I sondaggi pubblicati venerdì scorso (nell’ultimo giorno prima del black-out pre-elettorale) e in particolare quello CISE pubblicato già la sera di giovedì certificano una battuta d’arresto della Lega capitanata da Salvini: IPSOS la dà al 30,9% (rispetto ad addirittura il 36% di poche settimane fa), noi la vediamo intorno al 30, se non addirittura (nel nostro simulatore di scheda elettorale) un paio di punti sotto questa quota. Ora, è possibile suggerire una spiegazione strutturale per questa battuta d’arresto? A mio parere sì: e per farlo propongo anzitutto una lettura di quella che è stata la formidabile espansione elettorale della Lega sotto Salvini: dal 4,1% del 2013 al 17,4% del 2018, e poi su (anche se solo nei sondaggi) fino a oltre il 30%.
Il successo del primo Salvini veniva (come altri in Europa) dal non essere di estrema destra, ma post-ideologico
Alcuni commentatori definiscono la Lega di Salvini un partito di estrema destra. Io sarei decisamente più prudente su questo giudizio, almeno per il successo della Lega di Salvini nelle politiche del 2018, perché in realtà il successo del primo Salvini appare chiaramente legato a una formula che ha avuto molto successo in Europa: non tanto quella di Orbàn e Kaczyński, ma quella di Marine Le Pen e del populista olandese Geert Wilders. Questi due leader hanno avuto l’abilità di sfruttare una caratteristica crescente delle opinioni pubbliche europee: quella di combinare posizioni anti-europee e chiaramente di destra sull’immigrazione, con altre tuttavia molto più sfumate e spesso progressiste sui diritti civili (religione, matrimoni gay), e infine con posizioni economiche non più liberiste, ma votate alla protezione sociale e quindi più vicine a posizioni tradizionalmente di sinistra. Marine Le Pen in particolare, diventata leader, capì che per togliere il suo partito dal frigorifero di estrema destra in cui si trovava, occorreva rompere con le idee del padre su alcuni temi chiave (antisemitismo, atteggiamento verso le coppie gay e lesbiche), silenziarne altri per sempre (il regime di Vichy, la guerra d’Algeria), e infine spostarsi in modo convinto da posizioni economiche liberiste ad altre decisamente più stataliste. Il risultato di questa strategia di “de-demonizzazione” è stato un partito che (analogamente al PVV di Wilders) inevitabilmente è stato definito “populista” perché era ormai molto complicato definirlo di estrema destra come in passato, e che non ha caso ha aumentato di molto i suoi voti, raggiungendo percentuali ragguardevoli anche nel mondo LGBT e tra i ceti operai.
Ebbene, non è difficile ravvisare nel primo Salvini un modello simile. Con posizioni chiaramente antieuropee e volte alla limitazione dell’immigrazione (queste ultime peraltro, nel 2018, condivise da circa l’80% degli italiani, come in altri paesi europei), ma con altre posizioni economiche orientate alla protezione sociale: ad esempio sulla riforma delle pensioni, che non a caso diventerà un provvedimento bandiera del governo Conte. Il tutto che appare attingere alla diffusa inquietudine di una classe media in crescenti difficoltà economiche, purtroppo per certi versi aggravate dalle politiche di austerità introdotte all’epoca dal governo Monti e successivamente confermate dai governi successivi. Provvedimenti che, a dispetto del framing “tecnico”, hanno implicato inevitabili e dolorose scelte politiche su come distribuire i loro costi sociali. Questioni difficili da etichettare di “destra”, e che tuttavia vari elementi ci dicono aver contato nella penetrazione della Lega in aree come la Toscana e l’Emilia-Romagna. Il primo Salvini aveva dunque chiare caratteristiche post-ideologiche; e aveva mantenuto un silenzio strategico su temi come la famiglia tradizionale e i diritti civili, guardandosi bene dal dare visibilità agli esponenti leghisti più conservatori, e anche dal mostrare qualunque simpatia verso i nostalgici del fascismo. Perché erano scelte che avrebbero potuto soltanto costare voti, visto che i veri terreni per il successo della Lega erano altri: l’immigrazione; la sicurezza; la critica alla riforma Fornero e quella all’Europa (ma anch’essa – nella campagna del 2018 – in parte ammorbidita rispetto ai toni apocalittici degli anni precedenti, e quindi in parte in sintonia con molti aspetti di sfiducia condivisi in modo maggioritario dagli italiani).
L’ultimo Salvini si sposta a destra: ma perchè?
A partire dal modello del primo Salvini, destano quindi vera perplessità alcune uscite recenti del leader leghista. Tra queste la partecipazione al “Congresso delle Famiglie” di Verona, la discussa pubblicazione di una foto con una mitraglietta, l’ostentata mancata partecipazione alle celebrazioni per il 25 aprile, infine il caso del libro-intervista pubblicato da una casa editrice vicina a Casa Pound. Scelte che sembrano aver mostrato una volontà strategica di dare al partito un profilo più nettamente di destra o estrema destra, e che in questo senso vanno di fatto in controtendenza con il profilo post-ideologico che finora aveva per molti versi caratterizzato il successo del leader della Lega.
Staccarsi da quel profilo post-ideologico significa però allontanarsi dagli atteggiamenti prevalenti nell’opinione pubblica italiana, che è sì caratterizzata da atteggiamenti conservatori sull’immigrazione, ma tuttavia prevalentemente progressisti sull’economia e su vari aspetti legati ai diritti civili. Un mainstream italiano che quindi non può che essere tendenzialmente moderato, e ostile a uscite più radicali ed estremiste. Avanzo quindi l’ipotesi, che ovviamente richiederà maggiori analisi e più dati, che quindi il calo di consensi della Lega possa essere messo in relazione con quello che di fatto potrebbe essere un errore, un passo falso nella definizione della strategia tematica della Lega, con l’effetto di indebolire la sua capacità di penetrazione trasversale, confinandola al solo elettorato che si colloca più chiaramente a destra. Una scelta che per certi versi mostra un problema di crescita e maturazione per la Lega di Salvini. Una cosa è prendere un partito del 4% e portarlo al 17%. Altra cosa è ambire a fargli materializzare l’oltre 30% visto nei sondaggi, puntando a farne uno degli attori baricentrici della politica italiana: difficile a mio parere farlo spostandolo su posizioni più estremiste.
Tuttavia, non si tratta certo del primo caso di potenziale errore strategico. Un illustre precedente è quello di Matteo Renzi, che dopo le trionfali europee del 2014, vinte grazie a una strategia “ecumenica” che mirava anzitutto a non dividere l’elettorato di centrosinistra puntando su obiettivi bipartisan (spazio alle donne, più peso in Europa, redistribuzione del reddito), cadde poi in un errore simile, infilandosi dall’autunno 2014 in una strategia più ideologica, con scelte divisive che gli alienarono il sostegno di una parte importante dell’elettorato di centrosinistra (nonché di soggetti chiave come sindacati, insegnanti, e ceti più disagiati). I risultati si sono visti prima nel referendum costituzionale e poi nel disastro elettorale del 4 marzo 2018. Non è possibile per adesso dire come evolverà il consenso alla Lega (l’arretramento di questi giorni potrebbe anche essere temporaneo), ma l’impressione è che la strategia vista nelle ultime settimane non sia il miglior viatico perché Salvini possa conquistare una posizione baricentrica nella politica italiana. E forse il ritorno di questi ultimi giorni a un tema come la sicurezza (in linea con l’identità della Lega, e classicamente di destra, ma dotato di una capacità di penetrazione trasversale, e su cui la Lega è tradizionalmente percepita come molto credibile) potrebbe rappresentare un tentativo di recuperare il “passo falso” verso l’estrema destra delle ultime settimane. Riuscirà? Lo sapremo nelle urne, ormai tra meno di due settimane.