Autore: Davide Cuccurullo

  • Midterm 2022: il contesto alla vigilia

    Midterm 2022: il contesto alla vigilia

    Oggi gli Stati Uniti tornano al voto per le midterm elections, le elezioni che si tengono a metà del mandato presidenziale e che rinnoveranno tutti i 435 seggi della Camera e 35 seggi del Senato, determinando la composizione del 118esimo Congresso.

    Come ricorda Paparo (2014) nell’articolo scritto in occasione delle midterm election di quell’anno, il Congresso degli Stati Uniti è formato da due Camere: la Camera dei Rappresentanti, che rappresenta il popolo americano ed è composta da 435 deputati eletti negli altrettanti collegi uninominali di quasi omogenea popolosità in cui sono divisi gli Stati Uniti, e il Senato, che rappresenta gli Stati della Federazione ed è composto da 100 membri, 2 per ciascuno dei 50 Stati. Il mandato da senatore ha una durata di sei anni, mentre quello da deputato ne dura due: ogni due anni le elezioni federali rinnovano la totalità della Camera e un terzo del Senato – al fine di un rinnovo parziale di un terzo ogni due anni e totale ogni sei.

    Ogni quattro anni dunque, alla scadenza del mandato presidenziale, le elezioni legislative coincidono con le elezioni presidenziali. Ma anche nel caso delle elezioni di metà mandato, pur non coinvolgendo direttamente il Presidente, il rinnovo delle Camere ha un impatto rilevante: incide infatti sui due anni rimanenti del mandato presidenziale, e di conseguenza sulla sua capacità di portare avanti il programma di governo. La natura bicamerale del sistema statunitense, infatti, prevede che affinché una proposta possa essere sottoposta al Presidente per la ratifica (e quindi diventare legge), debba essere stata approvata da entrambi i rami del Parlamento. Il Senato, inoltre, è l’organo a cui è demandato il compito di confermare le nomine di natura presidenziale, tra cui quelle dei giudici della Corte Suprema.

    Attualmente il Partito Democratico detiene la maggioranza sia alla Camera sia – sebbene tecnicamente sia un “pareggio”, come vedremo più avanti – al Senato. È improbabile che questa situazione si mantenga anche dopo l’8 novembre.

    House of Representatives

    I Democratici partono da 220 deputati, poco sopra la soglia della maggioranza (pari a 218) contro i 212 dei Repubblicani. I restanti 3 seggi sono vacanti. Se il Partito Repubblicano mantenesse tutti i seggi di cui dispone al momento, gliene sarebbero necessari solamente altri 6 per strappare la maggioranza al Partito Democratico. A favore di quest’ipotesi non ci sono solamente i trend dei sondaggi più recenti, ma anche un dato statistico rilevante: dal dopoguerra in poi, nelle elezioni di metà mandato il partito espressione del Presidente ha perso in media oltre 25 seggi.

    Fig. 1 – riassunto della distribuzione dei seggi, Cook Political Report

    Sulla complessità della situazione per il Partito Democratico sono concordi tutti gli istituti di analisi e ricerca. Le stime pubblicate sul Cook Political Report, per esempio, considerano “sicuri” 159 seggi per i Dem e 188 per il GOP. Un vantaggio importante per i Repubblicani, che li avvicina alla soglia della maggioranza, ancor più se considerati anche gli 11 seggi ritenuti probabili e i 13 tendenziali. Sommandoli, si tratta di 212 seggi: per arrivare a 218, al Partito Repubblicano basterebbe vincere in 6 collegi tra i 36 che sono ritenuti “in bilico”. Dei restanti 28, 13 sono probabili democratici e 15 tendenziali democratici: vale a dire che per ottenere la maggioranza, il Partito Democratico dovrebbe vincere almeno 21 collegi tra quelli in bilico, oltre a tutti i seggi che sono considerati solidi, probabili e tendenziali per i Dem.

    Qual è la probabilità che si verifichi questa circostanza? Bassa. Il modello probabilistico elaborato da FiveThirtyEight, infatti, attribuisce una probabilità dell’85% alla “conquista” della Camera da parte del Partito Repubblicano. D’altro canto, alcuni analisti fanno notare che nelle elezioni speciali che si sono tenute da quando a giugno la Corte Suprema ha rovesciato la sentenza Roe v. Wade, il Partito Democratico ha sistematicamente superato le percentuali dei sondaggi.

    Come evidenziano Cuccurullo e Paparo (2018, 1), due elementi depongono sistematicamente a sfavore dei Democratici nelle elezioni alla Camera: una svantaggiosa – dato il sistema elettorale maggioritario – concentrazione del loro elettorato in specifiche zone e il gerrymandering, la ridefinizione dei confini dei collegi da parte dei governi dei singoli Stati al fine di ottenere un vantaggio per la propria parte politica.

    Senato

    Attualmente la situazione in Senato è di fatto un pareggio: dei 100 senatori, 50 sono repubblicani e 50 democratici. La maggioranza è però detenuta dai Democratici, grazie alla regola della Costituzione per la quale il Vicepresidente degli Stati Uniti (oggi Kamala Harris, vice di Joe Biden) esprime il proprio voto in qualità del suo ruolo formale di Presidente del Senato. Ciò implica però che è sufficiente un solo seggio ai Repubblicani per ribaltare la situazione.

    Fig. 2 – Composizione delle delegazioni in Senato. Tra i 100 senatori ne sono presenti due indipendenti (Angus King, Maine, e Bernie Sanders, Vermont). Entrambi sono iscritti al gruppo dei democratici in Senato e dunque ai fini di questa analisi li considereremo per comodità tra i Dem

    La Figura 2 mostra la composizione per partito delle attuali delegazioni in Senato. Nel dettaglio, attualmente ci sono 22 Stati rossi, in cui entrambi i Senatori sono repubblicani; 22 Stati blu, in cui entrambi i Senatori sono espressione del Partito Democratico; e 6 Stati viola, con una delegazione mista.

    Anche in questo caso vi è un elemento che rappresenta un vantaggio strutturale per il Partito Repubblicano. Come evidenziano Cuccurullo e Paparo (2018, 2), le roccaforti dei Repubblicani sono gli Stati meno popolosi, al contrario dei Democratici presenti prevalentemente negli Stati con un maggior numero di abitanti: dal momento che la funzione del Senato è rappresentare gli Stati e non la popolazione, i Repubblicani necessitano, di base, di meno voti dei Democrati per poter esprimere un numero di senatori pari o superiore al loro.

    In apertura si ricordava che i 100 seggi senatoriali, il cui mandato dura sei anni, sono divisi in tre classi, ciascuna delle quali è a rotazione chiamata alle urne ogni due anni. Quest’anno è il turno della Terza classe: si tratta dei 34 Senatori che sono stati eletti nel 2016, l’anno dell’elezione di Donald Trump alla Presidenza. Si vota anche per un’elezione suppletiva, quella per il seggio del senatore repubbicano Inhofe, eletto nel 2020 ma dimessosi prima della fine naturale del mandato (2026). Sono quindi 35 i senatori uscenti. Di questi, 21 sono espressione del Partito Repubblicano e 14 del Partito Democratico.

    Se qualche mese fa per i Democratici sembrava possibile consolidare la propria maggioranza, oggi l’obiettivo è riuscire a mantenerla difendendo i 50 seggi attualmente a disposizione. Secondo l’analisi del Cook Political Report, al Senato si prospetta un testa a testa, leggermente sfavorevole ai Democratici.

    Dei 14 seggi uscenti democratici, 11 sono considerati riconfermabili a diversi gradi di certezza (8 sicuri, 1 probabile, 2 tendenziali). Dei 21 repubblicani, 20 sono riconfermabili (15 sicuri, 2 probabili, 3 tendenziali). Questo restringe il campo a quattro campi di battaglia, quattro competizioni elettorali – 3 in precedenza democratici, 1 in precedenza repubblicano – che determineranno le sorti della maggioranza al Senato: si tratta di Arizona, Nevada, Pennsylvania e Georgia.

    L’ex astronauta Mark Kelly, democratico, è chiamato a difendere il suo seggio in Arizona, in cui era stato eletto nelle elezioni suppletive nel 2020 dove fece registrare addirittura un risultato migliore di due punti rispetto a quello di Joe Biden. Secondo i sondaggi, il suo vantaggio sul candidato repubblicano, Blake Masters, è molto risicato, e la situazione potrebbe stravolgersi nel caso di uno scenario particolarmente favorevole al Partito Repubblicano a livello nazionale.

    In Nevada è stata data particolare attenzione al fenomeno dell’early voting, storicamente favorevole ai candidati del Partito Demcoratico: secondo le analisi degli esperti, i quasi 600mila voti espressi in anticipo fornirebbero un vantaggio importante ai democratici nell’avvicinarsi all’election day. La senatrice democratica uscente, Catherine Cortez Masto, potrebbe dunque vincere, di poco, sul repubblicano Adam Laxalt.

    Negli ultimi anni, la Pennsylvania si è spostata più a destra: è questa la ragione per cui gli analisti ritengono che, nello scenario attuale in cui i repubblicani a livello nazionale dovrebbero (secondo i sondaggi) essere a +2, qui una vittoria dei democratici sia più complessa. Potrebbe quindi spuntarla la celebrità televisiva Mehmet Oz ai danni del democratico John Fetterman.

    Infine, in Georgia si sfidano il senatore democratico uscente, eletto nell’elezione suppletiva del 2020, Raphael Warnock e il repubblicano Herschel Walker. I sondaggi riconoscono un leggero vantaggio a Warnock, ma potrebbe non essere sufficiente. Il sistema elettorale della Georgia, infatti, prevede un ballottaggio, da tenersi a dicembre, se nessun candidato dovesse raggiungere la maggioranza assoluta dei voti, caso che non è da escludere vista la presenza di un terzo candidato, espressione del Partito Libertariano, sulla scheda elettorale: è probabile dunque che bisognerà attendere un mese ancora per conoscere quale partito avrà il controllo del Senato degli Stati Uniti.

    Per FiveThirtyEight, la possibilità che il Partito Repubblicano ottenga una maggioranza è del 55%. Dead heat.

  • Elezioni di midterm: Trump perde la Camera ma avanza al Senato

    Elezioni di midterm: Trump perde la Camera ma avanza al Senato

    Sebbene non sia ancora definitivo, come vedremo più avanti, è possibile cominciare ad affermare che il risultato delle elezioni di metà mandato ha confermato le previsioni della vigilia: il Partito Democratico ha conquistato la maggioranza alla Camera, mentre il Partito Repubblicano è riuscito a mantenerla al Senato. In quest’articolo analizzeremo il quadro che emerge da queste elezioni, in attesa che vengano assegnati ancora gli ultimi seggi.

    Con dieci collegi ancora da assegnare, al momento alla Camera il Partito Democratico si è assicurato 227 seggi, ben oltre la maggioranza di 218. Per ora, invece, il Partito Repubblicano può contare su 198 seggi, rispetto ai 235 con cui ha chiuso la legislatura. Come visibile nella Figura 1, per ottenere questo risultato, il Partito Democratico ha dovuto vincere in 34 seggi precedentemente appartenenti a deputati repubblicani, perdendone solamente 4 a favore del Partito Repubblicano.

    Si tratta quindi, già adesso, di uno swing di 30 seggi, superiore quindi all’arretramento medio del partito del Presidente a midterm (Cuccurullo 2018). Un numero sufficiente a costituire una elezione un terremoto, secondo la definizione di Brady e Parker (2018). E questo nonostante l’andamento dell’economia americana sia davvero positivo, a livelli che, secondo i classici modelli econometrici, avrebbero dovuto spingere la popolarità del Presidente attorno al 60%, invece che poco sopra il 40% osservato (Brady e Parker 2018). Trump, insomma, sembra aver pagato un cost of ruling particolarmente alto (Paldam 1986), in chiave comparata con i Presidenti del dopoguerra, nelle elezioni su scala nazionale della Camera.

    Fig. 1 – Risultati elettorali nelle elezioni di midterm 2018 alla Camera (clicca per ingrandire)house_results_2018

    Inoltre, dei dieci seggi ancora in bilico, altri 6 dovrebbero andare ai Democratici, che quindi chiuderebbero con 234 seggi totali. Particolare il caso del 2° distretto del Maine, dove il candidato repubblicano è arrivato primo, ma senza ottenere la maggioranza assoluta dei voti, e dunque la legge elettorale dello Stato – cambiata con un referendum che si è svolto nel 2016 – prevede che il vincitore venga determinato dal “voto alternativo”. Sulla scheda elettorale dei cittadini del Maine, infatti, era possibile indicare un ordine di preferenza tra i candidati: tutti i voti per candidati diversi dal primo (il repubblicano) e il secondo (il democratico) verranno redistribuiti ai primi due secondo la preferenza indicata dagli elettori. (matchkicks.com) Con questo sistema differente di conteggio dei voti, la situazione potrebbe essere ribaltata, consegnando al candidato Democratico il seggio (Campoy 2018).

    Venendo quindi al Senato (Fig. 2), il Partito Democratico è riuscito a vincere in due dei tre Stati in cui avevamo segnalato che avrebbero provato a strappare il seggio ai repubblicani (Cuccurullo e Paparo 2018). Si tratta del Nevada, dove l’incumbent GOP è stato sconfitto dalla democratica Jacky Rosen, e dell’Arizona, in cui l’incumbent repubblicano Jeff Flake aveva deciso di non ricandidarsi. Il Partito Repubblicano è però riuscito a vincere tre Stati in precedenza democratici (Indiana, Missouri e North Dakota): pertanto è sicuro che continuerà a detenere la maggioranza ancora fino al 2020.

    Fig. 2 – Risultati elettorali nelle elezioni di midterm 2018 al Senato (clicca per ingrandire)senate_results_2018

    Anzi, potrebbe aumentarla ulteriormente. Rimangono due seggi ancora da assegnare, e in entrambi il Partito Repubblicano è favorito: la Florida e il ballottaggio per l’elezione speciale del Mississippi. In Florida è stato stabilito il riconteggio dei voti: inizialmente il candidato democratico Bill Nelson aveva ammesso la sconfitta, per poi ritrattare quando il vantaggio del candidato repubblicano (l’ex governatore Scott) si è assottigliato a uno 0,15%. La legge dello Stato della Florida prevede che venga effettuato un primo riconteggio automatico se il vantaggio del primo arrivato è inferiore allo 0,5% e che si proceda con un riconteggio manuale nel caso in cui, dopo il primo, il vantaggio sia inferiore allo 0,25%. Sebbene raramente i riconteggi ribaltino il risultato (Bialik 2016), gli elettori Democratici sperano che i pochi voti fatti registrare nella famigerata contea di Broward[1], già sotto i riflettori per il riconteggio delle elezioni presidenziali del 2000, siano dovuti a un errore delle macchine.

    In Mississipi, invece, è quasi sicura la vittoria repubblicana: la senatrice repubblicana uscente Cindy Hyde-Smith arriva infatti al ballottaggio dopo aver ottenuto il 41,5% dei voti contro il 40,6% dello sfidante democratico Mike Espy. La partita sembrerebbe quindi tutt’altro che chiusa. Tuttavia, tra i candidati del primo turno (che in presenza di un sistema maggioritario a doppio turno fungono quasi da primarie) era presente anche un altro candidato del Partito Repubblicano, Chris McDaniel, che ha chiuso con oltre il 16% dei voti. Voti che credibilmente andranno ad Hyde-Smith.

    Per quanto riguarda il Senato, quindi, Trump può cantare vittoria, dal momento che, con ogni probabilità, la sua parte politica potrà contare nel 116° Congresso su due senatori in più rispetto al 115°. Un avanzamento in Senato per il partito del Presidente è cosa assai rara alle elezioni di midterm. Si tratta quindi di un successo notevole, che, seppur certamente favorito dalla particolare composizione dei seggi in Senato chiamati a rinnovarsi in questo 2018 (Cuccurullo e Paparo 2018), mitiga senza dubbio la pesante sconfitta fatta segnare alla Camera; e permette a Trump di consolidare la sua azione politica fondata su nomine conservatrici nel sistema giudiziario, confermate dal Senato (Cain 2018).

    Da sottolineare, poi, il tentativo del Presidente di presentare il successo al Senato come un proprio risultato, mentre la sconfitta alla Camera veniva attribuita ai candidati repubblicani sconfitti, in particolare coloro i quali non hanno voluto il sostegno di Trump durante la campagna elettorale, ma anzi hanno marcato le proprie distanze dal Presidente, e sono stati sconfitti (questi ultimi citati per nome durante la conferenza stampa la mattina dopo il voto) – mentre invece gli incumbent repubblicani per cui Trump ha fatto campagna avrebbero quasi tutti riconquistato il proprio seggio.

    Una nota conclusiva a parte merita una delle sfide più attese, quella svoltasi in Texas. Il candidato Democratico Beto O’Rourke non è riuscito a sconfiggere il Senatore uscente Ted Cruz, ma ha ottenuto un risultato comunque molto positivo e ben al di sopra della tradizione elettorale dei democratici (il 48,2%), che lo hanno lanciato come possibile candidato alle elezioni primarie del Partito Democratico per le Presidenziali del 2020, aprendo anche scenari inediti per la conquista della maggioranza nel collegio elettorale presidenziali per i futuri nominees democratici, che possono anche passare, da oggi in avanti, per una conquista dei grandi elettori texani.

    Riferimenti bibliografici

    Bialik, Mark (2016), ‘Recounts Rarely Reverse Election Results’. https://fivethirtyeight.com/features/recounts-rarely-reverse-election-results/

    Brady, David W. e Scott Parker (2018), ‘Verso un terremoto elettorale nelle midterm elections?’. https://cise.luiss.it/cise/2018/10/30/verso-un-terremoto-elettorale-nelle-midterm-elections/

    Cain, Bruce (2018), ‘Un Presidente “Me-First” all’epoca del “#MeToo”‘. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/03/un-presidente-me-first-allepoca-del-metoo/

    Campoy, Ana (2018), ‘An algorithm could decide a US congressional race in Maine’. https://qz.com/1461915/bruce-poliquin-sued-to-stop-ranked-choice-voting-in-maine/

    Cuccurullo, Davide  (2018), ‘Elezioni di midterm alla Camera: il quadro della vigilia’. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/02/elezioni-di-midterm-alla-camera-il-quadro-della-vigilia/

    Cuccurullo, Davide e Aldo Paparo (2018), ‘Oggi le elezioni di midterm: quali scenari per il Senato?’. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/06/oggi-le-midterm-quali-scenari-per-il-senato/

    Paldam, Martin (1986), ‘The distribution of election results and the two explanations of the cost of ruling’, European Journal of Political Economy, 2(1), pp. 5–24.


    [1] Gli elettori della Florida votavano, sulla stessa scheda elettorale, sia per il Senato che per il Governatore dello Stato: nella contea di Broward sono pervenuti 25mila voti in meno per la corsa per il seggio del Senato rispetto a quelli per le elezioni Governatoriali.

  • Oggi le elezioni di midterm: quali scenari per il Senato?

    Oggi le elezioni di midterm: quali scenari per il Senato?

    Dopo aver illustrato il quadro delle imminenti elezioni per la Camera (Cuccurullo 2018), in quest’articolo analizziamo il contesto in cui si terranno le elezioni per il rinnovo dei 35 seggi per il Senato in palio in queste elezioni di midterm. Come già ricordato, il Senato è composto da 100 membri, due per ogni Stato, e si rinnova parzialmente, per un terzo dei suoi membri, ogni due anni. A tal fine, i 100 seggi senatoriali, il cui mandato dura sei anni, sono divisi in tre classi, una delle quali è a rotazione chiamata alle urne in ciascun election day biennale, il primo martedì di novembre.

    Prima del 2016 il Partito Repubblicano poteva contare in Senato su una maggioranza relativamente tranquilla, avendo 54 seggi. Sui 34 seggi contesi nel 2016, però i Repubblicani sono riusciti a confermarsi in 22 sui 24 totali già in loro possesso, perdendone quindi due a favore dei Democratici. La maggioranza repubblicana all’inizio del mandato presidenziale di Trump contava perciò su 52 senatori. Il numero di senatori repubblicani si è ulteriormente assottigliato in seguito alle elezioni suppletive per uno dei due seggi dell’Alabama, precedentemente repubblicano ma passato ai Democratici con la vittoria di Doug Jones. Il Partito Repubblicano attualmente ha dunque 51 seggi, pari a una maggioranza di appena due voti, dal momento che, in caso di parità, la Costituzione prevede che il Vicepresidente degli Stati Uniti (attualmente il vice di Trump è il repubblicano Mike Pence), possa esprimere il proprio voto in qualità del suo ruolo formale di Presidente del Senato.

    La Figura 1 mostra la composizione per partito delle attuali delegazioni in Senato. Come si osserva immediatamente, tra i 100 senatori ne sono presenti due indipendenti, che sono stati eletti, cioè, senza il sostegno di alcun simbolo di partito. Si tratta dei Senatori Angus King del Maine e Bernie Sanders, già candidato alle primarie del Partito Democratico nel 2016, per il Vermont. Entrambi questi senatori indipendenti sono iscritti al gruppo dei democratici in Senato e dunque votano – la maggior parte delle volte – in linea con il Partito Democratico. Sia King che Sanders dovranno difendere il proprio seggio in questa tornata elettorale, come vedremo più avanti. Quest’ultimo corre stavolta sotto le insegne del Partito Democratico.

    Nel dettaglio, sommando Sanders e King ai democratici, attualmente ci sono 19 Stati rossi, in cui entrambi i Senatori sono repubblicani; 18 Stati blu, in cui entrambi i Senatori sono espressione del Partito Democratico; e 13 Stati viola, con una delegazione mista.[1] Gli Stati blu sono collocati principalmente, rispecchiando la situazione alla Camera (Cuccurullo 2018), sulla costa occidentale, nel Nordest e in parte del Midwest (Minnesota, Illinois e Michigan). Blu sono inoltre le Hawaii, il New Mexico e la Virginia. Gli Stati rossi sono concentrati invece nella roccaforte del Partito Repubblicano, il Sud (con le importanti eccezioni di Alabama e Florida), nella regione del Midwest e in quella delle Montagne Rocciose. A questi si aggiunge infine l’Alaska. Viola sono poi, oltre alle citate Alabama e Florida,  Nevada, Arizona, Montana, Nord Dakota e la gran parte degli Stati che affacciano sui Grandi Laghi.

    Fig. 1 – Composizione partitica delle attuali delegazioni in Senato dei 50 StatiUS_senate_pre_1Occorre qui sottolineare un elemento importante, che costituisce un vantaggio strutturale per i repubblicani nella conquista di una maggioranza al Senato. Questo ha a che vedere con sua rappresentanza per Stati e non in base alla popolazione, in combinato disposto con la forza dei repubblicani negli Stati meno popolosi e la prevalenza dei democratici in quelli più grandi. Ad esempio, sono rossi 10 dei 21 Stati meno popolosi (contro i 6 blu), mentre solo il Texas fra gli otto più popolati è rosso (contro i quattro blu). Alla Camera, dove i seggi sono distribuiti fra gli Stati in proporzione alla popolazione, nel complesso, i 19 Stati rossi eleggono un totale di 133 seggi, contro i ben 191 seggi dei 18 Stati blu. In pratica, stando ai dati dell’ultimo censimento, gli Stati rossi eleggono un senatore ogni 2,5 milioni di abitanti, quelli blu uno ogni 3,75 milioni. Una differenza non da poco.

    Come accennato in apertura, nelle elezioni di questo 6 novembre sono complessivamente in palio 35 seggi in Senato. Ai 33 seggi della Prima Classe, chiamati alle urne per la normale scadenza del mandato, se ne aggiungono infatti 2 oggetto di elezioni suppletive. Le precedenti elezioni per i seggi della Prima Classe si sono svolte nel 2012, in contemporanea, cioè, con la rielezione alla Presidenza di Barack Obama. Come visibile nella Figura 2, di questi 33 seggi, 23 al momento appartengono a senatori democratici, 2 a indipendenti (ma entrambi, come ricordato, iscritti al gruppo dei democratici), e i restanti 8 a repubblicani. Completano il quadro il seggio della Seconda Classe del Minnesota, chiamato al voto in seguito alle dimissioni del senatore democratico Al Franken, e quello, sempre della Seconda Classe, del Mississippi, in cui a dimettersi è stato invece un repubblicano, Thad Cochran.[2] In ciascuno di questi due Stati, dunque, si svolgeranno due distinti elezioni per il Senato, con candidati diversi, che rinnoveranno l’intera delegazione statale alla Camera alta del Congresso.

    Nel complesso, quindi, questa tornata si presenta assai più favorevole ai repubblicani, che hanno meno da difendere e molte più occasioni di strappare seggi ai rivali. Inoltre, come osservato da Cain (2018), occorre considerare come ben 10 degli uscenti democratici cerchino la rielezione in Stati in cui Trump ha vinto nelle presidenziali di due anni fa, un numero superiore a quello totale dei seggi repubblicani chiamati alle urne. Nel dettaglio, si tratta di Florida, Indiana, Michigan, Missouri, Montana, Nord Dakota, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin – mentre solo in Nevada i repubblicani devono mantenere il seggio in uno Stato vinto dalla Clinton nel 2016. In questi Stati, molti dei quali tutt’altro che blu per tradizione elettorale (oltre che per voto nelle scorse presidenziali), la riconferma dell’incumbent democratico non può certo essere data per scontata: ulteriore elemento di vantaggio per i repubblicani in questa tornata elettorale per il Senato.

    La Figura 2 consente però anche di evidenziare un ulteriore elemento, che al contrario depone a favore dei democratici. Tutti i 24 uscenti democratici cui scade il mandato sono in corsa per la rielezione. Lo stesso vale anche per i due indipendenti, che come abbiamo avuto modo di sottolineare più volte possono essere sommati ai democratici. Al contrario, in un terzo dei seggi attualmente detenuti da repubblicani sono ‘seggi aperti’, ovvero senza l’incumbent in corsa. Questi sono il l’Arizona, il Tennessee e lo Utah. L’incumbency advantage è un fattore cruciale nelle elezioni per il Congresso (Jacobson e Carson 2015). Anche al Senato, dove ormai i tassi di rielezione degli uscenti superano l’80%, arrivando quindi a sfiorare quelli della Camera. Considerata quindi la forza dell’incumbency factor, i seggi aperti dei repubblicani rappresentano un, certamente parziale, bilanciamento del grande vantaggio che i questi hanno rispetto ai democratici in quanto a seggi complessivi da difendere.

    Fig. 2 – Mappa delle 35 competizioni elettorali del 2018 al Senato, per partito di appartenenza e ricandidatura o meno del senatore uscente[3]US_senate_pre_2Per conquistare la maggioranza, il Partito Democratico dovrebbe mantenere i 26 seggi attuali (compresi i 2 dei senatori indipendenti) e vincerne almeno due. Gli Stati in cui potrebbero provare a strappare un seggio ai Repubblicani sono il Nevada, dove il candidato repubblicano è il senatore uscente, ma, come detto, lo Stato è stato vinto da Hillary Clinton alle elezioni del 2016 e fa registrare un indice PVI di +1 verso il Partito Democratico, l’Arizona e il Tennessee, in cui i Senatori uscenti si stanno ritirando e il distacco non pare incolmabile (come invece in Utah).[4]

    Un’altra sfida che sta generando molto entusiasmo tra gli elettori del Partito Democratico è quella per il seggio in Texas: il deputato democratico Beto O’Rourke sfida il senatore uscente, già candidato alle primarie del Partito Repubblicano del 2016, Ted Cruz. Secondo quanto rilevato dagli istituti di ricerca, la competizione è sorprendentemente molto serrata, ma in ogni caso la vittoria di Cruz continua a essere il risultato più probabile. Il Texas, che negli ultimi anni era diventato uno stato saldamente repubblicano, sta vivendo importanti cambiamenti demografici che hanno portato i latinoamericani, elettorato vicino al Partito Democratico, a essere una percentuale sempre maggiore della popolazione, rendendolo, di fatto, uno Stato competitivo.

    Sembra tuttavia improbabile che il Partito Democratico riesca ad avere la maggioranza del prossimo Senato: il modello probabilistico di FiveThirtyEight attribuisce circa l’85% di possibilità al mantenimento del controllo del Senato da parte dei repubblicani. Una probabilità curiosamente simile a quella di una maggioranza democratici alla Camera. Come detto, infatti, il vero problema per i democratici saranno i seggi da difendere. Molti degli Stati in cui si vota il 6 novembre sono Stati che nelle elezioni del 2016 sono stati vinti da Trump con larga maggioranza. Anche per questa ragione, il quadro sembra molto più favorevole ai repubblicani, che possono, tra l’altro, concentrare le risorse nei soli 8 Stati in cui devono difendere i seggi attualmente in loro possesso.

    I sondaggi più recenti escludono la possibilità che possano esserci grandi sorprese, ma un’incognita riguarda sicuramente il peso che avrà l’early voting, il voto anticipato permesso in alcuni Stati: mercoledì 31 ottobre avevano già votato 20 milioni di statunitensi, una quota più alta rispetto al 2014 e, in alcuni Stati, maggiore addirittura rispetto all’affluenza totale delle ultime elezioni di metà mandato. Tra gli Stati in cui si è registrato un aumento di elettori che si sono recati in anticipo alle urne ci sono il Nevada, l’Arizona, il Texas e il Tennessee (Agorakis 2018). La speranza di una vittoria per il Partito Democratico passa anche da qui. Lo statistico Nate Silver (2018) ha spiegato infatti pochi giorni fa che affinché i Democratici possano ottenere il controllo del Senato, sarebbe necessario un errore sistematico nelle rilevazioni, come potrebbe essere, per esempio, un gruppo di elettori sovrastimato o sottostimato dagli istituti di ricerca. Certo, non sarà probabile: ma nel quartier generale democratico, qualcuno ci spera…

    Riferimenti bibliografici

    Agorakis, Stavros (2018), ‘The surge in early voting, explained’. https://www.vox.com/2018/11/3/18013760/surge-early-voting-explained

    Cain, Bruce E. (2018), ‘Un Presidente “Me-First” all’epoca del “#MeToo”‘. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/03/un-presidente-me-first-allepoca-del-metoo/

    Cuccurullo, Davide (2018), ‘Elezioni di midterm alla Camera: il quadro della vigilia’. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/02/elezioni-di-midterm-alla-camera-il-quadro-della-vigilia/

    Jacobson, Gary C., e Jamie L. Carson (2015), The politics of congressional elections, Lanham, Rowman & Littlefield.

    Silver, Nate (2018), ‘Election Update: Democrats Need A Systematic Polling Error To Win The Senate’. https://fivethirtyeight.com/features/democrats-need-a-systematic-polling-error-to-win-the-senate/


    [1] Ai fini di questo calcolo, i due Senatori indipendenti sono considerati tra le fila del Partito Democratico.

    [2] La Seconda Classe ha svolto l’ultima tornata ordinaria nel 2014. Quindi il mandato dei due senatori che saranno eletti in queste elezioni suppletive durerà solamente due anni, ovvero fino a scadenza dal mandato originario del senatore supplito. Questo in modo che nel 2020 tutta la Classe possa rinnovare i propri senatori con mandati che dureranno per i sei anni canonici.

    [3] Il rettangolo tracciato all’interno del territorio di uno Stato indica che in quello Stato, oltre alla elezione ordinaria per il rinnovo del senatore della Prima Classe, si svolge anche l’elezione suppletiva per il secondo senatore dello Stato.

    [4] Il PVI (Partisan Voting Index) è l’indice, aggiornato dopo ogni ciclo elettorale, che misura la tendenza di uno Stato verso uno dei due partiti.

  • Elezioni di midterm alla Camera: il quadro della vigilia

    Elezioni di midterm alla Camera: il quadro della vigilia

    Il 6 novembre i cittadini degli Stati Uniti sono chiamati a votare per scegliere i propri rappresentanti a diversi livelli: al livello federale, in particolare, si rinnoveranno tutti i 435 seggi della Camera e 35 seggi del Senato. Si tratta delle midterm elections, le elezioni che si tengono a metà strada tra due elezioni presidenziali, per l’appunto a metà del mandato presidenziale.

    Come ricorda Paparo (2014) nell’articolo scritto in occasione delle midterm elections di quattro anni or sono, il Congresso degli Stati Uniti è formato da due Camere: la Camera dei Rappresentanti, che rappresenta il popolo americano ed è formata dai 435 deputati eletti negli altrettanti collegi uninominali di – quasi – omogenea popolosità in cui sono divisi gli Stati Uniti, e il Senato, che rappresenta gli Stati che formano la Federazione ed è pertanto composto da 100 membri, 2 per ciascuno dei 50 Stati. Il mandato da senatore ha una durata di sei anni, mentre quello da deputato ne dura due: ogni due anni le elezioni federali rinnovano la totalità della Camera e un terzo del Senato – al fine di avere rinnovo parziale di un terzo ogni due anni e totale ogni sei.

    Ogni quattro anni, a scadenza del mandato presidenziale, le elezioni legislative coincidono con le elezioni presidenziali; ma anche l’esito di questa tornata, pur non coinvolgendo direttamente il Presidente, avrà grandi ripercussioni sui due anni rimanenti del mandato di Trump, e sulla sua capacità di portare avanti il programma di governo. Bisogna ricordare, a tal riguardo, che, proprio come in Italia, affinché una proposta possa essere sottoposta al Presidente per la ratifica (e quindi diventare legge), infatti, questa deve essere approvata da entrambi i rami del Parlamento.

    Attualmente il Partito Repubblicano ha la maggioranza sia alla Camera che al Senato, ottenuta, nelle scorse elezioni del 2016, sulla scia della vittoria di Donald Trump alla Presidenza. È improbabile, come vedremo, che questa sia la situazione anche dopo il 6 novembre 2018. In questo articolo presentiamo nel dettaglio il contesto della tornata elettorale della House of Representatives.

    Attualmente, sui 435 seggi totali, i democratici ne controllano 193 contro i 235 dei repubblicani. Vi sono poi 7 seggi sono vacanti, 5 vinti nel 2016 da repubblicani, 2 da democratici. Per riuscire a ottenere la maggioranza, quindi, i democratici dovrebbero riuscire a strappare almeno 23 seggi ai repubblicani, mantenendo tutti quelli vinti nel 2016 – oltre al 18° distretto della Pennsylvania, conquistato in elezioni suppletive nel marzo di quest’anno. Non sembra improbabile: dal dopoguerra in poi il partito che esprime il Presidente ha infatti perso in media oltre 25 seggi nelle elezioni di midterm.

    Fig. 1 – Rappresentazione grafica della attuale composizione della CameraUS18_4_1

    Come hanno già avuto modo di osservare Brady e Parker (2018), le previsioni degli istituti di ricerca suggeriscono che il 6 novembre non sarà differente. Ad esempio, il modello probabilistico di FiveThirtyEight, che aggrega i sondaggi effettuati in ogni distretto con altri dati, come quelli sulla raccolta di finanziamenti elettorali e sui risultati storici delle elezioni, attribuisce oggi una probabilità superiore all’85% alla vittoria, intesa in termini di maggioranza della Camera, dei democratici.

    A dimostrazione di quanto questo risultato sia considerato il più probabile, un dato interessante riguarda la distribuzione degli incumbent che hanno deciso di non ricandidarsi per un nuovo mandato[1]. Come visibile nella Figura 1, sono 55 in totale, dei quali 18 democratici e 37 repubblicani. Che i repubblicani non intenzionati a ricandidarsi alla Camera siano il doppio rispetto ai democratici può essere interpretato come un segnale del fatto che all’interno del Partito Repubblicano stesso si percepisca la difficoltà a confermare la maggioranza attuale. Nell’ottica di alcuni deputati repubblicani, infatti, può essere apparso preferibile fermarsi per due anni e aspettare un momento migliore, piuttosto che andare incontro a una sconfitta quasi certa che può macchiare per sempre la propria carriera politica. (Phentermine)

    La Figura 2 rappresenta un utile strumento per comprendere la geografia elettorale degli Stati Uniti disegnata dalle elezioni del 2016. Le sfumature di blu e rosso indicano, per ogni Stato, la percentuale di deputati eletti dal partito che ne ha eletti di più. A dispetto della sconfitta alle elezioni presidenziali, nel 2016 il Partito Democratico è riuscito ad aumentare leggermente il numero dei propri deputati rispetto alle elezioni di due anni prima (+6). I democratici sono riusciti a confermare il loro predominio nella Costa Occidentale e nell’area del Nordest, senza arretrare in modo significativo negli Stati in cui il Partito Repubblicano eleggeva già un maggior numero di deputati e riuscendo al tempo stesso a imporsi in Nevada. Nel 2016, il Partito Repubblicano non è riuscito a ottenere una maggioranza ampia nonostante il Partito Democratico non godesse di buona salute: si intuisce allora perché la vittoria dei democratici è considerata l’ipotesi più probabile, senza considerare che, complice anche il bassissimo gradimento del Presidente Trump da parte del loro elettorato, il Partito Democratico ha avuto due anni di tempo per ripartire e mobilitare i propri elettori.

    Fig. 2 – Composizione partitica delle delegazioni alla Camera elette nel 2016 nei diversi statiUS18_4_3

    Secondo le stime di FiveThirtyEight, i seggi considerati oggi sicuri per il Partito Democratico sono 191, contro i 133 dei repubblicani. Se oltre quelli sicuri, il Partito Democratico dovesse vincere anche i seggi che sono considerati come probabili (18) e tendenziali (8), arriverebbe a un totale di 217 seggi, a un solo seggio, cioè, dalla maggioranza assoluta. Vi sono poi 19 seggi considerati in bilico, mentre dei restanti 66, 16 sono tendenziali e 50 probabili per i repubblicani.

    I risultati potrebbero essere ancora più favorevoli per il Partito Democratico, che secondo la media dei sondaggi ha un vantaggio di circa 9 punti percentuali nei confronti del Partito Repubblicano nel voto complessivo a livello nazionale. Tuttavia due elementi depongono sistematicamente a sfavore dei democratici nelle elezioni della Camera. La sempre maggiore concentrazione del loro elettorato in specifiche zone (quelle urbane specialmente), particolarmente svantaggiosa in un sistema elettorale maggioritario come quello degli Stati Uniti. E poi, ha un impatto sulla trasformazione dei voti in seggi il cosiddetto gerrymandering, vale a dire la ridefinizione dei confini dei collegi da parte dei governi dei singoli Stati al fine di ottenere un vantaggio per la propria parte politica. Un tipico caso di gerrymandering è la modifica dei confini di un collegio per escludere una zona in cui la popolazione è storicamente più vicina al partito rivale per includere invece dei cittadini che siano indecisi.

    Tirando le somme, quali possono essere allora delle soglie ragionevoli che devono porsi i Partiti per valutare il proprio risultato alla Camera? Il Partito Democratico non può permettersi di non ottenere la maggioranza alla Camera, anche perché, come vedremo, al Senato la situazione si prospetta decisamente negativa. Ma anche una vittoria risicata, in questo contesto e in questo momento storico, sarebbe interpretata come una sconfitta. Per considerarla una vittoria, il Partito Democratico dovrebbe probabilmente eleggere almeno 230 deputati. Specularmente, il Partito Repubblicano deve cercare di mantenersi sopra i 200 deputati per non arretrare troppo in vista delle elezioni del 2020, quando si tornerà a votare anche per la Presidenza in una contesa che si preannuncia già particolarmente combattuta.

    Riferimenti bibliografici

    Brady, David e Scott Parker (2018), ‘Midterm elections alla Camera: le previsioni a pochi giorni dal voto’. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/01/midterm-elections-alla-camera-le-previsioni-a-pochi-giorni-dal-voto/

    Paparo, Aldo (2014), ‘Verso le midterm elections: una introduzione preliminare’. https://cise.luiss.it/cise/2014/10/24/verso-le-midterm-elections-la-situazione-di-partenza-alla-camera/


    [1] Tra questi sono conteggiati anche gli incumbent che non si ricandidano alla Camera perché candidati a un’altra carica.