Autore: Roberto D’Alimonte

  • Quanto vale davvero il «partito» di Di Maio dopo la scissione dei Cinque Stelle

    Quanto vale davvero il «partito» di Di Maio dopo la scissione dei Cinque Stelle

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 26 giugno

    Il sondaggio Winpoll-Sole24Ore che pubblichiamo è l’occasione per fare il punto sulla evoluzione del quadro politico dopo elezioni amministrative e la scissione del M5s. Ed è un quadro che registra novità significative che dovranno essere confermate da altri sondaggi nelle prossime settimane. In tema di intenzioni di voto i due dati più rilevanti riguardano M5s e Fdi e sono la conferma di tendenze in atto da molti mesi: il declino dei Cinque Stelle e la crescita di Fratelli d’Italia. Nel caso del partito di Conte c’era da aspettarsi che la recente scissione dell’ala di Di Maio avrebbe provocato danni accelerando la tendenza negativa e così è.

    Per stimare l’”effetto Di Maio” agli intervistati è stato chiesto sia come avrebbero votato nel caso in cui non fosse presente il partito del ministro degli Esteri sia nel caso in cui ci fosse il suo partito, “Insieme per il Futuro”. Nel primo scenario il Movimento è stimato al 9,9 %. Il dato è inferiore di 2,4 punti percentuali rispetto alla media dei sondaggi della settimana 12-18 Giugno (Termometro Politico). Nel secondo scenario scende al 6,9%, mentre il partito di Di Maio è stimato al 4,7%. Occorre molta prudenza nel valutare entrambi questi dati, soprattutto quello di Insieme per il Futuro. Abbiamo visto in passato cosa è successo nel caso delle scissioni di Alfano, di Bersani e di Renzi. Le stime iniziali erano promettenti ma in tutti questi casi il favore degli elettori è durato poco. Il partito di Alfano è sparito e quelli di Bersani e di Renzi viaggiano sotto il 3%, la soglia minima per ottenere seggi.

    LE INTENZIONI DI VOTO
    Sondaggio realizzato da Winpoll per Il Sole 24 Ore, con 1.000 interviste Cati/Cami (3.256 i rifiuti) condotte il 24 -25 giugno 2022. Popolazione di riferimento: popolazione italiana maschi e femmine dai 18 anni in su, segmentato per sesso, età, regioni, proporzionalmente all’universo della popolazione italiana. Campione stratificato per regioni, casuale ponderato per genere, fasce di età, titolo di studio ed intenzioni di voto alle ultime europee. Margine di errore con intervallo di confidenza al 99%: 2,2%
    Creato con Datawrapper

    Quanto al M5s quello che sta succedendo non può sorprendere. Indipendentemente dalla scissione, le incertezze che ne caratterizzano la linea politica e la leadership spiegano da sole l’accentuazione della tendenza negativa. Il problema però è di fondo e non legato solo a Conte e Di Maio. Lo si vede bene nelle risposte alle domande sull’operato del governo Draghi e sulla politica nei confronti della guerra in Ucraina. Insieme a quelli della Lega gli elettori del Movimento sono quelli più critici sulle sanzioni e sull’invio di armi.

    Il dato pubblicato qui è stimato sulla base dello scenario senza la presenza del partito di Di Maio per cui è lecito ipotizzare che dopo la scissione la percentuale dei pentastellati critici, sia nei confronti del governo che in tema di politica estera, sia ancora più elevata. L’ipotesi è plausibile visto che il raffronto fra gli scenari con e senza il partito di Maio indica che i voti per Insieme per il Futuro vengono prevalentemente dagli attuali elettori del Movimento. Se così è, dopo la scissione , Conte si ritrova in mano un partito sempre meno favorevole a restare al governo o quanto o meno a sostenerne la politica estera. È paradossale che il 44% degli elettori di Fratelli d’Italia, che sta all’opposizione, dia un giudizio favorevole del governo contro il 25% di quelli del Movimento che invece lo sostiene. E la stessa osservazione si può fare a proposito della Lega, visto che solo il 43% giudica molto bene o più bene che male l’operato di Draghi.

    LE SANZIONI ALLA RUSSIA E L’INVIO DI ARMI IN UCRAINA
    Le persone
    I partiti

    A proposito di Fratelli d’Italia ripetiamo quanto già detto in apertura: questo sondaggio ne conferma la tendenza positiva. Per essere precisi, quello che appare qui è una ripresa della sua crescita dopo un periodo di stasi. Il 25,5% stimato oggi rappresenta un picco. La media dei sondaggi della settimana scorsa dava il partito della Meloni al 22,7%. Quasi tre punti in più non sono pochi. D’Altronde in un periodo in cui crescono le paure e i risentimenti legati alla situazione economica e alle prospettive future essere l’unico partito alla opposizione è un vantaggio non da poco. Va da sé che per la Lega di Salvini, ferma intorno al 15%, è una brutta situazione tanto più alla luce delle posizioni di tanti suoi elettori su governo, sanzioni e armi.

    Quanto agli altri partiti, il Pd si conferma il secondo partito del sistema con una percentuale di poco inferiore alla media delle ultime settimane. Riesce a stare sopra il 20% ma non mostra alcuna capacità espansiva. I suoi elettori sono costantemente i più favorevoli al governo e alla sua politica estera, ma questo non gli può bastare per competere efficacemente alle prossime politiche. Adesso dovrà fare i conti con un campo sempre più largo dopo la scissione di Di Maio. Metterlo insieme non sarà facile, viste anche le posizioni critiche degli elettori del M5s. Infatti, come si vede dai dati, su governo Draghi e politica estera i due elettorati sono agli antipodi. I Cinque Stelle sono più vicini alla Lega che al Pd.

    OPERATO DEL GOVERNO DRAGHI
    Le persone
    I partiti

    Chiudiamo su Forza Italia. Il partito di Berlusconi esce bene da questo sondaggio. È da tempo che non si avvicinava al 10%. È un pacchetto di voti prezioso perché sarà decisivo alle prossime elezioni. Sommato ai voti stimati di Fdi e Lega porta la coalizione di centro destra oltre il 50%. Con questa percentuale la maggioranza assoluta dei seggi alle prossime politiche è certa. Ma siamo lontani dal voto e la situazione politica resta molto fragile. Per non parlare di quella economica e finanziaria. I dati presentati qui non sono una novità assoluta. Però, insieme all’esito dei ballottaggi di oggi, potrebbero essere utilizzati per destabilizzare il governo. Speriamo che prevalga il buon senso al di sopra delle convenienze di breve periodo.

  • Ballottaggio Verona, perché è importante la sfida Tommasi-Sboarina (Tosi terzo incomodo)

    Ballottaggio Verona, perché è importante la sfida Tommasi-Sboarina (Tosi terzo incomodo)

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 24 Giugno

    Tra tutti i comuni in cui si vota Domenica il caso più interessante è Verona. Il ballottaggio vede in campo Damiano Tommasi, candidato civico, sostenuto da tutti i partiti del campo largo (compresi Azione e M5s) e il sindaco uscente Federico Sboarina, sostenuto da Fdi e dalla Lega. Il terzo incomodo è Flavio Tosi, sindaco dal 2007 al 2017, che si è presentato con diverse sue liste e l’appoggio di Forza Italia . Al primo turno Tommasi ha preso 43.102 voti ( 39,8 %), Sboarina 35.405 voti ( 32,7 %) e Tosi  25.866 (23,9) . Verona è una città sostanzialmente di destra. Insieme a Treviso è la più destrorsa delle città venete. L’ultima volta che il centro-sinistra ha vinto qui è stato nel 2002.  Potrebbe succedere di nuovo questa volta per due ragioni.

    La prima è la divisione del centro-destra. Se Tosi avesse appoggiato Sboarina già al primo turno o se lo facesse ora, per Tommasi  la partita sarebbe molto più incerta. L’ex sindaco è un personaggio particolare. Era nella Lega Nord. Ha sfidato Salvini per la segreteria federale e ha sfidato Zaia per la presidenza della regione Veneto. Ha perso su entrambi i fronti e nel 2015 è uscito dalla Lega. Da allora ha giocato una sua partita personale come terzo polo della politica scaligera. Non potendosi ripresentare per un terzo mandato, nel 2017 ha creato una sua coalizione candidando a sindaco l’allora compagna e senatrice della Lega Nord, e oggi moglie, Patrizia Bisinella.  Ha preso il 24,2 (contro il 23,9% di oggi) arrivando al secondo turno, ma ha perso contro Sboarina che si è presentato con l’etichetta di civico mentre oggi è di Fdi.  Il centro-sinistra di allora si è fermato al 21,8% (contro il 39.8% di oggi).

    Nei giorni scorsi, subito dopo essere
    rimasto escluso dal ballottaggio, Tosi ha aderito a Forza Italia diventandone
    un punto di riferimento regionale ma ovviamente con ambizioni nazionali. Ha
    offerto a Sboarina l’apparentamento al secondo turno per non essere accusato di
    tradire il centro-destra cui Forza Italia per ora appartiene. Ma Sboarina non
    ha accettato la proposta bollandola come manovra di palazzo. Dire che tra Tosi
    e il sindaco uscente non corre buon sangue è un eufemismo. E’ un altro caso in
    cui politica e antropologia sono indissolubilmente legate. Cosa farà Tosi
    Domenica non lo ha detto pubblicamente, cosa faranno i suoi elettori deciderà
    l’esito del voto.

    La seconda ragione per cui il centro-sinistra può vincere dopo venti anni è Tommasi stesso. Anche a Verona c’è voglia di nuovo. Il vento del cambiamento spira contro chi ha già governato e non gode di grande popolarità. E’ il caso di Sboarina. E’ un vento che è difficile contrastare soprattutto quando trova una figura che viene percepita come diversa e attraente. Questo è il caso di Tommasi. Al primo turno la sua lista civica ha preso da sola il 16% dei voti.  L’ex calciatore del Verona e della  Roma è un cattolico praticante (con sei figli) in una città dove la religione conta ancora. Tanto che il vescovo dimissionario e conservatore non ha esitato a scendere in campo non proprio a suo favore. (https://symboliamag.com) Viene percepito a destra e a sinistra come una persona per bene. Non ha mai fatto politica. A Verona ha lavorato nel sociale. Ha fatto una campagna elettorale sotto voce, senza urla e proclami altisonanti. Solo in questi ultimi giorni si è messo a girare la città quartiere per quartiere accompagnato da un gruppo di sostenitori tutti in maglietta gialla.  Per sperare di vincere ha bisogno di portare a votare tutti quelli che lo hanno votato al primo turno , ma per essere sicuro di vincere deve poter contare su una parte dei voti che sono di Tosi.  

    E’ certamente la carta migliore che il centro-sinistra potesse mettere in campo. E’ il tipo di carta che dovrebbe mettere in campo a livello nazionale per essere competitivo. Azzardiamo una previsione: se Tommasi vincerà Domenica e se farà bene come sindaco a Verona, prima o poi lo vedremo giocare un ruolo rilevante a Roma. Sarebbe un ritorno in altra veste.

  • Partiti e coalizioni:  come va decifrato il voto delle amministrative

    Partiti e coalizioni:  come va decifrato il voto delle amministrative

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 15 giugno

    Tra tutti i tipi di consultazione che si svolgono nel nostro paese le comunali sono quelle più difficili da decifrare. L’unico criterio solido per cercare di capire chi ha vinto e chi ha perso è il conteggio dei sindaci vincenti. Applicando questo criterio al primo turno delle comunali di domenica i numeri dicono che nei 142 comuni sopra i 15.000 abitanti centro-sinistra e centro-destra, intesi in senso stretto, sono in parità. Entrambi hanno vinto in 28 dei 79 comuni in cui è già stato eletto il sindaco.
    I restanti comuni sono andati due alla sinistra alternativa al Pd , tre a coalizioni di partiti centristi, sei a candidati sostenuti da coalizioni di destra senza Forza Italia, 12 a candidati civici. Il centro-destra è andato meglio a livello dei 26 capoluoghi di provincia. Infatti ne ha già conquistati otto sui tredici già assegnati mentre al centro-sinistra ne sono andati tre e alla destra due. Dopo i ballottaggi si tireranno le somme definitive.

    Percentuale voti nei 142 comuni sopra i 15.000 abitanti e tasso di variazione sulle europee 2019

    Percentuale voti nei 142 comuni sopra i 15.000 abitanti e tasso di variazione rispetto alle europee 2019, Italia e zone geopolitiche

    Il confronto

    Passando dai sindaci ai voti ai partiti sorgono i problemi. Calcoliamo le percentuali di voto ai cinque maggiori partiti nei 142 comuni mettendole a confronto con quanto hanno preso gli stessi partiti negli stessi comuni nella ultima consultazione a livello nazionale, le Europee del 2019. Consideriamo poi la percentuale che i cinque partiti hanno ottenuto alle europee a livello nazionale. Il confronto tra il risultato complessivo dei cinque partiti alle europee con quello ottenuto nei 142 comuni ci dice che questo insieme di comuni è abbastanza rappresentativo, anche se leggermente più favorevole al centrosinistra (Pd e M5s). Fatta questa premessa di cui occorre tener conto, cosa dicono i dati leggendoli con tutte le cautele del caso?

    I risultati dei partiti

    Primo, il partito che ha ottenuto la percentuale più alta di voti è stato il Pd con il 14,2%, seguito da Fdi con il 9 per cento. Secondo, l’unico partito che nei 142 comuni ha incrementato la sua percentuale di consensi rispetto alle elezioni europee è stato Fdi. Nell’insieme di questi comuni aveva preso nel 2019 il 6,8 % ed è passato al 9% con un incremento del 32 % (tasso di variazione). Terzo, la Lega e il M5s sono andati particolarmente male perdendo in percentuale oltre l’80 per cento.

    In sintesi, la fotografia che ricaviamo da queste elezioni è sostanzialmente quella che ci hanno dato i sondaggi degli ultimi mesi: Fdi cresce, Pd e Forza Italia tengono, Lega e M5s sono in difficoltà. Ma va detto chiaramente che le percentuali di voto di queste comunali sono falsate dal tipo di competizione di cui stiamo parlando. Non è verosimile che la Lega alle prossime elezioni politiche prenda in questi comuni il 5,3 % e il M5s il 2,5%. Questo vale anche per gli altri partiti. Questi dati delle comunali possono servire solo a fissare i rapporti relativi tra partiti e individuare linee di tendenza, non per fare previsioni puntuali. E anche da questo punto di vista occorre cautela nell’interpretarli.

    I risultati dei poli

    Mettiamo poi a confronto il risultato dei due poli. Per queste elezioni abbiamo considerato il voto dato ai sindaci e non il voto proporzionale ai partiti in coalizione. Per il 2019 si sono sommati i voti proporzionali delle liste di area. Complessivamente i candidati sindaco del centrosinistra sono andati leggermente meglio dei rivali di centrodestra raccogliendo il 41,4% dei consensi contro il 39,8%. Hanno così ribaltato il lieve vantaggio che il centro-destra aveva alle europee nei 142 comuni.

    Tuttavia questo risultato non deve illudere i sostenitori del campo largo. Si tratta di risultati locali in un insieme di comuni medio grandi in cui il centro-sinistra tradizionalmente va meglio. Il problema di sommare alle politiche i voti di tutte le sue componenti resta. Ci vorrebbero un Tommasi (Verona) o un Furegato (Lodi) per tentare l’impresa.

    Nota metodologica: “Centrodestra” somma per il ’19 i risultati di Fdi, Fi, Lega, Popolo della Famiglia, CasaPound e Forza Nuova; e per il ’22 i voti raccolti da candidati sindaci sostenuti da almeno uno di questi partiti. “Centrosinistra” somma per il ’19 i risultati di Pd, M5s, Verdi, Pc e La Sinistra; e per il ’22 i voti raccolti da candidati sindaci sostenuti da almeno uno di questi partiti.

  • Crisi dei partiti e demografia, perché aumenta l’astensionismo in Italia

    Crisi dei partiti e demografia, perché aumenta l’astensionismo in Italia

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 14 giugno

    Da molti anni a questa parte ad ogni tornata elettorale l’affluenza alle urne cala. Succede a tutti i livelli: politiche, europee, regionali, comunali. Non siamo il solo paese in cui questo accade. Questo fenomeno è una componente del più generale problema della crisi della democrazia. Anzi, a ben vedere, in Italia i livelli di partecipazione, quanto meno alle politiche, sono ancora tra i più alti in Europa. Tra i pochi paesi che stanno meglio di noi c’è la Germania.

    Tanto per fare un esempio recente in Francia alle legislative svoltesi domenica 12 giugno ha votato il 47,5% degli aventi diritto. Da noi alle ultime politiche ha votato il 72,9% degli elettori. In queste nostre comunali ha votato una percentuale di elettori, circa il 55%, superiore alle politiche francesi. Questo per mettere in prospettiva il fenomeno.

    Le ragioni del flop del referendum

    Certo, fa impressione vedere che ai referendum sulla giustizia ha partecipato al voto solo il 20%. Ma questo dato, pur inquadrandosi in un contesto generale di crisi della partecipazione, ha una sua valenza specifica. L’astrusità dei quesiti ha certamente dissuaso dall’andare a votare. Uno strumento di democrazia diretta come il referendum può funzionare solo a certe condizioni.

    La prima è che gli elettori capiscano per cosa sono chiamati a votare, la seconda è che la questione sia di rilevante interesse, la terza è che si fidino di chi li incoraggia a votare. Nessuna di queste condizioni era soddisfatta in questa occasione. Su questioni come quelle sollevate dai referendum è compito dei rappresentanti decidere. La democrazia diretta non può sostituire la democrazia rappresentativa. Ma perché questa funzioni bene occorre sempre e comunque che sia soddisfatta la terza condizione di cui sopra: il rapporto di fiducia tra elettori ed eletti. E qui entra in gioco il problema della crisi della partecipazione elettorale.

    La crisi dei partiti

    Non esiste un unico motivo per cui sempre meno elettori vanno a votare. Ma tra i vari fattori esplicativi occorre metterne in rilievo soprattutto uno che abbiamo indirettamente già citato a proposito dei referendum: la crisi dei partiti. Al tempo della Prima Repubblica i partiti svolgevano una funzione essenziale di socializzazione, di informazione e di mobilitazione. Non è un caso che l’astensionismo sia cominciato a crescere sensibilmente dall’inizio della Seconda Repubblica dopo il tracollo dei partiti che erano stati i protagonisti della Prima.

    Il crollo della fiducia nei partiti ha portato con sé il crollo della partecipazione. A livello di elezioni politiche tra quelle del 1994 e quelle del 2018 l’affluenza è calata di quasi quattordici punti percentuali. A livello di elezioni europee è calata di più e lo stesso dicasi ai livelli inferiori. Vedremo cosa succederà alle prossime politiche nella primavera del 2023. È probabile che si sforerà al ribasso la soglia del 70%.

    Il peso della demografia

    La crisi dei partiti spiega molto ma non spiega tutto. Anche la demografia ha il suo peso.
    Le persone più anziane e socializzate in tempi in cui partecipare era una abitudine radicata o addirittura un dovere escono di scena e i giovani che entrano nel mercato elettorale sono meno interessati alla politica e tendono ad astenersi.

    Cosa si può fare per invertire o quanto meno arrestare la tendenza negativa? Il bel libro bianco commissionato dal ministro per i rapporti con il Parlamento «Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto» suggerisce una serie di misure. Ma il problema è difficilmente risolvibile solo con provvedimenti amministrativi.

    Se i partiti non recupereranno credibilità e capacità organizzativa e se non si affronterà seriamente il tema della educazione alla democrazia la disaffezione nei confronti della politica è destinata a continuare e con essa l’astensionismo.

  • Chi vincerà le elezioni comunali? Il confronto nei 26 capoluoghi di provincia al voto

    Chi vincerà le elezioni comunali? Il confronto nei 26 capoluoghi di provincia al voto

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 11 giugno 2022

    Non è vero che le elezioni amministrative abbiano solo una valenza locale. Non c’è dubbio che i fattori locali giochino un ruolo importante nella scelta dei candidati e nella formazione delle liste, ma la politica nazionale gioca un ruolo altrettanto importante nella definizione degli assetti coalizionali e spesso nella scelta dei candidati sindaco per tener conto degli equilibri tra i partiti alleati. Le elezioni amministrative sono difficili da analizzare proprio perché il mix di fattori locali e nazionali crea un quadro complesso reso ancora più incerto dal fatto che accanto ai partiti nazionali competono una pletora di liste civiche di varia derivazione che complicano la lettura della offerta politica e quella dei risultati elettorali.

    I comuni al voto in questa tornata sono 971. Quelli sopra i 15mila abitanti sono 142. Questi sono i comuni in cui il sistema elettorale prevede oltre alla elezione diretta del sindaco anche il ballottaggio nel caso in cui nessun candidato superi il 50% dei voti al primo turno. L’analisi che proponiamo qui è limitata ai 26 comuni capoluogo di regione. Sono dodici comuni del Nord, quattro della cosiddetta zona rossa, e dieci comuni del Sud. Non sono un campione rappresentativo dell’universo dei comuni al voto né dell’universo dei comuni italiani, ma sono comunque un insieme utile per “spiare” l’evoluzione della politica italiana in questo momento di grande incertezza. In particolare ci poniamo una domanda: in che misura i due poli di centro-destra e di centro-sinistra si presentano uniti in queste 26 città? Va da sé che la questione è rilevante sia per capire chi potrà vincere nei vari comuni sia in chiave di politica nazionale in vista delle prossime elezioni politiche.

    La tabella in pagina risponde per l’appunto a questo quesito. Prima però occorre una precisazione. I dati nella tabella non presentano la fotografia completa della offerta elettorale nei 26 comuni. Vista la domanda che ci siamo posti abbiamo preferito semplificare il quadro omettendo di includere numerosissime liste civiche che popolano tutte le competizioni locali. Ci siamo quindi limitati ai partiti nazionali e alle loro scelte coalizionali.

    La prima e più importante osservazione da fare è che il quadro delle alleanze in questi 26 comuni riflette abbastanza fedelmente lo stato dei rapporti tra i partiti all’interno dei due poli a livello nazionale. L’opinione largamente diffusa di un centro-sinistra più in difficoltà del centro-destra a presentarsi unito secondo lo schema lettiano del campo largo trova in questi dati una parziale conferma. I due maggiori partiti del campo largo, Pd e M5s, si presentato insieme in 15 comuni su 26. Il M5s non si presenta con il suo simbolo in 8 comuni mentre a Cuneo, Piacenza e Barletta si presenta contro il Pd. L’analisi fatta dall’Istituto Cattaneo su tutti i 142 comuni sopra i 15mila abitanti evidenzia che la collaborazione tra i due partiti diminuisce ulteriormente a livello dei comuni più piccoli.

    Non si può dire però che il quadro complessivo sia del tutto negativo. Diciamo piuttosto che è problematico. Rispecchia il fatto che la coalizione di centro-sinistra è un progetto in corso. Rispetto al passato non c’è dubbio che Pd e M5s abbiano fatto progressi nel cercare di realizzare una collaborazione più stretta. Quindici comuni capoluogo in cui questo è accaduto non sono pochi se guardiamo al passato anche recente. Ma allo stesso tempo non si può dire che il processo sia concluso. Le difficoltà ci sono e non riguardano solo il rapporto Pd-M5s. I dati mostrano che le altre componenti del campo largo raramente si trovano insieme ai due maggiori partiti dello schieramento. Iv e Azione sono partiti ballerini, come si vede nella tabella. Il partito di Renzi a Verona appoggia Tosi insieme a FI, mentre a Genova e Rieti sostiene i candidati di centrodestra. In tutti i casi senza presentare una sua lista. Il partito di Calenda spesso si presenta da solo o non si presenta. Forse si tratta di idiosincrasie locali ma è più probabile che siano la spia del poco entusiasmo che i partiti di centro del campo largo hanno rispetto all’idea di allearsi con il M5s e quindi del tentativo di battere strade nuove alla ricerca del fantomatico terzo polo. In pratica non c’è un solo comune capoluogo in cui abbia trovato attuazione la strategia di Letta.

    A confronto, i tre maggiori partiti del centro-destra si presentano tutti insieme in 19 comuni, ma tenendo conto che a Messina e Oristano la Lega non si presenta affatto, si può dire che sono 21 su 26 i comuni in cui si può parlare di sostanziale unità del centro-destra. Il dato contrasta con la narrazione che quotidianamente si trova sui vari media di profonde divisioni all’interno di questo schieramento. Le divisioni ci sono, ma al dunque la forma di governo, il sistema elettorale e la voglia di vincere riescono a tenere insieme anche a livello locale questo schieramento composito e conflittuale. E molto probabilmente per le stesse ragioni sarà così anche alle prossime politiche, nonostante le pantomime quotidiane cui assistiamo. Nel dettaglio, sono cinque i casi in cui i tre partiti del centro-destra si sono divisi. In tre comuni è il partito della Meloni che ha deciso di presentarsi senza FI e Lega (Parma, Viterbo e Catanzaro). In due comuni (Belluno e Verona) è Forza Italia che ha scelto altri alleati. Quanto alla Lega non esiste alcun comune capoluogo dove si presenti insieme ad altri partiti che non siano Forza Italia o Fdi.

    Verona, che come abbiamo scritto vede insieme il partito di Renzi e quello di Berlusconi in contrapposizione ai candidati sindaco sostenuti dal Pd e dal binomio Lega-Fdi, merita la conclusione di questo articolo perché rappresenta la spia delle tentazioni che serpeggiano nei due poli e il segnale della fragilità della politica italiana in questa fase. L’accordo Italia Viva- Forza Italia non è la sola “anomalia”. Infatti, a sostegno di Damiano Tommasi, candidato civico sostenuto dal Pd, si sono schierati sia il M5s che Azione. Ma il M5s non appare con il suo simbolo. Si tratta di un appoggio – diciamo – informale che comunque prevede la presenza di candidati del Movimento nella lista civica di Tommasi. La stessa tecnica utilizzata da Renzi oltre che Verona, a Genova e Rieti. Sono gli espedienti della politica italiana. È difficile che a livello nazionale, per salvare l’idea del campo largo, si possano mettere insieme M5s, Azione e Iv con un simile espediente. Con Azione e Iv che danno l’appoggio informale alla coalizione Pd-M5s in cambio di posti nella lista del Pd. È difficile, ma chissà? Dipenderà probabilmente dai sondaggi.

  • La corsa di Berlusconi tra conti reali, defezioni e lo scacco ai suoi alleati

    La corsa di Berlusconi tra conti reali, defezioni e lo scacco ai suoi alleati

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 18 gennaio

    Per capire quante probabilità ha Silvio Berlusconi di diventare Presidente della Repubblica bisogna partire necessariamente dai numeri prima di arrivare a formulare ipotesi più o meno fantasiose.  La tabella in pagina ci dice come stanno le cose (Tabella 1). Cominciamo dai gruppi parlamentari. Il blocco di centro-destra dispone di 419 tra deputati e senatori. In questo blocco abbiamo fatto rientrare tutti i gruppi parlamentari del centro-destra più i deputati di Noi con l’Italia (Lupi) alla Camera e Idea-Cambiamo! (Toti-Brugnaro) al Senato che non costituiscono un gruppo parlamentare ma solo una componente dei gruppi misti.

    Tabella 1 – Consistenze numeriche delle forze in campo tra i grandi elettori per la corsa al Quirinale

    Il blocco di centro-sinistra dispone di 438 tra deputati e senatori. In questo blocco abbiamo inserito tutti i gruppi parlamentari del centro-sinistra più i sei senatori di Leu, i sei deputati del Centro Democratico di Tabacci e i tre deputati e i due senatori di Azione +Europa che fanno parte dei gruppi misti di Camera e Senato.

    Quindi contando solo i grandi elettori parlamentari il blocco di centro-sinistra è davanti a quello di centro-destra. Quando Salvini dice che il centro-destra ha la maggioranza relativa non si riferisce a questi numeri ma a quelli delle elezioni del 2018 quando la sua coalizione prese alla Camera 262 seggi contro i 226 del Movimento Cinque Stelle e i 116 della coalizione di Renzi. Il primato del centro-sinistra all’interno della assemblea presidenziale resta anche quando ai numeri citati sopra aggiungiamo i grandi elettori regionali. Sono 58 di cui 33 affiliati a partiti del centro-destra e 25 a quelli del centro-sinistra. Aggiungendo questi grandi elettori agli altri il centro-sinistra arriva a 463 e il centro-destra a 452. La somma di queste due cifre fa 915. Per arrivare al totale di 1009, cioè al numero complessivo di grandi elettori, mancano all’appello 94 parlamentari.

    Tutto questo naturalmente senza contare le assenze per Covid che comunque non incidono sulla maggioranza assoluta necessari per vincere.

    Assumendo che all’interno dei due blocchi non ci siano defezioni questi sono i 94 parlamentari che decideranno la partita, se si andasse allo scontro come nel caso della candidatura di Berlusconi.  Quindi è qui che Berlusconi deve pescare i 53 voti che gli mancano: 53 su 94 significa più del 50%. Una bella sfida che diventa ancora più impervia una volta che si va a vedere chi sono questi 94 grandi elettori potenzialmente decisivi. 

    In questo gruppo c’è di tutto e di più, come si vede nella tabella. Soprattutto ci sono elettori più disponibili di altri. Vediamo meglio su quali elettori Berlusconi potrebbe contare, escludendo quelli che sicuramente o molto probabilmente non voteranno per lui. Con questo criterio possiamo sottrarre ai 94 i 16 di Alternativa, i sei senatori a vita, diversi esponenti del gruppo Per le Autonomie, i quattro delle minoranze linguistiche, il senatore di Potere al Popolo e quello del Partito Comunista, più diversi parlamentari di Camera e Senato non iscritti a nessun gruppo. Fatta questa operazione, dei 94 in partenza ne restano una sessantina. Praticamente dovrebbero votare tutti per Berlusconi perché possa arrivare alla soglia magica di 505. Detta in breve, ci sembra poco probabile.

    Ma naturalmente questo è solo un pezzo della storia. Questo conteggio è fondato sulla assunzione che non ci siano defezioni all’interno dei due blocchi. Dato che il voto è segreto e questo parlamento è ingovernabile, si tratta di una assunzione molto debole. Le defezioni ci saranno di certo. Bisognerà vedere se saranno più nel campo del centro-sinistra o in quello del centro-destra. E qui si entra nel terreno minato delle speculazioni. Se le defezioni a suo favore e quelle contro si elidessero, a Berlusconi servirebbero sempre i soliti 53 voti di cui abbiamo già discusso. Ma l’ipotesi più probabile a nostro avviso è che siano maggiori nel campo del centro-destra. È sotto gli occhi di tutti che la candidatura del Cavaliere non è particolarmente gradita a Salvini e Meloni. E lo sarebbe ancora di meno la sua elezione. L’hanno accettata per mantenere l’unità della coalizione e impedire che il cavaliere sia attratto dalle sirene della riforma elettorale proporzionale o dall’idea di un accordo con il Pd sul nuovo presidente. Anche se solo il 10% dei 452 grandi elettori del centro-destra disertasse, e se queste defezioni non fossero compensate da altre di segno opposto a suo favore, va da sé che l’asticella per essere eletto si alzerebbe ancora di più.

    Nella sostanza l’elezione di Berlusconi, se effettivamente deciderà di essere in campo alla quarta votazione, sarebbe il risultato di un gioco di defezioni incrociate. Ma quello che sorprende di più in tutta questa vicenda è che i vari Salvini, Meloni, Tosi, Cesa, Lupi ecc. possano accettare di vedere eletto, dopo Mattarella, e invece di Draghi, e per giunta con una maggioranza risicata, un uomo controverso come Silvio Berlusconi in un momento così difficile per il Paese. I numeri ci dicono che è difficile che accada. È probabile che lo sappia anche il Cavaliere. Forse tutto quello cui stiamo assistendo è l’ennesima pantomima. L’ennesima trovata di un attore geniale, capace di riacquistare ancora una volta la scena grazie alla pochezza dei suoi amici-nemici. Perché questo è il punto. Fino a qualche settimana fa Berlusconi e Forza Italia erano ai margini con il 7-8% delle intenzioni di voto contro il 20 % circa dei due alleati. Oggi danno le carte. Berlusconi ha capito che Forza Italia occupa una posizione strategica da cui Salvini non ha saputo o voluto sloggiarlo. È il partito di cerniera tra la destra e il centro e qualunque sia il sistema elettorale i suoi voti sono indispensabili. Servono per vincere nei collegi uninominali con il Rosatellum e servono per fare una maggioranza di governo dopo il voto con il proporzionale. E così riesce a tenere sotto scacco Lega e Fdi. Per il Cavaliere a questo punto il rischio è uno solo. Se decidesse veramente di andare alla conta al quarto scrutinio e non ce la facesse, rischierebbe di perdere molti dei vantaggi acquisiti finora. Se invece decidesse di fare il king-maker accrescerebbe ulteriormente la sua centralità. Ma non è chiaro se sia un vero dilemma. Forse fin dall’inizio il Cavaliere ha concepito questa machiavellica pantomima.

  • Il ritorno del bipolarismo centrodestra-centrosinistra

    Il ritorno del bipolarismo centrodestra-centrosinistra

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 16 ottobre

    Il primo turno delle comunali ha espresso due verdetti. La mancanza dei dati completi sui comuni sotto i 15.000 abitanti ci costringe a ragionare solo sugli esiti nei 118 comuni superiori. In questo aggregato il verdetto è parziale, perché sono ancora 61 i comuni al voto, ma il risultato è solido. Il secondo verdetto riguarda la distribuzione dei voti tra i partiti. Questo è un verdetto certo, perché al ballottaggio non si votano le liste, ma altamente aleatorio sia per la bassa affluenza sia per la presenza di un 21,8 % di voti andati a liste civiche, sia per l’effetto-candidati.

    Nei 118 comuni in cui si è votato con il sistema elettorale a due turni è opportuno distinguere l’insieme dei 6 comuni capoluogo di regione dagli altri comuni, vista la loro importanza e l’attenzione dei media. Nel primo di questi due aggregati, le sei grandi città, il Pd ha ottenuto una vittoria netta che potrebbe diventare ancora più netta dopo i ballottaggi di Domenica. È arrivato primo in cinque casi su sei. Solo a Roma è arrivato terzo dietro alla lista di Azione e a quella di Fdi. Ha già vinto in tre città. Domenica molto probabilmente vincerà a Roma e forse anche a Torino.  Il risultato finale potrebbe quindi essere 4 a 2 o 5 a 1. Comunque vada, un successo che il dato dei voti alle liste conferma.

    In percentuale il Pd è risultato di gran lunga il partito più votato. Con il suo 19% supera la somma di Lega e Fdi (18,8%). Insieme al partito di Letta Fdi è l’altra forza politica che può ritenersi soddisfatta. Non ha vinto in nessuno dei grandi comuni e il suo candidato non vincerà a Roma, mentre a Trieste e a Torno, dove il centrodestra può vincere, i candidati in corsa non sono suoi. Però con il suo 12,8 % ha raddoppiato in percentuale sia i voti presi alle Europee del 2019 sia quelli presi alle comunali del 2016. Ed è l’unico partito ad averlo fatto. I perdenti sono Lega e M5s. 

    Il dato relativo al partito di Salvini è particolarmente negativo. Tanto negativo da non essere credibile. Non è possibile che la Lega oggi abbia nei 6 comuni capoluogo solo il 6,8 %. Molti fattori hanno giocato contro in questa tornata elettorale. Purtroppo mancano ancora oggi i dati di sezione di Milano e Roma. (Detto per inciso, è incredibile che il comune di Napoli abbia messo on line tempestivamente i dati ma non Milano e Roma). In ogni caso i flussi calcolati dal Cise e dal Cattaneo su Torino, Bologna e Napoli concordano nell’indicare che la Lega ha perso molto verso l’astensione oltre che verso Fratelli d’Italia. Non sono voti persi definitivamente. Ma il dato di oggi segnala inequivocabilmente che la Lega è in difficoltà

    Questo è il verdetto sui 6 capoluoghi. Il verdetto sui 118 comuni superiori ai 15.000 abitanti è più sfumato (Figura 1). Sono 57 quelli in cui il sindaco è già stato scelto. In 42 casi si tratta del sindaco uscente che si è ricandidato.  La distribuzione delle vittorie è questa: 24 centrosinistra, 18 centrodestra, 4 destra (senza Forza Italia), 1 M5s, 1 sinistra (senza Pd), 9 civici.  Disaggregando i dati per area geografica si vede che le coalizioni di centrosinistra prevalgono chiaramente su quelle di centrodestra nella ex Zona Rossa (8 vittorie contro 2) e nel Sud (11 vittorie contro 1), mentre al Nord prevale chiaramente il centrodestra (15 vittorie contro 5). È un quadro che denota un sostanziale equilibrio tra l’area di centrosinistra-sinistra e quella di centrodestra-destra, 25 vittorie della prima contro le 22 della seconda. Un bilancio quindi ben diverso da quello emerso dal voto nei 6 comuni capoluogo. E questo nonostante il fatto che le percentuali di voto ai singoli partiti nell’insieme dei 118 comuni non siano sostanzialmente diverse da quelli che abbiamo già citato a proposito dei 6 comuni capoluogo. Un po’ più bassa per il Pd (19%), per il M5s 6,3% e per Fdi (11,1%); un pò più alta per la Lega (7,7%); praticamente la stessa per Forza Italia (5%).

    Fig. 1 – I numeri dei ballottaggi

    Cosa succederà Domenica nei 61 comuni superiori in cui si vota? È difficile fare previsioni. Il secondo turno è una competizione completamente diversa da quella del primo. È una sfida a due, dove conterà molto non solo mobilitare i propri elettori ma anche convincere a votare chi ha votato per uno dei candidati esclusi dal ballottaggio. Da questo punto di vista i casi di Torino e Roma sono i più interessanti. Quando si avranno a disposizione i dati di sezione si vedrà cosa avranno fatto gli elettori di Calenda e Raggi a Roma e quelli della Sganga a Torino. L’ipotesi più attendibile è che una quota di loro si asterrà mentre tra quelli che andranno alle urne saranno più i voti per candidati di centrosinistra che per quelli di centrodestra.

    Al secondo turno centrosinistra e centrodestra fanno la parte del leone. Sono 41 i candidati di centrosinistra, di cui 23 si sono classificati al primo posto, e sono 40 quelli di centrodestra, di cui 18 sono risultati primi. Anche in termini di sfide le più numerose (26) sono quelle tra i due schieramenti maggiori a conferma del fatto che il sistema si sta di nuovo assestando su un formato bipolare.  Il M5s sarà presente solo in 9 ballottaggi. In due casi affronterà candidati di centrosinistra e in quattro casi quelli di centrodestra.  Ma a proposito del partito di Conte il dato rilevante è che solo in 29 comuni su 118 si è presentato insieme al Pd. Non è un bel segnale sullo stato dei rapporti tra i due maggiori partiti del centrosinistra.

  • Milano, il Pd al 26% traina Sala. La Lega in vantaggio su Fdi

    Milano, il Pd al 26% traina Sala. La Lega in vantaggio su Fdi

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 17 settembre

    Sono dieci anni che il centrosinistra governa Milano. Sarà così anche per i prossimi cinque. È quanto risulta dal sondaggio Winpoll-Il Sole24Ore. Stando alle attuali intenzioni di voto il sindaco uscente Beppe Sala dovrebbe riuscire a conquistare un secondo mandato già al primo turno. Il suo vantaggio sul rivale più accreditato che è il candidato del centrodestra, Luca Bernardo, è tale da sfidare l’aleatorietà dei sondaggi. Resta solo un margine di incertezza se ci sarà un secondo turno o meno. Ma anche nel caso in cui si andasse al ballottaggio l’esito pare scontato. Non è stato così nelle precedenti comunali. Allora Sala prevalse sul candidato del centrodestra Stefano Parisi ma di poco. Parisi al primo turno prese più o meno gli stessi voti che questo sondaggio attribuisce a Bernardo, ma al ballottaggio riuscì ad allargare i suoi consensi. Non sembra che sia il caso di Bernardo.

    A favore di Sala giocano tre fattori. Il primo è la forza del Pd. Il 26,3% stimato qui ne fa di gran lunga il primo partito a Milano. Non è una sorpresa. Alle elezioni europee del 2019, la consultazione in cui a livello nazionale la Lega superò il 33%, il Pd aveva ottenuto a Milano il 36% contro il 27,4% del partito di Salvini. Bisogna tornare alle comunali del 2011 per vedere il Pd al secondo posto dietro Forza Italia, e anche allora solo di un 0,1%. Il dato di oggi è simile a quello delle politiche del 2018, 26,9%, e a quello delle comunali del 2016, 29%. Al di là del risultato del Pd, è l’asse della politica milanese che nel corso degli ultimi anni si è spostato verso il centrosinistra, complice il declino di Forza Italia che alle comunali di dieci anni fa aveva il 28,7% e oggi è stimata all’8,1%.

    Il secondo fattore a sostegno del sindaco uscente è il voto personale. Già nelle precedenti elezioni la sua lista civica aveva ottenuto il 7,7% dei voti. In queste elezioni viene stimata al 17,9%. Non tutti sono voti personali ma una parte certamente sì. Un indizio viene dai flussi tra il voto alle ultime europee e le intenzioni di voto in queste comunali. Una quota piccola, ma non insignificante, di elettori che allora hanno votato i partiti del centrodestra o il M5s, oggi sembrano preferire la lista civica di Sala al voto per i loro partiti di riferimento o per la lista civica di Bernardo. Un altro indizio viene dal voto disgiunto, cioè dal voto di chi si esprime per il consiglio a favore di una lista di centrodestra ma dichiara di votare Sala invece di Bernardo come sindaco. Secondo i nostri dati si tratta nel complesso di 4,5 punti percentuali in più a Sala rispetto alle sue liste.

    Il terzo fattore è lo straordinario sviluppo di Milano di questi ultimi anni, nonostante la pandemia. Va da sé che chi ha amministrato la città in questo periodo ne beneficia in termini di gradimento. Ed è appunto il caso di Sala che ha saputo essere in sintonia con i settori più dinamici della città.

    A Milano in queste elezioni si gioca anche una altra partita, tutta interna al centrodestra, tra Salvini e Meloni, tra Lega e Fratelli d’Italia. Una sfida in cui la posta in gioco ha una valenza politica che va al di là della conquista di Palazzo Marino. Di Milano si parla come di un test per capire se Fdi sia destinata a diventare il primo partito del centrodestra a livello nazionale. L’idea di chi avanza questa ipotesi è che se a Milano, città con una radicata cultura antifascista, Fdi prendesse un voto più della Lega non sarebbe azzardato proiettare questo risultato su tutto il territorio nazionale. Tanto più che un evento del genere avrebbe una tale risonanza simbolica da produrre di per sé un effetto moltiplicatore dei consensi a favore del partito della Meloni.

    Su questa questione il nostro sondaggio suggerisce che la Lega dovrebbe riuscire a mantenere il primo posto tra i partiti del centrodestra. Il margine stimato però è tale da non garantire che sarà così a urne chiuse. In ogni caso merita sottolineare che anche a Milano Fdi conferma il suo trend ascendente. Aveva preso il 2,4% alle comunali del 2016 e il 5,2% alle Europee e ora viene stimata vicino al 10%. Come nel resto del Paese, una parte significativa di questi voti proviene dagli altri partiti del centrodestra. In fondo i loro elettorati sono piuttosto simili. Oggi li divide soprattutto il giudizio sul governo Draghi, mentre hanno posizioni simili sulla scala sinistra-destra, su green pass e Unione Europea. E la Meloni ne approfitta, a dispetto della ambiguità di Salvini o forse proprio per questo.

    Una osservazione finale sul M5s. A Milano, come in gran parte del Nord, è ridotto ai minimi termini. È tornato sui valori delle comunali del 2011 e cioè tra il 3 e il 4% mentre alla comunali di cinque anni fa aveva comunque superato il 10%. Per non parlare delle politiche del 2018 quando con il 18,4% aveva superato sia Forza Italia che Lega e era dietro solo al Pd. Altri tempi. Se il 3-4 Ottobre Sala vincerà al primo turno non avrà nemmeno bisogno di porsi il problema se cercarne il sostegno o meno. A Milano sono diventati irrilevanti.

  • Dopo il voto ai diciottenni, la riforma delle Camere

    Dopo il voto ai diciottenni, la riforma delle Camere

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore dell’ 11 luglio

    Era ora. Finalmente è stata approvata la riforma costituzionale che consente ai diciottenni di votare anche al Senato. La differenziazione dei corpi elettorali nei due rami del Parlamento aveva poco senso già nel 1947, ma allora era tutto sommato una peculiarità innocua. Erano i tempi in cui deputati e senatori venivano eletti con un sistema proporzionale che pur essendo sulla carta diverso al Senato rispetto alla Camera in realtà funzionava più o meno allo stesso modo.  Per di più a quell’epoca il voto era più stabile. In quel contesto il fatto che al Senato votasse chi aveva compiuto 25 anni non produceva danni. I risultati elettorali nelle due camere erano sostanzialmente gli stessi.

    Poi è cambiato il mondo. Non solo il voto è diventato più fluido, quello dei giovani in primis, in una società sempre più secolarizzata. Soprattutto sono cambiati i sistemi elettorali. A partire dal 1994 abbiamo sempre votato con sistemi misti caratterizzati dalla presenza di una componente più o meno rilevante di elementi maggioritari. Come è noto, mentre con i sistemi proporzionali piccole differenze di voti tendono a tradursi in piccole differenze di seggi, questo non è vero nel caso dei sistemi maggioritari. Con questi piccole differenze di voti si possono tradurre in grandi differenze di seggi. Quindi l’adozione di sistemi del genere amplifica il rischio che camere elette con due corpi elettorali diversi possano avere maggioranze diverse.  Un rischio grave in un sistema, come il nostro, in cui le due camere hanno le stesse funzioni, compresa quella di dare e togliere la fiducia ai governi.

    Perciò già nel 1993 quando fu approvata la legge Mattarella, che ha introdotto un sistema elettorale in cui il 75 % dei seggi veniva assegnato con la maggioranza semplice in collegi uninominali, si sarebbe dovuto modificare contestualmente la Costituzione per unificare i corpi elettorali delle due camere. Non fu fatto allora. Né fu fatto dopo, quando nel 2005 fu approvata la riforma Calderoli che sostituiva i collegi con il premio di maggioranza. Anzi. Allora fu fatto l’errore di introdurre un premio unico alla Camera e 17 premi al Senato moltiplicando ulteriormente il rischio di esiti diversi tra le due camere. E così è stato, per esempio, nelle elezioni del 2006 quando la coalizione di Prodi ebbe la maggioranza dei voti alla Camera, ma non al Senato. Ma già con la legge Mattarella si sono registrati esiti diversi tra le due camere.

    La responsabilità del fenomeno non è da attribuire interamente alla differenza dei corpi elettorali ma indubbiamente questo elemento vi ha contribuito e comunque ha sempre rappresentato un inutile fattore di rischio.  La riforma della costituzione approvata in questi giorni riduce il rischio, ma non lo elimina. Offerte elettorali diverse, in un contesto di grande volatilità elettorale, possono comunque produrre esiti diversi. Il prossimo passo deve essere quello di differenziare le funzioni delle due camere.  Anche questa è una riforma da troppo tempo attesa.  Siamo rimasti l’unico paese dell’Unione con due camere che hanno esattamente gli stessi poteri.

  • Roma, la lotteria del primo turno decisiva anche per il ballottaggio

    Roma, la lotteria del primo turno decisiva anche per il ballottaggio

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 26 giugno

    Tra tutti i comuni capoluogo in cui si voterà il prossimo autunno Roma è certamente il caso più interessante. Nella capitale sono quattro i candidati competitivi. Chi più, chi meno. Nessuno di loro ha oggi un vantaggio decisivo sugli altri. Sarà decisivo il primo turno. I posti disponibili al ballottaggio sono due. Uno andrà molto probabilmente all’unico candidato del centro-destra,  Michetti. L’altro se lo contenderanno i tre candidati del centro-sinistra. Sarà una gara all’ultimo voto. Se Gualtieri o Calenda andranno al ballottaggio hanno buone possibilità di vincere. Se invece fosse Raggi a passare il turno Michetti sarebbe il favorito. Questo in sintesi il quadro della situazione oggi. Ma molto potrebbe cambiare nel corso dei mesi che ci separano dal voto.

    Enrico Michetti. È l’unico candidato che non dovrebbe avere nulla da temere dall’esito della lotteria del primo turno. Con il 29,2% delle intenzioni di voto è in pole position (Figura 1). Uno dei due posti al ballottaggio è suo. Sarebbe clamoroso che a Roma il centro-destra unito non riuscisse a far arrivare al ballottaggio il suo unico candidato. Però, una volta arrivato lì per Michetti cominciano i problemi (Figura 2). Quello principale è mobilitare i suoi elettori. Alla luce delle stime del sondaggio Winpoll la coalizione che lo sostiene conta su circa il 45% dei voti. Tra i voti a lui e quelli alla coalizione ci sono quindici punti di differenza. C’è spazio per crescere. Al momento però sembra che l’unico avversario che è in condizioni di battere al ballottaggio è Raggi. In questo caso potrebbe contare su una quota di elettori di Calenda e di Gualtieri che preferiscono lui alla sindaca uscente. I flussi tra primo e secondo turno dicono che, contro Raggi, lo voterebbero il 54% degli elettori di Calenda e il 23% di quelli di Gualtieri. Invece nel caso in cui al ballottaggio si trovasse a sfidare Gualtieri o Calenda sarebbe per lui molto più difficile. Soprattutto contro il secondo. Molto dipenderà dalla mobilitazione dei diversi elettorati e dalle divisioni all’interno del centro-sinistra.

    Fig. 1 –  Il primo turno

    Fig. 2 –  I ballottaggi

    Roberto Gualtieri. È il candidato al momento apparentemente più competitivo. Non deve ingannare il fatto che sia solo al secondo posto nelle intenzioni di voto al primo turno con il 25,5%. Questo dato sconta la presenza in campo di ben tre candidati di centro-sinistra che si dividono i voti. Tra questi tre candidati è quello messo meglio per andare al ballottaggio. Oggi la sfida tra lui e Michetti è lo scenario più probabile. Gualtieri parte in vantaggio: 53,5% contro il 46,5% del rivale. Per lui al ballottaggio voterebbero il 48% degli elettori di Calenda e il 34 % degli elettori di Raggi. Ma il suo vero punto di forza è il Pd che si conferma primo partito nella capitale con il 27,7%. Gualtieri non ha l’appeal trasversale di Calenda. Gode di scarsa fiducia al di fuori del Pd, con la parziale eccezione -curiosamente- degli elettori della Lega.  Ma, come si è visto alle primarie, ha una solida base nel Pd romano. Se il Pd si mobilita a suo favore e se non si alienerà in toto gli elettori di Calenda e di Raggi, di cui ha bisogno al ballottaggio, potrebbe vincere. Ma il suo attuale vantaggio su Michetti, pari a sette punti percentuali, non lo mette al sicuro.

    Virginia Raggi. La sindaca uscente non è messa bene. Il 66% degli intervistati pensa che nei cinque anni del suo mandato la vita a Roma sia peggiorata e dà un giudizio negativo sulla sua amministrazione (Figura 3). Nonostante ciò, il 21,3% dice di volerla votare al primo turno. Una percentuale nettamente superiore a quella raccolta dal suo partito che si ferma al 12,9%. Evidentemente ha saputo costruirsi una sua base elettorale con una significativa componente personale. Non le basterà però per vincere. Se fosse lei and andare al ballottaggio contro Michetti verrebbe nettamente sconfitta. Nel nostro sondaggio viene data perdente per 44,2% a 55,8%. Più di dieci punti di differenza sono tanti. I flussi tra il primo e il secondo turno fanno vedere perché. Sono troppo pochi gli elettori di Calenda (29%) e di Gualtieri (31%) disposti a votarla al ballottaggio contro Michetti. Per la Raggi sarà difficile superare lo scoglio del primo turno e ancora più difficile vincere al secondo. Ma una lotteria è una lotteria. Tutto può succedere, ma saremmo veramente sorpresi se una sindaca così impopolare dovesse essere rieletta.

    Fig. 3 –  Il giudizio su Raggi

    Carlo Calenda. È il vero outsider. Non ha un partito solido alle spalle. Azione raccoglie solo il 3,9% dei voti. Eppure il 17,8% degli intervistati dichiara di volerlo votare al primo turno. È la percentuale più bassa tra i quattro candidati. Il paradosso è che il candidato meno votato al primo turno è quello che ha il maggior vantaggio su Michetti al secondo: 54,8% a 45,2%. La forza di Calenda sta nel suo appeal trasversale. Gode della fiducia del 70% degli elettori del Pd e del 62% di quelli di Forza Italia. Ma la cosa forse più sorprendente è il dato relativo a M5S (42%) e Fdi (39%). Nessuno dei candidati in lizza ha lo stesso profilo. È lui la seconda preferenza del maggior numero di elettori. Il 68% degli elettori di Gualtieri al primo turno e il 34% di quelli di Raggi lo voterebbero al secondo. Resta il fatto che per Calenda arrivare al ballottaggio sarà dura. Cercherà di trasformare in un vantaggio la mancanza di un vero partito alle spalle presentandosi come candidato civico appoggiato da una lista civica. Punterà sulla sua competenza e sulla sua indipendenza dagli apparati che hanno ingessato Roma. Ma è comunque una sfida difficile. Deve competere con Gualtieri e Raggi al primo turno, strizzando l’occhio agli elettori moderati di centro-destra, sapendo che avrà bisogno dei voti di Pd e M5s al ballottaggio per battere Michetti. Ci vorrà molta abilità e tanta fortuna.