Autore: Roberto D’Alimonte

  • La Toscana è sempre meno rossa, partita aperta tra Giani e Ceccardi

    La Toscana è sempre meno rossa, partita aperta tra Giani e Ceccardi

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 1 settembre

    La Toscana come l’Emilia-Romagna? Dopo decenni di dominio incontrastato del centrosinistra, in Toscana si profila una competizione aperta come lo fu a Gennaio di questo anno in Emilia-Romagna quando l’attuale presidente di regione Stefano Bonaccini dovette faticare non poco per battere la candidata della Lega e del centrodestra, Lucia Borgonzoni. Questo dice Il sondaggio Winpoll-Cise che registra una sostanziale parità tra il candidato di centrosinistra Eugenio Giani (con il 43,0%) e la candidata di centrodestra Susanna Ceccardi (con il 42,5%) (Figura 1). Come in Emilia-Romagna il primo è esponente del Pd e la seconda della Lega. Molto distaccati ci sono la candidata del M5S Irene Galletti che ottiene l’8,3%, e altri candidati minori cui è attribuito il 6,2% complessivamente.

    Fig. 1 – Intenzioni di voto ai candidati e liste

    Considerando che altri sondaggi indicano una situazione simile, con distacchi a favore di Giani al massimo di pochi punti, è difficile in questo momento prevedere chi vincerà. La Toscana non sono le Marche, altra regione rossa in cui però il centrodestra appare nettamente favorito (questo giornale). E non sono nemmeno la Campania dove il centrosinistra con De Luca ha un vantaggio difficilmente colmabile dal centrodestra (questo giornale). Va da sé che una eventuale sconfitta del Pd e alleati in Toscana avrebbe un valore politico e simbolico enorme. La partita è aperta, come lo era alla vigilia del voto anche in Emilia-Romagna. Lì è finita bene per il centrosinistra. Ma lì c’era Bonaccini e qui c’è Giani.

    Ma facciamo un passo indietro: da dove salta fuori questa Toscana competitiva? La regione è stata da sempre amministrata dal centrosinistra, e nelle ultime due legislature ha avuto come presidente Enrico Rossi. Già assessore alla sanità tra il 2005 e il 2010 con la precedente giunta Martini, Rossi si era candidato nella prima volta nel 2010 (con una coalizione che comprendeva anche la sinistra radicale) vincendo con il 59,8% (contro il 34,4% di Monica Faenzi candidata da Pdl e Lega). Nel 2015 (Figura 2) si è ricandidato e venne riconfermato (stavolta con il solo Pd più una lista riformista) con il 48,0%, contro il complessivo 29,1% dei due candidati separati del centrodestra (Borghi di Lega e FdI con il 20,0% e Mugnai di Fi con il 9,1%), e il 15,1% di Giannarelli del M5S e il 6,3% di Fattori della sinistra radicale. Un distacco tra centrosinistra e centrodestra che quindi è cambiato nel tempo: da oltre 25 punti a ancora quasi 20 punti, e tuttavia oggi annullato.

    Fig. 2 – Trend elettorali in Toscana nelle ultime tornate elettorali

    Cosa è successo in Toscana? In termini di evoluzione delle preferenze politiche, le elezioni del 2018 avevano registrato un forte rafforzamento del M5S (salito al 24,7%) quasi totalmente a danno del centrosinistra (Figura 2). Poi le europee del 2019 (anche se con un’affluenza ben più bassa, quindi meno utili a fini di previsione) hanno addirittura visto il centrodestra superare il centrosinistra (con un M5S dimezzato rispetto al 2018). La conclusione che se ne trae è che anche in Toscana si sono fortemente indeboliti quei fattori sub-culturali e organizzativi che per decenni ne hanno fatto una delle regioni della cosiddetta zona rossa.  

    È su questa evoluzione degli orientamenti politici dei toscani che si innestano alcuni potenziali punti deboli del candidato di centrosinistra Giani. Combinati con la forza impressa al centrodestra dalla linea più “populista” di Salvini e Meloni, capace di fare breccia già dalle europee del 2019, questi fattori di debolezza sono all’origine di questa situazione inaspettatamente competitiva. Anzitutto, Giani non è un incumbent, come lo era Bonaccini, e quindi non può beneficiare (come ad esempio De Luca in Campania e Zaia in Veneto) del giudizio positivo della maggioranza dei toscani per come il governo uscente ha amministrato la regione (54%) (Figura 3) e per come ha gestito l’emergenza Covid (64%).

    Fig. 3 – Operato del governo regionale

    In secondo luogo, la sua limitata visibilità e capacità di attrazione personale gli permette di raccogliere solo pochi voti in più di quelli dei partiti che lo sostengono. Infatti la differenza tra i voti a lui come candidato presidente e quelli della sua coalizione è di appena +1,4 punti (43% contro il 41,6%). Su questo piano nemmeno la Ceccardi va bene. Anzi, nel suo caso il bilancio è negativo, visto che le viene attribuito un 42,5% contro il 43,8% delle sue liste. E questo conferma che la sua competitività non è tanto dovuta alla sua popolarità quanto alla forza della Lega e alla crescita di Fratelli d’Italia. In terzo luogo, Giani, socialista craxiano di formazione e in passato vicino a Renzi, non sembra avere il profilo ideale per attrarre né gli elettori provenienti dal M5S (molti dei quali in Toscana provenivano storicamente da sinistra) né quelli della sinistra più radicale. Questo potrebbe essere per lui un grosso handicap perché il voto utile potrebbe risultare decisivo per dargli la vittoria. L’analisi dei flussi (Figura 4) però non depone a suo favore. Tra gli elettori M5S delle Europee, chi non sceglie la Galletti (M5S) si orienta in prevalenza verso la Ceccardi; e gli elettori ex Pd sono quelli che più degli altri risultano indecisi o potenziali astensionisti

    Fig. 4 – Flussi di voto tra europee e regionali

    Giani tuttavia è favorevole al referendum sul taglio dei parlamentari; una posizione che forse potrebbe essergli utile per attrarre voti M5S nel finale della campagna elettorale. Ma la questione è delicata. I toscani appaiono nettamente divisi, addirittura con una leggera prevalenza dei No (52% contro 48%) (Figura 5). E anche qui, come in altre regioni che abbiamo analizzato, si distinguono i leghisti come fautori del No. Una situazione competitiva, quindi, che lascia presagire un intenso finale di campagna elettorale.

    Fig. 5 – Il referendum costituzionale

    Nota metodologica

    Soggetto committente: Sole 24 Ore – Cise. Soggetto realizzatore: Winpoll – Cise. Periodo di realizzazione interviste: 27-28 agosto 2020. Popolazione di riferimento: popolazione toscana, maschi e femmine dai 18 anni in su, segmentata per sesso, età, comuni capoluogo e non, proporzionalmente all’universo della popolazione toscana. Metodo di campionamento: stratificato per provincia, comuni capoluogo e non, casuale ponderato per genere, fasce di età e voto alle ultime europee. Metodologia delle interviste: mista. Numero di interviste: 1000: 500 cati-cami (2317 rifiuti), 500 cawi. Margine di errore con intervallo di confidenza al 99%: 2,4%.

  • Marche, Acquaroli al 51,8%. Il centrodestra stacca Pd e M5S

    Marche, Acquaroli al 51,8%. Il centrodestra stacca Pd e M5S

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 30 agosto

    Tra le regioni al
    voto il 20-21 settembre, le Marche sono quelle dove l’esito è più carico di
    significato simbolico e politico. Simbolicamente, il dato rilevante è la
    probabile svolta al vertice. Tradizionale roccaforte rossa, la regione potrebbe
    passare sotto la guida del centrodestra dopo anni di amministrazione
    ininterrotta di centrosinistra. Secondo la stima Winpoll-CISE Francesco
    Acquaroli, candidato di Fratelli d’Italia ed espressione del centrodestra
    unito, sarebbe infatti in vantaggio di quasi 16 punti percentuali rispetto al
    candidato del centrosinistra Maurizio Mangialardi (Figura 1): 51,8% contro il 36,1%.
    Staccato e fuori partita il candidato del M5s Gian Mario Mercorelli (8,9%).

    Fig. 1 – Intenzioni di voto ai candidati e liste

    La partita dunque sarà
    decisa in un confronto tra centrosinistra e centrodestra, con i grillini, però,
    nel mezzo a fare da possibile ago della bilancia insieme con gli indecisi e
    l’area del non voto. Questi due ultimi gruppi pesano rispettivamente per il 24
    ed il 22% del campione.  Per recuperare
    lo svantaggio stimato, Mangialardi dovrebbe riuscire a mobilitare questi gruppi
    di elettori e attrarre voto utile, soprattutto grillino.  Né l’una né l’altra è cosa facile.

    Il bacino elettorale del M5s è esiguo (appena l’8,9%).
    Anche se Mangialardi riuscisse a convincere una parte di questo elettorato a
    votare per lui, il divario tra centrosinistra e centrodestra non verrebbe
    comunque colmato.  Dovrebbe recuperare
    anche voti dall’astensione. Per quanto gli elettori del M5s siano oggi ideologicamente
    più vicini al centrosinistra, ci sono diverse ragioni per cui l’opzione del
    voto utile a favore del candidato dem è difficilmente percorribile.

    In primis, la legge elettorale. Nelle Marche, al
    contrario di quanto accade in altre regioni, il voto disgiunto non è previsto.
    Gli elettori non possono votare per una lista e, contestualmente, per un
    candidato presidente non collegato a questa stessa lista. Per gli elettori del
    M5s, la possibilità del voto disgiunto avrebbe consentito di coniugare la
    “fedeltà” al Movimento (il voto “con il cuore”) con un voto utile a
    favore di Mangialardi. In assenza di questa possibilità, la risoluzione
    dell’eventuale conflitto tra fedeltà ed opportunità è tutt’altro che scontata.
    Per questo il mancato accordo su un candidato unico tra Pd e Movimento pesa qui
    ancor più che in altre regioni.

    Molto dipenderà, in secondo luogo, dall’appeal di Mangialardi. Quest’ultimo è senz’altro conosciuto (è sindaco di Senigallia e presidente dell’ANCI nelle Marche). Eppure, stando ai dati, la sua capacità di mobilitazione al di fuori dell’area di centrosinistra (in particolare tra gli elettori pentastellati) è limitata. Guardando i flussi di voto tra le Europee del 2019 e le stime delle regionali del 2020 (Figura 2), si vede che solo il 23% di chi che aveva votato M5s alle Europee dichiara oggi di voler votare per il candidato di centrosinistra. Un quarto si riversa su Acquaroli e un altro 23% si colloca tra gli incerti e gli astenuti. Tra questi ultimi gli ex elettori del Movimento formano un gruppo rilevante, di fatto contendibile, ma per il quale è difficile stabilire 1) se sarà disposto realmente a mobilitarsi; 2) in favore di quale candidato.

    Fig. 2 – Flussi di voto tra europee e regionali

    Grava inoltre su Mangialardi la debolezza del PD, a cui fa da contraltare la forte crescita di Lega e Fdi. Il PD è oggi stimato nelle Marche al 22,8%, non distante da quanto aveva ottenuto alle europee dello scorso anno (22,3%) (vedi Figura 3), ma ben 12,3 punti percentuali in meno rispetto alle regionali del 2015 quando ottenne il 35,1%.  In forte calo anche il M5s che alle regionali aveva preso il 18,9% e oggi invece è stimato all’8,9%.

    Fig. 3 – Trend elettorali nelle Marche nelle ultime tornate elettorali

    Nel centrodestra è sorprendente la crescita della Lega e, soprattutto di FdI rispetto alle precedenti regionali. Nel 2015 la Lega ottenne il 13% dei voti, mentre FdI si fermò al 6,5%. Oggi il partito di Salvini è stimato al 23,3%, mentre FdI al 18,1% (un divario di poco più di cinque punti percentuali). Il dato relativo a FdI non deve sorprendere visto che Acquaroli viene da lì e che il partito della Meloni è in crescita ormai da mesi. Il fatto però interessante (e che restituisce plasticamente l’evoluzione politica della regione) è che anche nel 2015 Acquaroli fu il candidato alla presidenza di Lega e FdI (ma non di Forza Italia in quell’occasione). Il successo del centrodestra di oggi, quindi, non sembra attribuibile alla forza del candidato presidente, quanto piuttosto ad un profondo mutamento degli orientamenti politici degli elettori marchigiani. Come l’Umbria, si può parlare anche delle Marche come di una ex regione della Zona Rossa.

    Un ultimo elemento è il mancato effetto Covid. Contrariamente a quanto accaduto in altre regioni (dove la buona gestione dell’emergenza ha offerto ai governatori uscenti la possibilità di rafforzare o rilanciare la propria immagine), la gestione della crisi sanitaria non sembra aver prodotto effetti particolarmente rilevanti sulle scelte di voto degli elettori marchigiani. L’amministrazione uscente di centrosinistra guidata da Luca Ceriscioli viene infatti ampiamente promossa sull’emergenza Covid: il 62% degli intervistati ritiene che la regione abbia gestito molto o abbastanza bene l’emergenza, con maggioranze assolute di giudizi positivi non solo tra gli elettori di PD e M5s, ma anche di Forza Italia e FdI. Un dato in linea con quanto accaduto in altre regioni al voto (è il caso di Zaia in Veneto e di De Luca in Campania). Eppure Mangialardi, che è stato preferito dal PD a Ceriscioli come candidato alla presidenza, non sembra aver raccolto i frutti di quella che viene considerata una buona gestione dell’emergenza.  C’è da chiedersi se non abbia fatto male il Pd a sacrificare Ceriscioli, che pure poteva correre per un secondo mandato.

    Infine il referendum sul taglio dei parlamentari. Come già rilevato in altre regioni, i SI prevalgono sui NO in modo piuttosto trasversale (unica eccezione, la Lega dove il sostegno al SI si ferma al 44%). Complessivamente i Sì sono il 61% (Figura 4). Più o meno quello che abbiamo visto nelle altre regioni. (lilyjackson.com.au)

    Fig. 4 – Il referendum costituzionale

    Nota metodologica

    Soggetto committente: Sole 24 Ore – Cise. Soggetto realizzatore: Winpoll – Cise. Periodo di realizzazione interviste: 25-27 agosto 2020. Popolazione di riferimento: popolazione marchigiana, maschi e femmine dai 18 anni in su, segmentata per sesso, età, comuni capoluogo e non, proporzionalmente all’universo della popolazione marchigiana. Metodo di campionamento: stratificato per provincia, comuni capoluogo e non, casuale ponderato per genere, fasce di età e voto alle ultime europee. Metodologia delle interviste: mista. Numero di interviste: 1000: 500 cati-cami (2621 rifiuti), 500 cawi. Margine di errore con intervallo di confidenza al 99%: 2,4%.

  • Liguria, Toti avanti con il 60%. Non decolla il patto Pd-M5S

    Liguria, Toti avanti con il 60%. Non decolla il patto Pd-M5S

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 28 agosto

    Giovanni Toti è avviato alla riconquista del suo secondo mandato alla guida della regione Liguria. Questo dice il sondaggio Winpoll-CISE, il terzo della serie dedicata alle regionali di settembre. Secondo la nostra stima sarebbe riconfermato con il 60,1% dei voti contro il 34,4% di Ferruccio Sansa, candidato della coalizione di centrosinistra che include – unicum fra le 7 regioni al voto il 20 e 21 settembre – anche il Movimento Cinque Stelle (Figura 1). Il numero di indecisi è ancora cospicuo (22%) ma comunque non sufficiente a ribaltare la sfida fra i due candidati principali.

    Fig. 1 – Operato del governo regionale e intenzioni di voto ai candidati

    Il sondaggio fotografa chiaramente il cambiamento dei rapporti di forza in questi anni a favore del centrodestra. Alle regionali del 2015 Giovanni Toti, alla guida di un centrodestra unito, era riuscito a conquistare la regione con poco più di un terzo dei voti (34,4%) (Figura 2). Ciò grazie alla frammentazione del campo progressista dove, oltre al centrosinistra (27,8%), competevano il M5S (24,8%) e la sinistra radicale di Luca Pastorino (9,4%). Oggi lo scenario è cambiato e Toti appare largamente favorito nonostante la riconfigurazione del sistema in senso bipolare.

    Fig. 2 – Trend elettorali in Liguria nelle ultime tornate elettorali

    Cinque anni fa un’alleanza fra M5S, PD e sinistra avrebbe quasi certamente vinto visto che la somma dei tre candidati di allora totalizzava 63,6%. Ma, si sa, la politica non è una somma algebrica. Oggi la coalizione a sostegno di Sansa vale poco più della metà dei voti di allora. E così il centrodestra si avvia a vincere per la prima volta una secondo mandato consecutivo in regione. Osservando le forze in campo si nota che la coalizione a sostegno di Sansa non è esattamente la stessa che a Roma sostiene Conte. Italia Viva si è infatti sfilata e sostiene il Prof. Aristide Massardo. Ci sono poi due ex pentastellate, Alice Salvatore e Marika Cassimatis, che corrono con due liste civiche. Nel complesso, però, queste tre candidature drenano pochi voti, complessivamente circa il 5%.

    Tradizionalmente la Liguria è stata una sorta di “swing state”, come l’Ohio o la Florida negli USA. Posta geograficamente al confine fra la Zona rossa e il Nord industriale, già nella Prima Repubblica si notava chiaramente la spaccatura fra il Levante ligure, che costituiva l’ultima propaggine della subcultura rossa, e il Ponente, che invece premiava la DC e i partiti di centrodestra. Nella Seconda Repubblica, la regione ha visto una quasi perfetta alternanza fra le due coalizioni del bipolarismo italiano, con il centrosinistra vincente 3 volte (nel 1995, 2005 e 2010) e il centrodestra due (2000 e 2015). Anche alle politiche c’è stato grande equilibrio a partire dal 1994, anche se l’ultima vittoria del centrosinistra risale al 2006. Da quel momento il pendolo ha iniziato a oscillare a favore del centrodestra, che alle politiche del 2018 è arrivato primo con il 37,3%, staccando il centrosinistra – terzo polo, superato anche dal M5S – di oltre 13 punti.

    La supremazia del centrodestra e di Toti è quindi in parte riferibile a un generale spostamento a destra dell’elettorato ligure negli ultimi anni.  Ma incidono anche fattori di breve periodo. Fra questi ne citiamo tre: l’emergenza Covid, la popolarità di Toti e la debolezza del candidato rivale. Anche in Liguria, come in Veneto e Campania, analizzate nei giorni scorsi su questo giornale, la pandemia sembra aver favorito il governatore uscente. Il 65% dei liguri è soddisfatto di come la regione ha gestito l’emergenza sanitaria. Fra i soddisfatti troviamo anche un elettore del PD su due e uno del M5S su tre. In generale, 7 liguri su 10 giudicano molto o abbastanza positivamente l’operato dell’amministrazione regionale.

    Il “voto disgiunto” è un altro indizio della popolarità di Toti.  Anche in Liguria gli elettori possono votare un candidato Presidente e una lista che sostiene un altro candidato. Dal confronto della Figura 1 (voti ai candidati) e della Figura 3 (che riporta invece le intenzioni di voto alle liste) si ricava che Toti raccoglie il 60% dei voti maggioritari contro il 57% dei voti alle sue liste (proporzionali). Al contrario Sansa raccoglie come candidato presidente il 34%, mentre le sue liste arrivano al 37%. Quindi a livello di liste le due coalizioni sono distanziate di 20 punti percentuali, ma a livello di candidati la differenza diventa di circa 26 punti. All’interno del centrodestra la Lega si conferma in base alle stime il primo partito con il 25,7%, sebbene distante dal 33,9% raggiunto alle europee del 2019. In calo anche il PD, al 17,1%, e il M5S, che otterrebbe appena l’11%, la metà di quanto preso alle scorse regionali. Certo non un bel segnale per il Movimento nella regione natia del suo fondatore, Beppe Grillo. Il M5S sarebbe anche scavalcato da Fratelli d’Italia, che, con il 12,5% raddoppierebbe la performance delle europee. Nel centrodestra, inoltre, a fronte del calo di Forza Italia (6,9%) in linea con suo trend nazionale spicca il 10,9% della lista personale del governatore, “Cambiamo!”. Un altro segnale della sua capacità di attrazione.

    Fig. 3 – Intenzioni di voto alle liste

    I flussi elettorali fra le europee 2019 e le intenzioni di voto alle prossime regionali (Figura 4) mostrano invece chiaramente la debolezza del candidato di centrosinistra, che sembra aver unito -si fa per dire- più le classi dirigenti locali che gli elettori dei due principali partiti. Basta guardare le defezioni degli elettori di PD e M5S delle europee dello scorso anno. Nel caso del Pd 4 elettori su 10 non sono intenzionati a votare Sansa.  Piuttosto che votare il candidato del loro schieramento preferiscono astenersi. Quanto al M5s, solo la metà di coloro che hanno votato il Movimento alle europee dice di votare Sansa mentre il 15% è intenzionato a astenersi e un terzo a votare Toti. Il dato stupisce se pensiamo che Sansa, giornalista del Fatto Quotidiano, è certamente un candidato più vicino al M5S che al PD. È il candidato che non funziona o l’alleanza? Non abbiamo i dati per rispondere. In ogni caso è prematuro giudicare le prospettive della alleanza organica tra Pd e M5s a livello nazionale partendo dal caso della Liguria. Certo il segnale che viene da questa regione non è positivo. Ma visto il percorso accidentato con cui si è arrivati alla candidatura di Sansa non può sorprendere più di tanto.

    Fig. 4 – Flussi di voto tra europee e regionali

    Interessante, infine, il risultato relativo al referendum costituzionale. In linea con quanto abbiamo constatato in Veneto e in Campania, il Sì al taglio dei parlamentari è in vantaggio (60 a 40), ma si tratta di un vantaggio inferiore alle aspettative diffuse fino a poco tempo fa. La campagna per il No fa proseliti. La riforma vede convinti solo i pentastellati (97% per il SI), mentre gli elettori di tutte le altre forze politiche sono piuttosto divisi, con il Sì che prevale di misura, e mai sopra il 56%.

    Fig. 5 – Il referendum costituzionale

    Nota metodologica

    Soggetto committente: Sole 24 Ore – Cise. Soggetto realizzatore: Winpoll – Cise. Periodo di realizzazione interviste: 24-25 agosto 2020. Popolazione di riferimento: popolazione ligure, maschi e femmine dai 18 anni in su, segmentata per sesso, età, comuni capoluogo e non, proporzionalmente all’universo della popolazione ligure. Metodo di campionamento: stratificato per provincia, comuni capoluogo e non, casuale ponderato per genere, fasce di età e voto alle ultime europee. Metodologia delle interviste: mista. Numero di interviste: 1000: 500 cati-cami (2243 rifiuti), 500 cawi. Margine di errore con intervallo di confidenza al 99%: 2,4%.

  • Campania, De Luca oltre il 58%. Più vicine le due coalizioni

    Campania, De Luca oltre il 58%. Più vicine le due coalizioni

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 25 agosto

    De Luca contro Caldoro, atto terzo. Per adesso è parità, ma sembra che la bella andrà a De Luca. Questo dice il sondaggio Winpoll-Cise, il secondo della nostra serie dedicata alle regionali di settembre: 58,6% per De Luca, 28,9% per Caldoro (Figura 1). Per il governatore uscente sarebbe un ottimo risultato, anche se in calo di sei punti rispetto al precedente sondaggio Winpoll (questo giornale 1 Luglio). Ma allora la candidatura di Caldoro era stata appena annunciata.

    Fig. 1 – Intenzioni di voto ai candidati e alle liste

    È raro che in elezioni di stampo maggioritario gli stessi protagonisti principali si trovino a competere per tre volte di fila. Nelle elezioni del 2010 Caldoro sconfisse largamente l’allora sindaco di Salerno. In quelle del 2015, invece il governatore attualmente in carica prevalse di misura sull’allora incumbent che correva per il secondo mandato. Questa volta il divario tra i due ‘eterni’ rivali sembra essersi allargato notevolmente. Come nel caso di Zaia in Veneto il Covid-19 ha fatto bene a De Luca.

    Il distacco stimato oggi tra De Luca e Caldoro è di circa trenta punti percentuali. Questo è il divario nella parte maggioritaria del sistema di voto, quella che conta per la vittoria finale. Anche in Campania la presidenza della regione e la maggioranza dei seggi in consiglio vanno al candidato che ottiene un voto più degli altri. Gli elettori hanno a disposizione due voti: uno per i candidati presidente e uno per le liste che li sostengono. Possono votare (1) solo un candidato presidente, (2) un candidato presidente e una delle liste che lo sostengono, (3) un candidato presidente e una delle liste che non lo sostengono. In questo ultimo caso esprimono quello che si chiama ‘voto disgiunto’. A differenza del Veneto (questo giornale 23 agosto) dove il voto disgiunto non pesa, in Campania il voto al solo candidato (voto personale) e il voto disgiunto sembrano giocare un ruolo rilevante. Infatti, a livello di voti alle liste (quindi voti proporzionali) i dati del sondaggio Winpoll-Cise (Figura 1) dicono che il distacco tra la coalizione che appoggia De Luca e quella che appoggia Caldoro non è di trenta punti percentuali ma di soli otto. 

    Come si spiega nel caso di De Luca la differenza tra il 58,6% attribuito a lui come candidato presidente (voto maggioritario) e il 44,8% delle liste che lo appoggiano? L’ipotesi più plausibile è che siano elettori che votano lui senza votare altre liste e/o elettori che votano lui ma votano anche una delle liste che non lo appoggiano, magari un partito del centro-destra. Non è un caso che secondo la nostra stima Caldoro prende otto punti in meno delle sue liste. I giudizi largamente positivi sull’operato del governo regionale (Figura 2) e i dati sui flussi elettorali (Figura 3) confermano ampiamente questa ipotesi.

    Fig. 2 – Operato dell’amministrazione regionale

    Fig. 3 – Flussi di voto tra europee e regionali

    I secondi sono ancora più interessanti dei primi. De Luca dimostra di essere in grado di attrarre consensi da tutte le parti (con la parziale eccezione dell’elettorato leghista). Dichiarano di votarlo oltre un terzo degli elettori delle europee sia di Fi che di Fdi. Ma la cosa veramente sorprendente è che sono intenzionati a votarlo oltre la metà di quelli del M5s. Più del doppio di quanti voteranno il candidato del Movimento, Ciarambino! Almeno in Campania, e almeno per queste regionali, De Luca sembra capace di fare quello che molti dirigenti del Pd nazionale vorrebbero, e cioè prendersi gli elettori del Movimento senza fare accordi di vertice. Dulcis in fundo, a ulteriore conferma della sua capacità di attrazione e nel quadro di un sistema molto frammentato, la sua lista personale ‘De Luca Presidente’, risulta essere quella più votata con il 17,2 %, seguita da quella del M5s con il 17%.

    Serve un altro elemento per completare il quadro. Dietro il magnetismo elettorale di De Luca non c’è solo la sua personalità e la sua gestione del Covid, che pure contano moltissimo, ma anche una notevole abilità come tessitore di alleanze. Una larga fetta dell’elettorato campano, soprattutto in certe aree, è inquadrata in ben strutturate reti clientelari. Il voto di scambio è assai diffuso. E il numero elevato di preferenze espresse in rapporto ai voti lo dimostra. Gli accordi fatti da De Luca con i vari De Mita e Mastella sono una delle ragioni del suo successo. Un’altra è il numero di liste che lo sostengono, addirittura 15. Anche queste fanno parte di una precisa strategia di raccolta di consensi. Questa è la politica in Campania. E De Luca sa come adattarvisi. Anche per questo il centro-sinistra a livello proporzionale viene stimato oggi al 44,8%, mentre alle politiche del 2018 aveva preso il 16,4% e alle europee dello scorso anno il 23,1 (Tabella 1).

    Tab. 1 – Trend elettorali in Campania nelle ultime tornate elettorali . Nota: Nella parte superiore sono riportati i risultati al proporzionale; nella parte inferiore sono riportati i risultati proporzionali per le europee e maggioritari per regionali/politiche

    Dicevamo dei cinque stelle e del comportamento ‘anomalo’ dei loro elettori. A dire il vero occorre prudenza a usare questo termine. Quello che con gli occhi di un osservatore del Nord può sembrare anomalo, a Napoli lo è molto meno. La disponibilità degli elettori, la frammentazione delle liste, la logica della scelta di voto, la differenza tra le arene elettorali rende tutto molto più incerto e fluido, come si vede dai dati della tabella in pagina in cui riportiamo il risultato del voto nelle ultime tre competizioni. Ciò premesso, è indubbio che il Movimento di Grillo ha perso in Campania quella forza che aveva dimostrato alle politiche di due anni fa quando ottenne il 49,4%. Quelle elezioni non sono state la prima tappa nella costruzione di una egemonia politica. Ci vuole altro che il reddito di cittadinanza. Il M5s non è la Dc e nemmeno Forza Italia. È vero che in un quadro di grande frammentazione resta qui, a differenza del Veneto e di altre regioni del Nord, una forza relativamente significativa, ma senza un vero radicamento territoriale. Il risultato stimato di oggi è praticamente identico a quello delle regionali del 2015. Ma in quel caso fu ottenuto all’interno di un trend in ascesa. Oggi è diverso. Quanto agli altri partiti Pd, Lega e Fdi sono tutti tra il 14 e il 15%. Per i due maggiori partiti del centro-destra si tratta di un ottimo risultato visto il tipo di competizione. Va male invece Forza Italia che con il suo 6% conferma di essere diventata anche in Campania la componente più debole del centro-destra.

    Da ultimo il referendum sul taglio dei parlamentari (Figura 5). Anche in questa regione, come in Veneto, il SÌ al taglio prevale con un ampio margine (70% contro 30%), pur in un quadro in cui sono tanti gli elettori che non andranno a votare o sono indecisi su cosa fare.  La curiosità è che qui ai leghisti la riforma piace meno che agli elettori degli altri partiti.

    Fig. 5 – Il referendum costituzionale

    Nota metodologica

    Soggetto committente: Sole 24 Ore – Cise. Soggetto realizzatore: Winpoll – Cise. Periodo di realizzazione interviste: 20-22 agosto 2020. Popolazione di riferimento: popolazione campana, maschi e femmine dai 18 anni in su, segmentata per sesso, età, comuni capoluogo e non, proporzionalmente all’universo della popolazione campana. Metodo di campionamento: stratificato per provincia, comuni capoluogo e non, casuale ponderato per genere, fasce di età e voto alle ultime europee. Metodologia delle interviste: mista. Numero di interviste: 1002: 502 cati-cami (2334 rifiuti), 500 cawi. Margine di errore con intervallo di confidenza al 99%: 2,4%.

  • Veneto, Zaia da record al 76,8%. Sfida amica tra le due Leghe

    Veneto, Zaia da record al 76,8%. Sfida amica tra le due Leghe

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 23 agosto

    Tra tutte le regioni che vanno al voto il prossimo 20-21 Settembre il Veneto è quella in cui l’esito è più scontato. Ma ciò non toglie che di fronte ai numeri del sondaggio Winpoll-CISE in vista delle prossime regionali si resti stupiti. Un presidente di regione che potrebbe vincere con il 76,8% dei consensi non si è mai visto (Figura 1). Fino ad oggi il primato spetta a Vito De Filippo del Pd che nelle elezioni del 2005 in Basilicata vinse con il 67%. Nelle precedenti elezioni regionali del 2015 Zaia aveva vinto, ma con il 50,1% (Figura 2) . In quelle elezioni la sua coalizione, comprendente tutti i partiti del centro-destra, era arrivata al 52,2%. Oggi è stimata al 74%. Sono dati impressionanti. Ma sono ancora più impressionanti i dati relativi all’effetto Zaia. La lista ‘Zaia presidente’ è stimata al 33,6% contro il 26,8% della ‘Lega per Salvini premier’ (Figura 3). Nel 2015 la lista personale di Zaia aveva preso il 23,1%. 

    Fig. 1 – Operato del governo regionale e intenzioni di voto al candidato presidente 

    Fig. 2 – Trend elettorali in Veneto nelle ultime tornate elettorali

    Fig. 3 – Intenzioni di voto – liste 

    Anche in Veneto si vota con un sistema misto che consente agli elettori di esprimere due voti, uno per il candidato-presidente (voto maggioritario) e l’altro per una delle liste in campo (voto proporzionale). Questo consente di votare un candidato-presidente e una lista che non fa parte della sua coalizione. È il cosiddetto ‘voto disgiunto’. Ci aspettavamo di vederne tracce nei nostri dati. Non è così. Poca roba. Chi è intenzionato a votare Zaia intende votare la sua lista personale o altra lista della sua coalizione. Il fatto è che, tra il 2015 e il 2020, il centro-destra ha allargato le sue basi di consenso in una regione dove era già maggioritario passando dal 50,1% di allora al 74% stimato di oggi. Grazie a Zaia, ma anche grazie al successo delle altre componenti dello schieramento tranne Forza Italia. Notevole è il risultato di Fratelli d’Italia che passa dal 2,6% delle regionali 2015 e il 6,8% delle Europee 2019 al 10,3% stimato di oggi. Il voto per Zaia è maggioritario in tutte le categorie socio-professionali con una punta del 92% tra gli operai. 

    Sugli altri partiti c’è ben poco da dire. Il Pd che nel 2015 aveva preso il 16,7% e nel 2019 il 18,9% viene stimato al 10,7%. Italia Viva sotto il 2%. Quanto al M5s alle politiche di due anni fa aveva ottenuto il 24,4% e alle regionali del 2015 l’11,9%. Oggi è al 4,7%. E pensare che se andiamo ancora più indietro, e cioè alle politiche del 2013, il movimento di Grillo era arrivato addirittura ad essere il primo partito nella regione. Erano i tempi in cui anche in Veneto la voglia di cambiamento era tale che nemmeno le declamazioni di Grillo sulla ‘decrescita felice’ in Piazza San Giovanni a Roma hanno fatto desistere operai e imprenditori del Veneto dal votare un movimento così alieno alla loro cultura.  

    Il contributo di Zaia è decisivo. Basta guardare il suo gradimento (Figura 1) e i flussi elettorali (Figura 4). L’85% dei veneti giudica molto positivamente (44%) o abbastanza positivamente (41%) l’operato del governo regionale. È un dato del tutto trasversale, visto che il 56% degli elettori del Pd e il 58% di quelli del M5s, esprimono lo stesso giudizio. E poi ci sono i flussi dove si vede chiaramente il perché del successo personale di Zaia. Il 23% di chi ha votato Pd alle ultime europee e addirittura il 36% di chi ha votato M5s dice di essere intenzionato a votare Zaia alle regionali. Nel caso degli elettori del Movimento è quasi la stessa percentuale (38%) di quelli che dichiarano di voler votare il candidato presidente del loro movimento, Enrico Cappelletti. Aggiungiamo, per inciso, che solo il 5% degli elettori del M5s delle europee sono intenzionati a votare il candidato del Pd. Un segno anche questo, piccolo ma eloquente, delle difficoltà della coalizione giallo-rossa a livello locale.

    Fig. 4 – Flussi elettorali tra elezioni Europee ed elezioni regionali 

    Il successo di Zaia trascende i confini del Veneto. Zaia è sempre stato un leader molto apprezzato dai veneti. Vero erede della tradizione democristiana, fatta di moderatismo e di attenzione al territorio. Ma oggi, grazie al Covid, ha acquistato anche un profilo politico nazionale. Già il 28 Aprile su questo giornale avevamo pubblicato un sondaggio Winpoll da cui emergeva il fenomeno. Per questo, le elezioni regionali in Veneto hanno anche una valenza nazionale. In gioco non c’è solo la guida della regione, ma forse la leadership futura della Lega. In Veneto si presentano due liste: Lega per Salvini premier e Lega Zaia presidente. Naturalmente sono liste alleate, ma sono comunque due liste diverse: una che fa capo al segretario della Lega e l’altra al presidente uscente della regione. E la seconda supera nettamente la prima. Qualcuno potrebbe obiettare che senza l’alleanza con la Lega molti elettori non voterebbero la lista Zaia. È possibile ma non sappiamo in che misura. Sappiamo invece che tutti i dati di questo sondaggio dicono che Zaia gode di un consenso personale straordinariamente elevato.   

    Se il risultato del voto di settembre sarà quello che vediamo qui la prospettiva di una competizione tra Salvini e Zaia per la leadership della Lega potrà diventare molto concreta al di là delle dichiarazioni d’ufficio che faranno i due protagonisti. E questo perché Zaia potrebbe rappresentare dentro la Lega una linea alternativa a quella di Salvini, una linea che trova molti consensi anche fuori dal Veneto. Al progetto salviniano di una Lega nazionale, sovranista e anti-europea Zaia può contrapporre una linea di moderatismo pragmatico e più vicino ai valori originari della prima Lega ma declinati in chiave di autonomia anziché di secessione.  

    Va da sé che fino a quando la Lega di Salvini sarà su percentuali superiori al 20% sarà difficile e rischioso sfidarlo. Nonostante tutti gli errori che ha fatto a partire dalla estate del 2019 resta il fatto che Salvini è il leader che ha portato la Lega dal 4 % del 2013, quando ne ereditò la guida da Maroni, agli attuali livelli. Ma da molti mesi a questa parte il trend elettorale non è positivo. Questo sondaggio sul Veneto va interpretato con molta cautela in chiave di tendenze nazionali. Un po’ più indicativi saranno i dati delle altre regioni che vanno al voto a Settembre. Ma una cosa è certa: se il declino dovesse continuare, nuovi scenari diventeranno più credibili. E allora si vedrà se Zaia vorrà giocare le sue carte e come. Sarà una partita importante e non solo per la Lega.

    Una ultima annotazione sul prossimo referendum costituzionale. Sono molti quelli che in Veneto non voteranno e molti sono ancora gli indecisi, ma tra chi ha già deciso il 66% è intenzionato a votare Sì al taglio dei parlamentari (Figura 5). Il Sì prevale tra gli elettori di tutti i partiti (un po’ meno nel Pd), ma in una misura inferiore alle aspettative più diffuse. L’Italia sorprende sempre.

    Fig. 5 – Il referendum costituzionale 

    Nota metodologica

    Soggetto committente: Sole 24 Ore – Cise. Soggetto realizzatore: Winpoll – Cise. Periodo di realizzazione interviste: 19-22 agosto 2020. Popolazione di riferimento: popolazione veneta, maschi e femmine dai 18 anni in su, segmentata per sesso, età, comuni capoluogo e non, proporzionalmente all’universo della popolazione veneta. Metodo di campionamento: stratificato per provincia, comuni capoluogo e non, casuale ponderato per genere, fasce di età e voto alle ultime europee. Metodologia delle interviste: mista. Numero di interviste: 1008: 508 cati-cami (2099 rifiuti), 500 cawi. Margine di errore con intervalli di confidenza al 99%: 2,4%.

  • De Luca al 65%, pesca voti anche da Lega e M5S

    De Luca al 65%, pesca voti anche da Lega e M5S

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 3 Luglio

    Il Covid 19 ha fatto bene a Vincenzo De Luca. Ma non è solo la pandemia che può spiegare l’eccezionale livello di consenso che il sondaggio Winpoll-Arcadia (Figura 1) attribuisce all’attuale presidente della regione Campania. Pare che oggi la Campania di De Luca sia assimilabile al Veneto di Zaia. Sono le due regioni, tra le sette in cui si voterà a Settembre, in cui l’esito del voto sembra del tutto scontato. Secondo le stime di questo sondaggio il 65,4% degli elettori campani voterebbe De Luca contro il 21,9% che voterebbe il candidato del centro-destra Stefano Caldoro e il 10,9% Valeria Ciarambino, esponente del M5s. Anche tenendo conto del fatto che gli astensionisti e gli indecisi sono tanti si tratta di un dato straordinario. Delle due l’una: o il campione su cui si basa questo sondaggio è del tutto non rappresentativo o siamo di fronte a uno di quei casi in cui un leader politico è diventato talmente popolare da travalicare prepotentemente gli schieramenti politici. Esattamente come è successo in Veneto con Zaia. La seconda ipotesi è decisamente la più probabile. Non solo questi dati, ma molti altri indizi tendono a confermarla.

    Fig. 1 – Sondaggio Winpoll-Arcadia sulle regionali in Campania

    Quello di De Luca è decisamente un successo personale. Sulla
    base delle intenzioni di voto delle liste che lo sostengono la sua coalizione
    può contare sul 45,1%. In Campania gli elettori possono esprimere un voto
    disgiunto. Possono votare un partito appartenente a una coalizione e il candidato-presidente
    di un’altra. Nel caso di De Luca la differenza tra la stima del voto a lui come
    candidato-presidente (65,4%) e il voto alle liste che lo sostengono (45,1%) è
    di 20 punti percentuali. Un dato ancora più sorprendente se si considera che
    all’interno del 45,1% di voti alla coalizione c’è un 19,8% di voti a liste che
    in un modo o nell’altro si richiamano a lui. La somma dei voti dei partiti di
    centro-sinistra (dal Pd a Renzi e Calenda per intenderci) non arriva al 25%. E
    questo la dice lunga sulla capacità di De Luca di sconfinare verso elettorati
    non tradizionalmente o stabilmente di centro-sinistra.

    La dimostrazione di quanto abbiamo appena detto è nei flussi
    elettorali. Quei 20 punti percentuali in più che fanno arrivare De Luca al 65%
    sono la somma di 10 punti persi da Caldoro e 10 punti persi dalla Ciarambino.
    Il tutto confermato dai flussi tra le ultime europee e le intenzioni di voto
    rilevate dal sondaggio Winpoll-Arcadia. Infatti, il 56% di coloro che hanno
    votato Lega alle Europee e il 49% degli elettori del M5s si dichiarano oggi
    intenzionati a votare De Luca. Un’altra conferma viene dai dati sulla fiducia. Non
    solo il 78% degli elettori campani dice di avere molta o abbastanza fiducia in lui
    ma è ancora più rivelatore che la pensi allo stesso modo il 68% degli elettori
    della Lega, il 72% dei 5 Stelle e il 65% di quelli di Fdi. Insomma, un
    plebiscito. Tanto più che i giudizi positivi sull’operato dell’amministrazione regionale sono passati dal 42%
    del sondaggio Winpoll-Arcadia dello scorso Dicembre al 75% di oggi, come fa
    notare Domenico Giordano di Arcadia.

    Come si spiega tutto ciò? L’elettorato meridionale in
    generale, e ancora più quello campano, è un elettorato mobile, emotivo e
    razionale allo stesso tempo. La pandemia ha fornito a De Luca l’occasione di
    risvegliare l’orgoglio dei campani come era riuscito a fare Bassolino
    all’inizio della sua esperienza come sindaco di Napoli. La sua capacità di
    comunicazione, venata di istrionismo, ne ha fatto un personaggio nazionale. Cosa
    che non sembra dispiacere quando si abbina alla percezione che l’istrione è
    anche un capace amministratore. E De Luca ha dimostrato di esserlo. In primis a
    Salerno. Ma ciò detto, non si può dimenticare l’altra faccia della medaglia,
    quella della razionalità politica. (www.dermaflage.com) De Luca già nel 2015, e ancora più oggi, ha tessuto
    una fitta rete di rapporti politici e clientelari. Nel 2015 riuscì a battere
    Caldoro grazie all’appoggio ricevuto all’ultimo minuto da De Mita. Oggi tra i
    suoi sostenitori c’è anche Mastella, tanto per fare un esempio. È la
    combinazione di questi diversi fattori che spiega il fenomeno De Luca.

    Quanto ai partiti singolarmente presi, questo non è il tipo
    di competizione in cui se ne può misurare la consistenza effettiva. A livello
    locale prevalgono personalizzazione e frammentazione. Ciò premesso, il M5s
    conferma di avere una sua base di consensi che ne fa insieme al Pd il partito
    più votato con una percentuale intorno al 21. È il doppio della stima
    attribuita a Lega e Fdi. Sono tutti dati falsati dalla capacità di attrazione
    del governatore uscente. Ma ciò non toglie che grazie a De Luca questa sembra
    essere una delle regioni in cui il centro-sinistra ha concrete possibilità di
    vittoria a Settembre.

  • La controriforma elettorale

    La controriforma elettorale

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 27 Giugno

    Questa settimana è iniziata in Commissione Affari Costituzionali della Camera la discussione sulla controriforma elettorale. Si tratta del progetto di ritorno al proporzionale concordato tra Pd e M5s e firmato da Giuseppe Brescia, esponente del M5s e presidente della suddetta Commissione. Il sistema che si vorrebbe introdurre in sostituzione dell’attuale Rosatellum è un sistema proporzionale con una soglia di sbarramento del 5%. Per i partiti che non arrivano alla soglia, ma che soddisfano determinate condizioni, è prevista la possibilità di ottenere seggi sotto forma di un diritto di tribuna. Non c’è il voto di preferenza. Per garantire la parità tra uomini e donne i candidati sono collocati in lista secondo un ordine alternato di genere. Ma questi ultimi sono dettagli. La sostanza è che siamo davanti al tentativo di tornare al passato.

    Naturalmente i sostenitori di questa controriforma rifiutano l’etichetta di nostalgici della Prima Repubblica. Sono pronti a sottolineare che a differenza del sistema elettorale allora in vigore il nuovo sistema prevede una soglia elevata. In effetti il 5% è una soglia alta. E questo è un aspetto positivo del progetto. Ma chi conosce la storia delle soglie elettorali nel nostro paese e chi sa contare i voti dentro Camera e Senato di oggi sa bene che questa soglia è uno specchio per le allodole. Non verrà mai approvata. Ci sarà un compromesso al ribasso. Forse il 4%, ma non è detto che non sia il 3%. E allora si dirà che in fondo è cosa buona e giusta favorire la rappresentatività delle minoranze, anche se questo va a scapito della funzionalità del sistema. La rappresentatività prima di tutto.            

    Dopo la destrutturazione del sistema partitico della Prima Repubblica il Parlamento italiano è stato eletto fino ad oggi con sistemi elettorali misti. Per la precisione sono stati tre. Il primo -la legge Mattarella- era un sistema prevalentemente maggioritario con una quota del 75% di collegi uninominali. È stato utilizzato nelle elezioni del 1994, 1996 e 2001. Il secondo -la legge Calderoli- era un sistema proporzionale con premio di maggioranza. È stato utilizzato nelle elezioni del 2006, 2008, e 2013. Il terzo -la legge Rosato- è un sistema prevalentemente proporzionale con una quota di circa un terzo di collegi uninominali. È stato utilizzato nella elezione del 2018. Sette elezioni tre sistemi elettorali diversi. Senza contare l’Italicum e quelli introdotti dalla Corte Costituzionale, visto che con questi non si è votato.

    Tre sistemi diversi ma accomunati da una caratteristica cruciale. Sono tre sistemi che hanno incentivato le forze politiche a decidere prima del voto con chi allearsi per governare il paese. Con questi sistemi si è passati da un modello di competizione fondato sulle coalizioni post-elettorali della Prima Repubblica a un modello basato sulle coalizioni preelettorali della Seconda. Non solo. Fino al 2013 il sistema elettorale ha prodotto maggioranze di governo come espressione del voto popolare. Sono stati gli elettori a decidere ‘direttamente’ il governo del paese e non i partiti dopo il voto. In altre parole, il sistema elettorale è stato decisivo perché ha assegnato una maggioranza assoluta di seggi alla coalizione con più voti. Certo, nel 2013 questo esito non c’è stato perché il successo del M5s e della coalizione di Monti ha messo in evidenza un grave difetto della riforma elettorale del 2005 legato al meccanismo di assegnazione dei premi al Senato. La riforma Rosato non ha reintrodotto un sistema elettorale decisivo, come si è visto nelle elezioni del 2018, perché la quota di collegi uninominali è troppo esigua. Ma quella riforma aveva comunque conservato l’incentivo per i partiti a dichiarare le alleanze prima del voto.

    Coalizioni preelettorali, ruolo decisivo degli elettori, maggioranze di governo uscite dalle urne, alternanza sono le caratteristiche del modello di democrazia italiana degli ultimi 26 anni. È un modello che ha trovato applicazione anche ai livelli sub-nazionali, nei comuni e nelle regioni, dove è rafforzato dalla elezione diretta del capo dell’esecutivo. È quello che ci piace chiamare ‘modello italiano di governo’ per sottolinearne la originalità.

    Il progetto di riforma elettorale in discussione rappresenta la rottura di questo modello e l’abbandono del tentativo di costruire una democrazia fondata su un equilibrio più efficiente tra rappresentatività e governabilità. L’approvazione del sistema elettorale in discussione significherebbe il ritorno alla democrazia della delega. Una delega in bianco ai partiti a fare dopo il voto gli accordi che preferiscono, senza una approvazione preventiva da parte degli elettori. Il paradosso è che questo cambiamento è voluto principalmente dal M5s, il partito che ha fatto della democrazia diretta il suo obiettivo ideale.

    I sistemi elettorali sono uno strumento che può favorire o meno la creazione di governi stabili. Non sono certo il solo meccanismo. Ma in questa fase della politica italiana per trovare un giusto equilibrio tra rappresentatività e governabilità abbiamo bisogno o dei collegi uninominali o del premio di maggioranza. Senza uno di questi due meccanismi il rischio, per non dire la certezza, è quello del ritorno a governi ancora più instabili degli attuali e a elettori sempre più delusi e disorientati. Ce lo possiamo permettere per soddisfare il desiderio del M5s di avere le mani libere e correre da solo alle prossime elezioni?

  • Conte, per un premier senza partito la sfida di amalgamare PD e M5S

    Conte, per un premier senza partito la sfida di amalgamare PD e M5S

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 12 Maggio

    Non ho mai incontrato Giuseppe Conte. Forse ci siamo incrociati nei corridoi dell’Università di Firenze quando lui era professore nella Facoltà di Giurisprudenza e io ero a Scienze Politiche. L’ho visto da vicino (si fa per dire) una sola volta. È stato a Ottobre del 2019 alla Mostra d’Oltremare di Napoli. Ero a Napoli per altri motivi proprio il weekend in cui il M5s festeggiava il decennale dalla sua fondazione. Mi sono seduto sugli spalti insieme a migliaia di aderenti, come se fossi uno di loro. Prima ha parlato Di Maio. E successivamente è stata la volta di Conte.

    Ero molto curioso di sentirlo parlare agli iscritti del Movimento. E la mia curiosità è stata subito ripagata appena l’ho sentito rivolgersi a loro con la seconda persona plurale. I vostri valori, il vostro progetto e così via. Era il presidente del consiglio che parlava, non il leader scelto dal Movimento per ricoprire quella carica prima con la Lega e poi con il Pd. Conte non si presentava come uno del Movimento. E la cosa è diventata ancora più chiara quando immediatamente dopo il suo discorso è stato intervistato sul palco insieme a Di Maio e a una precisa domanda del giornalista che gli chiedeva se si sarebbe mai iscritto a un meet-up la risposta è stata un chiaro e secco no. Eppure prima e dopo l’intervista lui, non Di Maio, è stato il leader più applaudito dai grillini assiepati sugli spalti. Ho pensato a una famosa frase di Churchill a proposito degli inglesi e l’Europa: sono con voi ma non sono uno di voi.

    Questo è il rapporto che lega Conte al Movimento. E lui non ne ha mai fatto mistero. Eppure, la metà degli elettori pentastellati pensa che sia uno di loro (Figura 1), come risulta dal sondaggio Winpoll-Sole24Ore. Qualcuno pensa addirittura che sia più vicino al Pd e il 41% non lo considera vicino né al Movimento né al Pd. Già questo ci fa capire che siamo di fronte a un fenomeno peculiare. Tanto più che i nostri dati dicono che una fetta non irrilevante degli elettori del Pd, il 24%, pensa che sia più vicino al loro partito che al M5s.

    Fig. 1 – La vicinanza politica di Giuseppe Conte. Fonte: Winpoll-Il Sole 24 Ore 

    Giuseppe Conte per sua stessa ammissione è un leader senza partito. Non esiste un caso simile in tutta Europa. Forse al mondo. E si badi bene non è un tecnico. Non si considera tale. E non è considerato tale. Non è paragonabile a Ciampi, Dini o a Monti. È un politico sui generis. È questo che rende la sua figura così anomala e allo stesso tempo così intrigante.

    Per certi aspetti il Conte di oggi ricorda Romano Prodi. Anche lui professore, di economia nel suo caso, prestato alla politica e diventato due volte Presidente del Consiglio. Anche Prodi non aveva un partito alle spalle. La Dc da cui proveniva era sparita. Invece di farsi un partito si è inventato un progetto: l’Ulivo. Cosa era l’Ulivo? Era il tentativo di amalgamare due culture: quella cattolica progressista e quella ex comunista. Conte non ha un progetto simile. Naviga a vista. Prima è stato il mediatore tra Lega e M5s. Adesso svolge lo stesso ruolo tra Pd e M5s. Lo fa bene. Tanto bene da essere diventato indispensabile agli uni e agli altri. È difficile oggi immaginare un altro governo con questa maggioranza senza Conte. Con buona pace di Renzi e di quella parte della leadership del Movimento che non lo sopporta più. Domani non si sa.

    Può essere che la crisi economica prenda una piega talmente catastrofica da non potere essere gestita da un governo con una maggioranza così fragile. In questo caso è difficile che Conte possa restare al suo posto. Ma del domani non c’è certezza. E allora si può continuare a ragionare sul possibile futuro del nostro anomalo presidente del consiglio. Se questo governo durerà, il confronto con Prodi diventerà più pregnante. Conte, come Prodi, potrebbe diventare il leader del polo di centro-sinistra in un sistema non più tripolare.  Sarebbe l’artefice di un nuovo bipolarismo fondato sulla alleanza organica tra Pd e Movimento. Né più né meno di quello che Prodi fece con Ds e Margherita.

    C’è chi inorridisce di fronte a questo scenario pensando alla natura del Movimento e alla sua inaffidabilità. È certamente opinione plausibile, ma intanto l’attuale esecutivo è fondato su questa alleanza che per molti sarà pure innaturale e temporanea, ma è quella che ci consente di avere al governo l’unico grande partito europeista in un momento in cui il rapporto con l’Europa per noi è decisivo. Non c’è dubbio che l’obiettivo di amalgamare Pd e M5s si presenta oggi di gran lunga più arduo del progetto ulivista. Più arduo ma non meno importante. Anzi. In gioco non c’è solo la creazione di un polo alternativo a quello della destra, ma il consolidamento definitivo della nostra appartenenza all’Unione. Prodi ci ha portato dentro l’Euro. Conte ci farebbe restare.

    La differenza tra i due è che il progetto di Prodi è stato facilitato da due sistemi elettorali prevalentemente maggioritari che ‘costringevano’ i partiti ad allearsi prima del voto. Quello di Conte deve vedersela con un sistema elettorale prevalentemente proporzionale. Non è una differenza da poco. Tanto più che quello che oggi è ancora un sistema misto potrebbe domani diventare un sistema totalmente proporzionale. E allora sarebbe tutta una altra storia. Ma per ora c’è la pandemia, che rappresenta un rischio ma anche una grande opportunità. Se Conte riuscisse a gestire in maniera efficace l’emergenza economica con i soldi dell’Unione Europea quello che oggi sembra a molti un progetto irrealistico potrebbe non essere più tale. 

  • Nessuno scambio di voti PD-M5S: così i flussi sostengono l’alleanza

    Nessuno scambio di voti PD-M5S: così i flussi sostengono l’alleanza

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 5 Maggio

    La stabilità delle coalizioni di governo dipende da molti fattori. Uno di questi è l’equilibrio nei rapporti di forza a livello elettorale tra i partiti che ne fanno parte. Se lo stare insieme al governo fa perdere voti, o ne fa guadagnare, in maniera consistente all’uno o all’altro dei partiti alleati prima o poi le coalizioni si sfasciano. Tanto più se il fenomeno interessa uno dei partiti maggiori. Un caso esemplare è stato il primo governo Conte. Quando fu formato nel Giugno del 2018 il M5s aveva il 33% dei consensi e la Lega di Salvini il 17%. I dati sono quelli delle elezioni politiche del 2018. Quando è caduto i sondaggi dell’epoca davano il M5s sotto il 20% e la Lega sopra il 30%. Le elezioni europee del 2019 hanno sostanzialmente confermato il dato dei sondaggi.

    Tra il Conte I e il Conte II c’è una grossa differenza. La figura 1 ci dice quale. I dati sono quelli del sondaggio Winpoll-Sole24Ore già utilizzati sulle pagine di questo giornale la settimana scorsa (28 Aprile) e elaborati dal Cise. Lo spessore delle fasce colorate misura la consistenza dei flussi. Il punto rilevante è che da quando si sono messi insieme Pd e M5s non hanno sottratto molti voti l’uno all’altro, come invece si era verificato in misura massiccia tra M5s e Lega ai tempi del Conte I.

    Fig. 1 – Flussi elettorali fra europee 2019 (sinistra) e intenzioni di voto dal sondaggio Winpoll-Sole24Ore del 23 aprile 2020 (destra), percentuali sull’intero elettorato.

    Uno scambio di voti tra Movimento e Pd c’è stato, ma modesto. Solo il 4% degli elettori che hanno votato M5s alle elezioni europee del 2019 voterebbe oggi Pd. Un flusso in parte compensato da un 2% di elettori Pd delle Europee orientati a votare il Movimento. Durante il Conte I invece il flusso di voti pentastellati in uscita verso la Lega di Salvini è stato molto più consistente, tra il 15% e il 20% secondo le nostre stime. Tra Lega e M5s continua esserci un passaggio di voti più significativo che tra Pd e Movimento, ma è diventato uno scambio e non un flusso unidirezionale. Infatti, il M5s perderebbe verso la Lega l’8% dei voti ma gliene sottrarrebbe esattamente la stessa percentuale.

    In questa fase della politica italiana sono altri i flussi più consistenti. In particolare quelli dalla Lega a Fratelli d’Italia e dal Pd a Italia Viva. Ma ciò che conta ai fini del nostro ragionamento sulle prospettive di durata del governo è l’elevato tasso di fedeltà dell’elettorato del Pd e di quello del M5s. In entrambi i casi siamo intorno al 70%. In breve, il M5s ha fermato l’emorragia di voti. La media dei sondaggi della scorsa settimana lo dà poco sotto il 15%. Più o meno dove era a Settembre dello scorso anno. Mentre il Pd ha guadagnato, ma non tanto da suscitare il risentimento del partner.

    Dunque, sul piano elettorale i due maggiori partiti di governo non si fanno concorrenza. Basta questo per prevedere lunga vita al Conte II?  Certamente no. Ma ciò non toglie che l’equilibrio elettorale è una condizione importante di convivenza. Poi ci sono le politiche. In che misura gli elettorati dei due partiti hanno posizioni convergenti sui temi più importanti della agenda politica? Quando fu formato, l’attuale governo suscitò molte perplessità. Era opinione largamente diffusa che Pd e M5s fossero incompatibili sul piano dei programmi. In realtà non è mai stato veramente così. L’incompatibilità era più antropologica che programmatica. Il M5s è nato a sinistra e anche quando si è spostato verso destra ha portato con sé molti dei suoi valori originari. I dati del sondaggio Winpoll-Sole24Ore confermano che su molte questioni all’ordine del giorno gli elettori del M5s sono più vicini a quelli del Pd che a quelli della Lega e di Fdi (si veda cise.luiss.it). Tranne che su una questione: l’Europa.

    Sulle differenze tra Pd e M5s in tema di rapporti con l’Unione Europea abbiamo già scritto su questo giornale. Su questo tema i due partiti divergono significativamente. È vero che gli elettori del Movimento sono meno euroscettici di quelli di Lega e Fdi, ma di certo non condividono l’europeismo di quelli del Pd. Questo è senza dubbio un problema. La questione europea è e resterà centrale nei prossimi mesi per l’azione di governo. Tenere insieme due partiti che la pensano tanto diversamente su come gestire i rapporti con la UE non sarà facile. Eppure azzardiamo a dire che l’equilibrio elettorale da cui siamo partiti nella nostra analisi non è indipendente dalla distanza che separa Pd e M5s sulla questione europea. È possibile infatti che il motivo della tenuta elettorale del M5s sia proprio il fatto che riesce a competere con Lega e Fdi proprio sul terreno dell’euroscetticismo. Occorrono altri dati per esserne certi, ma se così fosse, si potrebbe sostenere che la differenziazione di posizioni tra Pd e Movimento sui temi europei sia funzionale alla stabilità dei rapporti tra i due partiti e quindi alla sopravvivenza del governo. Uno dei tanti paradossi della politica italiana. Resta da vedere però se queste differenze non paralizzeranno l’azione del governo nei prossimi mesi. In tal caso l’equilibrio elettorale servirebbe a ben poco. Siamo in una situazione in cui non possiamo più permetterci di ‘sopravvivere senza governare’. 

  • Il virus spinge l’antieuropeismo. E Zaia scala la classifica dei leader

    Il virus spinge l’antieuropeismo. E Zaia scala la classifica dei leader

    Da molti anni il rapporto tra gli Italiani è l’Europa è diventato difficile. La pandemia rischia di renderlo ancora più problematico. Non è un caso che il 70% degli attuali parlamentari appartengano a partiti che sono euroscettici o apertamente antieuropei. Tra i partiti più grandi solo il Pd è chiaramente europeista. Forza Italia ci prova a corrente alternata, ma fa comunque parte di uno schieramento che è su posizioni diametralmente opposte. La critica alla Unione è una strategia elettoralmente redditizia. Europa e immigrazione sono i due temi che la destra italiana ha sfruttato di più per raccogliere consensi.

    I dati del sondaggio Winpoll-Sole24Ore che pubblichiamo qui confermano che il terreno è fertile, oggi ancora più di prima. Prima c’era l’austerità imposta dal patto di stabilità a fomentare il risentimento, adesso c’è la mancata solidarietà a mettere in dubbio la nostra appartenenza a una comunità che non viene percepita come tale. Questa è la narrativa che prevale sui media. E certo non aiuta il fatto che lo stesso presidente del consiglio si sia lasciato andare a dichiarazioni del tipo ‘facciamo da soli’. E così succede che solo il 21% degli intervistati ritiene che la UE stia aiutando l’Italia (Figura 1).

    Fig. 1 – “Secondo Lei, in questo momento le istituzioni della UE nel complesso stanno aiutando il nostro paese?”. Nota: “Non sa/Non risponde” 8%. Fonte: Winpoll & Il Sole 24 Ore

    Il sondaggio è stato fatto di proposito prima del 23 Aprile, cioè prima dell’incontro del consiglio europeo che doveva decidere su ulteriori misure, quali il Recovery Fund. Il prossimo sondaggio servirà a verificare se quelle decisioni e in particolare la narrativa con la quale sono state comunicate faranno una differenza. Per ora registriamo che solo all’interno del Pd esiste una maggioranza di intervistati con una opinione favorevole verso l’Unione, mentre nel caso del M5s solo il 12% lo sono. Non sorprende quindi che anche su un eventuale ricorso al MES le posizioni siano più o meno simili (Figura 2). Il 62% degli intervistati non ne vuole sentir parlare, compreso il 79% degli elettori pentastellati. Qui la differenza la fanno gli elettori di Forza Italia le cui preferenze sono più vicine a quelle del Pd che a quelle dei loro storici alleati nel centro-destra. Il quadro è chiaro. L’austerità del passato e la mancata solidarietà del presente hanno scavato un fossato tra gli italiani e l’Europa. Tant’è che alla domanda se sia una cosa positiva o no far parte della Unione il 35% ha risposto sì, il 42 % no e il 23% sta in mezzo (Figura 3). 

    Fig. 2 – L’opinione pubblica italiana e il MES . Nota: “Non sa/Non risponde” 7%. Fonte: Winpoll & Il Sole 24 Ore

    Fig. 3 – L’Italia e l’appartenenza all’Unione Europea . Nota: “Non sa/Non risponde” 11%. Fonte: Winpoll & Il Sole 24 Ore

    Questi dati non mettono in discussione l’appartenenza alla Unione o all’Euro ma rivelano un malessere profondo che se sfruttato politicamente nei prossimi mesi potrebbe diventare il detonatore di una grave crisi che il nostro paese non si può permettere. Già prima dello scoppio della pandemia il sostegno degli italiani all’Euro era il più basso tra tutti i paesi della Unione Monetaria (Eurobarometro Novembre 2019). È un malessere frutto non solo di demagogia ma anche di scarsa e cattiva informazione. In che condizioni sarebbe l’Italia oggi senza l’Europa, senza gli interventi della Banca Centrale Europea? Quanti italiani sanno che la BCE ha deciso recentemente di acquistare anche titoli spazzatura proprio in previsione del fatto che il nostro debito pubblico potrebbe finire in quella categoria?  Quanti si rendono conto della importanza per noi di questa misura ?

    Fig. 4 – Valutazione dei leader . Fonte: Winpoll & Il Sole 24 Ore

    È sulla disaffezione verso l’Europa che puntano Lega e Fratelli d’Italia, e in parte – in maniera ambigua- anche il M5s. Adesso che l’immigrazione non ‘tira’ più, la critica alla Unione è diventata ancora più centrale nelle strategie di Salvini e della Meloni. Ma mentre per Fdi l’antieuropeismo non presenta problemi, per la Lega potrebbe non essere più così.  Un altro dato interessante di questo sondaggio riguarda la popolarità dei leader (Figura 4). La domanda è diversa da quella utilizzata di solito. In questo caso è stato chiesto semplicemente di indicare con un sì o con un no il proprio apprezzamento per ciascuno dei vari leader. Le risposte potevano essere più di una. La sorpresa è Zaia. Il governatore del Veneto ha raccolto il gradimento del 46% di coloro che hanno risposto alla domanda. Più di Conte e di Mattarella. Ma soprattutto più di Salvini che si ferma al 19%. È evidente che Zaia è riuscito a sfruttare l’emergenza sanitaria molto meglio del leader del suo partito e senza ricorrere all’Europa come capro espiatorio dei mali italiani.

    Così come hanno fatto altri leader che si sono trovati sulla linea del fronte come De Luca, Speranza, Fontana. In questo periodo hanno tutti goduto di grande visibilità.

    Ma nel caso del governatore del Veneto c’è dell’altro. Non è un mistero che Zaia abbia ambizioni nazionali e che all’interno della Lega sia un esponente della corrente moderata. Il suo successo in questa congiuntura lo sta proiettando al di fuori dei confini della sua regione. Nei mesi scorsi Salvini ha scoperto di avere in Giorgia Meloni una concorrente temibile all’interno del suo schieramento. Adesso ha un rivale all’interno del suo stesso partito. Un rivale che alle prossime elezioni regionali in Veneto è molto probabile che riscuota un successo clamoroso. L’ascesa a livello nazionale di Zaia e il declino della Lega evidenziato nei sondaggi degli ultimi mesi aprono nel centro-destra uno scenario nuovo che potrebbe avere riflessi positivi sia sulla evoluzione del nostro sistema politico che sul piano dei rapporti con l’Europa. Troppo presto forse per dirlo, ma qualche segnale c’è.  Sarebbe uno degli effetti inattesi del Coronavirus.