stata data particolare attenzione al fenomeno dell’early voting, storicamente favorevole ai candidati del Partito Demcoratico: secondo le analisi degli esperti, i quasi 600mila voti espressi in anticipo fornirebbero un vantaggio importante ai democratici nell’avvicinarsi all’election day. La senatrice democratica uscente, Catherine Cortez Masto, potrebbe dunque vincere, di poco, sul repubblicano Adam Laxalt.

Negli ultimi anni, la Pennsylvania si è spostata più a destra: è questa la ragione per cui gli analisti ritengono che, nello scenario attuale in cui i repubblicani a livello nazionale dovrebbero (secondo i sondaggi) essere a +2, qui una vittoria dei democratici sia più complessa. Potrebbe quindi spuntarla la celebrità televisiva Mehmet Oz ai danni del democratico John Fetterman.

Infine, in Georgia si sfidano il senatore democratico uscente, eletto nell’elezione suppletiva del 2020, Raphael Warnock e il repubblicano Herschel Walker. I sondaggi riconoscono un leggero vantaggio a Warnock, ma potrebbe non essere sufficiente. Il sistema elettorale della Georgia, infatti, prevede un ballottaggio, da tenersi a dicembre, se nessun candidato dovesse raggiungere la maggioranza assoluta dei voti, caso che non è da escludere vista la presenza di un terzo candidato, espressione del Partito Libertariano, sulla scheda elettorale: è probabile dunque che bisognerà attendere un mese ancora per conoscere quale partito avrà il controllo del Senato degli Stati Uniti.

Per FiveThirtyEight, la possibilità che il Partito Repubblicano ottenga una maggioranza è del 55%. Dead heat.