Autore: Davide Vittori

  • Parma, i voti M5S vanno nell’astensione: Pizzarotti in vantaggio coi voti del centrosinistra. I risultati e i flussi elettorali

    Parma, i voti M5S vanno nell’astensione: Pizzarotti in vantaggio coi voti del centrosinistra. I risultati e i flussi elettorali

    Il risultato delle elezioni di Parma riassume plasticamente le difficoltà del Movimento 5 Stelle a livello locale: la rottura con il sindaco uscente, Pizzarotti, simbolo della prima vittoria del Movimento, ha portato i grillini a una débacle elettorale senza appello. Mentre Pizzarotti (34,78%) andrà al ballottaggio con il candidato del centrosinistra Paolo Scarpa (32,73%), Daniele Ghirarduzzi (Movimento 5 Stelle) si ferma al 3,18% non raccogliendo nemmeno 2500 voti.

     

    Federico Pizzarotti (34,78%), sindaco uscente e candidato per la lista civica Effetto Parma, ha ottenuto la maggioranza relativa al primo turno delle elezioni comunali di Parma. A sfidarlo ci sarà Paolo Scarpa (32,73%), candidato del centrosinistra (Partito Democratico e due liste civiche), a poco più di due punti percentuali di distanza da Pizzarotti. Rimangono fuori dal ballottaggio Laura Cavandoli (19,28%), candidata del centrodestra (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e una lista civica) e Daniele Ghirarduzzi del Movimento 5 Stelle, fermo al 3,18%. La partecipazione ha superato di poco il 53%.
    A cinque anni dal clamoroso 19,9% ottenuto dal Movimento 5 Stelle (M5S), che ha garantito a Federico Pizzarotti l’ingresso al ballottaggio e la vittoria contro il candidato di centrosinistra Vincenzo Bernazzoli, gli esiti di questa tornata hanno nuovamente rimescolato il sistema politico parmense. Di quella stagione rimane protagonista assoluto – a prescindere da come andrà il ballottaggio – il sindaco uscente. Pizzarotti, dopo aver rotto con Grillo e Casaleggio sulla questione inceneritore e, soprattutto, sull’iscrizione nel registro degli indagati per abuso d’ufficio su alcune nomine del Teatro Regio (indagine a suo carico poi archiviata), è riuscito con la sua lista civica a drenare il consenso del Movimento 5 Stelle, da ormai un lustro stabilmente il secondo partito a Parma dopo il Partito Democratico. Pizzarotti si dimostra – in linea con le indagini CISE sulla provenienza dei voti del M5S – il candidato con tendenze più catch-all (pigliatutti) di questa elezioni comunali: l’elettorato di Effetto Parma è costituito per il 52,43% degli elettori che nel 2013 avevano votato per Bersani, dal 10,07% e dal 10,17% dell’elettorato rispettivamente berlusconiano e montiano e “solamente” dal 25,34% di quello grillino. Nonostante una prevalenza di elettori di centrosinistra, questi dati dimostrano che il sindaco uscente ha saputo convincere un elettorato alquanto variegato, cosa che solo al M5S era riuscita in anni recenti seppure con una più equa distribuzione tra sinistra, destra e centro.

    Un primo dato che appare chiaro è dunque che a Parma, il simbolo del M5S, che si ritiene possa garantire ai suoi rappresentanti locali un bacino di voti d’opinione molto ampio, ha portato scarsissimi risultati rispetto alla forza dell’incumbency del sindaco uscente, non casualmente uno dei primi cittadini più apprezzati in Italia stando alla recente indagine de Il Sole 24 Ore. A dispetto delle accuse di inesperienza rivolte da più parte ai grillini, nel caso parmense, il M5S avrebbe potuto vantare una amministrazione quinquennale riconosciuta come positiva dalla maggioranza relativa degli elettori. Un caso giudiziario minore – casus belli in realtà di una lotta per la leadership interna al movimento – ne ha irrimediabilmente compromesso il successo elettorale. Dove si è collocato l’elettorato grillino? Il 21,47% ha confermato la fiducia a Pizzarotti, il 66,8% degli elettori 5 stelle ha optato per il non-voto, evidenziando l’incapacità dei partiti cosiddetti “tradizionali” di attrarre un elettorato scontento dall’offerta politica.

    Se il M5S subisce una sconfitta senza appello, il centrosinistra naviga in acque non certo calme. Cinque anni orsono Bernazzoli (39,21%) poteva vantare al primo turno quasi 20 punti di margine su Pizzarotti; Paolo Scarpa ha raccolto 7 punti percentuali in meno rispetto al 2013 e deve rincorrere il sindaco uscente cercando una rimonta comunque non impossibile. Più nel dettaglio, Scarpa era uscito vincitore dalle recenti primarie comunali contro il candidato sostenuto dalla maggior parte dei dirigenti del Partito Democratico e da altri partiti, Dario Costi. Da non iscritto al PD, Scarpa, che nel 2012 sostenne la lista dei centristi Parma Unita, aveva ottenuto il 55% dei voti. Non è un caso dunque che Scarpa abbia un elettorato in maggioranza appartenente al centrosinistra (69,77% dell’elettorato bersaniano del 2013), ma che sia riuscito a convincere un discreto numero di centristi (il 23,36% dei suoi votanti deriva dall’alleanza a sostegno di Monti nel 2013). Scarpa, tuttavia, non è riuscito a sfondare né a destra né tra l’elettorato dei 5 Stelle. Il PD ha raccolto poco più di 10.000 voti (14,8%), rispetto ai 17.000 (25,2%) delle precedenti comunali e agli oltre 34.000 (32,8%) e 44.000 (52,1%) rispettivamente delle elezioni politiche del 2013 e delle elezioni europee del 2014. Se si tiene conto delle difficoltà del Movimento 5 Stelle e delle vicende legate a Pizzarotti, il cui eco ha superato largamente i confini ducali, il risultato del centrosinistra nel suo complesso non è stato entusiasmante. A ciò si aggiunga, a sinistra del Partito Democratico, il magro bottino del candidato di Rifondazione Comunista e del Partito Comunista Italiano, Ettore Manno (1,98%) e le peculiari vicende di Sinistra Italiana, dilaniata da dissidi interni nel periodo pre-elettorale. Una vittoria al ballottaggio potrebbe mitigare questa impressione.

    Se il centrosinistra non può gridare al successo, il centrodestra si trova per la seconda volta fuori dal ballottaggio, in una città che ha visto – in controtendenza rispetto alla regione “rossa” dell’Emilia-Romagna – un governo di centrodestra per quasi quindici anni consecutivi dal 1998-2012 (sindaci Ubaldi, 1998-2007, e Vignali, 2007-2012). Dal 28,60% del 2002 Forza Italia (FI) è oggi relegata al 2,7%. Dopo la scelta di correre diviso nel 2012, garantendo di fatto l’ingresso al ballottaggio a Pizzarotti, il centrodestra (ad esclusione dei centristi) è riuscito a ricompattarsi a Parma. Tuttavia, l’eredità di governo pesa come un macigno sul partito di Berlusconi tanto che nel 2012 FI raccoglieva il 4,7% mentre alle ultime elezioni con proiezione nazionale, politiche ed europee, superava tranquillamente la doppia cifra (14,3 nel 2013 e 10,8 nel 2014). L’arresto e il patteggiamento dell’ex sindaco Vignali, uniti alla querelle sul buco di bilancio che le amministrazioni di centro-destra avrebbero lasciato in eredità nel 2012, hanno pesantemente miniato la fiducia dell’elettorato parmigiano. Non è un caso dunque che l’elettorato vicino al centrodestra abbia optato per il non-voto (44,47%), mentre solo il 39,63% abbia sostenuto la Cavandoli. La Lega, al contrario, può vantare una crescita esponenziale in questi ultimi anni (dal 3% del 2012 al 12,5% di questa tornata, passando per il 4,7% delle elezioni europee).

    Tab. 1 – Risultati elettorali a Parma nelle recenti elezioni [1] (clicca per ingrandire)parma tableu

    In conclusione, questa prima tornata a Parma dimostra una volta di più come l’elettorato sappia discernere e distinguere tra il piano nazionale e quello locale. A fare le spese di questa consapevolezza è il M5S, primo partito per intenzioni di voto a livello nazionale e scomparso dai radar politici in queste elezioni, dove poteva vantare un sindaco uscente, il cui operato è stato apprezzato dagli elettori. L’elettorato grillino però non pare abbia dato fiducia a Pizzarotti, preferendo l’astensione. Un segno quindi che la débacle elettorale potrebbe essere confinata a livello locale, qualora il M5S riuscisse a ripotare alle urne i propri elettori scontenti. Solo Federico Pizzarotti, può dunque cantare vittoria. La sua lista civica ha raccolto quasi 15 punti percentuali in più rispetto al 19,9% del M5S nel 2012. Oltre al M5S, esce sconfitto anche il centrodestra, nonostante la candidatura unitaria tra FI, Lega e Fratelli d’Italia: come detto, nonostante l’ottimo risultato della Lega, il recente passato amministrativo sembra ancora incidere sulle potenzialità elettorali della alleanza. Infine, all’interno del centrosinistra, il Partito Democratico resta ancora debole. Il proprio candidato “ufficiale” è uscito sconfitto dalle primarie e al primo turno il partito ha raccolto meno del 15%. L’elettorato bersaniano è apparso diviso tra le due piattaforme progressiste di Scarpa e Pizzarotti. Il primo ha raccolto il 43,41% degli elettori di centrosinistra, il sindaco uscente il (34,78%). Tuttavia, rimanendo apertissima la partita del ballottaggio – poco più di due punti tra Scarpa e Pizzarotti, tra 15 giorni questa performance non certo esaltante potrà essere riscattata. Per farlo sarà necessario rivolgersi agli elettori della Cavandoli, in particolare quelli provenienti dall’elettorato di Monti (12,45%) e soprattutto quelli berlusconiani (39,63%). Uno spostamento a destra che comporta però un grosso rischio, ossia la possibilità per Pizzarotti di presentarsi come il vero candidato progressista della contesa. Una caratteristica che una parte degli elettori di Bersani gli ha già riconosciuto. Al di fuori dello schema centrosinistra-centrodestra, tuttavia, rimarrà fondamentale il ruolo degli elettori del M5S. Al primo turno hanno dato scarsa fiducia a Pizzarotti; se dovessero allinearsi con il loro ex-sindaco sindaco contro il candidato del Partito Democratico, per Scarpa le chance di vittoria sarebbero ridotte al lumicino. Se, al contrario, per sgarbo nei confronti di chi se n’è andato dal Movimento sbattendo la porta, anche solo una parte degli astenuti grillini dovesse recarsi alle urne per punire “l’insubordinazione” di Pizzarotti, allora per Scarpa si aprirebbero scenari molto più favorevoli.

    Tab. 2 – Flussi elettorali a Parma fra politiche 2013 e comunali 2017, destinazioniparma destinazioni

    Tab. 3 – Flussi elettorali a Parma fra politiche 2013 e comunali 2017, provenienzeparma provenienze

     

    Fig. 1 – Flussi elettorali a Parma fra politiche 2013 e comunali 2017 (percentuali sull’intero elettorato, clicca per ingrandire)parma

     

    Bibliografia

    Corbetta, P.G., A. Parisi e H.M.A. Schadee [1988], Elezioni in Italia: struttura e tipologia delle consultazioni politiche, Bologna, Il Mulino.

    Emanuele V. e Maggini, N. (2015). Il Partito della Nazione? Esiste, e si chiama Movimento 5 Stelle. Osservatorio Politico Centro Italiano di Studi Elettorali (CISE). Disponibile su: /cise/2015/12/07/il-partito-della-nazione-esiste-e-si-chiama-movimento-5-stelle/

    Goodman, L. A. (1953), Ecological regression and behavior of individual, «American Sociological Review», 18, pp. 663-664.


    NOTA METODOLOGICA

    I flussi riportati sono stati calcolati applicando il modello di Goodman alle oltre 200 sezioni elettorali del comune di Parma. Abbiamo eliminato le sezioni con meno di 100 elettori (oggi o nel 2013), nonché quelle che hanno registrato un tasso di variazione superiore al 20% nel numero di elettori iscritti (sia in aumento che in diminuzione).  Il valore dell’indice VR è pari a 7,8.


    [1] Nella parte superiore di ciascuna tabella sono presentati i risultati al proporzionale; nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari (per le comunali).

    Sinistra è la somma dei risultati ottenuti da candidati (comunali) o partiti (politiche ed europee) di sinistra ma non in coalizione con il Pd;

    il Centro-sinistra somma candidati (comunali) del Pd o le coalizioni (politiche ed europee) con il Pd;

    Il Centro è formato da candidati (comunali) o coalizioni (politiche ed europee) sostenuti o contenenti almeno uno fra Udc, Ncd, Fli, Sc, Dc, Adc, Api, Udeur;

    il Centro-destra somma candidati (comunali) sostenuti da Fi (o Pdl) o coalizioni (politiche ed europee) contenenti Fi (o Pdl) o Direzione Italia, Gs, Mpa;

    la Destra è la somma di candidati (comunali) sostenuti da  Lega, Fdi o La Destra o coalizioni (politiche ed europee) contenenti almeno uno di questi.

    Criteri per l’assegnazione di un candidati a un polo: se un candidato è sostenuto dal Pd o dal Pdl (o Fi) è attribuito al centro-sinistra e al centro-destra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno. Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico. Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo Pd e Pdl che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

  • Le primarie in un sistema federale: lo strano caso del Partido Socialista Obrero Español

    Le primarie in un sistema federale: lo strano caso del Partido Socialista Obrero Español

    L’editoriale di El País, il più letto quotidiano spagnolo e con ben radicate simpatie verso il Partido Socialista Obrero Español (PSOE), ha definito la vittoria di Pedro Sánchez alle primarie del PSOE come una “brexit” spagnola, capace di far emergere il “momento populista” all’interno della compagine che più di altre nel corso degli ultimi trent’anni ha rappresentato la cosiddetta responsabilità di fronte a spinte conservatrici o, appunto, populiste. Una “brexit” a dire il vero piuttosto particolare dato che proprio Sánchez era il segretario uscente nonché candidato Primo Ministro alle due precedenti elezioni.
    Attraverso un’analisi delle primarie spagnole si tenterà perciò di ripercorre le tappe più significative della recente storia del PSOE, focalizzandosi in particolare sugli eventi degli ultimi cinque anni.

    Senza entrare troppo nel dettaglio, una delle principali caratteristiche del sistema politico spagnolo è certamente il suo decentramento amministrativo e la forza di (alcune) comunità autonome. Questo federalismo del tutto peculiare nel panorama europeo, tuttavia, non ha prodotto nel sistema partitico un uguale decentramento dei poteri, specialmente per i due principali partiti con proiezione sovra-regionale – non utilizzo il termine nazione per l’ambiguità concettuale attorno a tale termine in Spagna – ossia il PSOE e il Partito Popolare (PP). Se per ragioni storiche, il centralismo dei popolari è diretta conseguenza della struttura di Alleanza Popolare – il cui storico leader, Manuel Fraga, era stato ministro in epoca franchista – e della ideologia fortemente improntata al centralismo amministrativo, nel caso del PSOE la letteratura ha mostrato come accanto ad una struttura federale, in cui ad esempio il bilancio della federazione catalana viene tenuto distinto da quello del partito nazionale, si sia affiancata una forte centralizzazione dei poteri, in cui la leadership e il party in central office (PCO) hanno mantenuto un saldo controllo sul partito (Gillespie 1994, Hopkin 2001, Méndez e Orte 2005, Van Biezen 2003, Verge 2007). E questo nonostante i cosiddetti “barones” – gli uomini forti delle comunità spagnole siano essi segretari regionali o proprio i presidenti della comunità – abbiano saputo ritagliarsi uno spazio di manovra rilevante, specie negli ultimi anni, non casualmente quelli in cui i leader susseguitesi a Zapatero si sono dimostrati più deboli elettoralmente e all’interno del partito.

    Nel PSOE, l’introduzione della selezione del candidato attraverso una procedura che si potrebbe definire di primarie chiuse (One Member One Vote, OMOV) – simili a quelle tenute on-line dal Movimento 5 Stelle – avviene già nel 1998. L’anno prima a seguito della sconfitta elettorale subita nel 1996 si era dimesso il leader storico del partito, nonché Primo Ministro dal 1982 al 1996, Felipe González. La scelta del 34° Congresso del 1997 ricadde su Joaquín Almunia, fidato alleato dello stesso González. Per dare più legittimità alla scelta di Almunia, il Comité Federal (l’organo esecutivo più importante dentro il partito) convocò le primarie per scegliere il futuro candidato per la carica di Primo Ministro. Come accaduto anche per le primarie di domenica, anche nel 1998 a prevalere tra gli iscritti fu il candidato al di fuori dell’establishment dei barones, José Borrell con 114.254 voti (55,0%); Almunia si attestò al 44,7%. Con una pesante incertezza organizzativa, a causa della quale si crearono due figure distinte di candidato Primo Ministro (Borell) e di Segretario del partito (Almunia), il risultato alle successive elezioni del 2000 per questo ed altri motivi di ordine politico si rivelò poi pesantemente negativo per i socialisti, che riuscirono ad ottenere la maggioranza solo nelle circoscrizioni di Huelva, Sevilla, Jaén, Granada, Tarragona e Barcellona.
    Per le successive primarie si devono attendere ben sedici anni (2014). Dal XXXV al XXXVIII Congresso, la leadership del partito viene eletta con un selettorato più ristretto (i delegati) anche se proprio nel primo di questi, tenutosi a Madrid nel 2000, l’elezione di Zapatero giunse inaspettata con soli nove voti di scarto (415 a 406) dal candidato andaluso e vicino agli ex-uomini forti del partito González e Guerra, José Bono, giunto secondo, portando con sé peraltro una significativa evoluzione organizzativa (Méndez Lago 2006).
    Il congresso straordinario del 2014, all’indomani della sconfitta alle europee e del sorprendente risultato di Podemos (7,98%) e della Sinistra Plurale (10,03%), ripropose le primarie chiuse tra iscritti e simpatizzanti[1]. Nonostante nelle prime battute di campagna elettorale per le primarie Eduardo Madina insidiasse, secondo alcuni sondaggi, la leadership di Pedro Sánchez, quest’ultimo prevalse con il 48,67% dei voti quindi senza la maggioranza assoluta, con Madina e Pérez Tapias rispettivamente al 36,25% e al 15,07%. Come per la precedente tornata, il distacco tra il primo e il secondo candidato (11 punti percentuali nel 1998 contro i 12 del 2014) evidenziarono sin da subito un partito spaccato, con gli uomini forti del bacino elettorale storico del PSOE, l’Andalusia, pronti a rivalersi su un leader instabile. (harveymaria.com) A ciò si deve anche aggiungere una emorragia di iscritti (Figura 1) che non si è placata e che, prima delle elezioni primarie, registrava dati non realistici.
    Le due elezioni legislative successive alle Europee, tenutesi a stretto giro di posta nel 2015 e nel 2016, d’altronde, hanno visto il PSOE in grande difficoltà elettorale e politica. Nel primo caso, la “tenaglia” rappresentata da Podemos e Ciudadanos ne ha ridotto gli spazi di manovra; soprattutto Podemos, come dimostrano i dati recentemente pubblicati da Agenda Pública (Bayon 2017a), ha eroso tutto il capitale di elettori auto-collocatosi a sinistra che prima della nascita del partito guidato da Iglesias votavano in massa per il PSOE. Nel secondo caso, il dibattito parlamentare per la fiducia al nuovo Primo Ministro (Mariano Rajoy) e le trattative non andate a buon fine tra Podemos e lo stesso PSOE per la creazione di una coalizione alternativa ai popolari hanno messo in grande difficoltà Sánchez, soprattutto di fronte alla federazione andalusa guidata dalla presidente Susana Díaz contraria a qualsiasi accordo con Podemos. La sfiducia a Sánchez, giunta al termine di un concitatissimo Comité Federal dai toni drammatici per il partito, ha portato alle dimissioni del segretario e l’affidamento alla cosiddetta gestora (la Commissione Politica del PSOE) della leadership proprio come accaduto all’indomani delle dimissioni di González nel 1997.
    Arriviamo quindi al presente, ossia alle primarie tenutesi domenica. Lo scontro tra Sánchez, Díaz e Patxi López (basco, e a capo della Commissione Politica) ha consumato (nuovamente) il partito nelle terze primarie chiuse tenutesi in occasione del XXXIX Congresso del partito. E anche in questo caso, la candidata appoggiata più o meno direttamente dalla maggior parte dell’establishment del partito, Susana Díaz è uscita sconfitta contro una candidatura che paradossalmente è stata definita di rottura come quella di Sánchez. Paradossalmente perché Sánchez, contrario ad una aperta collaborazione con i popolari, ha promesso una mozione di sfiducia al governo in carica[2] che avrebbe i numeri per passare, in caso le opposizioni (anche senza l’appoggio di Ciudadanos) si presentassero unite e con un candidato Primo Ministro. Il gruppo parlamentare dei socialisti su questo punto è spaccato. Proprio Podemos che aveva annunciato – e fatto votare ai propri militanti in una consultazione interna – una mozione di sfiducia, si è detto disposto a ritirarla per appoggiare quella eventualmente proposta dalla nuova guida del PSOE. Dei circa 188.000 iscritti a votare 74.223 con il 99,23% dei voti scrutinati ha scelto Sánchez (50,2%), mentre 59.041 Díaz (39,9%) e 14.571 (9,9%) Patxi López. Come nelle precedenti primarie, il distacco tra primo e secondo candidato è di poco sopra i 10 punti percentuali, mentre ad esempio nel caso delle primarie “aperte” del Partito Democratico in Italia il distacco si è sempre rilevato molto più ampio.

    Al di là dei numeri assoluti sulla partecipazione (Tabella 2), meno rilevanti rispetto ad una consultazione in cui il selettorato comprende potenzialmente tutto l’elettorato attivo (e anche una parte non attivo) come nel caso del Partito Democratico (PD) o delle Primaires citoyennes del Parti Socialiste (PS) francese, le primarie spagnole hanno dimostrato di essere fortemente competitive e capaci di portare a risultati in un certo qual modo “sorprendenti”. Tuttavia, hanno anche creato non pochi problemi organizzativi e di leadership in tutte e tre le tornate. Non solo, le primarie hanno anche fatto emergere una spaccatura regionale non legata alle irrisolte questioni indipendentiste, quanto semmai al nodo dell’Andalusia.
    Il feudo del PSOE, da sempre il maggior bacino di voti per i socialisti, ha rappresentato da solo il 42,2% dell’elettorato di Susana Díaz (25.112 voti su 59.041 totali); qui Sánchez ha raccolto la metà dei voti della rivale, mentre ha prevalso in tutte le altre comunità autonome (eccetto i Paesi Baschi, dove ha vinto Patxi López) con una prevalenza enorme in due aree cruciali economicamente e politicamente per la Spagna, la Catalogna (8.302 a 1191) e la Comunità Valenciana (9.552 a 4.274)[3]. L’Andalusia, tuttavia, rappresenta solo il 18% della popolazione ed elegge 61 deputati (il 17,4%) al Congresso. Nonostante risulti la comunità autonoma più popolata, il peso specifico che ricopre e storicamente ha ricoperto nell’assegnare la leadership del partito socialista è sproporzionata rispetto alle altre comunità: detto della rilevanza della comunità per Díaz è interessante notare come in termini assoluti Sánchez in Andalusia ha preso più voti che in tutte le altre comunità.
    In un paese in cui le spinte separatiste si fanno sempre più forti e dove il federalismo è un caposaldo del sistema politico spagnolo, la centralizzazione decisionale del partito socialista ha portato all’introduzione di primarie chiuse, nel tentativo di garantire agli iscritti la possibilità di scegliere il proprio leader. Tuttavia, le primarie fondate sul principio “una testa, un voto” offrono sì una democratizzazione del processo di selezione per gli iscritti, ma minano anche il concetto di rappresentatività concedendo alle federazioni più forti un peso sproporzionato rispetto ad altre aeree cruciali dal punto di vista elettorale, politico ed economico, rischiando quindi di marginalizzare il partito socialista in comunità dove la struttura è debole o dove le recenti elezioni hanno evidenziato un calo significativo (si veda Bayon 2017b per le performance del PSOE nelle varie comunità autonome). Una sorta di spirale che si autoalimenta e che, nonostante la vittoria di Sánchez, rischia di minare ulteriormente la già traballante organizzazione partitica.

    psoe members

    Figura 1 Membri del PSOE. *Membri secondo le diverse varianti previste dallo statuto del partito. ** Somma di iscritti effettivi e simpatizzanti. *** Iscritti con diritto di voto alle primarie. Fonte: Vittori (forthcoming).

    Tabella 1. Primarie del PSOE, risultati (1998, 2014, 2017).

    psoe primarie risultati

     

    References

    Bayon, E. (2017a). Los Que Se Fueron del PSOE. Agenda Pública (on-line). 17 April 2017. Retrieved from https://agendapublica.elperiodico.com/los-se-fueron-del-psoe/ [last access 22 May 2017].

    Bayon, E. (2017b). Los números de las primarias del PSOE. Agenda Pública (on-line). 17 April 2017. Retrieved from https://agendapublica.elperiodico.com/los-numeros-de-las-primarias-del-psoe/ [last access 22 May 2017].

    Gillespie, R. (1994). ‘The Resurgence of Factionalism in the Spanish Socialist Workers’ Party’, in Bell, D. and E. Shaw (eds.) Conflict and Cohesion in Western European Social Democratic Parties, London: Pinter, pp. 50-69.

    Hopkin, J. (2001). ‘Bringing the Members Back in? Democratizing Candidate Selection in Britain and Spain’. Party Politics. Vol.7(3): 343-361.

    Méndez, M. and A. Orte (2005). ‘La organización de partidos en sistemas multinivel: el caso del PSOE’. Paper presented at the VII Congreso de la Asociación Española de Ciencia Política y Administración, September 21-24, Madrid.

    Méndez Lago M. (2006). ‘Turning the Page: Crisis and Transformation of the Spanish Socialist Party’, South European Society and Politics. Vol. 11(3-4):  419-437.

    Van Biezen, I. (2003). Political Parties in New Democracies: Party Organization in Party Organization in Southern and East-Central Europe, Basingstoke: Palgrave Macmillan.

    Verge, T. (2007). Partidos y representación política: las dimensiones del cambio en los partidos políticos españoles, 1976–2006. Madrid: Centro de Investigaciones Sociológicas.

    Vittori, D. (forthocoming). ‘Cartelization and Party Change in Social-Democracy: PS, PSOE and PD in a comparative perspective. An applied analysis of the cartel party theory’. Italian Political Science Review.

     

    [1] Esistono tre tipi di affiliazione nel PSOE: il militante, l’affiliato diretto e il simpatizzante. Il simpatizzante non paga la quota di iscrizione, ma non può esercitare altri diritti se non il voto alle primarie. Il militante è iscritto alle strutture sub-nazionali del partito, mentre l’affiliato diretto risulta nei registri come iscritto alla struttura federale.

    [2] In Spagna la mozione di sfiducia deve essere “costruttiva”, ossia è necessario presentare un candidato alternativo capace di raccogliere la maggioranza dei voti nel Parlamento per passare.

    [3] I dati sono reperibili sul sito https://consultasg.psoe.es/

  • The 2017 Pd Primaries: Renzi strikes back

    The 2017 Pd Primaries: Renzi strikes back

    (English translation by Elisabetta Mannoni)

    Matteo Renzi won the primaries of the Democratic Party, with an outstanding result (70%[1]) with respect to his two adversaries, the current Minister of Justice Andrea Orlando (19,5%) and the governor of Apulia Michele Emiliano (10,5%). A wide gap between the first and the second (50,5 percentage points), yet coherent with the gap registered in the previous primaries, between Renzi and Gianni Cuperlo (49,8). We can then confirm on the electorate what had already emerged in the vote by party members, held a few weeks ago: a dominant ex-Prime Minister over the other main competitors and a marginal so-called minority. On the one hand, the hierarchies within the PD have been re-established (after a moment of disequilibrium due to the defeat at the referendum and the sentence of the Constitutional Court on the electoral law), while, on the other, the party has been downsized, at least as for its majoritarian ambitions. Around 1.850.000 electors voted in this round: although according to a prudent estimation the threshold for this election to be considered satisfactory was set to one million votes, the PD lost around one million voters compared to four years ago.

    The previous primaries

    Table 1 shows the turnout in previous primaries for the selection of the secretary of the Democratic Party or of the candidate to the Prime Minister position, since 2007. If we put aside the 2005 round – a unicum, which can be explained by the new-factor on the national level (while primaries at the local level had already been introduced) and by the width of the centre-left coalition – the other primaries have gradually registered a progressively increasing demobilization of the electorate close to the PD and its allied parties. Almost the same can be said for the trend in party members (Table 2).

    On a comparative perspective, the coalition primaries for the choice of the candidate to the Prime Minister position registered a decline of 28% from 2005 to the first round in 2012, and a decline of 35% from 2005 to the second round in 2012. Also in terms of electorate, the ratio between voters (selectors, ‘S’) and electors reduced over time – it was 8,7% in 2005 and 5,6% in 2012 second round. However, these two comparisons are less relevant than the data about turnout in the primaries for the choice of the secretary of the PD: even in this case, though, the PD registered a decrease in mobilization.

    From 2007 and 2009, the decline in participation was 13%; from 2009 and 2013, the decline has decreased (-9%), but it did not stop. After four years, it is even stronger (-34%). It’s clear that both in 2007 and in 2013 the external environment – to use a weather metaphor, the ‘political climate’ – favoured the newbown party (2007) and Matteo Renzi’s new leadership (2013). In the latter case, the hard situation that the party faced during the period of grand-coalition government with the PDL (2011-2013), plus the PD disappointing result in the 2013 legislative elections, had favoured a change in party leadership, together with a strong message to scrap the previous political elite. The over 2,8 million voters who provided Renzi with a strong majority were in line with the party expectations. On the opposite, the PD that has just called the electorate to the polls is governing with its third Prime Minister in a four-year period; and, although the dissolution of the ‘Nazareno agreement’, Renzi’s resignation, and the subsequent split of a fraction of the party did not bring up great disequilibria within the government majority, they contributed in toning down the pre-vote enthusiasm. So, in the end, the party elite can consider the overall participation as partially satisfactory, if we take into account the discouraging premises.

    Tab. 1 – Participation to PD primaries elections at the national levelvittori1ENG

    If we go forward in our analysis we can notice that – beyond the oscillations likely due to the non-uniqueness of the available data – the number of members of the party has progressively decreased throughout the ten years of PD history, with a slight upswing in most recent years. Compared to the previous Democrats of the Left and The Daisy, today the Democratic Party has lost more than 520.000 members, even though it got over 50.000 back from the lowest scored in 2014.

    Tab. 2 – Members of the Democratic Party by yearvittori2ENG

    We should highlight that the turnout rate this year in vote among party members was somewhat over 59% (266.054 expressed votes). Besides the numbers, the political data that emerged from members’ vote is the gap in percentage points between the first and the second candidate: both in 2009 and in 2013, Dario Franceschini and Gianni Cuperlo had abundantly exceeded 35% of valid preferences, showing a remarkable gap for the former (18 points) and a more restrained one for the latter (6%). This year, the gap between Renzi and Orlando in members’ vote has been 40 percentage points. This shows the non-competitiveness of the leadership from the various political tendencies – we better not call them factions – within the party. In absolute terms – and notwithstanding the 10% decline in participation from 2013 – Renzi increased his consensus among the members of more than 42.000 votes (+32%). In 2013, the gap between the members’ vote and the electorate’s had favoured Renzi – confirming the political interpretations according to which party members represent a more radical core of voters than the leadership and the electors; yet, on the one hand the 2017 primaries confirmed the greater appeal Renzi has on the electorate, and, on the other hand, it disproved what happened in 2013: it’s been the members who granted the new secretary a strong majority within the party. Although we lack recent longitudinal analyses about the evolution of PD members’ political preferences, a superficial analysis would reveal that there has been a relevant change with regard to Renzi, who is considered the most electorally-valuable candidate of the party, but also the most politically moderate and thus divisive towards potential allies on the left of the PD. The ‘firm’ the ex-secretary Bersani would often refer to, even if quantitatively reduced, has expressed its clear support to Renzi’s political project this time.

    Tab. 3 – Results in vote by member and primaries for the election of the secretary of the Democratic Party.vittori3ENG

    The vote geography

    A second and briefer analysis can be carried out on the vote geography. If we assume – and we can do it safely for speculation purposes – that the constitutional referendum has been a referendum on the Renzi cabinet, we should conclude that the South voted down the ex Prime Minister’s work. With a candidate like Michele Emiliano – not that competitive, but strongly rooted in the South and clearly hostile to Renzi – these tendencies should have been felt among the centre-left electors, too. But that was not the case: the results show that Renzi has been able to hold off the other competitors, even though Emiliano was the most-voted candidate in “his” Apulia, where he got 50% of the vote, and Renzi 35%. Although at the regional level data tend to be partial, once again the so-called Red Zone (Tuscany, Emilia-Romagna, the Marches, Umbria) confirms to be a stronghold for the PD: the four regions together got 515.000 electors, more than the 25% of the total.

    Conclusions

    The data of the PD primaries show a clear and constant decrease in participation and a low competitiveness among candidates, since the favoured candidate (Veltroni, Bersani and Renzi) has always won by large margins. However, the selection of the secretary and of the candidate-Prime Minister has got the attention of the centre-left electorate since the first experiment of national coalition primaries in 2005, enlarging the (formal) participation way beyond the simple members of the party. It’s hard to establish to what extent this participation is going to stabilize or decrease in the next future: for sure, the new-effect seems to have come to an end and the absolute numbers of the first primaries seem to be hardly replicable. As instrument to politically legitimate the leadership, it seems that primaries can still mobilize a remarkable portion of Democratic electors. It’s up to each elector to establish, according to his/her preferences, what are the effects in terms of quality of the deliberation.


    [1] Data reported here are still not official.

  • Primarie Pd 2017: tutti i numeri della partecipazione e del voto

    Primarie Pd 2017: tutti i numeri della partecipazione e del voto

    Matteo Renzi ha vinto le primarie del Partito Democratico, affermandosi nettamente (70%[1]) nei confronti dei suoi due avversari, Andrea Orlando (19,5%), attuale Ministro della Giustizia, e Michele Emiliano (10,5%), governatore della Puglia. Un distacco molto ampio rispetto al secondo (50,5 punti) e in linea con il differenziale della precedente tornata in (49,8) in cui a sfidarsi erano stati Renzi e Gianni Cuperlo. A livello di elettorato si conferma quanto emerso nel voto nei circoli (a cui partecipavano gli iscritti), ossia la preponderanza dell’ex-Presidente del Consiglio rispetto ai principali contender e la marginalità della cosiddetta minoranza. Se le gerarchie interne all’interno del PD si sono ristabilite, dopo la fase sussultoria all’indomani della sconfitta nel referendum e della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale, in cui il partito è uscito fortemente ridimensionato per lo meno nelle proprie aspirazioni maggioritarie, più complicata è la questione della mobilitazione dell’elettorato.
    In questa tornata difatti i votanti sono stati circa 1.850.000: nonostante una stima prudenziale indicasse in un milione la quota minima per ritenere soddisfacente queste elezioni, il PD ha perso circa un milione votanti rispetto a quattro anni or sono.

    Le precedenti primarie

    La Tabella 1 indica i precedenti storici delle primarie per la selezione del segretario del PD e del candidato Presidente del Consiglio dal 2007 ad oggi: se si esclude la tornata 2005 – un unicum spiegabile con il fattore novità a livello nazionale (vari esperimenti a livello locale erano già stati introdotti) e con l’ampiezza della coalizione di centro-sinistra – le altre primarie hanno gradualmente visto una smobilitazione sempre crescente da parte dell’elettorato affine al PD e ai suoi partiti alleati. Una simile considerazioni vale per gli iscritti al partito (Tabella 2).

    In termini comparativi le primarie di coalizione per la scelta del candidato Primo Ministro hanno visto un calo del 28% dal 2005 al primo turno del 2012 e del 35% rispetto al secondo turno. Anche in termini di elettorato il rapporto tra votanti (Selectors, “S”) ed elettori si è assottigliato passando dall’8,7% del 2005 al 5,6% del secondo turno del 2012. Tuttavia, questi due paragoni sono meno rilevanti rispetto al dato sulla partecipazione alle primarie per la scelta del segretario: anche in questo caso comunque il PD ha visto calare la mobilitazione. (https://flathatnews.com)

    Dal 2007 al 2009, il calo in termini di partecipazione è stato del 13%; dal 2009 al 2013, il calo si è ridotto (-9%), ma non si è arrestato. A quattro anni di distanza il calo è ancora più marcato (-34%).

    Certamente tanto nel 2007 quanto nel 2013 l’ambiente esterno – o, per usare una metafora metereologica, il “clima politico” – arrideva al nascente al partito (2007) e alla nuova leadership di Matteo Renzi (2013). In quest’ultimo frangente, le difficoltà del partito durante la parentesi del governo di grande coalizione con il PDL (2011-2013) ed il deludente risultato del PD alle elezioni politiche del 2013, avevano agevolato un cambio di leadership, accompagnato da un forte messaggio di rottamazione della precedente classe politica. Gli oltre 2,8 milioni di elettori che avevano garantito a Renzi una solida maggioranza, erano in linea con le aspettative del partito. Al contrario, il PD che ha appena portato i suoi elettori alle urne, si trova al governo con il terzo Primo Ministro proveniente dalle sue fila in quattro anni e, nonostante non vi siano state fibrillazioni nella maggioranza di governo dopo la rottura del Patto del Nazareno, le dimissioni di Renzi da Primo Ministro e segretario del partito con la successiva scissione di una parte del partito, hanno contribuito a smorzare gli entusiasmi pre-voto. Rispetto quindi alle premesse non incoraggianti, la partecipazione totale può essere considerata dalla élite del partito parzialmente soddisfacente. 

    Tab. 1 – Partecipazione alle elezioni primarie a livello nazionale del Partito Democraticovittori1Procedendo con l’analisi degli iscritti si può notare come – al di là delle probabili oscillazioni dovute alla non univocità dei dati a disposizione – la quota degli iscritti sia andata diminuendo costantemente nel corso dei dieci anni di storia del PD, con una seppur lieve ripresa quest’anno. Rispetto agli allora Democratici di Sinistra e Margherita, il Partito Democratico ha perso oltre 520.000 militanti, pur avendo recuperato rispetto al 2015 (395.574).

    Tab. 2 – Iscritti al Partito Democraticoiscritti pd

    Da sottolineare come la quota della partecipazione all’ultima consultazione fra gli iscritti sia stata poco al di sopra del 59% (266.054 voti espressi). Oltre ai numeri, il dato politico emerso dal voto degli iscritti è il distacco in termini percentuali tra il primo e secondo candidato: sia nel 2009 che nel 2013, Dario Franceschini e Gianni Cuperlo, avevano abbondantemente superato il 35% delle preferenze segnando un distacco rilevante nel primo caso (18 punti nel primo caso) e più contenuto nel secondo (circa 6 punti). Quest’anno nel voto fra gli iscritti la distanza tra Renzi è Orlando è stata di oltre quaranta punti percentuali, dato questo che testimonia la non contendibilità della leadership da parte delle variegate tendenze politiche – sarebbe scorretto definirle fazioni – all’interno del partito. In termini assoluti – e nonostante il calo della partecipazione di circa il 10% rispetto al 2013 – Renzi ha aumentato il proprio consenso fra gli iscritti di oltre 42.000 voti (+32%). Se nel 2013, la scarto tra il voto degli iscritti e quello dell’elettorato aveva agevolato Renzi – dando manforte alle interpretazioni politologiche che vedono negli iscritti un nucleo di votanti tendenzialmente più “radicale” rispetto alla leadership e agli elettori – questa ultima tornata ha, da un lato, confermato il maggiore appeal di Renzi sugli elettori e, dall’altro, smentito quanto accaduto nel 2013: proprio gli iscritti difatti hanno garantito al neo-segretario una chiara maggioranza dentro il partito. Per quanto manchino recenti analisi longitudinali sull’evoluzione delle preferenze politiche degli iscritti al PD, una superficiale analisi rivela come ci sia stato un mutamento rilevante nei confronti di quello che viene considerato il candidato sì più spendibile in termini elettorali, ma anche quello più politicamente più “moderato” e divisivo nei confronti di potenziali alleati a sinistra del PD. La famigerata “ditta” cui faceva spesso riferimento l’ex-segretario Bersani, pur essendo numericamente più ridotta, in questo congresso ha espresso un chiaro sostegno al progetto politico di Renzi.

    Tab. 3 – Risultati nel voto fra gli iscritti e nelle primarie per l’elezione del segretario del PDrisultati primarie pd

    La geografia del voto

    Una seconda, e più breve, analisi la merita certamente la geografia del voto. Se si assumesse – e possiamo farlo senza intenti che vadano al di là della speculazione – che il referendum costituzionale sia stato un referendum sull’operato di Renzi, allora dovremmo desumere che il Sud abbia bocciato l’operato dell’ex Primo Ministro. Con un candidato come Michele Emiliano – sì poco competitivo, ma fortemente radicato nel meridione e ostile a Renzi – queste tendenze avrebbero dovuto farsi sentire anche nell’elettorato di centro-sinistra. Così non è stato: i risultati ancora non definitivi indicano che Renzi abbia tenuto a distanza agli altri contendenti, seppure Emiliano riesca ad imporsi nella “sua” Puglia con il 50% dei votanti, rispetto al 35% di Renzi. Per quanto i dati su base regionale siano molto parziali, ancora una volta la cosiddetta Zona Rossa (Toscana, Emilia-Romagna, Marche e Umbria) si conferma uno zoccolo duro per il PD: le quattro regioni hanno totalizzato circa 515.000 votanti, quindi più del 25% del totale.

    Conclusioni

    I dati delle primarie del PD indicano una chiara e costante diminuzione nella partecipazione a fronte di una scarsa competitività tra i candidati, dato che il candidato favorito (Veltroni, Bersani e Renzi) ha sempre vinto con largo margine. Tuttavia, la selezione del candidato segretario e del candidato Primo Ministro ha attratto l’attenzione dell’elettorato del centro-sinistra sin dall’esperimento delle primarie di coalizione del 2005, allargando la partecipazione (formale) ben al di là dei semplici iscritti. Quanto tale partecipazione si stabilizzerà o decrescerà nel prossimo futuro è difficile stabilirlo: certamente l’effetto novità sembra ormai tramontato e i numeri assoluti delle prime tornate appaiono difficilmente replicabili. Come strumento di legittimazione politica della leadership, le primarie appaiono ancora in grado di mobilitare una fetta non trascurabile di elettori democratici. Su quali effetti in termini di qualità della deliberazione spetta a ciascun elettore stabilirlo sulla base delle proprie preferenze.


    [1] I dati riportati sono ancora ufficiosi.