Il Renzi che vince e il Renzi che “non vince”

di Lorenzo De Sio

Le elezioni europee dell’anno scorso ci avevano mostrato con chiarezza il Renzi che vince. Le regionali di pochi giorni fa mostrano un risultato diverso. Nonostante un centrodestra in crisi di leadership e progetto politico ormai da anni, e molto frammentato nella maggior parte delle regioni al voto, il Pd in alcuni casi (Liguria, Veneto, Umbria) ha perso clamorosamente o è andato vicinissimo a una sconfitta inaspettata; in altri, ha faticato molto per affermarsi, e spesso vi è riuscito quasi solo grazie alla frammentazione degli avversari. Perdendo quasi ovunque molti punti percentuali anche rispetto alle precedenti regionali, e perdendo ovunque molti voti assoluti, in un contesto di grande aumento dell’astensione. Insomma, non sembra esattamente una vittoria. Forse sarebbe esagerato paragonarla alla “non vittoria” di Bersani del 2013. Oltretutto si tratta di elezioni locali in cui non era in gioco direttamente Renzi, in cui hanno contato le personalità e le storie politiche dei candidati, nonché la capacità del centrodestra di avere candidati credibili. Tuttavia è impossibile nascondere che non si tratta di un risultato positivo per il Pd di Renzi.

E quindi, da dove viene questo risultato? A mio parere è necessaria una riflessione che vada oltre le “attenuanti generiche” che abbiamo visto poc’anzi, per entrare nello specifico delle strategie di competizione. Esiste una differenza tra il Renzi che vince e il Renzi che “non vince”, o è solo il frutto del caso?

Come conquistare il voto moderato? Due strategie

Il problema di fondo che Renzi si è trovato di fronte dall’inizio è abbastanza semplice. Si tratta di partire da un partito (e da un elettorato) di centrosinistra, per riuscire poi a catturare una quota aggiuntiva di elettori più moderati, arrivando quindi a rappresentare una vera maggioranza del paese, riuscendo quindi a costruire un partito stabilmente competitivo sul piano elettorale, e in grado di governare in modo efficace.

Per ottenere questo risultato, le strategie possibili (e alternative) sono essenzialmente due:

1)      La prima è di spostare il baricentro politico-ideologico del partito, rendendolo più moderato. Questa strategia mette in conto di poter perdere voti a sinistra (e magari di subire una piccola scissione), perché parte dal presupposto che ci sia un ampio bacino di elettori moderati, disponibili a lasciare il loro schieramento per abbracciare un Pd più moderato, e quindi in grado non solo di compensare le perdite a sinistra, ma magari di fornire addirittura anche un surplus di voti. Si tratta della classica strategia “posizionale” teorizzata ormai oltre cinquant’anni fa da Anthony Downs nella sua Teoria economica della democrazia (1957), e che molti riconoscono attuata con successo, ad esempio, da Tony Blair con il suo progetto del New Labour (ma su questo si potrebbe discutere a lungo).

2)      La seconda è invece quella che potremmo definire una strategia di tipo “ecumenico”, basata sulla competenza. Si tratta di scegliere un piccolo pacchetto di temi che stanno a cuore a tutti gli elettori (sia di centrosinistra che di centrodestra) su cui il partito o candidato è in grado di presentarsi semplicemente come più competente, senza considerazioni ideologiche. Un candidato che abbia le carte in regola per attuare questa strategia può compiere il piccolo miracolo di conquistare elettori moderati senza perdere i suoi elettori di partenza.

Reagan nel 1980 e Obama nel 2008: due candidati decisamente radicali (per niente “centristi”) che tuttavia riportarono vittorie molto ampie

Si tratta della strategia cosiddetta della valence politics, descritta e teorizzata anch’essa oltre cinquant’anni fa da Donald Stokes (1963). Stokes partiva dall’esempio storico dell’elezione di Ike Eisenhower del 1952, ma esempi simili sono chiaramente quelli di Reagan nel 1980 e Obama nel 2008: due candidati decisamente radicali (per niente “centristi”) che tuttavia riportarono vittorie molto ampie proprio grazie a questa strategia (vedi De Sio 2011).

Renzi 1 contro Renzi 2

Ora, a mio parere non è difficile vedere che Renzi ha cambiato strategia tra le europee dell’anno scorso e le ultime regionali.

Nei mesi che precedettero le europee, Renzi evitò accuratamente qualunque tema che potesse evocare divisioni ideologiche. Respinse la richiesta di Alfano di affrontare il tema dell’articolo 18 (l’avrebbe fatto dopo le elezioni); si adoperò per una misura come quella degli 80 euro, destinata a beneficiare una platea abbastanza vasta e trasversale (non solo di elettori di sinistra), ma soprattutto insistette moltissimo su temi trasversali come la capacità di rimettere in moto l’economia, di dare più spazio alle donne nella politica e nella società, di far valere maggiormente gli interessi dell’Italia in Europa. Temi che per definizione non sono né di sinistra né di destra, su cui Renzi poteva rivendicare (anche data la virtuale assenza di leader avversari) una maggiore credibilità, e che sono emersi, dalle analisi, come determinanti per il suo grande successo alle europee.

Il contrasto con quanto avvenuto dopo le europee è abbastanza forte. Coerentemente con quella che alcuni commentatori hanno identificato come l’idea del “Partito della Nazione”, Renzi è di fatto passato dalla precedente strategia “ecumenica” a una strategia chiaramente posizionale (la prima che abbiamo visto poc’anzi).

Renzi è di fatto passato dalla precedente strategia “ecumenica” a una strategia chiaramente posizionale

Ha iniziato a costruire un profilo valoriale (se non ideologico) più nettamente moderato, cercando (e poi esibendo) una chiara rottura con i sindacati; senza temere (anzi lasciando intendere che non sarebbe stato un problema) una potenziale scissione a sinistra; e rispondendo in maniera dura anche alla protesta degli insegnanti.

Ovviamente la politica è più complicata dei modelli teorici. In molte delle scelte del premier c’è semplicemente il fatto che iniziare a prendere dei provvedimenti comporta inevitabilmente delle divisioni. E non si possono tacere le responsabilità della minoranza interna del Pd, che sembra non aver mai voluto né riconoscere la legittimità della leadership di Renzi (la cui affermazione alle primarie, va ricordato, non sarebbe stata possibile senza l’enorme serie di errori e fallimenti della leadership precedente), né avviare un confronto pragmatico con Renzi sulle cose concrete da fare. Tuttavia a mio parere molte delle scelte di Renzi sono state chiaramente simboliche, volte a mostrare agli elettori moderati che il Pd non aveva paura né dei sindacati né degli insegnanti, e quindi ad accreditarlo presso gli elettori moderati.

Il test delle regionali

Il punto, e qui veniamo forse al motivo della “non vittoria”, è che questi voti moderati non sembrano essere arrivati. Emblematico è il caso di Raffaella Paita in Liguria (con alcune similitudini con quello di Alessandra Moretti in Veneto). La Paita era praticamente un modello perfetto della strategia posizionale del “Partito della Nazione”: rottura a sinistra per cercare il voto moderato. Una candidatura nata infatti con l’invito esplicito agli elettori di centrodestra a venire a votare alle primarie (peraltro molto controverse e punteggiate da sospetti di irregolarità), e poi suggellata dalla nascita di un altro candidato a sinistra, accreditando quindi chiaramente il profilo moderato della Paita. Un test perfetto per la strategia posizionale; un test che tuttavia sembra essere fallito miseramente. Non solo la sua candidatura non ha sfondato nel centrodestra (gli elettori moderati sono rimasti compattamente nel centrodestra nonostante la debolezza della candidatura di Toti), ma sembra aver in parte smobilitato l’elettorato di centrosinistra, che in misura significativa sembra essersi astenuto (non ritenendo credibile neanche la candidatura di Pastorino).

Gli altri candidati presidenti, pur a volte presentandosi senza la sinistra radicale (come nel caso di Rossi), hanno mantenuto identità più in linea con l’eredità tradizionale del centrosinistra, e adottato strategie “ecumeniche” basate sulla competenza. Vale per Rossi, Emiliano, Ceriscioli, e per lo stesso De Luca (molto discusso, ma che al tempo stesso gode di un consenso praticamente plebiscitario nella Salerno che ha governato per anni): tutti candidati che hanno ottenuto buone affermazioni, pur in un contesto generale di aumento dell’astensione e di calo del Pd.

Che fare?

Di conseguenza, l’impressione è che queste elezioni abbiano mostrato un dato inaspettato (anche per molti analisti): la scarsa disponibilità degli elettori di centrodestra a votare il Pd, anche quando quest’ultimo si presenta con un volto decisamente più moderato, facendo una corte serrata proprio a questi elettori. Ovviamente nessuno è in grado di dire quanto questo problema sia relativo ai singoli candidati, e quanto in realtà Renzi, in un voto nazionale, avrebbe invece la capacità di sfondare davvero nel centrodestra, diversamente dai candidati presidente. Tuttavia per adesso sembra che gli elettorati di centrosinistra e centrodestra non siano così permeabili, e che di conseguenza forse Renzi potrebbe dover ritornare a una strategia di tipo “ecumenico” e cercare di non soffiare più sul fuoco delle divisioni a sinistra. Staremo a vedere.

Riferimenti bibliografici

De Sio, Lorenzo. 2011. Competizione E Spazio Politico. Le Elezioni Si Vincono Davvero Al Centro?. Bologna: Il Mulino.

———. 2014a. “Chi risolverà i problemi dell’Italia? Partiti, obiettivi e credibilità.” Dossier CISE Le Elezioni Europee 2014, 99.

———. 2014b. “Da dove viene la vittoria di Renzi?” Dossier CISE Le Elezioni Europee 2014, 171.

Downs, Anthony. 1957. An Economic Theory of Democracy. New York,: Harper.

Stokes, Donald E. 1963. “Spatial Models of Party Competition.” American Political Science Review 57: 368–77.