Autore: Davide Vittori

  • A Modena e Reggio gli elettori grillini premiano Bonaccini

    A Modena e Reggio gli elettori grillini premiano Bonaccini

    A Modena e Reggio nell’Emilia il centrosinistra prima delle elezioni regionali partiva da uno stato di salute migliore rispetto ai capoluoghi “limitrofi” di Parma e a Piacenza. Negli ultimi due comuni il Partito Democratico, il principale azionista della coalizione guidata da Stefano Bonaccini, era scivolato dietro alla Lega alle Europee del 2019, così come la coalizione di centrosinistra aveva perso a favore del centrodestra alle politiche del 2018. A Modena e Reggio, invece, il centrodestra non era riuscito a sfondare: alle Europee il margine di vantaggio del PD nei confronti della Lega era superiore ai 10 punti in entrambi i comuni. Alle elezioni regionali il distacco tra la coalizione di centrosinistra e quella di centrodestra è arrivato oltre venti punti percentuali (28 a Modena, oltre 23 a Reggio) mentre quello tra PD e Lega si è allargato a 16.6 punti a Modena e a oltre i 13 a Reggio.

    A cosa è dovuto questo incremento del successo? Guardando ai flussi elettorali di ciascun comune possiamo trovare un comune denominatore, già riscontrato per altri comuni, ovvero sia il voto degli elettori del MoVimento 5 Stelle. Guardando alle Figure 1 e 2 concernenti i flussi a Modena, si evince che la coalizione guidata da Bonaccini, è riuscita a tenersi stretto il proprio elettorato sia rispetto alle politiche del 2018 (Figura 1) sia rispetto alle europee del 2019 (Figura 2), così come del resto è riuscita a fare la coalizione di centrodestra e la Lega in particolare (diverso è il caso di Fratelli d’Italia, dove una consistente parte dell’elettorato del 2018 ha defezionato verso il non-voto, mentre circa un 20% dei suoi elettori nel 2019 ha optato addirittura per la coalizione di centrosinistra). Semmai è stato l’elettorato grillino a spostare ulteriormente l’ago della bilancia a favore di Bonaccini. Rispetto all’exploit del 2018, quasi un elettore su due (47%) ha scelto Bonaccini; rispetto al 2019 ben il 76% ha virato sul centrosinistra (e solo il 16% verso il candidato pentastellato Benini). Gli elettori del MoVimento 5 Stelle, dunque, hanno fatto una precisa scelta di campo. Nella debacle grillina, la luce in fondo al tunnel potrebbe essere quel 30% di elettori del 2018 che in questa tornata ha optato per il non-voto. Un potenziale di rimobilitazione, quindi, potrebbe esserci per la compagine grillina. (Diastat)

    Fig. 1 – Flussi elettorali a Modena fra politiche 2018 (sinistra) e regionali 2020 (destra), percentuali sull’intero elettorato

    Fig. 2 – Flussi elettorali a Modena fra europee 2019 (sinistra) e regionali 2020 (destra), percentuali sull’intero elettorato

    Le Figure 3 e 4 danno conto invece dei flussi di Reggio Emilia. Anche qui il trend è simile a quello registrato per Modena, anche se con delle differenze. Se le due coalizioni riescono sostanzialmente a trattenere i propri elettori sia rispetto alle politiche 2018 (Figura 3) che rispetto alle europee 2019 (Figura 4), è pur vero che in questo caso si nota uno spostamento del 10% dell’elettorato dalla Lega verso Bonaccini. Una percentuale non trascurabile se si pensa alla polarizzazione tra le due coalizioni e in particolare alla distanza tra la Lega e Bonaccini. In ogni caso, a far allargare la forbice tra le due coalizioni sono stati sicuramente gli elettori del MoVimento 5 Stelle, sebbene con una tendenza meno marcata rispetto a Modena. Difatti “solamente” il 36% degli elettori pentastellati del 2018 e soprattutto “solo” 51% di quelli del 2019 (rispetto al 76% registrato a Modena) ha optato per Bonaccini. Quasi un quarto degli elettori grillini ha invece scelto Lucia Borgonzoni, una percentuale più alta anche rispetto agli elettori che hanno scelto Benini (22%). Anche qui, il potenziale di rimobilitazione il MoVimento lo può ritrovare in quegli elettori del 2018 (27%) che in queste elezioni hanno optato per il non-voto.

    Fig. 3 – Flussi elettorali a Reggio Emilia fra politiche 2018 (sinistra) e regionali 2020 (destra), percentuali sull’intero elettorato

    Fig. 4 – Flussi elettorali a  Reggio Emilia fra europee 2019 (sinistra) e regionali 2020 (destra), percentuali sull’intero elettorato

    Concludendo, sebbene il centrosinistra a Modena e Reggio partisse da una situazione più favorevole rispetto ad altri comuni capoluogo limitrofi, è indubbio che come per il resto della regione, siano stati gli elettori grillini a garantire al centrosinistra un ampio distacco rispetto alla coalizione a guida Lega.


    NOTA METODOLOGICA

    I flussi presentati sono stati calcolati applicando il modello di Goodman (1953) alle 160 sezioni elettorali del comune di Reggio Emilia e alle 190 sezioni del comune di Modena. Seguendo Schadee e Corbetta (1984), abbiamo eliminato le sezioni con meno di 100 elettori (in ognuna delle due elezioni considerate nell’analisi), nonché quelle che hanno registrato un tasso di variazione superiore al 15% nel numero di elettori iscritti (sia in aumento che in diminuzione). Sui flussi Politiche 2018-Regionali 2020, il valore dell’indice VR è pari a 11,8 per il comune di Modena e 10,6 per il comune di Reggio Emilia. Sui flussi Europee 2019-Regionali 2020 il valore dell’indice VR è pari a 8,1 per il comune di Modena e 7,4 per il comune di Reggio Emilia.

    Tab. 1 – Flussi elettorali a Modena fra politiche 2018 e regionali 2020, provenienze

    Tab. 2 – Flussi elettorali a Modena fra europee 2019 e regionali 2020, provenienze

    Tab. 3 – Flussi elettorali a Reggio Emilia fra politiche 2018 e regionali 2020, provenienze

    Tab. 4 – Flussi elettorali a Reggio Emilia fra europee 2019 e regionali 2020, provenienze

  • La geografia del voto in Emilia-Romagna: le aree inurbane non sono diventate di destra, lo erano già

    La geografia del voto in Emilia-Romagna: le aree inurbane non sono diventate di destra, lo erano già

    La vittoria del centrosinistra alle elezioni in Emilia-Romagna è andata oltre le previsioni. Il 7.7% di scarto tra il neo-rieletto Stefano Bonaccini e la candidata della Lega Nord Lucia Borgonzoni è maggiore di quanto non dicessero i sondaggi precedenti le elezioni. Non solo, come è già stato segnalato in un altro articolo del CISE (Vittori 2020), se si tiene conto che il PD non era il primo partito in Emilia-Romagna da due anni e che la coalizione di centrodestra era prevalente sia alle elezioni politiche sia sommando i risultati delle Europee, si può capire l’importanza del risultato.

    Nonostante l’Emilia-Romagna, con la Toscana, rappresenti la regione “rossa” per eccellenza (dal punto di vista elettorale) grazie a un dominio ininterrotto del PCI prima e dei suoi epigoni poi, il partito di riferimento del centrosinistra sino a poco tempo fa stava attraversando una crisi di consensi che non aveva risparmiato nemmeno questa regione. Nel 2018 era stato il MoVimento 5 Stelle il primo partito in regione, nel 2019 la Lega. Con queste elezioni il PD si riprende lo scettro di primo partito superando di 2.7 punti (34.7% a 32%) la Lega, che in ogni caso ottiene un risultato altrettanto rilevante.

    Ma le dinamiche del voto quali sono state? Se da un lato è evidente, come è stato già segnalato, che vi sia una discrasia tra i “grandi” comuni in cui il PD e il centrosinistra hanno avuto performance lusinghiere e i piccoli centri, dove invece è stata la Lega e il centrodestra a prevalere, vi sono dinamiche che è bene scandagliare nel dettaglio. Dal raffronto tra le elezioni europee del 2019 e quelle regionali del 26 Gennaio emergono delle tendenze che danno conto di un andamento differente rispetto alla fotografia del voto scattata all’indomani delle elezioni (Tabella 1). In particolare, emerge come a livello regionale, il PD e il centrosinistra abbiano aumentato i propri voti di 4.3 e 12.8 punti percentuali rispetto alle europee. Un dato più ampio rispetto ai comuni capoluogo dove l’aumento è stato rispettivamente di 1.8 e 12.4 per cento. Al contrario la Lega ha ridotto il proprio bagaglio di voto sia nei comuni capoluogo (-2.4 punti) che nei comuni non capoluogo (-1.4) corrispondenti a un calo della coalizione di centrodestra di rispettivamente 1.1 e 0.9 punti.

    Tab. 1 – Variazioni in punti percentuali e tassi di variazione tra le elezioni regionali del 2020 e le elezioni europee del 2019 per i principali partiti e le principali coalizioni. Dettaglio per provincia, comuni capoluogo e comuni non capoluogo

    Certamente, stiamo parlando di aree – i comuni non capoluogo – dove la Lega aveva raggiunto il proprio massimo storico e su cui probabilmente il proprio bacino potenziale di votanti si stava esaurendo, rispetto al PD dove invece alle Europee il risultato in termini percentuali non era stato esaltante e il margine di ripresa era più ampio. Purtuttavia, questo rimane un dato interessante che segnala che se il voto urbano abbia chiaramente premiato il PD, questo partito e la coalizione di centrosinistra nella sua interezza sono riusciti a ri-mobilitare il proprio elettorato dove era meno forte la penetrazione territoriale dell’anno precedente.

    Scorrendo i dati per provincia poi, si notano anche altri risultati interessanti: la “dotta” Bologna ha sì garantito al PD il 39.3% e alla coalizione il 64,8%; tuttavia rispetto alle Europee, nel comune il PD è arretrato di un punto (la colazione invece è cresciuta di ben 12.8 punti percentuali). Fuori dal comune il PD va meglio (più 4.6 punti), mentre la Lega va meno peggio (-2.4) rispetto al solo comune (-3.3). Anche nelle province a marca leghista, quali Piacenza e Ferrara, il PD e il centrosinistra riescono ad aumentare i propri voti in maniera rilevante. A Piacenza di 4.2 punti nel capoluogo (+10.3 per la coalizione di centrosinistra) e di 4.7 nei comuni non capoluogo (+9.8 per la coalizione): sorprende vedere (ma anche in questo caso con le cautele dovute al fatto che si tratta di un incremento percentuale il cui dato di partenza è modesto) come nei comuni non capoluogo di Piacenza, la coalizione sia cresciuta del 41.5% rispetto all’anno precedente (il PD del 30.9%). Un discorso simile vale anche per Ferrara, sebbene in questo caso la Lega nei comuni non capoluogo abbia aumentato i propri voti di 0.9 punti e la coalizione di centrodestra di 2.3. Anche a Rimini, dove il centrodestra è storicamente stato più forte che in altre province (già nel 2016 la Lega aveva il 12.4% ed era la prima forza del centrodestra) e dove i seggi uninominali alla Camera e al Senato erano andati al centrodestra, il PD e il centrosinistra registrano il maggior aumento rispetto a tutte le altre province. Sei punti nel comune capoluogo e 5.9 nei comuni non capoluogo per il partito e +14.4 e +14.2 per la coalizione, corrispondenti a un +41.9 nel comune capoluogo e a un +46.7 nei comuni non capoluogo.

    Dovendo quindi trarre un primo bilancio sulla perifericità del voto si potrebbe concludere che in realtà la frattura tra le periferie (a destra) e il centro (a sinistra) non è affatto nuova nel panorama emiliano-romagnolo. Più che sorprendersi ora, si sarebbe dovuti rimanere impressionati alle passate elezioni, dove questo trend era già presente. Certo non è la situazione di cinque o dieci anni orsono; né tuttavia vi sono stati stravolgimenti così acuti rispetto al 2019. Tuttavia, se qualcosa è cambiato in questa elezione è cambiato a favore del PD e del centrosinistra anche nella “periferia” dove la Lega e il centrodestra rimangono comunque molto forti, a dispetto del calo subito.

  • A Rimini il centrosinistra si (ri)prende i voti del MoVimento 5 Stelle…e pure qualche voto alla destra

    A Rimini il centrosinistra si (ri)prende i voti del MoVimento 5 Stelle…e pure qualche voto alla destra

    Alle elezioni del 2018, il CISE aveva analizzato i flussi elettorali della provincia di Rimini (Vittori e Paparo 2018) scoprendo che al di là della vittoria al seggio uninominale del centrodestra (e il secondo posto del MoVimento 5 Stelle), vi erano stati dei flussi elettorali molto particolari con il centrosinistra a perdere il 3.2% a favore del MoVimento 5 Stelle e ben il 3% a favore della Lega. Su un totale ipotetico di 100 elettori del centrosinistra del 2013, solo 45 nel 2018 avevano optato per il PD, mentre 13 e 12 si erano schierati rispettivamente per il Movimento 5 Stelle e per la Lega. Alle Europee del 2019, inoltre, il centrodestra (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia) si era attestato ben oltre il 45% e la Lega con il 34.2% era divenuto il primo partito con quasi otto punti di vantaggio sul Partito Democratico e quasi venti sul MoVimento 5 Stelle. (crej.com)

    Due tornate
    elettorali che avevano consegnato al centrodestra le chiavi del comune (e della
    provincia). Con le regionali del 2020, tuttavia, il discorso cambia
    radicalmente. Rimini è il comune in cui il PD e il centrosinistra sono
    cresciuti di più in tutta la regione: il partito ha aumentato di oltre il 22%
    il proprio consenso elettorale (corrispondente a un aumento di 6 punti
    percentuali rispetto al 2019), mentre la coalizione di ben il 41.9%. A questa
    crescita ha fatto da contraltare il calo del 7.6% della Lega (corrispondente a
    un -2.6% in termini di voti) e un minor calo della coalizione di centrodestra
    (-3.6%). Si tratta quindi di un aumento del centrosinistra più che
    proporzionale rispetto al calo del centrodestra. L’elefante nella stanza,
    direbbero gli anglosassoni, è stato per forza di cose il terzo polo
    rappresentato dal MoVimento 5 Stelle.

    E difatti la Figura 1 che mostra i flussi dalle politiche del 2018 alle regionali del 2020 e, soprattutto, la Figura 2 che mostra i flussi dalle europee del 2019 alle regionali del 2020, ci dicono proprio questo, ovvero sia che i voti del MoVimento 5 Stelle sono stati decisivi per il centrosinistra e per il PD. Rispetto al 2018 il 34% degli elettori pentastellati ha scelto il centrosinistra di Bonaccini, contro il 26% del centrodestra della Borgonzoni. Mentre comparando le europee con i recenti risultati, si nota come Bonaccini abbia rappresentato il vero polo d’attrazione per i 5 Stelle: il 66% ha optato per il centrosinistra e il 12% per il centrodestra. Preoccupante per il MoVimento è semmai il fatto che la logica bipolare abbia di fatto liquefatto la fedeltà del proprio elettorato. Rispetto allo storico risultato del 2018, solo l’8% dei riminesi pentastellati ha riconfermato il voto a grillini un anno e mezzo dopo, mentre rispetto alle elezioni di maggio dello scorso anno (dove il MoVimento era già crollato in termini percentuali) la quota è del 17%.

    Fig. 1 – Flussi elettorali a Rimini fra politiche 2018 (sinistra) e regionali 2020 (destra), percentuali sull’intero elettorato 

    Fig. 2 – Flussi elettorali a Rimini fra europee 2019 (sinistra) e regionali 2020 (destra), percentuali sull’intero elettorato

    Se sorprende meno la fedeltà dell’elettorato di centrosinistra nei confronti di Bonaccini, è sicuramente più inaspettato il fatto che il 18% dell’elettorato di Fratelli d’Italia e il 10% di quello della Lega delle Europee del 2019 sia transitato nell’alveo del centrosinistra. Tale dato sulla Lega sorprende in egual misura se si pensa che rispetto alle politiche del 2018, quando il partito di Salvini non era ancora esploso elettoralmente, non vi siano stati travasi di voto rispetto alle regionali. Volendo fare una supposizione si può asserire che una parte dell’elettorato verde sia stato attratto dalla campagna elettorale del buon governo portata avanti da Bonaccini o, di converso, non abbia trovato nella proposta della Borgonzoni una credibile alternativa. Parimenti interessante è il discorso che si può fare per Fratelli d’Italia: ben il 44% dell’elettorato del 2018 ha optato per Bonaccini, mentre rispetto al 2019 il tasso di fedeltà alla Borgonzoni è stato “solo” del 67%.

    Se fin qui abbiamo mostrato gli scostamenti degli elettorati dei partiti tra un’elezione e l’altra, possiamo allargare il ragionamento alla composizione dell’elettorato delle varie coalizioni. La Tabella 1 e la Tabella 2 mostrano come la seconda componente più rilevante dell’elettorato di Bonaccini siano i 5 Stelle sia comparando le elezioni regionali con le politiche 2018 (Tabella 1) e sia confrontando le regionali con le elezioni europee del 2019 (Tabella 2). A riprova di quanto detto in merito al travaso di voti dal centrodestra al centrosinistra, rispettivamente il 6% e il 2% dell’elettorato di Bonaccini è composto da elettori che alle europee del 2019 avevano votato Lega e Fratelli d’Italia. Al contrario, Lucia Borgonzoni non è riuscita ad attrarre ex-elettori del centrosinistra né rispetto alle politiche né rispetto alle europee. Anche la quota di elettori grillini che hanno scelto il centrodestra è sensibilmente più bassa (21% rispetto al 2018, il 4% rispetto al 2019) comparata con il centrosinistra.

    Tab. 1 – Flussi elettorali a Rimini fra politiche 2018 e regionali 2020, provenienze (clicca per ingrandire)

    Tab. 2 – Flussi elettorali a Rimini fra europee 2019 e regionali 2020, provenienze (clicca per ingrandire)

    Concludendo, nella provincia dove il centrosinistra è cresciuto di più, è stato il MoVimento 5 Stelle a fare la differenza, portando il PD ad essere il primo partito e il centrosinistra la prima coalizione. La bipolarizzazione del voto ha sfavorito di gran lunga il centrodestra, la cui performance si può definire molto al di sotto delle aspettative. Nonostante tanto a Rimini quanto in regione le fortune del MoVimento 5 Stelle si siano costruite in opposizione al PD, i cambiamenti politici recenti sembrano avere inciso nel rendere meno indigeribile un voto per il centrosinistra da parte di un elettore grillino.

    Che questo possa essere dovuto al forte endorsment del sindaco di PD, molto apprezzato in città, al centrosinistra e alla campagna elettorale sul buon governo regionale di Bonaccini questi dati non possono mostrarlo. Tuttavia, non sembrano due dinamiche così lontane dal vero, se si pensa che una rilevante fetta di elettorato di destra radicale abbia optato per un candidato del partito tanto “odiato” a livello nazionale da quest’area politica.


    NOTA METODOLOGICA

    I flussi presentati sono stati calcolati applicando il modello di Goodman (1953) alle 143 sezioni elettorali del comune di Rimini. Seguendo Schadee e Corbetta (1984), abbiamo eliminato le sezioni con meno di 100 elettori (in ognuna delle due elezioni considerate nell’analisi), nonché quelle che hanno registrato un tasso di variazione superiore al 15% nel numero di elettori iscritti (sia in aumento che in diminuzione). 

  • Elezioni Emilia-Romagna: l’effetto Sardine sulla vittoria di Bonaccini

    Elezioni Emilia-Romagna: l’effetto Sardine sulla vittoria di Bonaccini

    Dal momento della sua prima manifestazione di piazza a Bologna, a novembre 2019, il movimento delle Sardine è riuscito immediatamente ad imporsi all’attenzione politica e mediatica del paese e a costruirsi un ruolo rilevante nel contesto della campagna elettorale per le elezioni in Emilia-Romagna. Per molti, a sinistra, il movimento ha rappresentato una vera e propria boccata d’ossigeno: nella cavalcata di Salvini (che sembrava essere trionfale) verso la conquista della più rossa tra le regioni d’Italia, le Sardine hanno risvegliato l’anima movimentista e valoriale di un elettorato che sembrava intorpidito. In questo spinto anche dai sondaggi dell’epoca che sembravano predire un esito elettorale chiaramente a favore della candidata del centrodestra Lucia Borgonzoni.   

    Mentre le Sardine spingevano in piazza un elettorato progressista in funzione anti-Salvini, Bonaccini al contrario rivendicava la buona amministrazione della regione negli ultimi cinque anni, forte anche di indicatori economici e sociali tra i più positivi d’Italia. Non è un caso quindi che il candidato del centrosinistra abbia deciso di puntare sul suo buon governo durante la campagna elettorale. Ed il buon governo ha senz’altro pagato, come sembra chiaro dal trend dei dati relativi al voto al solo presidente e al voto disgiunto che nel complesso hanno premiato il candidato di centrosinistra: in altre parole un effetto-Bonaccini sembra esserci stato.

    Tuttavia, in una campagna fortemente politicizzata e nazionalizzata da Matteo Salvini, la contro-risposta sul piano nazionale e valoriale è arrivata con il movimento delle Sardine. Questo, difatti, al contrario del candidato di centrosinistra si è speso per spostare il conflitto su un piano diverso: conflittuale e valoriale, catalizzato dalle scelte del leader della Lega. Non è un caso che subito dopo l’Emilia-Romagna le manifestazioni del movimento si siano succedute in altre parti d’Italia.

    Questa contrapposizione tra il movimento delle Sardine e la “bestia” leghista ha pagato elettoralmente, nel senso di mobilitare l’elettorato di centrosinistra. Questo è quello che mostra la Figura 1 che sintetizza i dati provenienti dall’esclusiva indagine condotta dal CISE pochi giorni prima del voto tra gli elettori emiliano-romagnoli (CATI-CAMI, N=1004). A parità di istruzione, genere e orientamento ideologico, difatti, tra chi dà un giudizio positivo nei confronti delle Sardine la probabilità di votare per il candidato del centrosinistra è significativamente più alta, mentre il trend è esattamente opposto (e significativo) per chi ha un giudizio negativo, ovvero sia la probabilità di votare la candidata del centrodestra è significativamente più alta. E’ importante sottolineare che l’orientamento ideologico è gia compreso tra le variabili di controllo del modello: in altre parole, gli effetti mostrati non possono essere imputati all’ideologia degli intervistati, ma si sommano a questa.

    Fig. 1 – Probabilità stimata di voto per i due candidati per giudizio sulle Sardine a parità di istruzione, genere e orientamento ideologico. Nota: I risultati sono stimati su un campione CATI-CAMI (N=1004) con binomial logistic regression

    Questi dati mostrano, quindi, come accanto all’accento sul regionalismo della tornata elettorale su cui Bonaccini ha improntato il suo messaggio elettorale, la competizione in Emilia-Romagna si è giocata anche ad un livello che potremmo definire “valoriale”, di contrapposizione ideologica tra un messaggio più legato ai valori tradizionali della sinistra -incarnato dalle Sardine-, e quello conservatore e securitario, chiaramente di destra, di Matteo Salvini (e Lucia Borgonzoni).

    Un risultato questo che sembra essere in linea con una spiegazione multi-fattoriale e composita della vittoria di Bonaccini: per un verso, si è trattato di una vittoria spinta dalla buona amministrazione; per un altro verso, invece, fondamentale è stato l’apporto derivante dalla mobilitazione di piazza dei valori cari a una parte dell’elettorato di sinistra.

  • Normalizzare, non più rivoluzionare: il MoVimento 5 Stelle di fronte alle dimissioni del Capo Politico, Luigi Di Maio

    Normalizzare, non più rivoluzionare: il MoVimento 5 Stelle di fronte alle dimissioni del Capo Politico, Luigi Di Maio

    Articolo pubblicato in versione ridotta su Rivista Pandora

    Si è chiusa la stagione di Luigi Di Maio alla guida del MoVimento 5 Stelle. Nonostante sembra passata un’era geologica, la sua elezione a candidato premier nonché a Capo Politico del MoVimento 5 Stelle, risale “solamente” al settembre del 2017. Il tempo per una vittoria trionfale, quella delle politiche del Marzo 2018 e di alcune sconfitte brucianti, le europee dello scorso maggio e le elezioni regionali dal 2018 ad oggi. Le dimissioni arrivano alla vigilia di un’altra tornata che, oltre a essere decisiva in un senso o nell’altro per il governo Conte, si preannuncia piuttosto fosca per il MoVimento 5 Stelle. Dimissioni che peraltro hanno anche permesso a Di Maio di lanciare più di uno strale contro alcuni compagni di viaggio accusati di aver remato contro il Capo Politico e il partito stesso. Ma andiamo con ordine e seguiamo la traiettoria di Luigi Di Maio per capire una cosa più importante: l’evoluzione organizzativa del MoVimento 5 Stelle.

    La parabola di Luigi Di Maio all’interno del partito grillino inizia ben prima del 2017; eletto parlamentare per la circoscrizione Campania 1, Di Maio diviene uno dei componenti del cosiddetto Direttorio istituito da Grillo e Gianroberto Casaleggio nel 2014, per tentare di dare una forma ad un partito cresciuto impetuosamente con il risultato delle politiche del 2013. Di Maio nel Direttorio ricopre il delicato ruolo di responsabile degli enti locali in una stagione in cui sono ancora spinosi i casi di Federico Pizzarotti, sindaco di Parma epurato dal partito e in aperto contrasto con Di Maio, e di Virginia Raggi, all’epoca alle prese con le vicende giudiziarie legate ad alcuni suoi assessori. Si tratta di una parentesi di meno di due anni, dato che nel novembre del 2016 il Direttorio viene formalmente sciolto, ma che segna il partito. Come detto, passa poco di un anno dallo scioglimento e Di Maio diviene Capo Politico del MoVimento 5 Stelle, sostituendo Beppe Grillo. Un cambio che avviene, tuttavia, con primarie non competitive in cui il potenziale sfidante, Roberto Fico, si fa da parte in polemica con la scelta. Insieme con la nomina di Di Maio avviene un’altra importante trasformazione, il cambiamento dello Statuto, avvenuto a fine 2017. Per la prima volta, l’organizzazione pentastellata che si era retta su una diarchia, composta da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio (e a seguito della sua scomparsa, da suo figlio Davide), diviene una sorta di triumvirato, in cui a Davide Casaleggio sarebbe toccata la leadership organizzativa, a Di Maio quella politica e a Grillo quella simbolico-politica del Garante, figura tutt’altro che marginale secondo lo Statuto grillino.

    Il vertice dell’organizzazione così delineato è rimasto intatto sino ad oggi: un vertice, è bene ricordarlo, che gode di ampia libertà di manovra e che vede uno sbilanciamento di risorse (materiali e immateriali) a proprio favore, che nessun’altra componente organizzativa pentastellata possiede. Nemmeno gli iscritti al partito, che nella idea del MoVimento avrebbero dovuto costituire il nerbo del partito. Certamente agli iscritti è stato garantito un potere formale sconosciuto agli altri partiti. Ed è altrettanto vero che in nessun altro partito si è votato su così tante scelte strategiche (alleanze in primis). Tuttavia, queste votazioni degli iscritti, che rappresentano la traduzione pratica del concetto di democrazia diretta immaginata dal MoVimento 5 Stelle, hanno un carattere più di ratificazione che di vera e propria scelta. Va però anche ricordato che è accaduto, come di recente per il voto in merito alla partecipazione del partito alle elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, che l’opzione caldeggiata dalla leadership sia stata ribaltata. Si tratta di eccezioni, però (tre casi su centinaia di votazioni). Semmai accade più spesso che quando invece la leadership non si sbilancia più o meno chiaramente, le votazioni diano risultati meno scontati (ad esempio per le primarie a livello regionale).

    Un’organizzazione con una leadership triarchica e un costante coinvolgimento degli iscritti tende ad assumere i tratti plebiscitari se, come nel caso del MoVimento 5 Stelle, mancano organismi di intermediazione degli interessi tra i vari livelli istituzionali (nazionale, regionale, locale). Ed è questo il secondo tratto che, in aperta polemica contro la partitocrazia, ha delineato un modello fondato sulla democrazia diretta. Un modello che potesse dare voce “direttamente” agli iscritti e che facesse parlare gli iscritti attraverso la leadership. Il MoVimento 5 Stelle ha tentato di tenere fede a tale principio per quasi un quinquennio: dopodiché la creazione del Direttorio ha dato il via a un processo di istituzionalizzazione che è ancora in corso e che ha visto nello Statuto del 2017 e nelle recentissime riforme due pilastri volti a omologare il MoVimento ad altre strutture partitiche, sebbene lo stesso formalmente rifiuti di accostarsi ai “vecchi partiti”.

    L’essersi orgogliosamente caratterizzato per un partito senza radici organizzative (e anche ideologiche, ma questo porterebbe il discorso troppo in là), si è rivelato essere un limite strutturale fortissimo su cui hanno peraltro pesato tanto le spinte centrifughe provenienti dai livelli sub-nazionali quanto quelle provenienti dai gruppi parlamentari, specialmente in questa legislatura. Un partito con una proiezione nazionale non può esimersi dall’avere una sua penetrazione locale: non si tratta di una legge ferrea, ma di una necessità inalienabile, con cui il MoVimento 5 Stelle ha dovuto fare in conti partendo da un dato di realtà: la discrepanza dei voti alle politiche con quelli delle regionali e comunali.

    Il MoVimento 5 Stelle ancora deve vincere un’elezione regionale e il confronto tra le performance alle elezioni politiche del 2013 e del 2018 comparato con le regionali è impietoso. Solo in Lombardia, regione in cui storicamente ha ottenuto risultati piuttosto magri, la differenza tra regionali e politiche più vicine nel tempo si aggira attorno al -5%. In nessun caso, comunque, il MoVimento 5 Stelle ha raccolto più voti alle regionali che alle politiche e, anzi, recentemente questo gap è andato aumentando vertiginosamente: solo nell’ultimo anno -24,1% in Basilicata, -20,2% in Abruzzo, -32,80% in Sardegna e -12,8% in Piemonte. Se a questo si aggiunge che dal Marzo 2018 il Capo Politico, nonché tesoriere del partito, è anche Ministro della Repubblica si può facilmente capire come, piattaforma Rousseau a parte, l’organizzazione del partito necessitasse una radicale riforma (Figura 1).

    Fig. 1 – Nuova organizzazione del MoVimento 5 Stelle – propria elaborazione

    Riforma che, tuttavia, è avvenuta per step e con un passaggio fondamentale, la “fiducia” al Capo Politico accordata dagli iscritti all’indomani della sconfitta alle Europee. Una netta vittoria per Di Maio, che ha permesso di legittimare importanti cambiamenti: partendo da un “dibattito”[1] sui generis sulla nuova struttura del MoVimento e su alcuni capisaldi grillini, come la modifica del limite dei due mandati, si è giunti ad una serie di votazioni avvenute nel corso degli ultimi mesi. Il risultato finale di tale trasformazione è stata l’introduzione di 6 facilitatori nazionali, referenti del partito in diverse aree organizzative (Formazione e personale, Comunicazione, Attivismo locale, Campagne elettorali, Supporto Enti locali amministrati dal MoVimento 5 Stelle, Coordinamento e affari interni). Una sorta di nuovo direttorio con funzione organizzative e con una novità rilevante al suo interno, per la prima volta una figura non eletta, Enrica Sabatini, socia di Rousseau e braccio destro di Davide Casaleggio, avrà un ruolo di responsabilità (facilitatrice dell’area Coordinamento e affari interni). Accanto a questi gli iscritti hanno votato i cosiddetti Team del Futuro con a capo altri facilitatori nazionali che invece sono referenti per aree tematiche: contrariamente ai facilitatori “organizzativi”, su cui la scelta lasciata agli iscritti era solo quella di accettarli in toto o meno, per l’elezione del Team del Futuro si sono votati gruppi e piattaforme differenti in 7 casi su 12 (in 5 casi – Agricoltura e pesca, Ambiente Esteri e Unione Europea, Innovazione, Sicurezza e difesa – invece vi era solo un piattaforma partecipante, automaticamente eletta). Si tratta di elezioni che non hanno visto una partecipazione massiccia (sotto i ventimila iscritti), così come del resto le votazioni per i diversi Team del Futuro avvenute a dicembre. Si tratta comunque di un trend che è in linea con la maggior parte delle votazioni e che in ogni caso, come rilevato in altri lavori [2], mostra un certo distacco degli iscritti rispetto alle fasi di entusiasmo iniziale (Figura 2 e Figura 3).

    Fig. 2 – Partecipazione alle consultazioni on-line del MoVimento 5 Stelle (2012-2019)

    Fig. 3 – Partecipazione alle consultazioni on-line del MoVimento 5 Stelle, trend per anno (2012-2019). Il 2012 è stato integrato con il 2013. Tra parentesi è indicato il numero delle consultazioni.

    Ricapitolando, accanto a Di Maio sono state elette 18 nuove figure, 6 per l’area organizzativa e 12 per quella ideologica, che dovrebbero creare un nuovo Team del Futuro. Un organismo rappresentativo? Non proprio, perché si tratta di coordinatori che non hanno per Statuto, a meno di modifiche, alcun ruolo né alcun potere formalizzato. In più, il Team del Futuro avrà una ramificazione sub-nazionale, i facilitatori regionali, 3 almeno per ogni regione – le aree sono le seguenti: Formazione e coinvolgimento, Relazioni interne, Relazioni esterne – anche se le regioni più popolose hanno due o tre rappresentati per area. Tuttavia, si tratta sempre di un tentativo strutturato di normalizzazione del partito che, peraltro, a marzo convocherà gli Stati Generali.

    Non un vero e proprio congresso, ma quasi. E non è un caso che proprio nel discorso da dimissionario Di Maio – usando una parola molto evocativa – ha parlato di “rifondazione” del partito. E che ci si avvicini a un congresso lo si può capire guardando alle kermesse degli anni passati, in cui i dibattiti (come nel caso dell’ultimo evento a Rimini) si erano svolti su tavoli tematici e per parlare di policies più che di organizzazione. Agli Stati Generali il MoVimento 5 Stelle ci arriverà fortemente indebolito e non ancora certo di essere alleato di maggioranza di un governo in carica o dimissionario. Dimissionario, invece, sarà il Capo Politico: una seconda transizione per un MoVimento che ha cambiato pelle diverse volte nel corso di questi dieci anni di esistenza e la cui principale forza, l’essere volutamente terzo polo tra centro-sinistra e centro-destra proponendosi come partito post-ideologico, è divenuto in pochissimo tempo un punto di debolezza. E non solo perché – come ha documentato il CISE in questi anni – il radicamento grillino a livello locale fosse minore rispetto a quello nazionale; soprattutto perché la discrepanza tra risultati delle elezioni con proiezione nazionale e le tornate regionali si è fatta sempre più grande. Raggiungendo peraltro risultati molto preoccupanti in vista delle prossime regionali del 2020 (Figura 4).

    Fig. 4 – Discrepanza tra i risultati elettorali delle elezioni politiche e le elezioni regionali. La differenza è calcolata prendendo come base di comparazione l’elezione politica più vicina temporalmente all’elezione regionale.

    Il MoVimento 5 Stelle è un partito che, elettoralmente, ha sofferto la prima grande sconfitta a livello nazionale (Europee) e dove lo scarso radicamento territoriale, certamente un fattore non nuovo per i grillini, ha richiesto un intervento radicale da parte della leadership. Che forse ha capito (troppo in ritardo?) che per un partito in crisi elettorale, un cuscino “organizzativo” sul quale cadere è di primaria importanza. Perché rialzarsi con le ossa rotte non è mai facile. A volte impossibile.


    [1] La funzione cosiddetta Area Ascolto all’interno della piattaforma Rousseau in cui gli utenti in realtà potevano esprimere la loro opinione, senza un contradditorio tra loro o con la leadership

    [2] A tal proposito si veda: Mosca, L. (2018). Democratic Vision and Online Participatory Spaces in the Italian Movimento 5 Stelle. Acta Politica. 10.1057/s41269-018-0096-y; Deseriis, M. & Vittori, D. (2019). The Impact of Online Participation Platforms on the Internal Democracy of Two Southern European Parties: Podemos and the Five Star Movement. International Journal of Communication. Vol. 13(2019): 5696-5714

  • Dall’Emilia-Romagna al governo: la sfida (aperta) del 26 Gennaio

    Dall’Emilia-Romagna al governo: la sfida (aperta) del 26 Gennaio

    In Emilia-Romagna la sfida per la guida della regione è aperta, apertissima, stando agli ultimi sondaggi disponibili (D’Alimonte 2019). Stefano Bonaccini, il candidato di centrosinistra, viene infatti accreditato di un vantaggio di un paio di punti sulla candidata del centrodestra, Lucia Borgonzoni. E solo per questo motivo questa tornata elettorale regionale assume un’importanza cruciale. L’Emilia-Romagna, simbolo del governo incontrastato del centro-sinistra (ci torneremo in seguito) e fulcro della cosiddetta “cintura rossa” comprendente anche Toscana, Umbria e Marche, è divenuta contendibile per la prima volta (negli anni Settanta il PCI da solo era stabilmente sopra la quota del 40%).

    Il carattere nazionale delle elezioni…

    Vi sono però almeno altri due motivi di interesse che è bene tenere a mente: il primo è il carattere nazionale di queste elezioni. O per lo meno si è assistito al tentativo di trasformarle in elezioni “nazionali” da parte del centrodestra e in particolare della Lega, che in caso di vittoria è pronta a passare all’incasso a Roma, chiedendo le dimissioni del governo e nuove elezioni politiche. Considerato che si tratta (insieme alle scorse regionali in Umbria ed alle regionali calabresi, che si terranno lo stesso giorno) di uno dei primi test elettorali per il nuovo governo a guida MoVimento 5 Stelle-PD, si può capire come l’attenzione verso queste regionali sia fuori dal comune. Comparate a cinque anni orsono (Maggini 2014) – quando le elezioni si tennero quasi in sordina, dopo le dimissioni del presidente uscente Vasco Errani, e la partecipazione toccò un minimo storico mai registrato prima (37,7%) – il cambio è radicale.

    Il secondo motivo di interesse, invece, riguarda la campagna elettorale. In Emilia-Romagna nel novembre del 2019 è nato un nuovo movimento sociale – quello delle “sardine”; un movimento capace di prendere la scena per alcuni mesi al leader dell’opposizione Matteo Salvini, ribaltandone il discorso politico e ridando slancio a una coalizione, quella del centrosinistra, all’epoca indietro nei sondaggi e soprattutto in una posizione di rincalzo sui temi cari alla Lega. La proiezione nazionale di questo movimento, le cui manifestazioni si sono estese prima in altre città dell’Emilia-Romagna e successivamente in tutta Italia dando una visibilità mediatica notevole ai fondatori, non ha giovato alla campagna elettorale leghista, per lo meno in termini di presenza mediatica. Quanto all’effetto sul voto, occorrerà attendere il verdetto del 26 Gennaio.

    …E il loro carattere regionale

    Se l’attenzione mediatica della campagna elettorale ha un rilievo nazionale, l’accento del candidato del centrosinistra, Bonaccini, è rivolto quasi esclusivamente sulla contesa regionale. Non è un caso che il logo della campagna del centrosinistra sia il viso stilizzato di Bonaccini stesso e il nerbo ideologico sia il buon governo emiliano-romagnolo e i risultati economico-sociali della regione (occupazione, sanità, trasporti). Non è un caso inoltre che, in Emilia-Romagna, i leader nazionali dei partiti al governo siano stati se non assenti, per lo meno marginali. E non solo quelli del PD, ma anche (in parte) del MoVimento 5 Stelle che corre con un suo candidato, Simone Benini. Forse è tendenzioso pensare che questo sia dovuto alla preferenza del Movimento per la vittoria di Bonaccini, piuttosto che per un buon risultato dei 5 Stelle ed una contemporanea sconfitta del centrosinistra. Tuttavia, appare evidente come sino ad oggi la campagna elettorale dei 5 Stelle sia stata sottotono, appesantita dal dibattito sull’opportunità stessa di presentarsi alle elezioni, scelta questa votata dagli iscritti del MoVimento in contrasto con i desiderata della leadership, che avrebbe gradito invece uno stop fino agli Stati Generali del partito a marzo.

    L’Emilia-Romagna (non più) rossa

    Gli ultimi sondaggi, come ricordato, assegnano qualche punto di vantaggio al centrosinistra (D’Alimonte 2019). Stando però alle ultime consultazioni elettorali, il principale partito della coalizione, il Partito Democratico, non è il primo partito in regione da quasi due anni. Andrebbe quindi sfatato il mito della regione rossa (elettoralmente). Come mostra la Tabella 1 alle politiche del 2018 il MoVimento 5 Stelle (27,5%) ha sopravanzato di oltre un punto il Partito Democratico (26,4%) e la stessa Lega ha avuto una performance al di sopra della media nazionale (19,2%), scalzando nettamente Forza Italia (9,9%), partito ormai ai margini della competizione politica, alla guida del centrodestra. Non solo, il centrodestra è stata la prima coalizione con quasi tre punti di margine sul centrosinistra. Seppure con un turnout in netto calo rispetto al 2018 (-11 punti percentuali in un anno), alle elezioni europee del 2019 i rapporti di forza si ribaltano a discapito del MoVimento 5 Stelle (12,9% in calo di oltre 14 punti), ma non a favore del PD, bensì della Lega. Il partito di Salvini compie un balzo di oltre 14 punti percentuali (33,8%), sorpassando di 2,6 punti il PD, in recupero però rispetto al 2018. Ciò che più conta è che i tre partiti di centrodestra alle Europee arrivano al 44,4%, praticamente la soglia della vittoria alle regionali. Se è vero storicamente che l’Emilia-Romagna è sempre stata una regione non contendibile per il centro e il centrodestra da cinquant’anni a questa parte, è pur vero che negli ultimi due il PD non è stato il primo partito e il centrosinistra non è stata la prima coalizione. Ogni tornata ha certamente la sua specificità: tuttavia, al di là della retorica e dell’esito di queste regionali, è evidente che l’Emilia-Romagna non sia più rossa elettoralmente (e le sconfitte in alcune roccaforti alle recenti amministrative lo dimostrano ulteriormente).

    Tab. 1 – Risultati elettorali in Emilia-Romagna nelle recenti elezioni politiche, europee e regionali[1]

    L’offerta elettorale

    La campagna elettorale è stata presentata come una competizione bipolare tra il centrosinistra ed il centrodestra, tuttavia l’offerta elettorale è più ricca (e determinante per gli esiti della contesa, data la legge elettorale che prevede l’elezione diretta del presidente che ottiene la maggioranza semplice dei voti). Sono 7 i candidati ai nastri di partenza: oltre Bonaccini (CS), Borgonzoni (CD) e Benini (M5S), ci sono tre liste di sinistra radicale. La prima è quella de L’Altra Emilia-Romagna (Stefano Lugli è il candidato presidente), la seconda è quella di Potere al Popolo (Marta Collot) e la terza è quella del Partito Comunista (Laura Bergamini). Queste ultime due non sono presenti in tutte le province. L’ultima lista, invece, è quella no-vax (Movimento 3V Vaccini Vogliamo Verità) guidata da Stefano Battaglia. Sia centrosinistra che centrodestra propongono coalizioni allargate, 7 liste ciascuna.

    Al di là dei risultati dei singoli partiti – la Lega è molto probabile che si riconfermi il primo partito emiliano-romagnolo – ciò che conterà, anche per le fortune del governo in carica, sarà la vittoria finale e l’elezione del presidente della regione. Dovesse spuntarla il centrosinistra il governo Conte potrà rifiatare; dovesse vincere il centrodestra le pressioni per elezioni anticipate saranno immediate e costanti. Se poi, come qualche politologo ha pronosticato, questo significherà un ulteriore ripiegamento su sé stesso del governo per non cedere al centrodestra è presto per dirlo. Di certo, seppure si elegga solo ed esclusivamente il presidente di una regione che può vantare performance economiche invidiabili, il riflesso del risultato avrà una portata nazionale. Che lo si voglia o no.

    Riferimenti bibliografici

    D’Alimonte, R. (2019), ‘Regionali Emilia-Romagna: Bonaccini è avanti, ma più voti al centrodestra’, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/11/17/regionali-emilia-romagna-bonaccini-e-avanti-ma-piu-voti-al-centrodestra/

    Maggini, N. (2014), ‘Regionali Emilia-Romagna: record storico di astensioni, ma i rapporti di forza rimangono inalterati a vantaggio del Pd’, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2014/11/24/regionali-emilia-romagna-record-storico-di-astensioni-ma-i-rapporti-di-forza-rimangono-inalterati-a-vantaggio-del-pd/


    [1] Nella parte superiore della tabella sono presentati i risultati al proporzionale (per le politiche 2018 sono riportati i voti espressamente assegnati ai partiti, prima dell’attribuzione dei voti al solo candidato di collegio sostenuto); nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari.

    Nella parte superiore, ciascuna riga somma i risultati dei relativi partiti, a prescindere dalla coalizione della quale facessero parte. Nella categoria partiti di sinistra rientrano: PRC, PC, PCI, PAP, SEL, SI, MDP, LeU, RC. Nella categoria altri partiti di centrosinistra sono inseriti: Insieme, PSI, IDV, Radicali, +EU, Verdi, CD, DemA. Nella categoria partiti di centro rientrano: NCI, UDC, NCD, FLI, SC, CP, NCD, AP, DC, PDF, PLI, PRI, UDEUR, Idea, CPE. Nella categoria partiti di destra rientrano La Destra, MNS, FN, FT, CPI, DivB, ITagliIT.

    Nella parte inferiore, invece, si sommano i risultati dei candidati (uninominali), classificati in base ai criteri sotto riportati. Per le politiche 2013 e le regionali 2014 e 2019, abbiamo considerato quali voti raccolti dai candidati quelli delle coalizioni (che sostenevano un candidato, premier o governatore). Sinistra alternativa al PD riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra PAP, RC, PRC, PCI, PC, MDP, LeU, SI, SEL, Insieme, PSI, +EU, CD, DemA, Verdi, IDV, Radicali – ma non dal PD. Il Centrosinistra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia il PD; il Centro riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra NCI, UDC, CP, NCD, FLI, SC, PDF, DC, PRI, PLI, CPE, Idea, UDEUR (ma né PD né FI/PDL).Il Centrodestra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia FI (o il PDL). La Destra riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra Lega, FDI, La Destra, MNS, FN, FT, CasaPound, DivBell, ITagliIT – ma non FI (o il PDL).

    Quindi, se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o PDL) è attribuito al centrosinistra e al centrodestra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno.

    Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico (Altri). Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI/PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

  • La partecipazione elettorale alle comunali – e il suo dirompente effetto su quella delle europee

    La partecipazione elettorale alle comunali – e il suo dirompente effetto su quella delle europee

    Nella recente tornata elettorale i dati sottolineati da quasi tutti i commentatori sono stati, giustamente, due: il successo della Lega salviniana e il sorpasso del Partito Democratico (PD) ai danni del Movimento 5 Stelle (M5S) a livello europeo e la tenuta del Partito Democratico alle amministrative. Tuttavia, oltre a questi dati “macro” – già analizzati con alcune interpretazioni originali dal CISE (De Sio 2019, Emanuele e Maggini 2019) – un altro aspetto merita di essere considerato nel dettaglio, proprio per l’importanza delle conclusioni che se ne trarranno, quello dell’affluenza a livello locale e il suo impatto sull’affluenza europea.

    Come già accaduto per i passati Dossier curati dal CISE per le elezioni comunali (De Sio e Paparo 2012, Paparo e Cataldi 2013Emanuele, Maggini e Paparo 2016, Paparo 2017, Paparo 2018), concentriamo la nostra analisi sui comuni superiori ai 15.000 abitanti chiamati alle urne per rinnovare i propri organi di governo locale.[1] Il 26 maggio 2019, in quella che rappresenta ancora la tornata ordinaria, sono stati 221. La Tabella 1 restituisce una prima immagine che, come vedremo, potrebbe fuorviare: difatti, è evidente che tanto guardando il dato nazionale, quanto guardando i comuni capoluogo e i non capoluogo assieme alla zona geopolitica, l’affluenza registra un indistinto calo di ben 7,6 punti percentuali a livello nazionale. Il -7,6% è diviso in maniera non proporzionata: è circa un -10% nel Nord e nella Zona Rossa rispetto alle precedenti elezioni politiche, mentre si attesta sul -2,4% al Sud. Comparando invece il dato con le comunali precedenti la differenza viene ridotta sensibilmente (attorno al -2% nel Nord e nella Zona Rossa e -3,7% al Sud).

    Tab. 1 – Partecipazione elettorale alle elezioni comunali nei comuni al voto superiori ai 15.000 abitanti (clicca per ingrandire)affluenza_tab2

    Tuttavia, proviamo ad allargare lo sguardo alla partecipazione alle elezioni europee che, a livello nazionale, si è attestata al 56,1%. Come si può vedere si tratta di una differenza rilevante, 12 punti percentuali, rispetto alle coeve amministrative. Ancora più interessante è però la discrasia che si registra tra l’affluenza nei comuni che hanno votato al primo turno con quelli non coinvolti nella tornata amministrativa. In questo caso, guardando ai comuni dove si votato solamente alle Europee emerge come l’affluenza sia al di sotto del 50%, mentre in quelli con la doppia tornata tocca il 70%. Prima di scomporre ulteriormente il dato sull’affluenza è fondamentale partire da un dato di fondo: le comunali non sono state uniformemente distribuite sul piano territoriale. In tutto sono state rinnovate 3.779 amministrazioni – sostanzialmente la metà dei 7.915 comuni italiani – la maggior parte concentrate nel Centro-Nord. La Tabella 2 mostra come, a dispetto della zona geografica, la presenza delle comunali ha spinto in alto la partecipazione; poco oltre i 10 punti percentuali nel Nord e nella Zona Rossa e di ben 27 punti nel caso del Sud. Qui entra in gioco un secondo dato molto importante; la scarsa affluenza che si è registrata al Sud alle elezioni europee in comparazione con la Zona Rossa e con il Nord è dovuta al fatto che solamente in un quarto dei comuni si votata per rinnovare le amministrazioni locali, mentre al Nord e nella Zona Rossa queste percentuali salgono al 60% e 70% rispettivamente. In termini assoluti ben 18 milioni di elettori al Sud votavano solo alle europee, mentre erano circa 3,5 milioni nella Zona Rossa e poco oltre gli 11 milioni al Nord.

    Tab. 2 – Partecipazione elettorale alle elezioni europee a seconda della presenza o meno delle comunali (clicca per ingrandire)affluenza_tab2Queste differenze nell’affluenza tra zone geopolitiche sono tecnicamente “robuste”, e persistono in modelli di regressione (non inseriti in questo articolo, per motivi di spazio) che includono come controllo sia una variabile categoriale con le 20 regioni, sia un controllo per provincia: l’effetto della presenza delle elezioni amministrative sulla partecipazione alle europee è di circa 17 punti. Dato questo molto significativo e che dovrebbe indurre riflessioni più generali sul voto di maggio. Il PD e la Lega sono andati oltre le aspettative sembrerebbe perché nelle zone in cui storicamente le due compagini sono più radicate (il Nord per la Lega, la Zona Rossa per il PD) i comuni al voto (e, di conseguenza, l’affluenza) sono stati molto più numerosi rispetto al Sud, dove invece è il Movimento 5 Stelle ad aver fatto cappotto alle scorse elezioni politiche. Se, come abbiamo visto, al di là delle storiche divergenze di affluenza tra le varie zone geopolitiche (più bassa al Sud), la discrasia tra i comuni con la doppia tornata e i comuni in cui si votava solamente alle europee è significativa statisticamente nonostante l’introduzione di variabili di controllo quali la regione e la provincia dei comuni al voto, allora si dovrebbe essere più cauti nel prevedere catastrofi per i Cinque Stelle, che hanno perso certamente le elezioni europee, ma che hanno dalla loro il potenziale di riattivazione di coloro che si sono astenuti. Non significa, si badi, che automaticamente gli astenuti al Sud nei comuni dove si votava solamente alle europee si riattivino in caso di elezioni politiche; né che in caso di riattivazione questi voti vengano trasferiti ipso facto ai 5 Stelle. Tuttavia, l’M5S è pur sempre ancora il primo partito al Sud, per cui se dovesse ri-portare i suoi elettori alle urne, allora la debolezza registrata in queste elezioni sarebbe da ridimensionare.

    Riferimenti bibliografici

    De Sio, L. e Paparo, A. (a cura di) (2012), Le elezioni comunali 2012, Dossier CISE(1), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali.

    De Sio, L. (2019), ‘La nazionalizzazione della League di Salvini, Centro Italiano Studi Elettorali’, disponibile presso: https://cise.luiss.it/cise/2019/05/27/la-nazionalizzazione-della-League-di-salvini/

    Emanuele, V., e Maggini, N. (2019), ‘Il M5S “resiste” solo nelle province a maggior richiesta di assistenzialismo’, disponibile presso: https://cise.luiss.it/cise/2019/05/27/il-m5s-resiste-solo-nelle-province-a-maggior-richiesta-di-assistenzialismo/

    Emanuele, V., Maggini, N., e Paparo, A. (a cura di) (2016), Cosa succede in città? Le elezioni comunali 2016, Dossier CISE(8), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali.

    Paparo, A. (a cura di) (2014), Le elezioni comunali 2013, Dossier CISE(5), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali.

    Paparo, A. (a cura di) (2017), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017, Dossier CISE(9), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali.

    Paparo, A. (a cura di) (2018), Goodbye Zona Rossa. Le elezioni comunali 2018, Dossier CISE(12), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali.


    [1] Ciò significa che non comprendiamo nell’analisi i cinque comuni trentini che votano come superiori (con ballottaggio, voto disgiunto, e coalizioni di liste) in virtù della legge regionale che disciplina le elezioni comunali (per cui sono superiori i comuni con almeno 3.000 abitanti), ma che superiori ai 15.000 abitanti non sono.

  • Regionali Piemonte: il ribaltone è servito

    Regionali Piemonte: il ribaltone è servito

    Il ribaltone è servito in Piemonte. Nuovamente. Se negli Stati Uniti il caso emblematico di swing-state, ossia quegli Stati che cambiano spesso maggioranza di elezione in elezione, in Italia, per fare un paragone (un po’azzardato), il nostro Ohio è proprio il Piemonte, avendo continuamente cambiato colore politico nell’ultimo ventennio. Sergio Chiamparino (Partito Democratico, PD), dopo Mercedes Bresso (PD) ed Enzo Ghigo (Forza Italia) è il terzo incumbent sconfitto nell’ultimo ventennio; solo Enzo Ghigo dalla Seconda Repubblica ad oggi è riuscito a confermarsi alla guida della regione per due mandati (1995-2000 e 2000-2005). A queste elezioni Chiamparino non si presentava certo quale favorito, risentendo le elezioni regionali del traino delle elezioni europee, in cui la Lega (al 37,1%) ha distanziato di quasi 15 punti il PD (23,9%) e i 5 Stelle (fermi al palo al 13,3%). A trionfare è stato Alberto Cirio, un passato nella Lega Nord di marca bossiana, ed ex eurodeputato di Forza Italia nella legislatura appena conclusa. Questi ha raccolto il 49,9% con cui stacca il competitor democratico di quasi 15 punti: segno di una nettissima vittoria.

    Un’elezione, quella regionale, che ha risentito anche del dibattito all’interno del governo (e nelle piazze) sulla questione TAV: la Lega, insieme ai partiti mainstream e Fratelli d’Italia a sostenere la necessità dell’opera e i 5 Stelle, con la sinistra radicale e i verdi sul fronte opposto. Con la sinistra radicale non presentatasi con un proprio candidato e i verdi alleati nella lista di Liberi e Uguali, solo il Movimento 5 Stelle reppresentava un’opzione elettorale a sostegno delle ragioni del NO alla grande opera. Dentro il centrodestra unito e il centrosinistra ben due liste (una per parte) hanno all’interno del simbolo la scritta “Sì TAV”, segno di una condivisone di vedute all’interno dei due schieramenti.

    L’offerta elettorale

    Andando con ordine, in Piemonte erano quattro i candidati ai nastri di partenza: Alberto Cirio sostenuto da cinque liste (le tre canoniche di centrodestra, ossia Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, più l’UDC e la lista Sì TAV); l’uscente Sergio Chiamparino, sostenuto da ben sette liste, tra le quali spiccano il PD e Più Europa; Giorgio Bertola, consigliere regionale uscente del Movimento 5 Stelle, il quale aveva nettamente sconfitto Luca Zacchero alle regionarie lo scorso ottobre; e l’outsider Valter Boero, candidato per il Popolo della Famiglia.

    Il risultato elettorale

    Anche le elezioni del 2019, analogamente a quelle del 2014, come ricordato, si sono svolte in concomitanza con le elezioni europee: cinque anni orsono, era stato Chiamparino a sfruttare l’onda lunga del PD a guida renziana – capace di ottenere il 40,8% nella tornata sovranazionale – e staccare nettamente (25 punti percentuali) Gilberto Pichetto, candidato del centrodestra (Volpi 2014). Oggi è invece toccato a Chiamparino soffrire l’ondata verde della Lega alle europee, capace di far risalire il centrodestra dal 22,1% del 2014 al 50% attuale. Una elezione, questa, che si conferma più in linea con quella precedente, rispetto a quelle del 2010 e del 2005 – nelle quali la differenza tra i due blocchi era stata davvero risicata. Si pensi alle elezioni del 2010 in cui il candidato legista Roberto Cota sopravanzò Mercedes Bresso di soli 10.000 voti. Nel 2019 la differenza tra i due blocchi è pari a 14 punti, ovvero oltre 300.000 voti (con 4.805 sezioni scrutinate su 4.807).

    Si è parlato fin qui del trascinamento delle elezioni europee, ma quanto si discostano questi risultati da quelli regionali? Poco, in effetti. La Lega rispetto alle Europee conferma la percentuale ottenuta livello regionale (37,1%), nonostante perda in termini assoluti 100.000 voti. Un dato che tuttavia è in linea con la discrasia riscontrata nel caso del PD nel 2014, quando i voti raccolti in meno da Chiamparino erano oltre 210.000 (Volpi 2014). Anche il PD (-1,5% la differenza tra europee e regionali), Forza Italia (-0,7%) e Fratelli d’Italia (-0,5%) sono stabili tra le due consultazioni elettorali. Nemmeno il Movimento 5 Stelle riesce ad invertire la rotta negativa delle europee, fermandosi al 12,6% rispetto al 13,3% delle europee.

    Un’altra considerazione a parte la merita certamente il confronto con le elezioni politiche del 2018, anche perché ci permette di aprire la questione della sconfitta del Movimento 5 Stelle. Dei quasi 650mila voti raccolti lo scorso anno, il Movimento ne perde quasi 360mila, oltre la metà. E se il dato assoluto è distorto dal calo dell’affluenza, basterà qui ricordare che il 25,4% nei due collegi piemontesi è più del doppio della percentuale raccolta dai grillini quest’anno. E se per la Lega è facile intuire la crescita tanto in termini percentuali quanto anche in termini assoluti (nonostante il calo dell’affluenza), è altrettanto degna di nota la tenuta del PD che lascia per strada quasi 50.000 voti, ma che nel complesso e anche a causa di una maggiore dispersione nel voto regionale, riesce a ritornare seconda forza dello spettro politico piemontese.

    Tab. 1 – Risultati elettorali in Piemonte nelle recenti elezioni regionali, politiche ed europee[1]Tabella Piemonte

    In conclusione, come cinque anni orsono, le elezioni regionali piemontesi “soffrono” il clima del paese a livello nazionale e ancora una volta si assiste ad un cambio politico a Palazzo Lascaris (Volpi 2014). Quanto questo cambio sia stabile è difficile dirlo: tra cinque anni, a meno di elezioni anticipate, il Piemonte potrebbe trovarsi nella stessa situazione odierna, ossia quella di una regione che dipende dal clima nazionale e quindi dal voto delle Europee per decidere il proprio futuro.

    Riferimenti bibliografici

    Volpi, E. (2014), ‘Elezioni Regionali in Piemonte: vittoria del centrosinistra o disfatta del centrodestra?’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile presso: https://cise.luiss.it/cise/2014/05/28/elezioni-regionali-in-piemonte-vittoria-del-centrosinistra-o-disfatta-del-centrodestra/


    [1] Nella parte superiore della tabella sono presentati i risultati al proporzionale (per le politiche 2018 sono riportati i voti espressamente assegnati ai partiti, prima dell’attribuzione dei voti al solo candidato di collegio sostenuto); nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari.

    Nella parte superiore, ciascuna riga somma i risultati dei relativi partiti, a prescindere dalla coalizione della quale facessero parte. Nella categoria partiti di sinistra rientrano: PRC, PC, PCI, PAP, SEL, SI, MDP, LeU, RC, PCL. Nella categoria altri partiti di centrosinistra sono inseriti: Insieme, PSI, IDV, Radicali, +EU, Verdi, CD, DemA, Italia in Comune. Nella categoria partiti di centro rientrano: NCI, UDC, NCD, FLI, SC, CP, NCD, AP, DC, PDF, PLI, PRI, UDEUR, Idea. Nella categoria partiti di destra rientrano La Destra, MNS, FN, FT, CPI, DivB, ITagliIT.

    Nella parte inferiore, invece, si sommano i risultati dei candidati (uninominali), classificati in base ai criteri sotto riportati. Per le politiche 2013 e le regionali 2013, abbiamo considerato quali voti raccolti dai candidati quelli delle coalizioni (che sostenevano un candidato, premier o governatore). Sinistra alternativa al PD riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra PAP, RC, PRC, PCI, PC, MDP, LeU, SI, SEL, PCL, Insieme, PSI, +EU, CD, DemA, Verdi, IDV, Radicali – ma non dal PD. Il Centrosinistra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia il PD; il Centro riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra NCI, UDC, CP, NCD, FLI, SC, PDF, DC, PRI, PLI (ma né PD né FI/PDL). Il Centrodestra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia FI (o il PDL). La Destra riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra Lega, FDI, La Destra, MNS, FN, FT, CasaPound, DivBell, ITagliIT – ma non FI (o il PDL).

    Quindi, se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o PDL) è attribuito al centrosinistra e al centrodestra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno.

    Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico (Altri). Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI/PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

  • Regionali in Sardegna: verso una nuova Caporetto per il M5S?

    Regionali in Sardegna: verso una nuova Caporetto per il M5S?

    Come già avvenuto in Abruzzo (Angelucci 2019a, D’Alimonte 2019a), le imminenti elezioni regionali in Sardegna saranno un banco di prova importante sia per il governo sia per i partiti di opposizione in vista delle Europee del prossimo 26 maggio. L’attenzione che i principali leader nazionali di tutte le formazioni politiche hanno dedicato negli ultimi giorni alla protesta dei pastori sardi, che rovesciano il latte prodotto contro il prezzo di vendita, è una chiara dimostrazione della rilevanza nazionale di questo test elettorale locale. Persino il Presidente del Consiglio in persona ha con l’occasione effettuato il primo viaggio nell’isola da quando è risiede a Palazzo Chigi.

    Dopo cinque anni di amministrazione di centrosinistra guidata dal governatore Pigliaru, a scadenza naturale della legislatura regionale, la Sardegna rinnova infatti la propria Giunta e il proprio Consiglio regionale il prossimo 24 febbraio.

    Il Movimento 5 Stelle (M5S) sta vivendo il suo peggior momento da quando è giunto al governo: l’alleanza con la Lega sembra aver ridimensionato il consenso dei pentastellati, schiacciati tra una naturale vocazione di partito di opposizione e le nuove responsabilità di governo. Le elezioni in Abruzzo hanno visto un calo molto rilevante del M5S (Angelucci 2019b, D’Alimonte 2019b). Il 39,6% ottenuto alle elezioni del marzo 2018 si è rivelato essere ormai un lontano ricordo. Non solo, l’avanzata della Lega – primo partito in Abruzzo con il 27,5% – è arrivata anche e soprattutto a scapito del M5S: basti pensare che un 30% dei voti leghisti a Pescara proveniva dai pentastellati (CISE 2019).

    Il centrodestra, diviso a livello nazionale, ritrova la propria compattezza a livello locale, e il collante dato da una buona probabilità di vittoria sembra garantire la tenuta della coalizione formata da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia e alleati minori. Anche in Sardegna? Vediamo quindi come arrivano le forze di governo e di opposizione a questo appuntamento elettorale per le regionali. Prima però occorre brevemente analizzare i caratteri fondamentali della legge elettorale, per dare un quadro più completo del contesto in cui questo si svolgerà.

    Il sistema elettorale

    La regione è divisa in otto circoscrizioni: Cagliari, che elegge 20 consiglieri, Carbonia-Iglesias (4), Medio Campidano (3), Nuoro (6), Ogliastra (2), Olbia-Tempio (6), Oristano (6) e Sassari (12). Il candidato più votato nel collegio unico regionale sarà eletto governatore, ma la consistenza del sostegno in Consiglio sul quale questi potrà contare varierà a seconda del suo risultato nell’arena maggioritaria. Non ci sarà premio di maggioranza nel caso (remoto) in cui nessun candidato ottenga il 25% dei voti (oppure un candidato superi il 60%, così come le sue liste). Il premio garantirà invece alle liste a suo sostegno il 55% dei seggi se il il vincitore avrà raccolto fra il 25% e il 40% dei voti validi. Infine, qualora questi abbia superato il 40% dei voti, la percentuale dei seggi in Consiglio garantita dal premio sarà del 60%.

    Occorre poi precisare un dato di una certa rilevanza nello stabilire la composizione del Consiglio regionale: le soglie di sbarramento. Queste sono calcolate sui voti proporzionali di lista, e sono del 5% per le singole liste e del 10% nel caso delle coalizioni – mentre non c’è sbarramento per i partiti all’interno di una coalizione che superi la soglia.

    Importante specificare che è ammesso il voto disgiunto fra candidato presidente e lista per il Consiglio. Si può quindi scegliere una lista e un candidato presidente diverso da quello sostenuto dalla lista votata. I voti espressi solo per una lista sono attribuiti anche al candidato presidente da questa sostenuto, mentre i voti espressi solo per un candidato sono nulli nell’arena proporzionale di lista.

    Infine, una modifica dell’autunno scorso ha imposto che le liste circoscrizionali debbano essere composte in misura uguale fra uomini e donne, e introdotto la doppia preferenza di genere – si possono esprimere due preferenze per candidati della lista votata, ma devono essere di genere diverso.

    L’offerta elettorale

    Alle elezioni si presentano sette candidati e ben ventiquattro liste. Come di consuetudine ormai, il M5S si presenta da solo, mentre centrodestra (11 liste) e centrosinistra (8 liste) hanno optato per coalizioni allargate. Le altre liste presenti corrono tutte in solitaria e sono il Partito dei Sardi, Sardi Liberi, Autodeterminazione e Rifondazione Comunista – per un totale di sette candidati governatori. Nel M5S il candidato è Francesco Desogus che alle regionarie dello scorso dicembre ha sconfitto per un pugno di voti (450 a 422) Donato Forcillo[1].

    Il centrodestra presenta il classico schema di alleanze delle recenti elezioni regionali al Sud (Plescia 2018, Angelucci 2019a): accanto ai tre partiti principali – Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia – che rappresentano il nocciolo duro della coalizione, in Sardegna si ripropone l’alleanza con l’UDC. Inoltre, nel caso sardo, l’alleanza è integrata da un certo numero di formazioni regionali. In effetti, lo stesso candidato presidente del centrodestra, Christian Solinas, infatti, pur essendo stato eletto al Senato con la Lega alle scorse elezioni, appartiene in realtà ad un partito di coalizione (il Partito Sardo d’Azione), di cui è anche segretario – partito che però già prima del 4 marzo si era molto avvicinato a quello di Salvini, con cui aveva chiuso una vera e propria alleanza elettorale, come confermato dalla sua candidatura nelle liste della Lega stessa.

    Infine, il centrosinistra gioca la carta di Massimo Zedda, l’attuale sindaco di Cagliari. Scelto nel 2011 alle primarie di coalizione, sostenuto da Sinistra Ecologia e Libertà e in opposizione al candidato del PD, Zedda è riuscito a ritagliarsi un ruolo come collante di una coalizione allargata anche nel ruolo di incumbent alle scorse elezioni amministrative (2016). In queste elezioni – e contrariamente a quanto avvenuto a livello nazionale lo scorso marzo – Zedda tiene insieme una coalizione che va dal PD a Liberi e Uguali, passando per i Cristiano Popolari-Socialisti e il Progetto Comunista. Dopo l’annunciata rinuncia di Pigliaru, Zedda è infatti riuscito nuovamente, stavolta a livello regionale, a catalizzare intorno a sè un’ampia coalizione, fino a venire investito della candidatura coalizionale senza che neppure si svolgessero le primarie.

    I precedenti risultati

    Come accaduto per tutto il Meridione (D’Alimonte 2018), anche in Sardegna il M5S ha avuto un vero e proprio exploit alle elezioni politiche dello scorso marzo. In particolare, qui è risultato il primo partito con il 42,5% dei voti (era al 29,7% nel 2013), distanziando sensibilmente sia la coalizione di centrodestra (complessivamente al 31%, con FI che si è fermata al 15%), che il centrosinistra (sotto il 18% come coalizione e con il PD al 14,7%). Da segnalare che, proprio in questa tornata, la Lega è riuscita ad eleggere un suo esponente, forte dell’11% ottenuto (le Lega di Bossi alle elezioni del 2013 era ferma allo 0,1%). Nonostante sembri ormai essere già trascorsa – politicamente – un’era geologica dalle scorse elezioni regionali, quanto accaduto cinque anni fa rimane ancora il principale ancoraggio per una comparazione su scala regionale. Nel 2014 il centrosinistra aveva strappato al centrodestra guidato dall’allora incumbent Ugo Cappellacci la guida della regione (Maggini 2014). A vincere con il 42,4% dei voti era stato Francesco Pigliaru, sostenuto da una coalizione allargata (dal PD a Rifondazione Comunista). Cappellacci, invece, si era fermato al 39,7%. A livello partitico, primeggiava il PD (con il 22,1%) e a stretto di giro di posta si trovata Forza Italia (18,5%). Il Partito d’Azione Sardo dell’attuale candidato governatore Solinas si attestava al 4,7%. Tanto la Lega quanto il M5S non erano presenti alle elezioni. In quest’ultimo caso, Grillo non aveva concesso il simbolo del partito come già accaduto in diversi casi in passato.

    Tab. 1 – Risultati elettorali in Sardegna nelle recenti elezioni politiche e regionali[2]tableu_SAR_pre

    Ciò che emergerà da queste elezioni sarà quasi certamente una rivoluzione rispetto a cinque anni fa. Basti pensare che allora entrambi gli attuali partiti di governo erano assenti alle regionali sarde, e all’emorragia di voti che ha investito negli ultimi anni tanto il PD quanto Forza Italia (i primi due partiti in Sardegna nel 2014). Anche rispetto alle elezioni di marzo, questa tornata rischia di consegnare un quadro rivoluzionato. La Lega attenta al primato non solo all’interno della coalizione, ma addirittura in tutta la regione. Il M5S si è trovato diviso sulla scelta del candidato governatore, ma può vantare una base elettorale rilevante, mentre il centrosinistra si gioca la carta dell’ ‘uomo forte’ Zedda, capace di sconfiggere il centrodestra a Cagliari per due tornate consecutive. La speranza per il PD è che possa ripetere e possibilmente migliorare la performance di Legnini in Abruzzo. Per ora un sondaggio SWG attesta Solinas in una forbice tra il 33% e 37%, Zedda tra il 29% e il 33% e Desogus tra il 22 e il 26%. Dovessero risultare confermati i risultati, il grande sconfitto del voto locale sarebbe, ancora una volta, il M5S (Paparo 2018) – nonostante sia alla prima prova elettorale sull’isola.

    Riferimenti bibliografici

    Angelucci, D. (2019a) ‘Verso le regionali in Abruzzo: Il quadro della vigilia’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/02/01/verso-le-regionali-in-abruzzo-il-quadro-della-vigilia/

    Angelucci, D. (2019b) ‘Regionali in Abruzzo: la Lega Nord alla conquista del Sud, cede il M5S’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/02/11/regionali-in-abruzzo-la-lega-alla-conquista-del-sud-cede-il-m5s/

    Centro Italiano Studi Elettorali (2019a) ‘Regionali Abruzzo: nei flussi a Pescara il 30% dei voti della Lega proviene dal M5S”, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/02/11/regionali-abruzzo-nei-flussi-a-pescara-il-30-dei-voti-della-lega-proviene-dal-m5s/

    D’Alimonte, R. (2018), ‘Perché il Sud premia il M5S’, in Emanuele, V., e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE (11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 115-118

    D’Alimonte, R. (2019a), ‘Oggi le regionali in Abruzzo: la scommessa di Salvini e la conta dei Cinque Stelle’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/02/10/oggi-le-regionali-in-abruzzo-la-scommessa-di-salvini-e-la-conta-dei-cinque-stelle/

    D’Alimonte, R. (2019b), ‘Regionali in Abruzzo: la Lega Nord alla conquista del Sud, cede il M5S’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/02/12/la-lega-sbarca-al-sud-e-prende-anche-i-voti-degli-alleati-m5s/

    Maggini, N. (2014), ‘Regionali Sardegna: l’astensione è il primo partito, Pigliaru porta alla vittoria il centrosinistra’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2014/02/18/regionali-sardegna-lastensione-e-il-primo-partito-pigliaru-porta-alla-vittoria-il-centrosinistra/

    Paparo, A. (2018), ‘Le fatiche del M5S nei comuni: l’avanzata che non arriva e i sindaci che se ne vanno’, in Paparo, A. (a cura di), Goodbye Zona Rossa. Il successo del centrodestra nelle comunali 2018, Dossier CISE (12), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 227-234.

    Plescia, C. (2018), ‘Molise: ancora niente primo governatore per il
    M5S’, in Emanuele, V., e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE (11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 173-178.


    [1] Occorre sottolineare come le regionarie dello scorso dicembre siano in realtà state le seconde svoltesi in casa M5S per scegliere le candidature di queste elezioni regionali sarde. Infatti, le prime avevano designato il coordinatore del Movimento in Sardegna, Mario Puddu, uno dei primi sindaci pentastellati in tutta Italia –eletto ad Assemini nel 2012, contemporaneamente a Pizzarotti a Parma. Tuttavia, questi ha rinunciato all’incarico dopo una condanna per abuso d’ufficio, ricevuta il 18 ottobre 2018, per fatti relativi alla sua amministrazione da primo cittadino.

    [2] Per le elezioni del 2014 i risultati riportati sono quelli disponibili presso il sito della Regione Sardegna, che tuttavia non sono completi, in quanto risultano mancanti 8 sezioni su 1.836 con riferimento allo spoglio per i candidati presidenti, e 16 per le liste.

    Nella parte superiore della tabella sono presentati i risultati al proporzionale (per le politiche 2018 sono riportati i voti espressamente assegnati ai partiti, prima dell’attribuzione dei voti al solo candidato di collegio sostenuto); nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari.

    Nella parte superiore, ciascuna riga somma i risultati dei relativi partiti, a prescindere dalla coalizione della quale facessero parte. Nella categoria partiti di sinistra rientrano: PRC, PC, PCI, PAP, SEL, SI, MDP, LeU, RC, PCL. Nella categoria altri partiti di centrosinistra sono inseriti: Insieme, PSI, IDV, Radicali, +EU, Verdi, CD, DemA. Nella categoria partiti di centro rientrano: NCI, UDC, NCD, FLI, SC, CP, NCD, AP, DC, PDF, PLI, PRI, UDEUR, Idea. Nella categoria partiti di destra rientrano La Destra, MNS, FN, FT, CPI, DivB, ITagliIT.

    Nella parte inferiore, invece, si sommano i risultati dei candidati (uninominali), classificati in base ai criteri sotto riportati. Per le politiche 2013 e le regionali 2014, abbiamo considerato quali voti raccolti dai candidati quelli delle coalizioni (che sostenevano un candidato, premier o governatore). Sinistra alternativa al PD riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra PAP, RC, PRC, PCI, PC, MDP, LeU, SI, SEL, PCL, Insieme, PSI, +EU, CD, DemA, Verdi, IDV, Radicali – ma non dal PD. Il Centrosinistra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia il PD; il Centro riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra NCI, UDC, CP, NCD, FLI, SC, PDF, DC, PRI, PLI (ma né PD né FI/PDL). Il Centrodestra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia FI (o il PDL). La Destra riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra Lega, FDI, La Destra, MNS, FN, FT, CasaPound, DivBell, ITagliIT – ma non FI (o il PDL).

    Quindi, se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o PDL) è attribuito al centrosinistra e al centrodestra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno.

    Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico (Altri). Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI/PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

  • L’elettorato italiano e l’Europa: una crescente politicizzazione?

    L’elettorato italiano e l’Europa: una crescente politicizzazione?

    L’ultima rilevazione dell’Osservatorio Politico CISE[1] ha cercato di mettere a fuoco le complesse relazioni esistenti tra i cittadini italiani e l’Unione Europea (UE). Da un lato, il sondaggio ha chiesto agli intervistati di esprimere il loro giudizio sull’appartenenza dell’Italia all’UE. D’altro lato, lo stesso sondaggio ha rilevato le opinioni dei cittadini italiani circa l’appartenenza dell’Italia alla moneta unica. Inoltre, queste valutazioni su integrazione Europea ed Euro sono state incrociate con le intenzioni di voto, delineando gli orientamenti degli elettorati partitici rispetto a questi temi specifici.

    A partire dagli anni sessanta, l’ampia maggioranza dei cittadini italiani aveva espresso delle opinioni molto favorevoli rispetto ai processi d’integrazione, con un picco di consensi verso la fine degli anni ottanta ed una leggera flessione all’inizio del ventunesimo secolo (Quaglia 2011). E’ utile sottolineare come Il trattato di Maastricht (1992) e l’ingresso nell’Unione Monetaria Europea (1999) abbiano leggermente polarizzato le posizioni degli attori partitici sui temi dell’integrazione Europea. Durante la cosiddetta ‘Seconda Repubblica’ (1994-2013), i governi di centrosinistra facevano ricorso alla retorica dei cosiddetti “vincoli esterni” posti dall’UE, (quali il raggiungimento di determinati parametri nel rapporto Deficit/PIL), come una fonte di legittimazione esterna su cui fondare la propria azione politica a livello domestico (Quaglia 2005). Al contrario, il centrodestra italiano ha avuto una relazione maggiormente problematica con l’UE, avanzando posizioni apertamente più critiche, se non deliberatamente euroscettiche (come nel caso della Lega Nord a partire del 1998, Conti 2006). Ad ogni modo, i cittadini italiani hanno continuato ad esprimere un sostegno ampio e diffuso nei confronti all’UE fino al 2008.

    Al contrario, la Grande Recessione (2008-2014) ha catalizzato dei livelli di opposizione e d’insoddisfazione rispetto all’UE, che non hanno avuto precedenti nella storia Italiana. Marco Morini (2018) ha descritto questo fenomeno d’opinione come una brusca accelerazione euroscettica, che ha trasformato l’Italia in uno dei paesi più Anti-Europeisti dell’intero continente. Le elezioni politiche del 2018, che hanno visto l’affermazione elettorale di  Lega e M5S, sembrerebbero confermare il netto ridimensionamento del europeismo italiano. Eppure, esistono alcuni segnali politici che sono andati in una direzione contrastante. Infatti, le tematiche Europee hanno diviso anche gli elettorati dei partiti euroscettici, in particolare M5S, la cui maggioranza degli elettori si è dichiarata in favore dell’integrazione Europea e dell’Euro (De Sio e Carrieri 2018).

    L’Unione Europea non è solo la sua moneta

    Come già evidenziato nell’introduzione, l’elettorato italiano ha rappresentato per due decenni un baluardo dell’europeismo. L’impatto della Grande Recessione, tuttavia, ha radicalmente modificato lo scenario per due ordini di motivi. Il primo, più rilevante, è la crescente quota di chi sostiene che l’Italia non trae beneficio dall’appartenenza nelle istituzioni comunitaria. Le serie storiche del CISE (Figura 1)[2] mostrano come, se da un lato la quota di coloro che giudicano positivamente l’appartenenza all’UE sia in crescita (54,3%) rispetto a due anni orsono (50,4%), i livelli del 2013 (63,8%) siano ancora molto distanti. Nel complesso, si può però notare come l’europeismo sia comunque tornato ad essere maggioritario nel paese, seppure con profonde differenze a livello di elettorato partitico (vedi sotto).

    Fig. 1 – Andamento dei giudizi favorevoli all’Unione Europea nei sondaggi CISEfig1Al contempo è cresciuta sensibilmente la porzione di elettorato che vede nell’Euro un fattore negativo (Figura 2). In questo caso, il differenziale tra l’ultima rilevazione e quella del 2013 è ancor più significativo, registrando uno scarto negativo di circa trenta punti percentuali (-29,7). Ancor più significativa è la distanza tra l’ultima e la penultima rilevazione (Febbraio 2018). Da quando il governo M5S-Lega si è installato al governo, si è registrato un incremento del 7,7% delle risposte negative. Se si esclude la frattura occorsa tra marzo e dicembre 2013, questo è il maggior incremento degli ultimi sei anni. Il secondo motivo per cui la Grande Recessione e, ça va sans dire, le sue conseguenze politiche hanno trasformato le opinioni dell’elettorato italiano riguarda la politicizzazione della moneta unica.

    Fig. 2 – Andamento dei giudizi favorevoli all’Euro nei sondaggi CISEfig2

    Guardando alle serie storiche precedenti a queste (Vittori 2018), si è potuto notare come i giudizi sull’UE e la sua moneta fossero legati a doppio filo: la crescita nei giudizi positivi (o negativi) dell’uno corrispondeva con una corrispondente crescita dell’altro. Tuttavia, negli ultimi anni si è evidenziato un trend differente. Seppure sembrerebbe poco plausibile ipotizzare una completa divergenza o una non-correlazione tra i due temi, si nota come il giudizio nei confronti dell’UE in questi anni si sia stabilizzato, migliorando leggermente, mentre nei confronti della moneta unica sia montata una critica senza precedenti. Se quindi l’orizzonte dell’elettorato italiano rimane maggioritariamente incardinato all’appartenenza alla comunità sovranazionale, la moneta unica genera una crescente sfiducia. Anche in questo caso, l’elettorato comunque esprime un giudizio nel complesso positivo, anche se da un punto di vista diacronico si è assistito alla crescita delle posizioni più scettiche.

    È una nuova frattura?

    Passando all’analisi dei dati sugli elettorati dei partiti si nota come si stiano consolidando due poli distinti e molto polarizzati che ruotano attorno al Partito Democratico (polo positivo) e alla Lega (polo negativo). A questi si aggiunge una posizione che più che intermedia – termine fuorviante se si ragiona in termini puramente spaziali – sarebbe corretto definire ambigua, rappresentata dal M5S e da Forza Italia. Nel PD l’elettorato è pressoché univoco (89,7% vs. 10,3%) nel considerare l’appartenenza all’UE come positiva (Figura 3). Nella Lega la proporzione si ribalta: il 63,9% vede negativamente le istituzioni sovrannazionali. Gli elettorati di M5S e FI nel complesso esprimono un giudizio positivo dell’UE, tanto che per ciò che concerne le valutazioni negative dell’UE la distanza con i votanti della Lega è di 15,6 e 17,8 punti percentuali rispettivamente. Tuttavia, non potendo misurare su una scala più precisa tali risultati non sappiamo quanto siano polarizzati al loro interno questi due elettorati. In questo momento, ciò che si può constatare è che l’elettorato del primo e del secondo partito del paese (M5S e PD), stando agli esiti elettorali di marzo, si schierano in maggioranza con l’UE, seppure con una diversa proporzione tra risposte positive e negative, mentre il fronte del centrodestra è spaccato su questo tema.
    I dati sull’Euro sono molto più rilevanti (Figura 3), denotando una marcata divergenza posizionale tra i partiti di governo e quelli di opposizione.
    Come per i giudizi sull’Unione Europea, permangono due poli rappresentati dal PD e dalla Lega, ma le posizioni di Forza Italia e M5S divergono chiaramente. Andando con ordine: gli elettorati di PD e Lega hanno una composizione asimmetrica rispetto alla precedente domanda, rispettivamente 91,1% (giudizio positivo)/8,9% (giudizio negativo) e 38,4%/61,6%. In Forza Italia invece crescono di circa 6,5 punti percentuali coloro che hanno un giudizio positivo nei confronti della moneta unica (60,4%/39,6%), mentre il M5S mostra la maggiore variazione (41,2%/58,8%) con una crescita marcata dei giudizi negativi, segno che l’elettorato pentastellato è quello più incline a politicizzare il tema della moneta unica (in senso critico).

    Fig. 3 – Giudizi favorevoli all’Unione Europea e all’Euro nel sondaggio CISE di dicembre 2018 per gli elettorati dei principali partitifig3

    Conclusioni

    Complessivamente, il quadro tracciato dall’ultimo sondaggio del CISE offre delle prospettive di grande interesse rispetto all’eventuale politicizzazione del conflitto pro-/anti-UE. Da un lato, si è sensibilmente attenuata l’insoddisfazione popolare rispetto all’appartenenza Europea, mentre si sono ulteriormente aggravati i sentimenti anti-euro. Un altro dato di rilievo è quello relativo alla polarizzazione partitica, la quale denota una netta dicotomia tra gli elettorati PD e Lega, che sembrerebbero destinati a svolgere un ruolo dominante nell’eventuale politicizzazione di un nuovo conflitto. I due partiti potrebbero conflagrare su un’ampia gamma di tematiche inerenti all’integrazione Europea, guidando i due poli contrapposti lungo una latente dimensione pro-/anti-UE. Al contrario, l’elettorato del M5S, ha mantenuto una sostanziale ambiguità, esprimendo un relativo consenso rispetto all’appartenenza all’UE e contrapponendosi rispetto al tema dell’Euro. L’elettorato di FI ha acquisto un profilo più chiaro rispetto al M5S, sostenendo in maniera maggioritaria entrambe le appartenenze, sia all’UE che alla moneta unica.

    In una prospettiva futura, i partiti di governo (Lega e M5S) potrebbero avere un relativo incentivo strategico a politicizzare la divisione pro-/anti-euro, mentre i partiti d’opposizione avrebbero un moderato interesse a politicizzare la dicotomia pro-/anti-UE. Eppure tali incentivi alla politicizzazione non appaiono essere molto stringenti. Infatti, la maggioranza degli Italiani è divisa in maniera abbastanza speculare su entrambi gli ambiti tematici, che non costituirebbero delle vere e proprie finestre opportunità per i partiti. E’ certamente vero che i partiti di opposizione si trovano in una situazione di svantaggio rispetto ai partiti di governo e che potrebbero sfruttare il tema dell’integrazione Europea per recuperare dei voti importanti. Ci pare lecito poter concludere, che la spinta alla politicizzazione di un conflitto pro-/anti-UE non si sia ancora del tutto perfezionata, sebbene le posizioni dei cittadini e degli elettorati partitici siano molto fluide, lasciando dei margini per l’imprenditorialità politica.

    Riferimenti bilbiografici

    De Sio, L. e Carrieri, L. (2018), ‘Davvero il fallimento del “governo del cambiamento” gioverà a M5S e Lega?’, in Emanuele, V. e  Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE(11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 203-205.

    Conti, N. (2006), ‘Party Conflict over European integration in Italy: a new Dimension of Party Competition?’, Journal of Southern Europe and Balkans, 8(2), pp. 217-233.

    Morini, M. (2018), ‘Front National and Lega Nord: Two Stories of the Same Euroscepticism’, European Politics and Society, 19(1), pp. 1-19.

    Quaglia, L. (2011), ‘”The Ebb and Flow” of Euroscepticism in Italy’, South European Society and Politics, 7(1), pp. 31-50.

    Vittori, D. (2018), ‘Qualcosa è cambiato. Un nuovo euroscetticismo e una nuova frattura politica in Italia?’ https://cise.luiss.it/cise/2018/11/13/qualcosa-e-cambiato-un-nuovo-euroscetticismo-e-una-nuova-frattura-politica-in-italia/


    [1] Il sondaggio è stato realizzato con metodo CAWI (Computer-Assisted Web Interviewing) da Demetra opinioni.net S.r.l. nel periodo 10-19 dicembre. Il campione ha una numerosità di 1.113 rispondenti ed è rappresentativo della popolazione elettorale italiana per genere, classe di età, titolo di studio, zona geografica di residenza, e classe demografica del comune di residenza. Le stime qui riportate sono state ponderate in funzione del ricordo del voto alle politiche e di alcune variabili socio-demografiche. L’intervallo di confidenza al 95% per un campione probabilistico di pari numerosità in riferimento alla popolazione elettorale italiana è ±2,9%.

    [2] La formulazione delle domande relative all’appartenenza del paese all’UE e alla moneta unica è leggermente cambiata nel corso degli anni; pur tuttavia, è possibile trovare un comune denominatore capace di scindere coloro che pensano l’appartenenza all’UE sia una cosa positiva e coloro che pensano, al contrario, che sia negativa. Nell’ultima formulazione sull’UE (“In generale l’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea è un fatto: Molto positivo, Abbastanza positivo, Abbastanza negativo, Molto negativo”) le prime due risposte sono incluse nel polo positivo, le seconde due nel polo negativo. Nella domanda sulla moneta unica (In generale l’appartenenza dell’Italia all’Euro è: Scala 1-6, con 1=Un bene e 6=Un male), il polo positivo aggrega le risposte da 1 a 3, quello negativo da 4 a 6.