Autore: Nicola Maggini

  • Il (nuovo) bacino elettorale del M5s: perifericità, lontananza dalla politica e protesta anti-governo

    di Nicola Maggini

    Il sondaggio CISE-Sole 24 Ore rivela che nelle intenzioni di voto degli italiani il M5s è il secondo partito con il 23,5%. Il M5s sembra quindi consolidare la seconda posizione alle spalle del Pd ottenuta alle elezioni europee dello scorso maggio, ma con un avanzamento rispetto ad allora quando il movimento di Grillo ottenne il 21,2%. Si tratta quindi di una fase politica di crescita del maggior partito di opposizione, anche se ancora il M5s è sotto alla percentuale dello “storico” successo delle elezioni politiche (primo partito sul territorio nazionale con il 25,6% dei consensi). Tuttavia, dopo un periodo di appannamento elettorale registrato nelle rilevazioni demoscopiche e nelle tornate elettorali successive alle elezioni politiche, oggi il M5s sembra in grado di tornare ai livelli di due anni fa. Come possiamo spiegare questa inversione del trend? Uno degli elementi che avevano caratterizzato il successo del M5s alle elezioni politiche era stato senza dubbio la grande trasversalità ideologica del suo elettorato [Biorcio 2013; Maggini 2014; Maggini e De Lucia 2014]. Nel sondaggio CISE-Sole 24 Ore del novembre 2014 avevamo affrontato la questione del profilo politico degli elettori del M5s e del suo (parziale) cambiamento rispetto alle politiche del 2013. A distanza di alcuni mesi, cosa è cambiato? La Tabella 1 mostra la collocazione sull’asse sinistra-destra dell’elettorato del M5s nel maggio 2015 e nel novembre 2014: oggi si dichiara di “sinistra” (valori da 0 a 4 in una scala 0-10) il 29,6% degli elettori del M5s contro il 20,1% della componente di “destra” (valori da 6 a 10). I “non collocati” sono il 20,1%, mentre la componente di “centro” (valore di 5) è pari al 34% degli elettori del M5s. La componente di “centro” è quella più numerosa, seguita da quella di “sinistra” e dai “non collocati”. A proposito della categoria di “centro”, si deve segnalare che alcune analisi hanno mostrato che chi si colloca al centro spesso lo fa non in quanto moderato, ma perché è un modo per rifiutare le tradizionali categorie di destra e di sinistra, mostrandosi equidistante da entrambe. In ciò questi elettori sono simili ai “non collocati” (ossia coloro che espressamente dicono che non sanno come collocarsi o rifiutano di rispondere). Sommando le due categorie, quindi, la maggioranza assoluta (54,1%) degli elettori del M5s non si colloca nelle categorie di “destra” e “sinistra”. Del resto il M5s si è auto-definito “né di destra né di sinistra”. Rispetto ai dati del novembre del 2014, due sono gli elementi da sottolineare: in primo luogo sono aumentati gli elettori di “centro” e i “non collocati” a discapito di chi si colloca sulla sinistra e sulla destra dello spazio politico; inoltre, la distanza tra elettori di sinistra e elettori di destra si è ridotta, tornando a livelli di forte trasversalità ideologica simili a quelli delle politiche, anche se ancora con una chiara prevalenza degli elettori “pentastellati” di sinistra su quelli di destra. Questi dati vengono sostanzialmente confermati dalla domanda che rileva il potenziale elettorale del partito–Ptv, propensity to vote [van der Eijk e Franklin 1996; van der Eijk et al. 2006], ossia chiedendo agli intervistati di esprimere una probabilità futura di voto per ciascun partito su una scala da 0 a 10 dove 0 significa “per nulla probabile” e 10 significa “molto probabile”. Consideriamo come elettorato probabile o potenziale di un partito l’insieme delle risposte che si collocano tra 6 e 10[1]. L’elettorato potenziale del M5s mostra una certa equidistribuzione tra sinistra e destra (anche sei in misura minore rispetto al novembre 2014): il 30,2% si colloca sulla sinistra dello spazio politico e il 25,7% si colloca sulla destra. Rispetto al novembre 2014, entrambe le categorie sono diminuite, mentre i “non collocati” sono passati dal 9.3% al 14.6% e coloro che si collocano al “centro” sono passati dal 23,5% al 29,5%.

    Oggi il M5s sembra quindi tornare a una trasversalità ideologica simile a quella rilevata nell’ondata post-elettorale del Panel Cise effettuata dopo le elezioni politiche [Maggini 2014; Maggini e De Lucia 2014] e che in parte si era attenuata dopo le europee. E soprattutto il movimento di Grillo si sta espandendo nell’area di coloro che non si riconoscono nelle tradizionali categorie di destra e di sinistra e che si sentono lontani e distanti dal mondo della politica, come si può vedere dalla tabella che riporta la cross-tabulazione tra il potenziale elettorale del M5s e l’interesse per la politica. Tra i potenziali elettori del M5s coloro che sono poco o per nulla interessati alla politica sono ben il 67,7%, un dato al di sopra della media del campione nazionale (62,4%).  Il M5s pesca quindi in un bacino elettorale particolarmente sensibile all’ondata di anti-politica iniziata con Tangentopoli e che ormai da anni è maggioritaria nel nostro paese.

    Tab 1 – Elettorato del M5s (effettivo e potenziale) ed auto-collocazione politica

    Tab.2 – Elettorato potenziale del M5s ed interesse per la politica

    Da chi è formato il bacino elettorale del M5s? Per chi votavano in passato questi potenziali elettori “a cinque stelle” e quali sono le loro opinioni sui temi più rilevanti del dibattito politico?

    Cerchiamo di dare una risposta a queste domande attraverso un’analisi del potenziale elettorale del M5s così come misurato dalla già menzionata domanda sulla Ptv. Si tratta di una domanda utile per due motivi: innanzitutto ci permette di intercettare gli orientamenti dell’intero campione, dal momento che la quasi totalità degli intervistati accetta di rispondere a queste domande (mentre sulle intenzioni di voto ai partiti risponde solo una minoranza, il 62,7%); in secondo luogo, come si è appena visto, la Ptv ci permette di identificare –selezionando chi dà a un partito un punteggio alto– il potenziale elettorale di quel partito. Un dato particolarmente utile in una fase di forte volatilità elettorale come quella attuale. Il potenziale elettorale del M5s è pari al 24,1%, ossia una percentuale molto simile alle effettive intenzioni di voto (23,5%). Già questo primo dato ci dice che al momento il M5s sembra già aver raggiunto il massimo del suo potenziale, senza grandi e ulteriori potenzialità espansive. Ma chi sono questi potenziali elettori del M5s e come hanno votato in passato? Praticamente i due terzi sono elettori del M5s alle europee 2014 e il 58% circa sono elettori che già avevano votato il M5s alle politiche 2013. Il bacino potenziale del M5s è poi composto per il 23,4% da elettori del Pd alle europee contro il 6,6% di elettori di Forza Italia e il 3,6% di elettori leghisti. Se si considerano le elezioni politiche i dati sono simili, con un maggior equilibrio tra Pdl e Pd e una maggiore presa sugli elettori leghisti (vedi Tabella 3). Si conferma quindi che il movimento di Grillo ha una capacità di attrazione trasversale, anche se la maggior parte dei suoi consensi potenziali derivano da chi lo ha già votato in passato. In ogni modo, sembra forte la capacità attrattiva verso una parte degli elettori del Pd alle scorse europee. Ciò costituisce senza dubbio un campanello di allarme per il partito del premier Matteo Renzi.

    Tab. 3 – Voto alle politiche 2013 e alle europee 2014 del bacino elettorale del M5s

    Vediamo adesso quali sono le caratteristiche sociodemografiche dei potenziali elettori del M5s (vedi Tabella 4). Una delle caratteristiche del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche del 2013 era stata la sua forte trasversalità geografica [Maggini e De Lucia 2014]. Una trasversalità che veniva confermata dall’indagine del novembre 2014. Oggi, al contrario, questa trasversalità geografica si è fortemente ridimensionata: il potenziale elettorale del M5s è composto per il 57% da intervistati del Sud, contro il 31,4% del Nord (di cui 22,2% Nord Est e 9,2% Nord Ovest) e l’11,6% della “Zona Rossa”. Rispetto alla media nazionale, i potenziali elettori del M5s del Sud sono sovra-rappresentati di ben 12,4 punti percentuali, mentre quelli delle altre zone sono sottorappresentati. Si tratta di un elemento di forte discontinuità rispetto al passato. Se infatti in origine il M5s aveva attecchito soprattutto in Emilia-Romagna e nelle regioni settentrionali, poi con le regionali siciliane del 2012 e con le politiche del 2013 il M5s aveva nazionalizzato i suoi consensi “sfondando” anche al Sud. Oggi, al contrario, sembra che il trend si sia invertito e che l’elettorato potenziale del M5s sia entrato in una fase di “meridionalizzazione”.

    Per quanto riguarda le altre caratteristiche sociodemografiche, si tratta di un bacino in prevalenza maschile (56,5%) in perfetta continuità con quanto riscontrato nell’indagine del novembre 2014 e concentrato nella fascia d’età 45-64 (26,8%, ossia 10,4 punti sopra la media del campione). Quest’ultimo aspetto costituisce un ulteriore elemento di discontinuità rispetto al passato[2], quando il M5s era sovra-rappresentato solo tra i giovani e nelle fasce centrali di età fino ai 45 anni. Oggi gli elettori potenziali del M5s continuano a essere sotto-rappresentati rispetto alla media nazionale tra gli over 65 (sia uomini che donne), mentre tra i giovani il M5s risulta essere sovra-rappresentato in misura minore che tra gli uomini tra i 45 e i 64 anni di età. Tra le donne, invece, i potenziali elettori del M5s sono sovra-rappresentati solo nella fascia di età 18-29.

    Se si osserva la collocazione professionale dei potenziali elettori del M5s, si nota che rispetto alla media nazionale risultano sovra-rappresentati gli operai, gli impiegati del settore privato e soprattutto i disoccupati (ben 11,9 punti sopra la media del campione). Rispetto all’indagine del novembre 2014, la crescita tra i disoccupati è stata notevole (dal 13,4% al 20%), mentre la percentuale ottenuta tra gli operai si è avvicinata alla media del campione: “solo” 2,2  punti sopra la media, quando a novembre la sovra-rappresentazione in questa categoria professionale era di ben 11,9 punti percentuali. La sotto-rappresentazione del bacino del M5s tra i pensionati e tra le casalinghe si pone invece in continuità con alcuni studi del passato, e si conferma quanto già registrato a novembre circa il venir meno della capacità di attrazione nei confronti del modo del lavoro autonomo e imprenditoriale, perdendo così la sua forte trasversalità in termini socio-professionali. Sempre in continuità con l’indagine del novembre 2014, i potenziali elettori del M5s sono sovra-rappresentati tra i diplomati e sotto-rappresentati tra chi non ha nessun titolo di studio o ha solo la licenza elementare e tra i laureati. Infine, sono sovra-rappresentati tra chi non va mai a messa o ci va solo 2-3 volte l’anno, mentre sono sotto-rappresentati tra chi frequenta più o meno assiduamente le funzioni religiose.

    Tab. 4 – Caratteristiche sociodemografiche del bacino elettorale del M5s

    Per quanto concerne i temi del dibattito politico (vedi Tabella 5), emerge l’euroscetticismo del bacino del M5s rispetto al campione nazionale, ma non in maniera così evidente come ci si sarebbe potuti aspettare. Se infatti è vero che il 37,9% dei potenziali elettori del M5s sono favorevoli all’uscita dell’Italia dall’euro contro il 29,4% dell’intero campione (+8,5 punti percentuali), tuttavia si deve notare che la maggioranza degli elettori potenziali del M5s sono contrari (nonostante sia un tema su cui il M5s vuole indire un referendum). Nell’indagine del novembre 2014 il 55,8% del bacino del M5s era invece favorevole all’uscita dall’euro. L’euroscetticismo sembra quindi essersi fortemente attenuato nel bacino del M5s, come confermato dalla domanda se l’Italia abbia beneficiato della sua appartenenza all’UE: mentre a novembre il 61% circa del bacino potenziale del M5s sosteneva che l’Italia non ha beneficiato dell’appartenenza all’UE, oggi tale percentuale è scesa al 52,4% (anche se nell’intero campione il 53,2% ritiene che l’Italia abbia al contrario beneficiato dell’appartenenza alla UE). Non solo, se a novembre il 71% circa del bacino del M5s riteneva che le decisioni prese in Europa danneggiassero l’Italia, oggi ne sono convinti il 54,1%. Una percentuale simile a chi pensa tra gli elettori potenziali del M5s che in Europa le decisioni vengono prese solo da alcuni paesi come la Germania. Più netta la differenza rispetto alla media nazionale quando si prende in considerazione la critica nei confronti della tecnocrazia di Bruxelles: quasi la metà dei potenziali elettori del M5s ritiene che in Europa le decisioni più importanti vengono assunte da persone che non sono state elette, contro il 42% dell’intero campione. Se si considera la domanda sulla libera circolazione all’interno dell’Unione, si nota come il 61,1% del bacino elettorale potenziale del M5s, in linea con la media del campione, sia contrario ad una limitazione del trattato di Schengen. Nell’elettorato potenziale del M5s, a differenza di quello leghista, non si riscontra cioè un atteggiamento di chiusura nazionalista di natura pregiudiziale. E del resto ben il 61,1% degli elettori potenziali del M5s ritengono che in generale l’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea sia una cosa positiva (anche se tale percentuale nell’intero campione è superiore di quasi 11 punti percentuali).  L’euroscetticismo “grillino” sembra quindi essersi attenuato rispetto al passato e sembra poggiare più che altro su una critica (radicale) alle istituzioni dell’Unione Europea e alle sue politiche di austerità. Inoltre, si deve sottolineare che l’atteggiamento critico nei confronti dell’euro non è un elemento che accomuna l’intero elettorato potenziale del M5s se si considera l’auto-collocazione politica (vedi Figura 1). La stragrande maggioranza (86,5%) degli elettori potenziali del M5s di sinistra, infatti, sono contrari all’uscita dall’euro, mentre la maggioranza di quelli di destra (55,8%) sono d’accordo. Questo dato era già stato rilevato nell’indagine del novembre 2014 e rispetto ad allora la differenza tra i due tipi di elettorato (potenziale) “grillino” è addirittura aumentata. Si tratta cioè di un tema che divide nettamente la sua componente di sinistra da quella di destra.

    Per quanto riguarda gli altri temi, sui diritti civili l’atteggiamento è più aperto rispetto all’elettorato generale, con il 64,8% favorevole ai matrimoni gay (+4,9 punti rispetto alla media nazionale). Inoltre è un tema che trova il consenso maggioritario dei potenziali elettori del M5s, indipendentemente dalla loro collocazione politica (vedi Figura 2). Non solo il 74,7% dei potenziali elettori del M5s di sinistra sono favorevoli al matrimonio gay, ma lo è anche la maggioranza di quelli di destra (52,6%). Ancora una volta, il libertarismo sui temi cosiddetti etici rappresenta il minimo comun denominatore del bacino elettorale del M5s come dimostrato da altri studi. Nel bacino del M5s prevalgono invece gli atteggiamenti negativi nei confronti dell’immigrazione: ben il 59,4% pensa che l’Italia debba chiudere le frontiere, con una sovra-rappresentazione di 8,3 punti rispetto alla media dell’intero campione. Come con l’euroscetticismo, anche la questione dell’immigrazione è un potenziale elemento di divisione dell’elettorato “grillino”, con la sua componente di destra (vedi Figura 3) che si dimostra in stragrande maggioranza favorevole a una chiusura delle frontiere contro l’immigrazione extra-comunitaria (82,8%), mentre la componente di sinistra è nettamente contraria (63,8%).

    Infine, fortemente negativo è il giudizio degli elettori potenziali del M5s nei confronti del governo Renzi, nettamente al di sopra della media nazionale. Tra gli elettori potenziali del M5s, infatti, solo il 17,5% dà un giudizio positivo sulla gestione dell’economia da parte del governo (14,1 punti sotto la media) e solo il 16,7% dà un giudizio positivo sull’operato del governo in generale (ben 18,9 punti sotto la media). Così come le riforme del Jobs act sono approvate dal 28,5% dei “pentastellati” contro il 40,7% dell’intero campione. Solo i principi contenuti nella nuova legge elettorale trovano il favore della maggioranza degli elettori potenziali del M5s (52,8%), anche se ben al di sotto del consenso riscosso da questo tema nell’intero campione (61,2%).

    Tab. 5 – Atteggiamento del bacino elettorale del M5s sui principali temi del dibattito politico

    Fig. 1– Composizione dell’elettorato potenziale del M5s tra gli intervistati di sinistra e di destra, secondo il giudizio sull’uscita dell’Italia dall’euro

    Fig. 2 – Composizione dell’elettorato potenziale del M5s tra gli intervistati di sinistra e di destra, secondo il giudizio sui matrimoni gay

    Fig. 3 – Composizione dell’elettorato potenziale del M5s tra gli intervistati di sinistra e di destra, secondo il giudizio sulla chiusura delle frontiere per impedire l’immigrazione extra-comunitaria

    Passando infine dalle issues ai giudizi sui leader, è interessante vedere come è percepito il leader carismatico e fondatore del movimento, ossia Beppe Grillo, dal suo elettorato (potenziale ed effettivo). La Tabella 6 mostra come i giudizi positivi siano nettamente la maggioranza (mentre nell’intero campione nazionale il 73,5% dà un voto insufficiente a Grillo). Rispetto a novembre, i giudizi positivi nel bacino del M5s sono aumentati dal 69,1% all’80,1%, mentre quelli negativi sono scesi dal 30,9% al 19,9%. E se si considerano le effettive intenzioni di voto, il dato è simile. La leadership di Grillo, dopo un momento di appannamento, è tornata ad essere quasi indiscussa tra i suoi elettori e anche nell’intero campione si è registrato un miglioramento, pur rimanendo come si è detto largamente maggioritari i giudizi negativi.

    Tab. 6 – Giudizi su Beppe Grillo all’interno dell’elettorato (potenziale ed effettivo) del M5s e nell’intero campione

    In conclusione, l’analisi fin qui condotta mostra come il bacino elettorale del M5s presenti, accanto ai tratti di continuità con il (recente) passato, anche degli elementi di discontinuità. In particolare, il potenziale elettorale del movimento di Grillo sembra concentrarsi tra la popolazione maschile di mezza età, meridionale, non inserita nel mercato del lavoro, con un titolo di istruzione né troppo elevato né troppo basso, lontana (se non disgustata) dalla politica e fuori dalle tradizionali categorie di destra e di sinistra, con opinioni contrastanti a seconda dell’auto-collocazione politica per ciò che concerne alcune tematiche come l’Europa e l’immigrazione, ma accomunate da un atteggiamento fortemente negativo nei confronti del governo Renzi e dalla fiducia nel leader carismatico Grillo. Si tratta cioè di un’area sempre più caratterizzata dalla “perifericità”, colpita dalla crisi economica e su cui il M5s fa leva raccogliendo un voto (potenziale) di protesta contro il governo.

     


    [1] Il valore di 5 viene considerato “incerto”, mentre le risposte tra 0 e 4 rientrano nella categoria del “poco probabile”.

    [2] Si veda Maggini [2013].

     

    Riferimenti bibliografici

    Biorcio, R. (2013), “La sfida del Movimento 5 stelle.” In: Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013. Ed. ITANES. Bologna: Il Mulino, 107-119.

    van der Eijk, Cees and Franklin, Mark N., (eds.) (1996), Choosing Europe? The European Electorate and National Politics in the Face of the Union. Ann Arbor, MI: The University of Michigan Press.

    van der Eijk, C., van  der  Brug, W.,  Kroh, M. and  Franklin, Mark N. (2006), “Rethinking the Dependent Variable in Voting Behavior: On the Measurement and Analysis of Electoral Utilities.” Electoral Studies 25, No. 3, 424-447.

    Maggini, N. (2013), Il bacino del Movimento 5 Stelle: l’economia divide, il libertarismo e l’ambientalismo uniscono, in L. De Sio and N. Maggini (eds.), Crisi e Rimobilitazione. Gli italiani, la politica, i partiti nelle indagini campionarie del CISE (2011-2012), Dossier CISE n. 2, Roma, Centro Italiano di Studi Elettorali, pp. 67-73.

    Maggini, N. (2013), Il bacino del Movimento 5 Stelle: molti giovani adulti che lavorano, e soprattutto diplomati, in L. De Sio and N. Maggini (eds.), Crisi e Rimobilitazione. Gli italiani, la politica, i partiti nelle indagini campionarie del CISE (2011-2012), Dossier CISE n. 2, Roma, Centro Italiano di Studi Elettorali, pp. 63-66.

    Maggini, N. (2014), Understanding the Electoral Rise of the Five Star Movement in Italy, in “Czech Journal of Political Science”, Vol. XXI, Issue 1, pp. 37-59.

    Maggini, N. and De Lucia, F. (2014), Un successo a 5 stelle, in A. Chiaramonte and L. De Sio (eds.), Terremoto elettorale, Bologna, Il Mulino, pp. 173-201.

  • Il bacino elettorale del M5s: caratteristiche socio-politiche e atteggiamenti tra continuità e mutamento

    di Nicola Maggini

    Il sondaggio CISE-Sole 24 Ore rivela che nelle intenzioni di voto degli italiani il M5s è il secondo partito con il 18,6%. Si conferma quindi la seconda posizione raggiunta dal M5s alle elezioni europee dello scorso maggio, ma con un arretramento rispetto ad allora quando il movimento di Grillo ottenne il 21,2%. E senza dubbio nella attuale fase politica il M5s è lontano dallo “storico” successo delle elezioni politiche (primo partito sul territorio nazionale con il 25,6% dei consensi). Uno degli elementi che avevano caratterizzato il successo del M5s alle elezioni politiche era stato senza dubbio la grande trasversalità ideologica del suo elettorato [Biorcio 2013; Maggini 2014; Maggini e De Lucia 2014]. Quasi a un anno di distanza, questo discorso è sempre valido? La Tabella 1 mostra la collocazione sull’asse sinistra-destra dell’elettorato del M5s: si dichiara di “sinistra” (valori da 0 a 4 in una scala 0-10) il 36,7% degli elettori del M5s contro il 19,1% della componente di “destra” (valori da 6 a 10). I “non collocati” sono il 12,4%, mentre la componente di “centro” (valore di 5) è pari al 31,8% degli elettori del M5s. La componente di “sinistra” è quella più numerosa, seguita da quella di “centro”. In quest’ultimo caso si deve però segnalare che alcune analisi hanno mostrato che chi si colloca al centro spesso lo fa non in quanto moderato, ma perché è un modo per rifiutare le tradizionali categorie di destra e di sinistra, mostrandosi equidistante da entrambe. In ciò questi elettori sono simili ai “non collocati” (ossia coloro che espressamente dicono che non sanno come collocarsi o rifiutano di rispondere). (rpmnwindiana.com) Del resto il M5s si è auto-definito “né di destra né di sinistra”. La quota di elettori del M5s di destra è invece quasi la metà di quella di sinistra. Questo dato è importante: se infatti è vero che la trasversalità ideologica dell’elettorato “pentastellato” esiste ancora, tuttavia risulta meno accentuata rispetto alle politiche, con uno sbilanciamento a sinistra (tornando un po’ alle origini del Movimento, quando raccoglieva consensi soprattutto a sinistra)[1]. La forte trasversalità del bacino elettorale del M5s viene invece confermata dalla domanda che rileva il potenziale elettorale del partito–Ptv, propensity to vote [van der Eijk e Franklin 1996; van der Eijk et al. 2006], ossia chiedendo agli intervistati di esprimere una probabilità futura di voto per ciascun partito su una scala da 0 a 10 dove 0 significa “per nulla probabile” e 10 significa “molto probabile”. Consideriamo come elettorato probabile o potenziale di un partito l’insieme delle risposte che si collocano tra 6 e 10[2]. L’elettorato potenziale del M5s mostra una perfetta equidistribuzione tra sinistra e destra: il 34,1% si colloca sulla sinistra dello spazio politico e il 33,2% si colloca sulla destra (mentre il 23,5% si colloca al centro e il 9,3% non si colloca). Questi dati sono molto simili a quelli dell’ondata post-elettorale del Panel Cise effettuata dopo le elezioni politiche [Maggini 2014; Maggini e De Lucia 2014]. Se si considera il bacino elettorale potenziale del M5s la forte trasversalità ideologica è quindi confermata: ciò significa che quando si passa da una mera possibilità di voto a una effettiva intenzione di voto, sono soprattutto i potenziali elettori di destra del M5s che defezionano verso altri partiti. Questa minore presa sull’elettorato di destra è del resto confermata da un precedente articolo sui flussi individuali di voto che mostra come il movimento di Grillo rispetto alle europee perda voti soprattutto verso i partiti del centrodestra (in particolare la Lega Nord).

    Tab 1 – Elettorato del M5s (effettivo e potenziale) ed auto-collocazione politica

    Per chi votavano in passato questi potenziali elettori “a cinque stelle”? Da chi è formato il bacino potenziale del M5s? Quali sono le opinioni degli elettori potenziali del M5s sui temi più rilevanti del dibattito politico?

    Cerchiamo di dare una risposta a queste domande attraverso un’analisi del potenziale elettorale del M5s così come misurato dalla già menzionata domanda sulla Ptv. Si tratta di una domanda utile per due motivi: innanzitutto ci permette di intercettare gli orientamenti dell’intero campione, dal momento che la quasi totalità degli intervistati accetta di rispondere a queste domande (mentre sulle intenzioni di voto ai partiti risponde solo una minoranza, circa il 60%); in secondo luogo, come si è appena visto, la Ptv ci permette di identificare –selezionando chi dà a un partito un punteggio alto– il potenziale elettorale di quel partito. Un dato particolarmente utile in una fase di transizione come quella attuale. Il potenziale elettorale del M5s è pari al 20,3%, una percentuale non troppo lontana dalle effettive intenzioni di voto (18,6%). Già questo primo dato ci dice che nella fase attuale il M5s sembra già aver raggiunto il massimo del suo potenziale, senza grandi e ulteriori potenzialità espansive. Ma chi sono questi potenziali elettori del M5s? Guardiamo innanzitutto il loro comportamento elettorale passato. Praticamente i due terzi di loro aveva votato M5s alle europee 2014 e alle politiche 2013. Il bacino potenziale del M5s è poi composto per il 15,8% da elettori del Pd alle europee contro il 10,4% di elettori di Forza Italia e il 2,3% di elettori leghisti. Se si considerano le elezioni politiche i dati sono simili, con un maggior equilibrio tra Pdl e Pd e una maggiore presa sugli elettori leghisti (vedi Tabella 2). Si conferma quindi che il Movimento di Grillo ha una capacità di attrazione trasversale, anche se la maggior parte de suoi consensi potenziali derivano da chi lo ha già votato in passato.

    Tab. 2 – Voto alle politiche 2013 e alle europee 2014 del bacino elettorale del M5s

    Vediamo adesso quali sono le caratteristiche sociodemografiche dei potenziali elettori del M5s (vedi Tabella 3). La trasversalità del M5s si riscontra anche in chiave geografica, e ciò è una conferma di quanto già emerso alle elezioni politiche. Complessivamente, il potenziale elettorale del M5s è composto per il 39% da intervistati del Nord e per una percentuale sostanzialmente uguale da intervistati del Sud (mentre quelli della “Zona Rossa” sono il 22,5%). I potenziali elettori del M5s del Nord sono sotto-rappresentati rispetto alla media nazionale, mentre quelli delle altre due zone sono sovra-rappresentati. Per quanto riguarda le altre caratteristiche sociodemografiche, si tratta di un bacino in prevalenza maschile (57,5%) e concentrato nella fascia d’età 30-44 (26,2%, 12 punti sopra la media del campione). Sotto-rappresentati rispetto alla media nazionale risultano essere gli over 65. Si tratta di dati in continuità con quelli del passato[3]. Se si osserva la collocazione professionale dei potenziali elettori del M5s, si nota che rispetto alla media nazionale risultano sovra-rappresentati gli impiegati del settore privato, i disoccupati e soprattutto gli operai (ben 12 punti sopra la media del campione). Anche questi dati sono simili a quelli riscontrati in studi del passato, con la significativa novità rappresentata dal fatto che il M5s sembra aver perso la sua capacità di attrazione nei confronti del modo del lavoro autonomo e imprenditoriale, perdendo così la sua forte trasversalità in termini socio-professionali. In continuità con il passato, invece, i potenziali elettori del M5s sono sovra-rappresentati tra i diplomati e sotto-rappresentati tra chi non ha nessun titolo di studio o ha solo la licenza elementare (i laureati sono circa la metà della media nazionale). Infine, sono sovra-rappresentati tra chi non va mai a messa o ci va solo 2-3 volte l’anno, mentre sono sotto-rappresentati tra chi frequenta assiduamente le funzioni religiose. Questi dati per certi aspetti sono interessanti se raffrontati con quelli di un precedente articolo sul bacino elettorale della Lega: se infatti i due partiti fanno leva entrambi sulla protesta anti-sistema e su uno stile retorico populista, i rispettivi bacini elettorali mostrano caratteristiche socio-demografiche molto differenti, se non speculari in certi aspetti.

    Tab. 3 – Caratteristiche sociodemografiche del bacino elettorale del M5s

    Per quanto concerne i temi del dibattito politico (vedi Tabella 4), emerge chiaramente l’euroscetticismo del bacino del M5s. Alla domanda se l’Italia debba uscire dall’euro (un tema su cui il M5s vuole indire un referendum), il 55,8% del bacino del M5s è favorevole all’uscita dall’euro contro il 36% dell’elettorato italiano. Inoltre, alla domanda se l’Italia abbia beneficiato della sua appartenenza all’UE oppure no, mentre il campione nazionale è spaccato a metà, il 61% circa del bacino potenziale del M5s sostiene che l’Italia non ha beneficiato dell’appartenenza all’UE. Non solo, ma il 71% circa ritiene anche che le decisioni prese in Europa danneggino l’Italia (+11,4 punti rispetto alla media del campione). Questi atteggiamenti sono molto simili a quelli riscontrati in un precedente articolo sul bacino elettorale potenziale della Lega Nord e anche in questo caso Grillo, come Salvini, utilizza l’euroscetticismo come risorsa strategica per accrescere i propri consensi, in un contesto di crescente disillusione dell’opinione pubblica italiana nei confronti dell’Unione Europea. L’euroscetticismo del potenziale elettorale del M5s risulta però di natura diversa rispetto a quello leghista se si prendono in considerazione altri dati. Se si considera infatti la domanda sulla libera circolazione all’interno dell’Unione, si nota come quasi il 55% del bacino elettorale potenziale del M5s, in linea con la media del campione, sia contrario ad una limitazione del trattato di Schengen (mentre nel caso del bacino leghista il 55% era favorevole). Nell’elettorato potenziale del M5s, a differenza di quello leghista, non si riscontra cioè un atteggiamento di chiusura nazionalista di natura pregiudiziale. L’euroscetticismo “grillino” sembra essere più una critica (radicale) alle istituzioni dell’Unione Europea e alle sue politiche di austerità percepite come una minaccia alle conquiste sociali ottenute in passato in ambito nazionale. Questo atteggiamento di timore viene confermato dal fatto che ben il 79% circa dei potenziali elettori del M5s ritiene che i sacrifici richiesti dall’Unione Europea mettano in pericolo lo stato sociale, contro il 68% circa del campione nazionale. Inoltre, anche l’atteggiamento critico nei confronti dell’euro non è un elemento che accomuna l’intero elettorato potenziale del M5s se si considera l’auto-collocazione politica (vedi Figura 1). La netta maggioranza (57,3%) degli elettori potenziali del M5s di sinistra, infatti, sono contrari all’uscita dall’euro, mentre la stragrande maggioranza di quelli di destra (61,9%) sono d’accordo. Si tratta quindi di un tema su cui il M5s trova un ampio consenso all’interno del suo bacino elettorale, ma che divide la sua componente di sinistra da quella di destra.

    Per quanto riguarda gli altri temi, sui diritti civili l’atteggiamento è più aperto rispetto all’elettorato generale, con il 68,6% favorevole ai matrimoni gay (+14 punti rispetto alla media nazionale) e anche in questo le opinioni dei potenziali elettori del M5s sono speculari a quelle del bacino leghista. Inoltre è un tema che trova il consenso maggioritario dei potenziali elettori del M5s, indipendentemente dalla loro collocazione politica (vedi Figura 2). Non solo il 76,1 % dei potenziali elettori del M5s di sinistra sono favorevoli al matrimonio gay, ma lo è anche la maggioranza di quelli di destra (55,6%). Ancora una volta, il libertarismo sui temi cosiddetti etici rappresenta il minimo comun denominatore del bacino elettorale del M5s come dimostrato da altri studi. Sul mercato del lavoro, al contrario, il bacino del M5s è sostanzialmente spaccato a metà sul fatto di lasciare mano libera alle imprese su assunzioni e licenziamenti (senza grandi differenze rispetto alla media del campione, anche se i potenziali elettori del M5s sono tendenzialmente meno favorevoli rispetto all’intero elettorato). Ancora una volta, si conferma come le questione economiche rappresentino un potenziale elemento di divisione dell’elettorato “grillino”, con la sua componente di destra (vedi Figura 3) che si dimostra a maggioranza favorevole a una maggiore libertà per le imprese in fatto di assunzioni e licenziamenti (54,7%), mentre la componente di sinistra è nettamente contraria (58,8%). Se dal piano dei principi astratti si passa alle opinioni sulla modifica all’articolo 18 apportata dal governo, la stragrande maggioranza degli elettori potenziali del M5s è nettamente contraria (72,9%), molto di più della media del campione. Ciò probabilmente è determinato dalla caratterizzazione politica di questa tematica e dal giudizio negativo dell’elettorato “grillino” nei confronti del governo Renzi.

    Tab. 4 – Atteggiamento del bacino elettorale del M5s sui principali temi del dibattito politico

    Fig. 1 – Composizione dell’elettorato potenziale del M5s tra gli intervistati di sinistra e di destra, secondo il giudizio sull’uscita dell’Italia dall’euro

    Fig. 2 – Composizione dell’elettorato potenziale del M5s tra gli intervistati di sinistra e di destra, secondo il giudizio sui matrimoni gay

    Fig. 3 – Composizione dell’elettorato potenziale del M5s tra gli intervistati di sinistra e di destra, secondo il giudizio sulla libertà di assunzione e di licenziamento

    Passando infine dalle issues ai giudizi sui leader, è interessante vedere come è percepito il leader carismatico e fondatore del movimento, ossia Beppe Grillo, dal suo elettorato (potenziale ed effettivo). La Tabella 5 mostra come i giudizi positivi siano nettamente la maggioranza (mentre nell’intero campione nazionale ben l’80% dà un voto insufficiente a Grillo), ma il dato più interessante è che il 31% dei potenziali elettori del M5s esprime un giudizio negativo. E se si considerano le effettive intenzioni di voto, il dato non cambia molto: il 28% degli elettori del M5s dà un voto insufficiente all’ex comico genovese. La leadership di Grillo sembra mostrare i primi scricchiolii all’interno del suo stesso bacino elettorale e probabilmente le polemiche sulle espulsioni dei parlamentari dissidenti e sulla mancanza di democrazia interna non hanno aiutato l’immagine del leader fondatore.

     

    Tab. 5 – Giudizi su Beppe Grillo all’interno dell’elettorato (potenziale ed effettivo) del M5s e nell’intero campione


    [1] Vedi Maggini e De Lucia [2014].

    [2] Il valore di 5 viene considerato “incerto”, mentre le risposte tra 0 e 4 rientrano nella categoria del “poco probabile”.

    [3] Si veda Maggini [2013].

  • Il bacino elettorale della Lega: geografia, caratteristiche socio-politiche e atteggiamenti

    di Vincenzo Emanuele e Nicola Maggini

    Il sondaggio CISE-Sole 24 Ore pubblicato domenica mostra chiaramente come la Lega sia in forte espansione nelle intenzioni di voto, raggiungendo il 14,3% e arrivando ad un’incollatura dal risultato di Forza Italia, ferma al 15%[1]. Già da questo primo dato emerge che la nuova Lega di Salvini ha lanciato un’OPA sul centrodestra, come già evidente dai risultati delle recenti regionali in Emilia-Romagna. I nostri dati sembrano suggerire che gli elettorati delle due forze politiche, Lega e Forza Italia, si stanno avvicinando, come risulta evidente dalla loro collocazione sull’asse sinistra-destra: si dichiara di “destra” (valori da 6 a 10 in una scala 0-10) il 74% degli intervistati leghisti contro l’84% di quelli di Forza Italia (vedi Tabella 1). La componente di “sinistra” (valori da 0 a 4) è praticamente inesistente nei due elettorati, mentre la componente di “centro” (valore di 5) nell’elettorato leghista è quasi doppia rispetto a quella di Forza Italia. Sorprendentemente, l’elettorato di Forza Italia risulta addirittura più a destra di quello leghista. Questa apparente radicalizzazione di Forza Italia avvicina gli elettorati dei due partiti dal punto di vista ideologico e in prospettiva può facilitare una sempre maggiore attrazione dell’elettorato forzista verso Salvini. La sovrapponibilità tra i due elettorati viene confermata dalla domanda sul potenziale elettorale dei due partiti (Propensity to vote, Ptv), ossia chiedendo agli intervistati di esprimere una probabilità futura di voto per ciascun partito su una scala da 0 a 10 dove 0 significa “per nulla probabile” e 10 significa “molto probabile”. Consideriamo come elettorato probabile o potenziale di un partito l’insieme delle risposte che si collocano tra 6 e 10[2]. Incrociando il potenziale elettorale di Lega e Forza Italia emerge che il 53% dei potenziali elettori forzisti esprime anche un’alta probabilità di voto per la Lega. Quindi esiste un’ampia fascia di elettori (che un tempo si sarebbero definiti berlusconiani) che oggi subisce il fascino della proposta politica di Salvini.

    Tab 1 – Voto a Forza Italia e Lega Nord per autocollocazione politica degli intervistati

     

    Da chi è formato il bacino potenziale della Lega Nord? Per chi votavano in passato questi potenziali elettori leghisti? Quali sono le loro opinioni sui temi più rilevanti del dibattito politico?

    Cerchiamo di dare una risposta a queste domande attraverso un’analisi del potenziale elettorale della Lega Nord così come misurato dalla domanda sulla Ptv menzionata prima. Abbiamo scelto di concentrarci sulla Ptv  anziché sulle intenzioni di voto per due motivi: intanto perché in questo modo disponiamo di un numero di casi maggiore dal momento che quasi tutti gli intervistati rispondono a questa domanda (mentre solo il 60% circa risponde sulle intenzioni di voto); in secondo luogo perché, essendo la Lega un partito in espansione, ed essendo ancora lontani dal momento elettorale, la Ptv coglie meglio delle intenzioni di voto qual è il bacino di elettori potenziale di cui può disporre il partito di Salvini.

    E infatti, se la Lega vale il 14,3% nelle intenzioni di voto, il suo potenziale elettorale è ben più ampio: il 23,6% degli intervistati esprime una Ptv per la Lega tra 6 e 10. Un valore che è secondo solo alla Ptv del Pd e superiore di 3 punti sia a Forza Italia che al Movimento 5 Stelle. La Lega è infatti oggi il quarto partito italiano, ma ragionando in termini di potenziale elettorale è il secondo (vedi Tabella 2).

    Tab. 2 – Ptv dei 4 principali partiti italiani

     

    L’allargamento del potenziale elettorale leghista apre nuove opportunità di espansione anche geografica, trasformando la “ex” Lega Nord in partito dalla prospettiva nazionale, in linea con la nuova svolta lepenista impressa da Salvini. I nostri dati lo rivelano chiaramente: se alle politiche 2013 su 100 voti alla Lega 92 venivano dalle regioni del Nord e meno del 2% dal Lazio in giù, oggi lo scenario è radicalmente cambiato: nel bacino leghista “solo” 62 potenziali elettori sono del Nord. Fra i 38 provenienti dall’Italia che sta sotto il Po, ben 22 sono elettori meridionali. Complessivamente, al Sud la Lega ha un potenziale elettorale che sfiora il 15%, contro circa il 20% della Zona rossa e il 32% del Nord (vedi Tabella 3). Intendiamoci, sono elettori potenziali, non intenzioni di voto effettive. Tuttavia il dato è davvero significativo nell’evidenziare un chiaro potenziale espansivo della Lega su tutto il territorio nazionale.

    Tab. 3 – Ptv Lega Nord per zona geografica

     

    Ma chi sono questi potenziali elettori leghisti? Guardiamo innanzitutto il loro comportamento elettorale passato. Quasi tre quarti di loro non avevano votato Lega alle europee 2014 e nemmeno alle politiche 2013. Il bacino potenziale della Lega è composto per il 32% da ex elettori di Forza Italia, per il 20% da ex elettori del Pd di Renzi e per il 16% da ex 5 stelle (vedi Tabella 4). Si nota dunque, come abbiamo visto all’inizio, che la Lega ha una forte capacità di attrazione verso l’elettorato berlusconiano. Tuttavia, anche una quota significativa di elettori che alle europee avevano votato Pd o M5S prende in considerazione la possibilità di votare la Lega in futuro. Il bacino dei potenziali elettori della Lega va dunque al di là del recinto tradizionale del centrodestra.

    Tab. 4 – Voto alle politiche 2013 e alle europee 2014 del bacino elettorale leghista

     

    Vediamo adesso quali sono le caratteristiche sociodemografiche dei potenziali elettori leghisti (vedi Tabella 5). Si tratta di un bacino in prevalenza femminile (57%) e concentrato nella fascia d’età 45-64. Già questa è una novità sorprendente se pensiamo che tradizionalmente l’elettorato leghista era prevalentemente maschile. Questa novità trova conferma osservando la collocazione professionale dei potenziali elettori leghisti: rispetto alla media nazionale risultano sovra-rappresentati, oltre a imprenditori e lavoratori autonomi (blocco sociale tradizionale della Lega) anche le casalinghe (ben 15 punti sopra la media del campione), storicamente lo zoccolo duro dell’elettorato di Berlusconi. In continuità con il passato, i potenziali elettori leghisti sono ampiamente sotto-rappresentati tra chi ha un titolo di studio elevato  (i laureati sono circa la metà della media nazionale) e sovra-rappresentati tra chi frequenta assiduamente le funzioni religiose (il 51% va a messa almeno 2-3 volte al mese contro il 44,5% del campione generale).

    Tab. 5 – Caratteristiche sociodemografiche del bacino elettorale leghista

     

    Per quanto concerne i temi del dibattito politico (vedi Tabella 6), emerge chiaramente l’euroscetticismo del bacino leghista, nel quadro di una generale crescita degli atteggiamenti critici nei confronti dell’UE da parte dell’elettorato italiano. Alla domanda se l’Italia abbia beneficiato della sua appartenenza all’UE oppure no, mentre il campione nazionale è spaccato a metà, i due terzi del bacino potenziale leghista sostengono che l’Italia non ha beneficiato dell’appartenenza all’UE. Non solo, ma il 73% ritiene anche che le decisioni prese in Europa danneggino l’Italia (+14 punti rispetto alla media del campione).

    La stessa differenza rispetto al campione generale la troviamo nella domanda sull’uscita dall’euro, uno dei principali cavalli di battaglia di Matteo Salvini. Il 53% del bacino leghista è favorevole all’uscita dall’euro contro il 36% dell’elettorato italiano. Salvini utilizza strategicamente questo tema per accrescere i propri consensi e questi dati dimostrano che lo fa a ragion veduta: oltre un terzo degli italiani è sensibile all’appello anti-euro, una quota ben maggiore dell’attuale elettorato leghista.

    L’atteggiamento di chiusura nazionalista dell’elettorato potenziale leghista viene confermato dalla domanda sulla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione: il 55% è favorevole ad una limitazione del trattato di Schengen, contro il 46% dell’intero campione.

    Per quanto riguarda gli altri temi, sul mercato del lavoro il bacino leghista conferma la propria propensione a lasciare mano libera alle imprese su assunzioni e licenziamenti (+19 punti rispetto alla media del campione) e anche sulla modifica all’articolo 18 gli atteggiamenti positivi sono leggermente superiori rispetto alla media (+6 punti). Infine sui diritti l’atteggiamento è più conservatore rispetto all’elettorato generale, con il 55% contrario ai matrimoni gay (+10 punti rispetto alla media nazionale).

    Tab. 6 – Atteggiamento del bacino leghista sui principali temi del dibattito politico

     

    Passando poi dalle tematiche che dividono l’elettorato a quelle sulle quali c’è una condivisione di fondo negli obiettivi da raggiungere (le cosiddette “valence issues”), osserviamo che la Lega è considerata particolarmente credibile nel risolvere i problemi legati alla sicurezza: il 23,4% del campione nazionale pensa che la Lega sia il partito più credibile su questo tema. E’ il dato più alto fra tutte le forze politiche, sebbene superato da coloro che dicono che nessun partito è davvero credibile. Sulle altre valence issues, e in particolare sul rilancio dell’economia, la riduzione dei costi della politica, la rappresentanza delle donne e la capacità di far valere gli interessi dell’Italia in Europa, il partito di Salvini mostra invece una scarsa credibilità, risultando piuttosto distante dalla credibilità accordata agli altri principali partiti.

    Tab. 7 – Credibilità dei partiti italiani nel realizzare alcuni obiettivi condivisi



    [2] Il valore di 5 viene considerato “incerto”, mentre i valori tra 0 e 4 “poco probabile”.

  • Regionali Emilia-Romagna: record storico di astensioni, ma i rapporti di forza rimangono inalterati a vantaggio del Pd

    di Nicola Maggini

     

    Il primo dato che emerge dalle elezioni regionali in Emilia-Romagna che si sono appena concluse è quello dell’affluenza: ha votato solo il 37,7% degli aventi diritto, con un calo di 30,4 punti percentuali rispetto alle regionali del 2010, quando l’affluenza era stata del 68,1%. Solo quattro elettori su dieci hanno deciso di recarsi alle urne. Alle europee dello scorso maggio l’affluenza era stata del 70%. E se il termine di confronto sono le regionali del 2005, il calo è di ben 39 punti percentuali. Si tratta quindi di un dato “storico”, soprattutto se si considera che l’Emilia-Romagna è una regione caratterizzata da una cultura civica diffusa e da una tradizione di partecipazione elettorale superiore alla media. E se è vero che negli ultimi anni anche in Emilia-Romagna si era assistito a un trend decrescente nei livelli di partecipazione elettorale, questa volta l’affluenza è crollata come mai si era visto prima. Si tratta infatti della percentuale più bassa nella storia delle elezioni regionali, pur caratterizzate tradizionalmente da livelli di partecipazione inferiori a quelli delle elezioni politiche. In nessuna altra regione in passato così tanti elettori avevano deciso di disertare le urne. Inoltre, in termini di punti percentuali, mai si era assistito a un tale decremento di votanti nell’arco di due elezioni regionali consecutive. Come si può spiegare un tracollo del genere? In questa fase possiamo solo avanzare delle ipotesi. In primo luogo, le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna si sono svolte contemporaneamente alle sole elezioni regionali calabresi e non all’interno di una tornata di elezioni regionali come quella del 2010, quando si votò in 13 regioni simultaneamente. In altri termini, è mancato un vero e proprio election day di portata nazionale che avrebbe contribuito ad aumentare l’attenzione, anche mediatica, nei confronti di queste elezioni regionali. Ma tutto ciò non è sicuramente sufficiente a spiegare un crollo di dimensioni storiche. A questo punto entrano in gioco altri elementi legati al contesto locale. A tal proposito probabilmente un peso lo hanno esercitato gli eventi che hanno portato a queste elezioni regionali che, è bene ricordarlo, si sono tenute a una data anticipata rispetto alla scadenza naturale della consiliatura. Come non citare quindi il fatto che il Presidente della Giunta uscente, Vasco Errani, si era dimesso lo scorso luglio dopo essere stato condannato in appello per falso ideologico. A ciò si deve aggiungere lo scandalo sui rimborsi elettorali, con indagini che vedono coinvolti la quasi totalità dei consiglieri regionali per la gestione dei soldi pubblici derivanti dal finanziamento ai gruppi consiliari. Infine, al di là del contesto locale, il distacco dalla politica e il rifugio nell’astensione è ormai il dato costante della politica italiana negli anni della crisi.

    Tab. 1 Partecipazione al voto in Emilia-Romagna, disaggregata per provincia, alle regionali del 2010, alle europee del 2014 e alle regionali del 2014.

    La minoranza degli elettori che si è recata alle urne doveva scegliere tra 6 candidati Presidente e 11 liste. L’Emilia-Romagna, cuore della ex “Zona rossa”, non è mai stata una regione “contendibile”. Il dominio del Partito Comunista prima e dei suoi epigoni poi è sempre stato schiacciante. Tuttavia questa volta, proprio per gli scandali sopra menzionati che hanno coinvolto in primis le forze politiche da sempre al potere in regione, il risultato era meno prevedibile del solito, soprattutto se si tiene conto che dalle elezioni politiche del 2013 in Italia la volatilità elettorale è aumentata enormemente, con la conseguenza che in nessuna area del paese il risultato può ormai essere a priori dato per scontato. Inoltre, le recenti polemiche tra le varie anime del Pd e tra il governo Renzi e il mondo sindacale a proposito della riforma del mercato del lavoro potevano avere un effetto negativo sulla performance elettorale del Pd.  Come si è visto, nel voto di domenica 23 novembre 2014 il malessere degli elettori si è manifestato con il boom delle astensioni. L’astensionismo, tuttavia, non ha penalizzato solo chi era al governo della regione, ossia il centrosinistra guidato dal Pd, ma anche (quasi) tutte le altre forze politiche. Col risultato che i rapporti di forza in Emilia-Romagna sono rimasti inalterati e anzi paradossalmente è aumentato il vantaggio del centrosinistra nei confronti del centrodestra.

    Se infatti guardiamo ai valori percentuali, utili quando si vuole misurare i rapporti di forza tra partiti e coalizioni, la coalizione di centrosinistra guidata da Stefano Bonaccini ha vinto le elezioni con il 49,1% dei voti (vedi Tabella 2), con una flessione quindi rispetto al 2010 quando aveva ottenuto il 52,1% dei consensi. Tuttavia, anche la coalizione arrivata seconda, ossia il centrodestra, è arretrata in termini percentuali, passando dal 36,7% del 2010 al 29,9% del 2014. Ciò significa che se nel 2010 il centrosinistra sopravanzava il centrodestra di 15,3 punti percentuali, oggi lo sopravanza di 19,2 punti. Il distacco a vantaggio del centrosinistra è dunque aumentato.

    Tab. 2 La competizione tra candidati presidente e tra liste (valori assoluti, percentuali e seggi).

    A questo punto vediamo nel dettaglio quale è stato il risultato ottenuto dalle singole liste, sia in termini percentuali che in valori assoluti (vedi Tabella 3). Il Pd ottiene il 44,5%, una percentuale migliore rispetto a quelle delle precedenti regionali (40,6%) e delle politiche (37%), ma peggiore rispetto a quella delle europee (52,5%). Inoltre, se si guarda ai valori assoluti, il Pd perde oltre 300.000 voti rispetto alle precedenti regionali, ossia una flessione pari a circa il 38% dei suoi consensi del 2010. Le perdite in valori assoluti sono ancora più nette se rapportate alle politiche (-455mila voti circa) e alle europee ( -677mila voti circa). Rimanendo all’interno del centrosinistra, Sel ottiene il 3,2% e in valori assoluti rimane sostanzialmente stabile rispetto alle regionali precedenti, mentre arretra rispetto alle politiche.

    Se il centrosinistra nel suo complesso e il Pd in particolare perdono voti in valori assoluti, ciò non significa che gli altri partiti siano messi meglio. Anzi. Forza Italia per la prima volta scende a una percentuale a una sola cifra (8,4%), perdendo oltre 400.000 voti rispetto alle precedenti regionali, pari all’81% dei suoi consensi del 2010 (quando però ancora esisteva il Pdl). Rispetto alle politiche invece il partito di Berlusconi perde per strada 334mila voti circa, mentre rispetto alle europee i voti persi sono quasi 172mila. Il tracollo di Forza Italia è ancora più evidente se si pensa che per la prima volta è stata sorpassata all’interno del centrodestra dalla Lega Nord. Il partito di Salvini, con il 19,4%, ha ottenuto la sua migliore percentuale elettorale in Emilia-Romagna (nel 2010 aveva ottenuto il 13,7%). Da questo punto di vista il fatto che il candidato comune del centrodestra alla Presidenza della Giunta regionale fosse il leghista Alan Fabbri probabilmente ha avuto un certo peso sulla performance elettorale del Carroccio. La Lega ha pertanto ottenuto un indubbio successo, soprattutto se si considera i risultati ottenuti nelle più recenti tornate elettorali (politiche 2013 e europee 2014). Rispetto alle politiche, infatti, la Lega ha incrementato i propri consensi del 238% (+164mila voti circa), mentre rispetto alle europee l’incremento è stato leggermente inferiore (+117mila voti circa). Tuttavia, quella della Lega non è stata una affermazione storica in Emilia-Romagna. Se infatti si considera le elezioni regionali del 2010 come termine di paragone, la Lega Nord, pur migliorando la propria percentuale di voti, ha però perso per strada circa 55mila elettori. Speculare all’andamento della Lega Nord è l’andamento mostrato dal M5S. Il movimento di Grillo infatti, rispetto alle precedenti regionali del 2010, è passato dal 6% al 13,3% ed è l’unica forza politica che ha incrementato di una quota significativa i propri voti in valori assoluti (+32.837 voti). Tuttavia si deve considerare che nel 2010 il M5S si affacciava per la prima volta alla ribalta politica nazionale, iniziando proprio dall’Emilia-Romagna la propria ascesa elettorale. Alla vigilia di queste elezioni, quindi, era legittimo ipotizzare che il movimento di Grillo fosse in grado di capitalizzare a proprio vantaggio il malcontento verso una classe politica regionale travolta dagli scandali, tanto più in una regione dove il fenomeno politico del M5S si era manifestato ed aveva attecchito fin da subito. Al contrario, il M5S ha deluso le aspettative perdendo voti sia rispetto alle europee dello scorso maggio (-284.480 voti) che rispetto alle politiche del febbraio 2013 (-499.019 voti). Detto in altri termini, il 64% degli elettori del M5S alle europee e il 76% degli elettori del M5S alle politiche a queste elezioni regionali hanno deciso di non votarlo più. E oggi la seconda forza politica della regione non è il M5S, bensì la Lega Nord.

    Infine, per quanto riguarda le altre forze politiche, la lista Ncd-Udc ha ottenuto un deludente 2,6%, rimanendo sostanzialmente ai livelli delle elezioni politiche e perdendo voti in termini assoluti sia rispetto alle precedenti regionali che rispetto alle recenti europee. La lista della sinistra radicale (L’Altra Emilia-Romagna) ha ottenuto circa il 4%, perdendo voti in termini assoluti rispetto alle liste di quest’area politica che si erano presentate alle regionali del 2010, alle politiche del 2013 e alle europee del 2014 (ossia Rifondazione Comunista, Rivoluzione Civile, Lista Tsipras).

    Tab. 3 Il voto alle liste e confronto con regionali 2010, politiche 2013 e europee 2014, valori assoluti, percentuali e variazioni percentuali

    In conclusione queste elezioni regionali che si sono svolte in Emilia-Romagna sono un campanello d’allarme per l’intera classe politica, sia di governo che di opposizione. Del resto quando più del 60% per cento dei cittadini decide di disertare le urne non può essere altrimenti. Questa disaffezione così evidente è infatti un sintomo della crisi della rappresentanza democratica. All’interno della minoranza di elettori che hanno deciso di esercitare il proprio diritto di voto, il centrosinistra e in particolare il Pd hanno senza dubbio vinto, mentre il risultato del M5S è stato abbastanza deludente rispetto alle aspettative. Infine, all’interno del centrodestra (la minoranza della minoranza, dunque..) chiara è stata l’affermazione della Lega Nord, che probabilmente ha tratto vantaggio dal tracollo di Forza Italia e dalla flessione del M5S. Ma a tal proposito è necessario aspettare l’analisi dei flussi elettorali.

  • L’avanzata elettorale della destra populista ed euroscettica

     di Nicola Maggini

     

     

    Le elezioni europee del 2014 si sono ormai concluse con la conseguente ripartizione dei seggi tra i vari partiti a livello nazionale. I partiti nazionali poi dovranno costituirsi in gruppi politici[1] all’interno del Parlamento Europeo (PE). Nel presente articolo analizziamo innanzitutto il risultato elettorale dei partiti che nello scorso PE facevano parte del Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia-Europe of Freedom and Democracy (EFD), gruppo politico che raccoglie all’interno del PE i partiti della destra populista ed euroscettica, se non esplicitamente anti-euro ed anti-UE (Taggart 1998; Taggart e Szczerbiak 2004; Szczerbiak e Taggart 2008). Come si può vedere dalla Figura 1, l’EFD ha ottenuto 38 seggi[2] su 751 (ossia il 5,1% dei seggi del PE), incrementando di 7 seggi la propria consistenza parlamentare rispetto alle elezioni del 2009 (quando ottenne 31 seggi).

     

    Fig. 1 – Seggi nel Parlamento Europeo dell’eurogruppo Europe of Freedom and Democracy (2009 e 2014).

    Come abbiamo visto in un precedente articolo, l’EFD è nato come gruppo politico il 1 luglio 2009 e nelle scorsa legislatura era composto da 13 partiti di 12 Stati membri dell’UE. In particolare, i partiti più importanti erano la Lega Nord, lo United Kingdom Independence Party (UKIP), gli ultra-conservatori greci del Raggruppamento Popolare Ortodosso (LAOS), il Partito del Popolo Danese, il Movimento per la Francia, il Partito Politico Riformato d’Olanda (SGP), il Partito dei Finlandesi (in precedenza noto come Veri Finlandesi) e il Partito Nazionale Slovacco. Oggi i partiti dell’EFD che hanno ottenuto seggi sono passati[3] da 13 a 6, appartenenti ad altrettanti paesi diversi (vedi Tab. 1). All’interno dell’EFD, il partito che ha conquistato più seggi (24) è stato lo UKIP di Nigel Farage che ha conquistato il 27,4% dei consensi divenendo il primo partito in Gran Bretagna e incrementando i propri voti di ben 11 punti percentuali rispetto al 2009 (e di 11 seggi la propria presenza nel PE). Uno degli obiettivi del partito di Farage è indire un referendum per far uscire la Gran Bretagna dall’UE. La seconda delegazione nazionale con 5 seggi all’interno dell’EFD è la Lega Nord di Matteo Salvini che ha ottenuto un soddisfacente 6,2%, perdendo però 4 punti percentuali e 3 seggi rispetto alle europee del 2009. Il Partito del Popolo Danese è la terza delegazione nazionale con 4 seggi (3 seggi in più rispetto al 2009) e con il 26,6% è diventato il primo partito in Danimarca, con un incremento di ben 11,8 punti percentuali rispetto al 2009. Due seggi a testa vanno al lituano Ordine e Giustizia (che mantiene gli stessi seggi del 2009 e col 14,3% aumenta di 2,1 punti percentuali i propri consensi) e al Partito Finlandese che si attesta al 12,9%, guadagnando un seggio pur perdendo 1,1 punti percentuali rispetto alle precedenti europee. Infine, il cartello elettorale olandese composto da Partito Politico Riformato e Unione Cristiana (SGP-CU) ottiene col 7,6% dei voti 2 seggi come nel 2009, di cui uno (quello dell’SGP) appartiene all’EFD.

     

    Tab. 1 – Risultati elettorali dei partiti dell’EFD che hanno ottenuto seggi nei paesi membri dell’UE alle elezioni europee (scarti in voti e seggi tra 2009 e 2014).

         Come si è visto in un precedente articolo, la maggior parte dei partiti dell’EFD fanno parte dell’europartito Movimento per un’Europa della Libertà e della Democrazia – Movement for a Europe of Liberties and Democracy (MELD), eccetto lo UKIP. Anche la Lega Nord non fa più parte del MELD, ma dell’europartito Alleanza Europea per la Libertà – The European Alliance for Freedom (EAF), composto da partiti della destra populista ed anti-UE come il francese Front National di Marine Le Pen, il fiammingo Vlaams Belang, il Partito della Libertà Austriaco (FPÖ),  il Partito per la Libertà (PVV) dell’olandese Geert Wilders (tutti partiti non iscritti ad alcun gruppo nel PE),  e i Democratici Svedesi (che fino alle europee del 2014 non aveva eletti nel PE). Alternativa per la Germania (AFD) ha ottenuto 7 seggi col 7% dei voti, ma ha rifiutato di aderire alla nuova alleanza e forse entrerà nel gruppo European Conservatives and Reformists (ECR), mentre i partiti nazionalisti europei più radicali e antisemiti come il Partito Nazionale Democratico di Germania, la greca Alba Dorata e l’ungherese Jobbik non sono stati autorizzati a far parte dell’alleanza. D’altronde in questa sede non ci occupiamo dei partiti della destra radicale e neofascista. Il minimo comune denominatore dei partiti aderenti al MELD e all’EAF è costituito dall’orientamento politico conservatore e xenofobo, dall’avversione nei confronti dell’Europa e dal populismo (Mudde 2007; Pirro e van Kessel 2013). La sfida populista viene spesso lanciata da un Leader carismatico che si considera a capo di un Popolo ritenuto depositario di ogni virtù, contro un Palazzo ritenuto albergo di ogni vizio (Tarchi 2003).

         Nella Tabella 2 riportiamo i risultati dei partiti dell’EAF non facenti parte al momento di nessun gruppo nel PE, mostrando gli scarti in seggi e in voti (in termini percentuali) rispetto alle precedenti elezioni europee. Non si considerano i partiti che non hanno ottenuto seggi. Il partito che ha conquistato più seggi (24) è stato il Front National di Marine Le Pen: con il 25% dei suffragi è divenuto il primo partito in Francia superando gollisti e socialisti e incrementando i propri voti di ben 18,6 punti percentuali rispetto al 2009 (e di 21 seggi la propria presenza nel PE). Bene è andato anche l’FPÖ austriaco che col 19,7% ha conquistato 4 seggi (2 seggi in più rispetto al 2009), incrementando i propri consensi di 7 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni europee. I Democratici Svedesi (SD), con le loro posizioni euroscettiche e anti-immigrazione, hanno ottenuto il 9,7% dei voti, entrando così nel Parlamento Europeo – per la prima volta – con due seggi. In Olanda il partito populista PVV dell’eurofobo Geert Wilders ha registrato una flessione di 3,5 punti percentuali rispetto alle elezioni europee del 2009 (scendendo al 13,3%) mandando comunque 4 rappresentanti al prossimo Parlamento Europeo, così come era accaduto nel 2009. Infine, in Belgio il partito della destra populista fiamminga Vlaams Belang ha subito rispetto al 2009 una netta flessione di 9,1 punti percentuali, riuscendo col 6,8% a strappare un seggio.

          Sommando i seggi di questi partiti dell’EAF non iscritti ad alcun gruppo con quelli dell’eurogruppo dell’EFD, la destra populista ed euroscettica consta di 73 seggi nel PE (senza includere i partiti euroscettici più moderati che confluiranno nell’ECR o all’opposto quelli dell’estrema destra neofascista). Oltre ai 73 seggi appena menzionati, si deve considerare anche i 4 eurodeputati delle Nuova Destra polacca di Korwin Mikke eletti per la prima volta nel PE dopo aver ottenuto un lusinghiero 7,2% dei suffragi, i due seggi conquistati dai nazionalisti bulgari del nuovo partito Bulgaria Senza Cesura (BBT) che hanno raccolto oltre il 10% dei voti e infine il seggio conquistato dai Greci Indipendenti (ANEL) col 3,5% dei voti. In questa maniera la destra populista ed euroscettica può contare su un’ottantina di eurodeputati.

    Tab. 2 – Risultati elettorali dei partiti dell’EAF (non iscritti a gruppi) nei paesi in cui hanno ottenuto seggi alle elezioni europee (scarti in voti e seggi tra 2009 e 2014).

    All’indomani delle elezioni, Marine Le Pen si è ritrovata a Bruxelles con il leghista Matteo Salvini, l’olandese Geert Wilders del PVV, i delegati del FPÖ austriaco, dei Democratici Svedesi e del Vlaams Belang fiammingo. L’obiettivo è di dar vita all’Alleanza per la Libertà, il nuovo gruppo parlamentare euroscettico che la Le Pen aveva già anticipato nel marzo scorso. La novità consiste nell’apertura ai movimenti nazionalisti dell’Est Europa e nella definizione di una serie di iniziative congiunte tra cui la richiesta di indire i referendum anti-euro in ciascun Paese e il blocco del Trattato di Libero Scambio UE-USA. Però l’euroscetticismo non ha portato tutti i consensi che lei auspicava. Al di là degli indubbi successi del Front National, dell’ottimo risultato del FPÖ e dei buoni risultati dei Democratici Svedesi e della Lega Nord, gli altri alleati della Le Pen si sono visti fortemente ridimensionati. Niente da fare, poi, per i nazionalisti slovacchi che non sono riusciti ad ottenere alcun seggio parlamentare. Come si è detto in precedenza, per creare un gruppo a Strasburgo si rendono necessari almeno 25 europarlamentari eletti in almeno sette Stati membri. E Marine Le Pen non li ha. O per meglio dire, può contare su 35 eletti ma solo in sei nazioni. Nigel Farage, con il suo UKIP primo assoluto in Gran Bretagna, ha rifiutato l’apparentamento. A questo punto le sole strade percorribili sono rimaste quelle dei Paesi dell’Est. Pronti a entrare nell’Alleanza per la Libertà sarebbero gli europarlamentari della Nuova Destra polacca di Korwin Mikke, i nazionalisti bulgari e alcuni indipendenti eletti in Ungheria tra le fila del partito Fidesz di Viktor Orban. Tutto è ancora in trattativa e niente è definitivo. In ogni caso sulle singole iniziative parlamentari questo gruppo di partiti potrà godere dell’appoggio degli europarlamentari dell’EFD capitanati da Farage, il quale a sua volta sta cercando di stringere un’alleanza con il M5S di Beppe Grillo. (Diazepam)

         In conclusione, le recenti elezioni europee hanno rappresentato nel complesso un momento di avanzata elettorale per i partiti della destra populista anti-europeista, anche se tale avanzata non è avvenuta in maniera uniforme all’interno della UE. In alcuni paesi, come si è visto, i partiti della destra euroscettica sono al contrario arretrati rispetto al 2009.  Nel complesso comunque, anche considerando il solo gruppo dell’EFD, la presenza nel PE di questo tipo di partiti si è senza dubbio rafforzata. Tutto ciò si spiega da un lato con il fatto che le elezioni europee costituiscono un contesto tradizionalmente favorevole per i partiti di opposizione e di protesta in base alla teoria delle “second order elections” (Reif e Schmitt 1980), secondo cui alle europee la posta in gioco è minore (o è percepita come tale) rispetto alle elezioni politiche (quando invece in palio c’è il governo del proprio paese) e gli elettori si sentono più liberi nelle loro scelte elettorali, nel caso punendo nelle urne i partiti tradizionali di riferimento quando si ritiene che non stiano svolgendo un’azione politica efficace e consona alle proprie aspettative. Dall’altro lato, sulla scia della più dura crisi economica dalla seconda guerra mondiale, in diversi paesi europei vi è stato un aumento dei partiti anti-establishment che apertamente si oppongono alle politiche di austerità dell’UE e all’integrazione europea. Le tematiche riguardanti l’Unione Europea sono state poste al centro della campagna elettorale soprattutto dai partiti euroscettici: in questa maniera, raccogliendo molti voti in Europa contro l’Europa, questi partiti hanno reso queste elezioni più vicine ad elezioni di primo ordine.  

     


     

    [1] La sovrapposizione tra gruppo e partito europeo non è totale, come sottolineato da Bardi (2002). Alcuni partiti nazionali fanno parte di un gruppo parlamentare nel PE pur non essendo membri dell’europartito.

    [2] Si ricorda che ciascun gruppo politico deve essere composto da 25 eurodeputati provenienti da almeno 7 Stati membri. Al momento l’EFD raccoglie deputati da 6 paesi: per continuare ad esistere deve provare a far iscrivere al gruppo almeno un eurodeputato di un paese diverso dai sei paesi attuali.

    [3] Tra gli esclusi eccellenti ci sono i cristiano ortodossi greci del LAOS e il Partito Nazionale Slovacco.

  • Affluenza come nel 2009, ma tante “Europe” dentro la Ue

     di Nicola Maggini

     

     

    Le elezioni europee che si sono tenute tra il 22 e il 25 maggio 2014 (a seconda del paese) hanno acquisito una centralità e una rilevanza molto più ampia che in passato. Per capirlo, è opportuno vedere quanti cittadini europei si sono recati alle urne per scegliere i loro rappresentanti nel Parlamento Europeo. Infatti, nel campo degli studi elettorali, le elezioni europee sono sempre state considerate come second order elections (Reif e Schmitt 1980), ossia elezioni in cui la posta in gioco è minore (o è percepita come tale) rispetto alle elezioni politiche (quando invece in palio c’è la formazione del governo del proprio paese) e di conseguenza la partecipazione al voto è minore rispetto alle elezioni nazionali.  Come si è visto in un precedente articolo, nel corso del tempo c’è stato un trend decrescente nei tassi di partecipazione: si passa infatti dal 62% di votanti nel 1979 al 43% nel 2009, ossia un calo di ben 19 punti percentuali. Il primo dato che emerge con questa tornata elettorale è che il trend decrescente si è arrestato: nell’insieme dei paesi dell’Ue il tasso di partecipazione è stato del 43,1%, risultando quasi identico a quello delle ultime europee del 2009 (vedi Figura 1). Già questo è un segnale di come queste elezioni europee abbiano suscitato un certo interesse tra i cittadini dell’Ue. Il dato medio a livello di Ue però potrebbe nascondere situazioni molto differenti tra di loro. A questo punto è opportuno guardare come è stata la partecipazione nei singoli paesi dell’Unione, confrontandola con quella di 5 anni prima.

           La Tabella 1 riporta i tassi di partecipazione elettorale di ciascun paese dell’UE nel 2009 e nel 2014, riportando anche la differenza di partecipazione in punti percentuali tra le due tornate elettorali. Il primo dato che emerge è l’elevata eterogeneità: si va da paesi caratterizzati da livelli molto bassi di partecipazione a paesi con livelli di partecipazione particolarmente elevati. Per ciò che concerne il 2014, in tabella vengono riportati in grassetto i tassi di partecipazione chiaramente superiori alla media europea. Tra i paesi con i livelli più elevati di partecipazione sono collocati senza dubbio il Belgio e il Lussemburgo con un’affluenza attorno al 90%, rimanendo al livello del 2009 (e questo fenomeno certamente è dovuto al fatto che in entrambi i paesi il voto è obbligatorio), ma livelli abbastanza elevati di partecipazione li registrano anche Malta (74,8%), la Grecia (60%) e l’Italia (57,2%). Nettamente al di sopra del tasso di partecipazione del totale dei paesi Ue si collocano anche la Danimarca, l’Irlanda, la Germania e la Svezia.  Nel gruppo di paesi con una partecipazione bassa (nettamente al di sotto del 43,1% nel totale della Ue) rientrano invece la maggior parte dei paesi dell’Est: in particolare la partecipazione oscilla tra il 13 e il 30% in Repubblica Ceca, Lettonia, Ungheria, Polonia, Slovenia, Slovacchia e Croazia (nuovo paese membro che nel 2009 non faceva parte dell’Ue). Livelli bassi di partecipazione elettorale caratterizzano anche la Romania, la Bulgaria, l’Estonia, il Portogallo, i Paesi Bassi e uno dei paesi fondatori dell’Ue, ossia il Regno Unito: in questi paesi la partecipazione si colloca in un range tra il 32 e il 37% circa.

          La grande eterogeneità viene confermata dal confronto con il 2009: ci sono paesi in cui l’affluenza aumenta e altri in cui diminuisce. Nel primo gruppo rientrano la Germania, la Francia, i Paesi Bassi, la Grecia, la Spagna, la Svezia, la Finlandia, la Lituania e la Romania. In alcuni di questi paesi però la partecipazione è aumentata di soli pochi decimi di punti percentuali, rimanendo quindi sostanzialmente stabile. I paesi invece in cui l’incremento è più significativo sono la Svezia (+3,4 punti percentuali), la Romania (+4,5), la Germania (+4,8), la Grecia (+7,4) e, soprattutto, la Lituania, dove la partecipazione è aumentata di ben 23,9 punti percentuali. Nel resto dei paesi la partecipazione o è rimasta abbastanza stabile o è diminuita. In particolare, si sono registrati decrementi superiori ai 5 punti percentuali in Slovacchia (-6,6), Irlanda (-7), Ungheria (-7,4), Estonia (-7,4), Italia (-7,8), Repubblica Ceca (-10), Cipro (-15,4) e la Lettonia (-23,7). Tra i paesi fondatori dell’Unione, quindi, solo l’Italia mostra una significativa diminuzione della partecipazione al voto, pur rimanendo tra i paesi in cui si vota di più non solo alle politiche, ma anche alle europee. Il calo della partecipazione in Italia è probabilmente legato alla crescente disaffezione e disillusione dell’elettorato italiano (peraltro registrata in numerose indagini demoscopiche) e in questo senso le elezioni europee in Italia tendono col tempo a convergere con quanto postulato dalla teoria delle elezioni di secondo ordine per ciò che concerne la partecipazione al voto.

     

    Fig. 1 – Affluenza nel totale dei paesi Ue dal 1979 al 2014 (%).

    Tab. 1 – Tassi di partecipazione elettorale di ciascun paese dell’UE nel corso del tempo (%)

    In base a quanto detto finora, quindi, il dato della partecipazione elettorale calcolato a livello complessivo di Unione Europea (presentato all’inizio dell’articolo), nascondeva al suo interno livelli e differenziali di partecipazione rispetto al 2009 molto variegati a seconda del paese considerato. Come prova ulteriore di questo fatto, abbiamo riportato l’affluenza media alle ultime due elezioni europee separata per gruppi di paesi. La Figura 2 riporta l’affluenza media per 4 gruppi di paesi: i 9 paesi iniziali [1] (tutti dell’Europa occidentale), i tre paesi dell’Europa meridionale entrati nell’Ue negli anni Ottanta (Grecia, Spagna e Portogallo), i tre paesi dell’Europa centro-settentrionale entrati nell’Ue negli anni Novanta (Svezia, Austria e Finlandia) e infine i paesi dell’Europa orientale entrati nella Ue a partire dai primi anni Duemila (nel cui gruppo è stata conteggiata anche Malta, pur non essendo ad Est). Il primo dato che emerge è che i nove paesi iniziali dell’Ue mostrano in entrambe le elezioni un’affluenza media nettamente superiore agli altri gruppi considerati: nel 2009 l’affluenza media era del 57,8% e alle recenti europee è rimasta sostanzialmente stabile (56,5%).

          Come si è visto in un precedente articolo, la partecipazione nei paesi dell’Europa meridionale (esclusa l’Italia) a partire dal 1999 ha mostrato un trend decrescente, aumentando il divario rispetto ai nove paesi iniziali. Oggi questo trend decrescente si è arrestato e l’affluenza media è aumentata di quasi 2 punti percentuali, attestandosi al 46,6%. Sicuramente questo risultato è stato determinato dal netto aumento della partecipazione in Grecia, ossia uno dei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica e dalle politiche di austerità imposte dall’Ue: l’impatto sulla vita di tutti i giorni delle politiche decise a Bruxelles ha probabilmente aumentato la percezione dell’importanza della posta in gioco in queste elezioni europee che hanno visto il successo del partito della sinistra radicale Syriza, il cui leader Alexis Tsipras si è candidato alla presidenza della commissione Ue opponendosi proprio alle politiche di austerità. L’affluenza media nell’altro gruppo di tre paesi considerato (Austria, Svezia e Finlandia) è quasi uguale a quella dei tre paesi meridionali ed è aumentata leggermente rispetto al 2009, confermando il trend di crescita a partire dal 2004. Infine, l’affluenza media del gruppo dei paesi dell’Europa orientale è nettamente la più bassa (32,9%) e diminuisce rispetto al 2009 (quando nel gruppo non c’era ancora la Croazia) con un calo di 5,5 punti percentuali. Nel 2014 la differenza tra il gruppo di paesi con l’affluenza media più alta (i nove paesi iniziali) e il gruppo di paesi con l’affluenza media più bassa (i paesi dell’Europa orientale) è di ben 23,6 punti percentuali (e nel 2009 era di 19,4 punti). Pertanto, possiamo affermare che non solo c’è un forte divario in termini di partecipazione tra il gruppo di paesi iniziali dell’Unione e i nuovi membri dell’Europa orientale, ma tale divario è anche aumentato rispetto al 2009.

     

     Fig. 2 – Affluenza media alle elezioni europee per gruppi di paesi (%, 2009-2014)

    Nota: Le percentuali riportate sono medie non pesate delle percentuali di votanti a livello di paese

        In conclusione, l’analisi fin qui condotta ha mostrato come ci siano diverse “Europe” all’interno dell’Ue quando si tratta di partecipazione elettorale. In alcuni paesi l’affluenza alle urne è aumentata rispetto al 2009 e ciò può segnalare da parte dei cittadini un maggiore interesse nei confronti delle elezioni europee che potrebbero col tempo perdere il carattere di elezioni di secondo ordine avvicinandosi ai livelli di partecipazione delle elezioni politiche. In altri paesi, tuttavia, non solo la partecipazione al voto è stata molto bassa, ma è addirittura diminuita rispetto alle precedenti europee. La politica a livello di Unione Europea continua a non essere percepita da parte di molti europei come un qualcosa per cui vale la pena mobilitarsi il giorno in cui si deve scegliere i rappresentanti da mandare al Parlamento Europeo.


    [1] Alle prime elezioni del 1979 i 9 paesi membri erano: Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Regno Unito, Danimarca e Irlanda.

  • I risultati elettorali: il Pd dalla vocazione all’affermazione maggioritaria

    di Nicola Maggini

     

    Il risultato delle elezioni europee è inequivocabile: il Pd di Matteo Renzi ha vinto in maniera netta raggiungendo la percentuale “record” del 40,8%. Mai nessun partito di centrosinistra aveva ottenuto una percentuale simile. E in generale il Pd è il partito italiano che ha ottenuto la miglior percentuale di sempre da quando si vota per il Parlamento Europeo (ossia dal 1979). E se si guarda alle elezioni politiche, solo De Gasperi nel ‘48 e Fanfani nel ’58 avevano ottenuto vittorie elettorali migliori in termini percentuali. Il discorso è ovviamente diverso se si guarda ai valori assoluti: ad esempio il Pd in queste europee ha ottenuto un milione circa di voti in meno rispetto al Pd di Veltroni nel 2008 (che in termini percentuali si era fermato al 33,2%). Ma in quel caso si trattava di elezioni politiche con un’affluenza pari all’80,5%, mentre a queste europee l’affluenza è stata sul territorio nazionale del 58,7%. Quando la differenza in termini di partecipazione è così alta, il dato percentuale è l’indicatore più appropriato per valutare la performance elettorale di un partito in termini relativi. La disaggregazione dei risultati elettorali per area geopolitica[1] (Tabella 1) rivela alcuni dati interessanti. Il Pd per la prima volta mostra una forza elettorale abbastanza omogenea a livello nazionale: se  è vero che il Pd, come da tradizione, ottiene la migliore percentuale nella (ex) Zona Rossa[2] con il 52,5% (al cui interno spicca il 56,4% ottenuto in Toscana), tuttavia il Pd raggiunge percentuali superiori al 35% anche nelle altre zone geopolitiche. In particolare ottiene il 41,1% nel Nord-Ovest, il 39,1% nel Nord-Est e il 36% al Sud (la zona dove va peggio). Se è vero che il Pd resta sovra-rappresentato nelle regioni della Zona Rossa e sotto-rappresentato al Sud, si deve tuttavia notare l’ottima performance registrata nelle regioni settentrionali. In particolare non era mai successo che il Pd risultasse il primo partito nell’Italia nord-orientale, ossia nella ex zona bianca del paese, dominata nella prima repubblica dalla Dc e nella seconda dal “forzaleghismo” (Berselli 2007). Nel Nord-Est invece il Pd è risultato il primo partito e da solo ha preso più voti di quanti ne abbiano presi insieme tutti i partiti del centrodestra: 39,1 % contro 35,3 %.

        A questo punto occorre confrontare il risultato del Pd con quello ottenuto dagli altri due principali partiti italiani: il M5S di Beppe Grillo e Forza Italia di Silvio Berlusconi. Il movimento di Grillo ha ottenuto il 21,2% a livello nazionale e la zona del paese dove è andato meglio è il Sud dove ha ottenuto il 25%. In particolare il M5S è andato particolarmente bene in Abruzzo (29,7%), nel Molise (27,3%) e nell’Italia insulare, ottenendo il 30,5% in Sardegna e il 26,3% in Sicilia. Nel Nord-Ovest ha ottenuto il 22,7%, mentre le zone dove il M5S è andato peggio sono la Zona Rossa (19,1%) e soprattutto il Nord-Est (17%). Per quanto riguarda Forza Italia, il partito di Berlusconi ha ottenuto quasi il 17% a livello nazionale, con una distribuzione territoriale del voto più simile al M5S che al Pd. Anche Forza Italia, come il movimento di Grillo, ottiene la sua percentuale migliore, ossia il 20,6%, al Sud: in particolare buone percentuali vengono raggiunte dal partito di Berlusconi in Campania (quasi il 24%), in Puglia (23,5%), nel Molise (23,4%) e in Sicilia (21,3%). Per quanto riguarda le altre zone geopolitiche, Forza Italia nella Zona Rossa è oramai divenuto un partito di medie dimensioni (12,2%), ma non va bene neanche nel Nord-Ovest (15,2%) e nel Nord-Est (15,6%). Il dato del Nord-Est è significativo perché comprende il lombardo-veneto, ossia la zona economicamente più dinamica del paese che in passato era stata una delle zone di forza elettorale del partito di Berlusconi. In quest’area del paese né Forza Italia né il M5S ottengono percentuali soddisfacenti. L’analisi della distribuzione territoriale del voto ci mostra quindi che sia Forza Italia sia il M5S sono partiti caratterizzati da una meridionalizzazione del loro elettorato rispetto al Pd di Renzi. Per quanto riguarda gli altri partiti, solo la Lega Nord di Matteo Salvini, il Nuovo Centrodestra-Udc e la lista Un’altra Europa con Tsipras hanno superato la soglia del 4% ottenendo seggi nel Parlamento Europeo. La Lega, cavalcando posizioni euroscettiche simili a quelle cha hanno portato al successo del Front National di Marine Le Pen in Francia e dello Ukip di Nigel Farage in Gran Bretagna, ha ottenuto un buon 6,2% a livello nazionale così distribuito nelle diverse aree del paese: 7,1% nel Nord-Ovest; 14,1% nel Nord-Est (raggiungendo quasi il 20% in Veneto); 3,6% nella Zona Rossa e 1% al Sud (dove comunque si è presentata e ha raccolto voti). L’Ncd-Udc ha preso il 4,4% a livello nazionale, grazie soprattutto alla sua forza al Sud dove ha ottenuto il 6,2%, mentre la lista Un’altra Europa con Tsipras con il 4% è riuscita ad ottenere eletti ed è il partito più nazionale grazie a una distribuzione del voto molto omogenea tra le diverse zone geopolitiche del paese.

    Tab. 1 – I risultati elettorali alle europee 2014 disaggregati per zona geopolitica, in valori assoluti e percentuali

       

    Per avere un quadro ancora più completo del risultato di queste elezioni europee, si è deciso di procedere al confronto tra i voti ottenuti dai principali partiti in queste elezioni europee e i voti ottenuti nelle precedenti elezioni europee del 2009 e alle politiche del 2013, riportando nelle tabelle 2 e 3 sia i valori assoluti che le variazioni percentuali, disaggregate per zona geopolitica. Tra il 2009 e il 2014 il sistema partitico italiano è profondamente mutato: sulla scena sono entrati nuovi attori politici, in primis il M5S e altri partiti hanno cambiato nome, altri sono sorti da scissioni e così via. Ad esempio l’Ncd di Alfano è nato da una scissione del Pdl (poi tornato a chiamarsi Forza Italia) e alle recenti europee si è presentato in alleanza elettorale con l’Udc. Per procedere al confronto, si è pertanto deciso di riaggregare alcuni partiti dello stesso blocco politico (Chiaramonte 2007) prendendo come punto di riferimento l’offerta politica alle europee del 2014. Pertanto i voti di Forza Italia delle recenti europee sono stati sommati ai voti dell’Ncd-Udc: in questa maniera si può comparare i voti dell’area allargata di Forza Italia con quelli ottenuti in passato dal Pdl e dall’Udc[3]. Una procedura analoga è stata seguita nel caso di Scelta Europea, ossia un cartello elettorale a sostegno del candidato dell’Alde alla Commissione UE Guy Verhorstadt composto da Centro Democratico, Fare per Fermare il Declino e Scelta Civica. Pertanto i voti di Scelta Europea sono stati confrontati con la somma dei voti ottenuti alle elezioni politiche del 2013 dai partiti che hanno dato vita a questo cartello elettorale (con l’aggiunta dei voti di Fli, alleato di Monti nel 2013). Infine l’ultimo aggregato di partiti è quello dei partiti a sinistra del Pd, composto dalla somma dei voti di Un’altra Europa con Tsipras, Verdi ed Idv[4].

     

    Tab. 2 – Perdite e guadagni dei principali partiti disaggregati per zona geopolitica, europee 2014 e politiche 2013 (valori assoluti e variazioni percentuali)


    Tab. 3 – Perdite e guadagni dei principali partiti disaggregati per zona geopolitica, europee 2014 ed europee 2009 (valori assoluti e variazioni percentuali)

    Nelle elezioni politiche dell’anno scorso l’affluenza è stata del 75,2%. In queste europee, come detto in precedenza, la partecipazione al voto si è fermata sotto al 60%. Sono quindi rimasti a casa quasi 6,5 milioni di elettori. Ciononostante, il Pd di Renzi non solo ha migliorato la propria performance in termini percentuali passando dal 25,4% al 40,8%, ma ha addirittura preso circa 2,5 milioni di voti in più. Con un calo così marcato dell’affluenza, sarebbe bastato che Renzi avesse preso gli stessi voti di Bersani per avere una percentuale di voti più alta. Invece ne ha presi di più. Da qui il successo “storico” del Pd, che ha distanziato il partito arrivato secondo (il M5S) di circa 20 punti percentuali. Rispetto ai voti ottenuti alle politiche, quindi, il Pd ha incrementato il proprio elettorato del 29,3%. La zona dove il Pd ha registrato l’incremento migliore è stato il Nord-Est, dove il partito di Renzi ha aumentato i propri voti del 36,3% rispetto alle politiche. Ancora una volta si deve sottolineare quindi l’ottima performance elettorale del Pd nella zona produttiva del paese, dove in passato la sinistra non aveva mai “sfondato” in termini elettorali. Al Sud invece l’incremento è stato del 21,9%, meno che nelle altre aree del paese. Se il termine di paragone sono le europee del 2009, il miglioramento del Pd è stato ancora più netto, prendendo oltre 3 milioni di voti in più (+40%). E ancora una volta è il Nord-Est la zona dove l’incremento di voti è più marcato, pari al 66,7% dei suoi consensi del 2009.

         Il M5S ha perso invece quasi 3 milioni di voti per strada rispetto alle politiche, ossia il 33,3% dei suoi consensi del 2013. Il Nord-Ovest è la zona del paese dove l’arretramento del M5S è stato nettamente più marcato: in questa aerea del paese 308.937 elettori hanno abbandonato il partito di Grillo, ossia il 44,3% di chi aveva votato il M5S nella parte nord-occidentale del paese. Le perdite minori si sono invece registrate al Sud (-31,6%). L’area allargata di Forza Italia (Fi + Ncd-Udc), rispetto alle politiche del 2013, ha perso quasi 2 milioni e mezzo di voti, ossia il 29% del suo elettorato nel 2013. Le perdite maggiori si registrano in questo caso al Sud, con un decremento pari 32,1%. Se il Sud è la Zona del paese dove questo blocco di centrodestra ottiene le percentuali migliori, è però anche la zona dove subisce le defezioni maggiori rispetto alle scorse politiche. Se il termine di paragone sono le europee del 2009, il peggioramento è stato ancora più netto, lasciando per strada quasi 7 milioni di voti (-54,5%). In questo caso l’area allargata di Forza Italia subisce le perdite maggiori, pari al 62%, nella Zona Rossa.

         Tra gli altri partiti solo la Lega può essere soddisfatta. Ha aumentato i suoi voti sia in percentuale che in valori assoluti, rispettivamente più 2,1 punti percentuali e più 300.000 voti, ossia un incremento del 21,3% rispetto ai suoi elettori del 2013. In particolare è al centro (+109,1%) e al Sud (+306,3%) che il partito di Salvini registra gli incrementi maggiori, pur attestandosi in queste zone su percentuali di voto comunque basse. Può essere in ogni caso un segnale di come la campagna anti-euro della Lega sia servita a farla uscire dalle proprie zone di tradizionale radicamento, utilizzando una issue spendibile a livello nazionale e non solo regionale. Anche Fratelli d’Italia-An di Giorgia Meloni ha fatto la campagna elettorale puntando sull’euroscetticismo, non riuscendo però a raggiungere la soglia del 4% (fermandosi al 3,7%). Tuttavia ha aumentato i propri voti rispetto alle politiche del 2013 (+50,7%), con gli incrementi maggiori nel Nord-Est (+68,9%) e nella zona Rossa (+63,7%).

        Tra gli altri partiti le perdite più pesanti riguardano Scelta Europea che ha preso solo 200.000 voti, lasciando per strada più di tre milioni di voti rispetto alle politiche, ossia il 94,4% del suo elettorato, con una débâcle totale nel Nord-Ovest. Anche l’aggregato della sinistra radicale ha perso il 17,6% dei suoi elettori rispetto alle politiche, registrando le perdite maggiori al Sud (-35,9%), mentre nel Nord-Ovest aumenta i propri voti (+2,7%). Se il termine di paragone sono le europee del 2009, le perdite sono state ancora più nette, lasciando per strada quasi 3 milioni di voti (-65,5%).

     

    Fig. 1 – Perdite e guadagni 2014-2013 in valore assoluto

      

    Le perdite e i guadagni dei vari partiti tra politiche ed europee in termini assoluti sono riportate per facilitare il lettore anche nella Figura 1, da cui il successo del Pd risulta ancora una volta più evidente. E tale successo si è verificato in un contesto elettorale che non era favorevole al Pd. Infatti le elezioni europee sono “second order elections” (Reif e Schmitt 1980), in cui la posta in gioco è minore (o è percepita come tale) rispetto alle elezioni politiche (quando invece in palio c’è il governo del proprio paese) e gli elettori si sentono più liberi nelle loro scelte elettorali, nel caso punendo nelle urne i partiti di riferimento quando si ritiene che non stiano svolgendo un’azione politica efficace e consona alle proprie aspettative. Secondo questa prospettiva, quindi, le elezioni per il PE sono un’arena elettorale particolarmente favorevole per i partiti all’opposizione e per quelli di protesta, mentre i partiti al governo (come il Pd) di solito sono svantaggiati in base alla teoria del ciclo elettorale (Reif e Schmitt 1980; van der Eijk e Franklin 1996), a meno che le europee non si tengano a ridosso delle ultime elezioni politiche, quando il governo è di solito ancora in “luna di miele” con il proprio elettorato. Da questo punto di vista è vero che il governo Renzi si è insediato da poco più di due mesi ed è ancora in una fase in cui riscuote una grande fiducia, ma allo stesso tempo Renzi portava il “peccato originale” di essere arrivato al governo senza passare dalla legittimazione del voto popolare, in una fase per di più di crisi economica ed alta disoccupazione. Nel resto d’Europa la teoria sulle elezioni di secondo ordine è stata confermata dal momento che i partiti di governo sono andati male (con la parziale eccezione della Cdu di Angela Merkel). Da noi è stato il contrario. Non solo il Pd ha vinto, ma ha incrementato i propri voti rispetto alle politiche divenendo il primo partito in termini di seggi all’interno del Partito Socialista Europeo (31 seggi su 191 del PSE, ossia il 16% del partito europeo di riferimento) e il primo partito in Europa in valori assoluti. Il paradosso italiano è che allo stesso tempo il M5S, che rispetto alle politiche ha perso quasi tre milioni voti in un’arena elettorale potenzialmente favorevole come quella delle europee in base alla teoria delle elezioni di secondo ordine, è comunque risultato, in valori assoluti, il primo partito anti-establishment in Europa. Sicuramente quindi l’Italia rappresenta un caso interessante e peculiare nel contesto europeo. La schiacciante e “storica” vittoria elettorale del Pd rappresenta una forte legittimazione per il governo di Matteo Renzi, che ha saputo condurre il Pd a un risultato sopra le attese. Questo non significa che il Pd ha prenotato la vittoria alle prossime elezioni politiche. Come le ultime elezioni del 2013 hanno dimostrato, l’incertezza e la volatilità elettorale è il tratto saliente della politica italiana ai nostri giorni. I voti, una volta presi, vanno mantenuti e questo dipenderà dall’efficacia dell’azione di governo e dalla sua capacità riformatrice.


    [1] Le zone in questione sono il Nord-Ovest (Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta), il Nord-Est (Lombardia, Veneto, Friuli V. G. e Trentino A. A.), la Zona Rossa (Emilia Romagna, Toscana, Marche e Umbria) e il Sud (Lazio, Molise, Abruzzo, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna).

    [2] Per un approfondimento sulle caratteristiche della subcultura rossa e sul comportamento elettorale delle regioni che ne fanno parte si veda Baccetti e Messina (2009), Diamanti (2010), Floridia (2010) e De Sio (2011).

    [3] In particolare, alle europee del 2009 si considera la somma dei voti di Pdl e Udc, alle politiche del 2013 la somma dei voti di Pdl, Udc, Grande Sud e Mir (questi ultimi due partiti hanno presentato propri esponenti all’interno delle liste di Forza Italia alle Europee del 2014).

    [4] Alle europee del 2009 questo aggregato corrisponde alla somma dei voti di Prc e Comunisti Italiani, Sinistra e Libertà, Idv; alle politiche del 2013 corrisponde alla somma dei voti di Sel e Rivoluzione Civile.

  • La destra populista ed euroscettica: l’evoluzione della sua affermazione elettorale

     

    di Nicola Maggini

    La campagna elettorale per le elezioni del Parlamento Europeo (PE) è ormai cominciata e a questo punto è senza dubbio necessario dedicarci all’analisi dei protagonisti della politica europea, gli europartiti e i gruppi politici[1] presenti nel PE.

         Nel presente articolo analizziamo la storia elettorale e la composizione del Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia-Europe of Freedom and Democracy (EFD), gruppo politico che raccoglie i partiti della destra populista ed euroscettica (se non esplicitamente anti-euro ed anti-UE) all’interno del PE. L’EFD è nato come gruppo politico il 1 luglio 2009 e nelle ultime elezioni europee ha conquistato 32 seggi, corrispondenti al 4,3% del PE. Attualmente può contare su 31 deputati al PE appartenenti a 13 partiti di 12 Stati membri dell’UE.  In particolare, i partiti più importanti sono la Lega Nord, lo United Kingdom Independence Party (UKIP), il LAOS (partito cristiano ortodosso greco), il Partito del Popolo Danese, il Movimento per la Francia, il Partito Politico Riformato d’Olanda (SGP), il Partito dei Finlandesi (in precedenza noto come Veri Finlandesi) e il Partito Nazionale Slovacco (Tabella 1). L’EFD ha due copresidenti, Nigel Farage (UKIP) e Francesco Speroni (Lega Nord) che corrispondono alle due delegazioni più importanti del gruppo (8 e 7 deputati europei, rispettivamente). Il nuovo gruppo nasce dalla dissoluzione dei gruppi Indipendenza e Democrazia (IND/DEM) e Unione per l’Europa delle Nazioni (UEN). Alcune delegazioni dell’EFD (quella Inglese, Danese, Francese e Finlandese) hanno partecipato attivamente alla campagna contro la ratifica del trattato di Lisbona durante il secondo referendum in Irlanda (ottobre 2009). Tra il 2009 e il 2011 il Partito della Libertà Austriaco (FPÖ) ha negoziato la propria entrata nell’EFD, incontrando però il veto da parte di diversi partiti del gruppo parlamentare, tra cui l’SGP, l’UKIP e il Partito Nazionale Slovacco. Nell’EFD sono comunque entrati nel corso della legislatura altri eurodeputati, come ad esempio l’italiano Magdi Allam (attualmente esponente di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale) nel dicembre 2011, dopo essere uscito dalla Unione dei Democratici Cristiani e di Centro del gruppo del PPE. I quattro eurodeputati di Polonia Solidale sono usciti dal gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ERC) il 26 dicembre 2011, e sono entrati nell’EFD. Infine nel settembre del 2013, il Fronte Nazionale per la Salvezza della Bulgaria (partito nato nel 2011) è entrato nel gruppo. Oltre ai nuovi ingressi, nel corso del tempo ci sono state anche alcune espulsioni e defezioni, soprattutto verso il gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR).

         La maggior parte dei partiti dell’EFD fanno parte dell’europartito Movimento per un’Europa della Libertà e della Democrazia – Movement for a Europe of Liberties and Democracy (MELD), eccetto l’UKIP. Nel novembre 2013 la Lega Nord (che faceva parte del MELD) è entrata nell’ europartito Alleanza Europea per la Libertà – The European Alliance for Freedom (EAF), composto da partiti della destra populista ed anti-euro come il francese Front National di Marine Le Pen, il belga Vlaams Belang, l’austriaco FPÖ (tutti partiti non iscritti ad alcun gruppo nel PE) e i Democratici Svedesi (che non ha eletti nel PE). L’EAF è stato fondato nel 2010 ed è stato riconosciuto dal PE nel 2011. Il ruolo e l’importanza del partito è destinata ad espandersi nelle prossime elezioni europee del maggio 2014, quando potrà contare sul supporto del Fronte Nazionale francese, del Partito per la Libertà (PVV) dell’olandese Geert Wilders, del fiammingo Vlaams Belang, del Partito della Libertà Austriaco (FPÖ), dei Democratici Svedesi, del Partito Nazionale Slovacco e della Lega Nord. Il Partito Danese del Popolo, l’UKIP e Alternativa per la Germania (AFD) hanno rifiutato di aderire alla nuova alleanza, mentre i partiti nazionalisti europei più radicali e antisemiti come il Partito Nazionale Democratico di Germania, il British National Party, la greca Alba Dorata e l’ungherese Jobbik non sono stati autorizzati a far parte dell’alleanza. D’altronde in questa sede non ci occupiamo dei partiti della destra radicale e neofascista. Il minimo comune denominatore dei partiti aderenti al MELD e all’EAF è costituito dall’orientamento politico conservatore, dall’avversione nei confronti dell’Europa e dal populismo, che punta a capitalizzare dal punto di vista elettorale la distanza che si è venuta a creare fra i governanti e i governati in molti paesi europei e il malcontento popolare che si è generato in seguito a fenomeni epocali come la globalizzazione dei mercati, l’immigrazione di massa e la crisi economica globale dopo il crollo di Wall Street nel 2008. La sfida populista portata avanti da questi partiti si basa di solito sulle capacità comunicative e carismatiche di un leader per coagulare attorno ad un unico progetto politico il senso di sfiducia che il cittadino medio avverte di fronte alle difficoltà tipiche delle democrazie moderne. La sfida cioè che un Leader, posto a capo di un Popolo ritenuto depositario di ogni virtù, rivolge ad un Palazzo ritenuto albergo di ogni vizio [Tarchi 2003].

     

    Tab. 1 – Elenco dei partiti membri dell’EFD o aderenti all’EAF alla vigilia delle elezioni europee del 2014.

    Come detto in precedenza, l’EFD nasce dalla dissoluzione dei gruppi Indipendenza e Democrazia (IND/DEM) e Unione per l’Europa delle Nazioni (UEN). Il gruppo Unione per l’Europa delle nazioni era un gruppo politico del Parlamento europeo nato nel 1999 che raccoglieva fino a giugno 2009 i parlamentari europei che facevano riferimento a valori d’ispirazione nazional-conservatrice e orientativamente di destra e che appartenevano al partito politico europeo Alleanza per l’Europa delle Nazioni (AEN). Dell’UEN faceva parte, tra gli altri, Alleanza Nazionale. L’UEN era a sua volta l’erede dell’Unione per l’Europa (UPE), gruppo parlamentare europeo costituitosi il 6 luglio 1995 a seguito della confluenza fra due distinti gruppi politici: l’Alleanza Democratica Europea (di orientamento nazional-conservatore, il cui principale partito politico era il francese Raggruppamento per la Repubblica) e Forza Europa (di matrice liberal-conservatore e cristiano democratico, costituito da Forza Italia). Sia l’RPR che Forza Italia poi abbandonarono tra il 1998 e il 1999 l’UPE per aderire al PPE. Il gruppo Indipendenza e Democrazia raccoglieva invece i deputati di matrice euroscettica democratica o nazionalista. Il gruppo nacque nel 2004, erede del gruppo Europa delle Democrazie e delle Diversità, raggruppando partiti euroscettici regionalisti o nazionalisti (tra cui la Lega Nord e l’UKIP) che facevano riferimento ai partiti europei EU Democrats e Alleanza dei Democratici Indipendenti in Europa. L’Europa delle Democrazie e delle Diversità era a sua volta l’erede dell’Europa delle Nazioni (EDN), gruppo parlamentare europeo che comprendeva partiti che si richiamavano all’euroscetticismo conservatore. Alla sua fondazione constava di 19 membri, di cui facevano parte il Movimento per la Francia, il Partito Costituzionale Riformato, il Movimento di Giugno, il Movimento Popolare contro l’UE. Il gruppo nacque nel 1994 per poi assumere nel 1996 la denominazione di Indipendenti per l’Europa delle Nazioni. Infine nel 1999 diede luogo, appunto, al gruppo dell’Europa delle Democrazie e delle Diversità. Da quanto detto sinora, quindi, i partiti della destra euroscettica si danno un vero e proprio coordinamento a livello di PE solo a partire dal 1994, quando nasce l’EDN. La Figura 1 mostra l’andamento elettorale, misurato come percentuale di seggi ottenuti al PE, dei gruppi parlamentari della destra euroscettica che si sono succeduti nel corso del tempo: Europa Delle Nazioni (EDN, poi gruppo degli Indipendenti per l’Europa delle Nazioni), Europa delle Democrazie e delle Diversità (EDD), Indipendenza e Democrazia (IND/DEM) e Unione per l’Europa delle Nazioni (UEN), e, infine, Europa della Libertà e della Democrazia-Europe of Freedom and Democracy (EFD).  

    Fig. 1 – Andamento elettorale dell’EFD e dei suoi predecessori. Percentuale di seggi nel PE, 1994-2009.

    Come si può vedere i gruppi della destra euroscettica (che inizialmente nel 1994 avevano ottenuto il 3,4% dei seggi nel PE), mostrano un netto incremento del proprio rendimento elettorale tra il 1999 e il 2004, più che raddoppiando i propri seggi nel PE (il 7,3% nel 1999 e l’8,7% nel 2004). Alle ultime elezioni europee del 2009, invece, la destra euroscettica dimezza i propri seggi rispetto a cinque anni prima, passando al 4,3%. Questo dato però può essere fuorviante, per due motivi: 1) nel 2009 non fanno parte dell’EFD alcuni importanti partiti della destra populista ed anti-euro, tra cui il Front National di Marine Le Pen, il fiammingo Vlaams Belang, l’austriaco FPÖ, l’olandese PVV, dal momento che sono tutti partiti non iscritti ad alcun gruppo nel PE; 2) nella Fig. 1 abbiamo conteggiato per le elezioni del 1999 e del 2004 anche i seggi dell’UEN, ma di questo gruppo parlamentare facevano parte anche partiti importanti come Alleanza Nazionale, il partito repubblicano irlandese Fianna Fáil, il portoghese Centro Democratico Sociale-Partito Popolare, il partito polacco Diritto e Giustizia (dal 2004), che successivamente entreranno a far parte di gruppi parlamentari afferenti a famiglie politiche tradizionalmente pro-Europa o in ogni caso solo moderatamente euroscettiche. Nel 2006 il CDS aderì al gruppo del PPE. Nel 2009 il Fianna Fáil aderì all’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa; Alleanza Nazionale confluì nel Popolo della Libertà aderente al Gruppo del Partito Popolare Europeo e Diritto e Giustizia formò insieme ai conservatori britannici e cechi il gruppo dei Conservatori e dei Riformisti europei.

    Per la ragioni sopra enunciate, la Fig. 2 riporta gli stessi dati della Fig.1, escludendo però i seggi dell’UEN.

     

    Fig. 2 – Andamento elettorale dell’EFD e dei suoi predecessori (escludendo l’UEN). Percentuale di seggi nel PE, 1994-2009.

    Come si vede, con l’esclusione del gruppo dell’UEN il rendimento elettorale dei gruppi parlamentari della destra euroscettica risulta molto più costante nel corso del tempo. In questo caso, nel 1999 la percentuale di seggi è inferiore al 1994 (2,6% vs 3,4%) e la percentuale massima ottenuta (il 5,1% del 2004) non è troppo lontana dalla percentuale di seggi dell’EFD alle ultime elezioni (il 4,3% nel 2009).

    A questo punto per avere un quadro più completo della forza elettorale della destra populista euroscettica ed anti-Euro (quando non anti-UE) in Europa, riportiamo in chiave diacronica i risultati elettorali alle elezioni europee, espressi in termini percentuali, dei partiti attualmente membri dell’EFD o aderenti all’EAF per ciascuno dei paesi membri dell’UE (Tab.2).

    Tab. 2 – Risultati elettorali dei partiti dell’EFD e della destra populista ed anti-europeista (aderenti all’EAF) nei paesi membri dell’UE alle elezioni europee (1979-2009).


    I dati mostrano che i partiti della destra populista ed anti-europeista raggiungono delle percentuali ragguardevoli in alcuni paesi a partire dagli anni ’90, quando si supera il 22% in Austria e in Francia (in questo caso solo nel 1994); nel 2004 le percentuali di voto maggiori oscillano tra il 14 e il 17% in Belgio (14,3%), Regno Unito (15,6%) e Francia (17,4%); infine alle ultime elezioni europee del 2009 percentuali tra il 12 e il 24% vengono raggiunte in Austria (12,9%), Danimarca (15,3%), Lituania (12,2%), Olanda (23,8%) e Regno Unito (15,9%). Tra i paesi facenti parti dell’Unione fin dal 1979, l’Olanda e il Belgio sono quelli che mostrano una presenza elettorale della destra euroscettica e populista di più lunga data (dal 1979 in Olanda e dal 1984 in Belgio). In Olanda alle ultime europee del 2009 c’è stato un vero e proprio exploit elettorale di questi partiti, soprattutto grazie al successo del PVV. Anche la Francia vanta una tradizione elettorale di questo tipo, con percentuali attorno all’11% già nel 1984, mentre nel Regno Unito il successo dell’UKIP alle elezioni europee è più recente (a partire dal 2004). Infine, in Italia la percentuale elettorale maggiore è stata raggiunta dalla Lega Nord alle ultime europee del 2009 con il 10,2%.  

         In conclusione, le prossime elezioni europee potrebbero essere un punto di svolta per i partiti della destra populista anti-euro, dal momento che ci sono alcuni presupposti importanti che ne possono favorire il successo elettorale. In primo luogo le elezioni europee costituiscono un contesto tradizionalmente favorevole per i partiti di opposizione in base alla teoria delle “second order elections” [Reif e Schmitt 1980], ossia sono elezioni in cui la posta in gioco è minore (o è percepita come tale) rispetto alle elezioni politiche (quando invece in palio c’è il governo del proprio paese) e gli elettori si sentono più liberi nelle loro scelte elettorali, nel caso punendo nelle urne i partiti di riferimento quando si ritiene che non stiano svolgendo un’azione politica efficace e consona alle proprie aspettative. Secondo questa prospettiva, quindi, le elezioni per il PE sono un’arena elettorale particolarmente favorevole per i partiti di protesta all’opposizione, mentre i partiti al governo di solito sono svantaggiati in base alla teoria del ciclo elettorale [Reif e Schmitt 1980; van der Eijk e Franklin 1996]. Inoltre, sulla scia della più dura crisi economica dalla seconda guerra mondiale, in diversi paesi europei vi è stato un aumento dei partiti anti-establishment che apertamente si oppongono alle politiche di austerità dell’UE e all’integrazione europea. E alle prossime elezioni europee del maggio 2014 questi partiti hanno l’obiettivo di portare le protesta anti-europea direttamente all’interno delle istituzioni dell’Unione Europea, in primis il PE. Paradossalmente, potrebbero essere le prime elezioni europee in cui le tematiche riguardanti l’Unione Europea vengono poste al centro della campagna elettorale grazie soprattutto ai partiti anti Europa. Da elezioni di secondo ordine, cioè, potrebbero diventare elezioni di primo ordine anche in virtù di un voto in Europa contro l’Europa.

     

     

     

     

     

    [1] La sovrapposizione tra gruppo e partito non è totale, come sottolineato da Bardi [2002]. Alcuni partiti nazionali fanno parte di un gruppo parlamentare nel PE pur non essendo membri dell’europartito. In questa sede ci dedichiamo soprattutto all’analisi dei gruppi politici.

  • L’evoluzione dell’affluenza alle elezioni europee dal 1979 al 2009

    di Nicola Maggini

     

    Le elezioni europee che si terranno tra il 22 e il 25 maggio 2014 (a seconda del paese) potrebbero acquisire, a detta di molti osservatori, una centralità e una rilevanza molto più ampia che in passato. Per capirlo, sarà opportuno vedere quanti cittadini europei si recheranno alle urne per scegliere i loro rappresentanti nel Parlamento Europeo. Infatti, nel campo degli studi elettorali, le elezioni europee sono sempre state considerate come second order elections [Reif e Schmitt, 1980], ossia elezioni in cui la posta in gioco è minore (o è percepita come tale) rispetto alle elezioni politiche (quando invece in palio c’è la formazione del governo del proprio paese) e di conseguenza la partecipazione al voto è minore rispetto alle elezioni nazionali. Per capire il risultato in termini di partecipazione elettorale delle imminenti elezioni europee è pertanto necessario avere un quadro chiaro di quella che è stata l’evoluzione storica dell’affluenza nel corso delle sette elezioni europee che si sono tenute tra il 1979 e il 2009. La Figura 1 riporta, in chiave diacronica e in valori percentuali, l’affluenza registrata ad ogni tornata elettorale nel totale dei paesi dell’Unione Europea. Come si vede, c’è un chiaro trend decrescente nel corso del tempo nei tassi di partecipazione: si passa infatti dal 62% di votanti nel 1979 al 43% nel 2009, ossia un calo di ben 19 punti percentuali. Il calo maggiore si registra tra le elezioni del 1994 e quelle del 1999, quando la percentuale di votanti nella Ue passa dal 56,7% al 49,5%. Dal 1999 in poi, quindi, la maggioranza assoluta dei cittadini europei ha disertato le urne, indebolendo ulteriormente il processo di legittimazione democratica delle istituzioni europee. Questo dato sul calo complessivo della partecipazione elettorale (che già non partiva da livelli particolarmente elevati), potrebbe in realtà nascondere al suo interno livelli e trend di partecipazione molto differenziati a seconda del paese considerato. Si deve sottolineare, infatti, come nel corso del periodo storico considerato l’Unione Europea si sia allargata a un numero crescente di paesi membri, ognuno dei quali portava con sé la propria “tradizione” in termini di partecipazione elettorale. Alle prime elezioni del 1979 i paesi membri erano nove: Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Regno Unito, Danimarca e Irlanda. A partire dalle elezioni del 1984 si è aggiunta la Grecia (che era entrata nella Ue nel 1981). Alle elezioni del 1989 e del 1994 i paesi membri erano 12, grazie all’entrata nella Ue di Spagna e Portogallo nel 1986. I paesi membri sono poi saliti a 15 alle elezioni del 1999, grazie all’ingresso nella Ue di Austria, Svezia e Finlandia nel 1995. Infine, a partire dal 2004 anche i cittadini dei paesi dell’Europa dell’Est hanno partecipato alle elezioni europee. In particolare, 10 paesi hanno aderito alla Ue nel 2004 (Polonia, Ungheria, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Cipro e Malta) e due nel 2007 (Bulgaria e Romania). Si è passati quindi dai nove paesi iniziali del 1979 ai 27 paesi del 2009: per forza di cose, quindi, l’eterogeneità politica, anche in termini di partecipazione elettorale, è aumentata nella Ue nella serie storica qui considerata.

         La Tabella 1 riporta i tassi di partecipazione elettorale di ciascun paese dell’UE nel corso del tempo. Come si vede, l’eterogeneità è molto elevata: si va da paesi caratterizzati da livelli molto elevati di partecipazione a paesi con livelli di partecipazione particolarmente bassi. Tra i primi sono collocati senza dubbio il Belgio e il Lussemburgo con un’affluenza sempre attorno al 90% tra il 1979 e il 2009 (e questo fenomeno senza dubbio è dovuto al fatto che in entrambi i paesi il voto è obbligatorio), ma livelli abbastanza elevati di partecipazione, anche se con un trend decrescente nel corso del tempo, li registrano anche la Grecia (in particolare fino al 2004) e, soprattutto, Malta e l’Italia. Nel secondo gruppo di paesi rientrano invece la maggior parte dei paesi dell’Est: in particolare, in Polonia, Romania, Slovenia, Slovacchia, la partecipazione oscilla tra il 17 e il 30% circa. Livelli bassi di partecipazione elettorale li mostra fin dall’inizio anche uno dei paesi fondatori dell’Ue, ossia il Regno Unito (che si attesta sempre sotto al 40% dei votanti). In generale, vi è una tendenza alla diminuzione della partecipazione elettorale nel tempo, ma questa tendenza sembra essersi stabilizzata negli anni 2000: la maggior parte dei paesi ha raggiunto il minimo storico nel 1999 o nel 2004. Ci sono alcune eccezioni: Francia, Italia, Portogallo, Malta, Cipro, Ungheria e Lituania hanno raggiunto il loro minimo storico nel 2009 (non consideriamo i paesi che presentano pochi decimali di differenza rispetto al 2004 e si deve sottolineare che Malta, Cipro, Ungheria, Lituania hanno partecipato solo a due elezioni europee). Si deve notare, comunque, che la tendenza a lungo termine sembra essere quella di una omogeneizzazione verso livelli più bassi di affluenza. Infine, per quel che riguarda il caso italiano risalta il fatto che fino alle elezioni europee del 1989 (incluse) la partecipazione rimane molto alta, superiore all’80% e in generale l’Italia, come si è detto in precedenza, è uno dei paesi con uno dei livelli più alti di affluenza.

    Figura 1

    Tabella 1

        In base a quanto detto finora, quindi, il dato della partecipazione elettorale calcolato a livello complessivo di Unione Europea (presentato all’inizio dell’articolo), nascondeva al suo interno livelli e trend di partecipazione molto differenziati a seconda del paese considerato. Come prova ulteriore di questo fatto, abbiamo riportato l’affluenza media alle elezioni europee separata per gruppi di paesi. La Figura 2 riporta l’affluenza media, nel corso del tempo, per 4 gruppi di paesi: i 9 paesi iniziali (tutti dell’Europa occidentale), i tre paesi dell’Europa meridionale entrati nell’Ue negli anni Ottanta (Grecia, Spagna e Portogallo), i tre paesi dell’Europa centro-settentrionale entrati nell’Ue negli anni Novanta (Svezia, Austria e Finlandia) e infine i 12 paesi dell’Europa orientale entrati nella Ue nei primi anni Duemila (nel cui gruppo è stata conteggiata anche Malta, pur non ossendo ad Est). Il primo dato che emerge è che se si guarda al tasso di partecipazione separato per gruppi di paesi non si riscontra il calo quasi lineare riportato in Figura 1 (quando si considerava l’insieme della Ue). I nove paesi iniziali partono da un’affluenza media del 66% nel 1979 e raggiungono il loro minimo storico non nel 2009, ma nel 1999 (affluenza del 55%); dopo il ’99, l’affluenza aumenta di poco, attestandosi attorno al 58%. I paesi dell’Europa meridionale (esclusa l’Italia) partono da un livello di partecipazione elettorale molto simile a quello dei nove paesi inziali, ossia il 62% nel 1989 (nel 1984 invece c’era solo la Grecia, con un tasso dell’80,6% ben superiore a quello del gruppo dei nove paesi iniziali). Nel corso degli anni Novanta l’affluenza media nei tre paesi meridionali considerati è abbastanza simile a quella dei nove paesi iniziali e nel 1999 diventa persino maggiore (57,7% vs 55%). La divaricazione tra i due gruppi di paesi in termini di partecipazione elettorale avviene nelle ultime due elezioni: nel 2004 la partecipazione nei tre paesi meridionali considerati è inferiore di quasi 10 punti percentuali rispetto ai nove paesi iniziali e nel 2009 è inferiore di 13 punti percentuali (toccando il livello minimo, ossia il 44,8%). L’altro gruppo di tre paesi considerato (Austria, Svezia e Finlandia) parte da un livello molto basso di partecipazione (39,5% nel 1999) e nettamente inferiore sia rispetto al gruppo di nove paesi iniziali che al gruppo dei tre paesi meridionali (una differenza di quasi 20 punti percentuali). Tuttavia, il trend dell’affluenza in questo gruppo di paesi è in leggera crescita, arrivando al 43,9% nel 2009 e quindi di fatto eguagliando l’affluenza media del gruppo dei tre paesi meridionali. Infine, l’affluenza media del gruppo dei paesi dell’Europa orientale è la più bassa e diminuisce leggermente tra il 2004 (quando con il 40,4% era praticamente uguale a quella del gruppo composto da Svezia, Austria e Finlandia) e il 2009 (la più bassa con il 38,4%). Nel 2009 la differenza tra il gruppo di paesi con l’affluenza media più alta (i nove paesi iniziali) e il gruppo di paesi con l’affluenza media più bassa (i paesi dell’Europa orientale) è di ben 19,4 punti percentuali. In conclusione, possiamo affermare che il forte calo nel tasso di partecipazione elettorale verificatosi a partire dal 1999 nel complesso dell’Ue è causato in particolare dal calo di partecipazione dei tre paesi meridionali entrati nella Ue negli anni Ottanta e, ancora di più, dall’ingresso nella Ue di paesi con bassi livelli di partecipazioni alle elezioni europee (Austria, Svezia, Finlandia e in generale i paesi dell’Europa orientale). Al contrario, l’affluenza media del gruppo dei nove paesi iniziali tutto sommato rimane abbastanza stabile nel corso del tempo.

    Figura 2

    Nota: Le percentuali riportate sono medie non pesate delle percentuali di votanti a livello di paese

  • Le elezioni europee del 2014 in Italia: la situazione di partenza

     

    di Nicola Maggini e Vincenzo Emanuele

     

    Il 25 maggio 2014 si terranno in Italia le elezioni europee, che riguarderanno nel complesso i 28 stati membri dell’Unione Europea. Sono le ottave elezioni per il Parlamento Europeo a cui hanno partecipato i cittadini italiani a partire dal 1979. Come evidenziato in un articolo precedente, queste sono le prime elezioni che in base al Trattato di Lisbona porteranno alla elezione da parte del Parlamento Europeo (PE) del presidente della Commissione Europea, capo dell’Esecutivo europeo, sulla base di una proposta fatta dal Consiglio europeo, prendendo in considerazione il risultato delle elezioni (articolo 17, paragrafo 7 della TEU). Il sistema elettorale in vigore in Italia per la scelta dei rappresentanti da mandare al PE è un sistema proporzionale di lista con la possibilità di esprimere da una a tre preferenze per singoli candidati. In totale, all’Italia sono assegnati 73 seggi. Il territorio è diviso in cinque circoscrizioni elettorali: Nord-ovest (20 seggi), Nord-est (14 seggi), Centro (14 seggi), Sud (17 seggi), Isole (8 seggi); a ciascuna circoscrizione spetta un numero di seggi proporzionale al numero di abitanti risultante dall’ultimo censimento della popolazione. Per presentare una lista alle elezioni europee è necessario raccogliere le firme, per ogni singola circoscrizione, di almeno 30.000 e non più di 35.000 elettori, tranne nel caso in cui la lista abbia partecipato alla precedenti elezioni al Parlamento italiano o europeo con un proprio simbolo e ottenendo almeno un seggio. Per ottenere seggi nel PE ciascuna lista deve superare un soglia elettorale stabilita a livello nazionale, pari al 4% dei voti validi. Per le liste delle minoranze linguistiche è prevista la possibilità di collegamento con una lista nazionale: in tal caso i voti della lista linguistica andranno ad incrementare quelli della lista nazionale, ottenendo uno dei suoi seggi qualora un candidato linguistico ottenga almeno 50.000 suffragi.

         Nel campo degli studi elettorali, le elezioni europee sono sempre state considerate come second order elections [Reif e Schmitt, 1980], ossia elezioni in cui le questioni europee sono in secondo piano, mentre i partiti fanno campagna elettorale su temi e questioni prevalentemente nazionali su cui poi gli elettori basano le loro scelte di voto. Inoltre, le elezioni di secondo ordine sono elezioni in cui la posta in gioco è minore (o è percepita come tale) rispetto alle elezioni politiche (quando invece in palio c’è il governo del proprio paese) e di conseguenza la partecipazione al voto è minore e gli elettori si sentono più liberi nelle loro scelte elettorali, nel caso punendo nelle urne i partiti di riferimento quando si ritiene che non stiano svolgendo un’azione politica efficace e consona alle proprie aspettative. Secondo questa prospettiva, quindi, le elezioni per il PE costituiscono un laboratorio per i partiti per sperimentare nuove offerte elettorali e sono un arena elettorale particolarmente favorevole per i partiti all’opposizione e per quelli di protesta, mentre i partiti al governo di solito sono svantaggiati in base alla teoria del ciclo elettorale [Reif e Schmitt, 1980; van der Eijk e Franklin, 1996]. In particolare, i partiti di governo tendono a subire perdite quando le elezioni europee non si svolgono subito dopo le elezioni nazionali (quando solitamente i governi sono in “luna di miele” con gli elettorati), ma quando avvengono circa a metà legislatura.

          In base a quanto scritto fino ad ora, si capisce come le prossime elezioni europee in Italia rappresentino un interessante test elettorale per diversi attori politici. In primo luogo sono un importante test per il principale partito al governo, il PD. Infatti, tali elezioni cadono dopo poco più di un anno rispetto alle precedenti elezioni politiche, ma in realtà avvengono in un contesto politico del tutto nuovo determinato dalla nascita del governo Renzi nel febbraio 2014. Per Renzi e per la popolarità del suo governo da poco insediato, quindi, tali elezioni costituiscono un importante banco di prova. Lo stesso si può dire per i due principali partiti all’opposizione, in particolare per il M5S e per Forza Italia. Nel caso di Forza Italia, poi, la verifica elettorale avverrà in un momento delicato per la vita di questo partito, con il leader Silvio Berlusconi non solo interdetto dai pubblici uffici e quindi incandidabile, ma anche limitato (se non impossibilitato) nel fare campagna elettorale dal momento che ad aprile si saprà se Berlusconi dovrà espiare la pena ai servizi sociali o agli arresti domiciliari. Ma c’è un ulteriore motivo che rende tale tornata elettorale estremamente interessante: il fatto che quelle del maggio 2014 potrebbero essere le prime elezioni europee caratterizzate dalla rilevanza e dalla centralità delle questioni legate all’Unione Europea e al suo funzionamento, perdendo così il carattere di elezioni di secondo ordine. Infatti, l’attuale crisi dell’Eurozona (come effetto della crisi economica globale dovuta al crollo di Wall Street nel 2008) è iniziata alcuni mesi dopo le ultime elezioni del PE nel giugno 2009. Anche se ha interessato la maggior parte degli Stati membri dell’UE, le economie più colpite sono state quelle del sud Europa, tra cui appunto l’Italia. Con le dure misure di austerità imposte a questi paesi, il consenso delle istituzioni dell’UE presso l’opinione pubblica è significativamente diminuito. A tal proposito, sarà importante capire quale sarà la performance elettorale dei partiti euro-scettici (in primis il M5S, ma per certi aspetti anche Forza Italia), di quei partiti che chiedono apertamente l’uscita dell’Italia dalla zona Euro (Lega Nord e Fratelli d’Italia) e infine di quelli che chiaramente focalizzeranno la propria campagna elettorale sulla critica radicale alle misure di austerità imposte dall’Unione Europea (Lista Tsipras). I principali attori politici italiani, inoltre, fanno parte di ben determinate famiglie politiche europee, alcune delle quali hanno deciso che i partiti di riferimento in ogni paese si presenteranno alle elezioni dichiarando quale sarà il candidato alla presidenza della Commissione europea (che come si è visto in precedenza sarà poi eletto dal PE). In Italia, ad esempio, il PD (che da poco fa parte organicamente del PSE) sosterrà la candidatura del tedesco Martin Schulz (attuale presidente del PE e membro della SPD), mentre i partiti della sinistra radicale, assieme a esponenti della società civile e a SEL, hanno deciso di dar vita a una lista comune che già nel nome richiama il candidato del partito della Sinistra Europea, ossia il greco Alexis Tsipras, leader di Syriza. Del Partito Popolare Europeo (il cui candidato alla presidenza è il lussemburghese Jean-Claude Juncker) fanno invece parte Forza Italia, l’UdC e il NCD di Alfano. Il Centro Democratico di Tabacci, Fare per Fermare il Declino e Scelta Civica invece appoggiano il candidato del gruppo liberal-democratico (ALDE), ossia il belga Guy Verhofstadt. Infine, il M5S non aderisce a nessuna famiglia politica in seno al PE, mentre la Lega Nord e FdI faranno parte dello stesso gruppo del Front National di Marine Le Pen, ossia lo European Freedom and Democracy, che ha deciso di non indicare nessun candidato alla presidenza ritenendo una presa in giro la nuova normativa. Alle precedenti elezioni del 2009 (vedi tabella 1), in un contesto in cui l’affluenza era stata del 65,1%, il partito nettamente più votato era stato il PdL (membro del PPE), con il 35,3% dei voti (ottenendo 29 seggi), mentre il PD era arrivato secondo con il 26,1% (e 21 seggi). Ma il 2009 era un’altra era politica: c’era ancora il governo Berlusconi, la sua popolarità era ancora molto elevata e il suo partito era unito. In seguito, la crisi economica si è manifestata in tutta la sua gravità, numerosi scandali politici e giudiziari hanno riguardato i principali partiti e soprattutto Berlusconi, il governo di centrodestra è caduto ed è nato il governo tecnico di Monti, si è affermato sulla scena nazionale un nuovo attore politico come il M5S di Grillo, fino ad arrivare al “pareggio” e all’instabile risultato delle elezioni del febbraio 2013. Sicuramente oggi il quadro è completamente cambiato e non resta che attendere il 25 maggio per capire quali saranno i vincitori e i vinti delle prossime elezioni europee.

    Tabella 1 – Affluenza e risultati elettorali (in termini percentuali e in seggi) dei partiti italiani appartenenti alle principali famiglie politiche europee che hanno ottenuto seggi alle elezioni europee del 2009