Autore: Roberto D’Alimonte

  • Proposta: un premio in due tempi

    di Roberto D’Alimonte
    Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 20 settembre 2012

    Assegnare il premio di maggioranza in due turni e non in un turno solo. Con questa modifica dell’attuale sistema elettorale si possono cogliere diversi obiettivi. La sera delle elezioni si sa chi governerà il paese. Chi vince – partito o coalizione- avrà la maggioranza assoluta dei seggi. I governi si faranno nelle urne e non dopo il voto. Gli elettori continueranno ad essere gli arbitri della competizione elettorale. Il premio al vincente sarà legittimato da una maggioranza assoluta di voti al secondo turno.
    Il nuovo sistema elettorale funzionerebbe in questo modo. Al partito o alla coalizione che ottiene un voto più degli altri viene garantita una maggioranza del 54 per cento dei seggi alla Camera ma solo alla condizione che ottenga almeno il 40 per cento dei voti. Se nessun partito o nessuna coalizione arriva a questa soglia i due partiti o le due coalizioni più votate si affrontano in un secondo turno. Al vincente viene assegnato il premio pari alla differenza tra il 54 per cento dei seggi e la percentuale di seggi ottenuti al primo turno. Se uno o più partiti superano la soglia del 40 % al primo turno il premio va a chi ha la percentuale di voti più alta. Anche con questo sistema, data la frammentazione esistente, il premio potrebbe essere elevato ma sarebbe comunque legittimato dalla maggioranza assoluta dei voti presi dal vincente al secondo turno. Esattamente come avviene in Francia, dove il partito socialista ha vinto le elezioni pur avendo solo il 29 % dei voti.
    E’ un meccanismo chiaro e facilmente comprensibile da tutti. Come nel modello francese il primo turno è il momento in cui gli elettori scelgono il partito, il secondo turno quello in cui votano per il governo. La differenza con la Francia è il collegio uninominale maggioritario. Da noi non si può introdurre per il veto di Udc e Pdl. Quindi ci si deve accontentare di utilizzare il doppio turno con le liste al posto dei collegi. Ma i vantaggi di questo sistema restano: la sera delle elezioni – dopo il primo turno o dopo il secondo- si sa chi governerà il Paese.
    Immaginiamo di calare questo sistema elettorale dentro l’attuale quadro politico. Tenendo conto dei sondaggi che circolano oggi, se tutti i partiti si presentassero da soli nessuno vincerebbe il premio al primo turno. Al secondo andrebbero Pd e Pdl. Ma non è detto. Un sistema maggioritario a due turni, anche se di lista, non può essere valutato in chiave statica ma va visto dinamicamente. Soprattutto nel caso in cui al secondo turno passino solo i due partiti o le due coalizioni più votate al primo turno. Questo significa due cose. Primo, i partiti affini hanno un incentivo a presentarsi insieme per massimizzare la possibilità di vincere al primo turno o di passare al secondo. Gli elettori meno ideologici e più strategici hanno interesse a votare non per il partito preferito in assoluto ma per quello che ha maggiori chance di vincere tra quelli meno sgraditi . In questo modo il sistema può contribuire a contenere il radicalismo. Ed è proprio questo il vantaggio di tutti i sistemi a due turni: servono a ‘costringere’ gli elettori a mettere in campo anche le loro seconde preferenze in funzione di una scelta che non è solo identitaria ma anche orientata al governo.
    Ma tutto ciò cosa vuol dire in concreto ? Il Pd dovrà decidere se presentarsi da solo, cosa che potrebbe fare, o insieme a Sel e altri. Il Pdl dovrà cercarsi alleati oppure inventarsi uno schema per non rischiare di restare fuori dal secondo turno. Ma è l’Udc che rappresenta il caso più interessante. E’ difficile che decida di presentarsi insieme al Pd già al primo turno. Casini lo ha detto. Semmai l’alleanza con il partito di Bersani si farà dopo il voto, non prima. A maggior ragione con il sistema elettorale proposto qui. Al primo turno all’Udc conviene andare da sola. Se non passa al secondo turno deciderà dopo il primo turno con chi schierarsi. Ma questo sistema offre una opzione in più al partito di Casini o meglio a tutti coloro che si collocano al centro dello spazio politico e mirano a rappresentare una alternativa ai moderati delusi da Berlusconi. Infatti non è detto che al secondo turno vada il Pdl. E se fosse invece quel rassemblement cui sta lavorando Casini? Allora si aprirebbe veramente la strada ad un radicale cambiamento della politica italiana. E’ proprio una utopia immaginare al secondo turno una scelta tra una coalizione progressista e una ‘popolare’ di stampo europeo ? Temiamo di sì. Per uno scenario di questo genere ci vorrebbe una offerta politica moderata veramente nuova e accattivante per essere competitiva con quella del Cavaliere, che è indebolito ma non è fuori gioco. Questa offerta per ora non si vede. Un sistema elettorale a due turni ne faciliterebbe la realizzazione se si trovasse il coraggio di accettare la sfida.
    Naturalmente questo sistema andrebbe completato con una serie di correttivi miranti a eliminare i difetti del cosidetto porcellum: dalle soglie di sbarramento alle liste bloccate , al problema del Senato. Ma su queste questioni l’accordo si può trovare . Non si troverà invece sul doppio turno. Questo per i partiti attuali rappresenta un meccanismo troppo rischioso. Mettere nelle mani degli elettori in maniera netta la scelta del governo è una soluzione che non piace a nessuno. Il nuovo sistema elettorale- se si farà- sarà sempre a turno unico e con un premio di consolazione al posto di un premio di maggioranza. Con il rischio concreto di mettere a repentaglio la governabilità del paese.

  • I difetti (da correggere) dei collegi proporzionali

    di Roberto D’Alimonte

    Per eliminare le liste bloccate i collegi uninominali sono la vera alternativa  al voto di preferenza.  Quelli più noti sono i collegi maggioritari ma non è di questi che si sta parlando nell’ambito della trattativa sulla nuova legge elettorale  E’ un peccato perché è di questi collegi che l’Italia avrebbe bisogno oggi. Ma tant’è. Gli interessi del Paese non coincidono con quelli dei partiti. Né esiste un attore esterno in grado di imporre questa riforma. La UE si occupa d’altro anche se la governabilità economica non è indipendente da quella politica.

                Le alternative ai collegi maggioritari sono tre . Di voto di preferenza e liste flessibili ci siamo già occupati (si veda il Sole del 27 luglio e del primo agosto). I collegi uninominali proporzionali sono la terza. Sono lo strumento preferito dal Pd in alternativa al voto di preferenza, ma non sono graditi a  tutti gli altri partiti. Almeno per ora. I collegi proporzionali sono un meccanismo ‘strano’, attualmente utilizzato per le elezioni provinciali. Con i collegi maggioritari hanno in comune la caratteristica positiva che i candidati si devono presentare davanti agli elettori di un dato collegio con la loro faccia per cercarne i voti.  Ma, a differenza dei loro omologhi maggioritari, arrivare primi  nel proprio collegio potrebbe non bastare per ottenere il seggio.

                Facciamo un esempio con una circoscrizione di 10 seggi.  La circoscrizione viene divisa in dieci collegi. In ogni collegio i partiti presentano un candidato (da qui il termine collegi uninominali). Si contano i voti di tutti i candidati dello stesso partito in tutti i collegi della circoscrizione. Questa somma viene utilizzata per determinare con formula proporzionale (da qui il termine collegi proporzionali) quanti seggi spettano a ciascun partito in quella circoscrizione. Ma a chi vanno i seggi?  Se il Pdl ha diritto a tre seggi, vengono eletti i suoi tre candidati che hanno ottenuto la percentuale più alta dei voti nei collegi della circoscrizione indipendentemente dal fatto che in quei collegi siano arrivati primi. Questo produce due effetti negativi.

                 Il primo è  che in un dato collegio il candidato che ha ottenuto più voti possa non essere eletto.  Questo può accadere se un dato partito è molto forte in una data circoscrizione per cui tutti i suoi candidati arrivano primi in tutti i collegi. Dato che l’ attribuzione proporzionale dei seggi impedisce che li possa vincere tutti la conseguenza è che alcuni suoi candidati (quelli con meno voti rispetto ai loro colleghi di partito negli altri collegi) non saranno eletti pur avendo avuto più voti dei loro avversari nel loro collegio.

                Il secondo effetto è che possono esserci collegi che eleggono più di un candidato e collegi che non ne eleggono nessuno.  Può accadere infatti che in un dato collegio sia il candidato del Pd che quello del Pdl o di altro partito abbiano conseguito  percentuali di voto tra le più alte di tutti i candidati del loro partito nella circoscrizione e allora quel collegio eleggerà due rappresentanti. Al contrario in un altro collegio della stessa circoscrizione può accadere che nessuno dei candidati sia tanto competitivo da ottenere una percentuale di voti superiore a quella ottenuta dai loro colleghi di partito negli altri collegi. In questo caso il collegio in questione non avrà rappresentanti in parlamento.

                Questi due effetti dei collegi proporzionali sono in realtà dei difetti che potrebbero essere in parte mitigati con alcuni accorgimenti tecnici. Tanto più che, a quanto pare dalle indiscrezioni che filtrano, i partiti della ‘strana maggioranza’ stanno cercando un accordo che prevede un mix di collegi e  di liste. Solo quando saranno noti i dettagli di questo accordo si potrà valutare il reale funzionamento del nuovo sistema elettorale. Per ora ci limitiamo a dire che se la scelta dovesse essere tra voto di preferenza e collegi proporzionali questi ultimi sarebbero senz’altro da preferire come male minore. Tutti e due hanno difetti e alcuni sono comuni. Ma i collegi proporzionali costringono i candidati a cercare i voti tra tutti gli elettori del collegio mentre con il voto di preferenza basta corteggiare lobbies e clientele organizzate per ottenere il seggio. E’ una differenza che incide negativamente sul tipo di rappresentanza che si vuole avere e quindi sul funzionamento delle istituzioni parlamentari.

     Pubblicato sul Sole 24 Ore del 5/08/2012

  • Collegi uninominali per restituire la voce agli elettori

    di Roberto D’Alimonte

    Voto di preferenza o collegi uninominali? Insieme al premio di governabilità (si veda Il Sole24Ore del  27 luglio) questa è l’altra questione sui cui si è arenata la riforma elettorale. A parole i partiti sono tutti d’accordo sull’ eliminazione delle famigerate liste bloccate. Di tutti gli aspetti dell’attuale sistema elettorale questo è sempre stato il più demonizzato. L’obiettivo apparentemente condiviso è quello di restituire agli elettori la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Ma come?

                Il voto di preferenza è il meccanismo più conosciuto. I partiti presentano una lista di candidati. Gli elettori hanno una o più preferenze con le quali possono modificare l’ordine in cui i candidati appaiono sulla lista. Una volta calcolati i seggi spettanti a ciascun partito, i candidati con più voti di preferenza vengono eletti. Sulla carta sembrerebbe un meccanismo irreprensibile. Poi però si vanno a vedere i dati e sorge qualche dubbio. Alle ultime elezioni regionali del 2010 solo il 30 per cento dei votanti nelle regioni del Nord ha espresso un voto di preferenza contro quasi l’ 80 % dei votanti nelle regioni meridionali. Questa è l’ inequivocabile geografia del voto di preferenza nel nostro paese. Era così anche durante la Prima Repubblica. Anzi, oggi il gap Nord- Sud è addirittura aumentato.

                E’ un fatto che il voto di preferenza favorisce clientele e gruppi organizzati,  sia quelli legali che quelli criminali. Fa lievitare le spese elettorali, soprattutto se i candidati sono costretti a far campagna in grandi circoscrizioni. Introduce un elemento di forte competizione diretta tra i candidati di uno stesso partito e quindi tende a minarne la coesione interna. Si pensi alle correnti della Dc al tempo della  Prima Repubblica.  Sono queste alcune delle controindicazioni del voto di preferenza. A suo favore si può certamente dire che è uno strumento semplice da usare.

                Una sua variante utilizzata in diversi paesi europei è la lista flessibile. Anche in questo caso sono i partiti a fare le liste e a fissare l’ordine di presentazione dei candidati in lista. Ma questo ordine, a differenza di quanto avviene con la lista bloccata, può essere modificato a certe condizioni. Per esempio, in Austria un candidato può ‘scalare’ l’ordine di lista se ottiene un numero di preferenze pari alla metà dei voti necessari per ottenere un quoziente elettorale oppure se ottiene un numero di preferenze pari a un sesto dei voti raccolti dal partito in una data circoscrizione. In Belgio invece un candidato può scavalcare chi lo precede in lista  se il suo numero di preferenze è pari al totale dei voti ottenuti dal suo partito diviso  per il numero dei seggi da distribuire + 1. Sono esempi di come con la lista flessibile si può conciliare il ruolo dei partiti nella selezione della classe politica e quello degli elettori.  Fissando una condizione forte per modificare l’ordine di lista  si favorisce la scelta del partito, con una condizione leggera si dà invece più voce agli elettori.

                Per salvare il voto di preferenza c’è chi pensa di ridurre la dimensione delle circoscrizioni in cui si eleggono i candidati. Una circoscrizione piccola significa una lista di candidati corta. Secondo i sostenitori di questa tesi la presenza di pochi candidati in lista ne aumenterebbe la visibilità e quindi consentirebbe agli elettori di conoscerli meglio e decidere a ragion veduta se votare quel partito con quella lista di candidati. Tutto questo è vero ma resta il fatto che la lista corta, anche se è meglio di una lista lunga, è pur sempre una lista bloccata. Con questo strumento i candidati non hanno un incentivo forte a farsi conoscere e a cercare il voto degli elettori. Viene meno quindi la spinta a colmare il deficit di fiducia che si è creato tra elettori e classe politica. E invece è proprio questo uno degli obiettivi che si dovrebbe perseguire in questo momento con una nuova legge elettorale.

                I collegi uninominali sono la vera alternativa al voto di preferenza.  Questi si dividono in due tipi: maggioritari e proporzionali. I primi sono quelli utilizzati in Francia (abbinati al doppio turno), in Gran Bretagna e anche da noi tra il 1994 e il 2001 ai tempi della legge Mattarella. I partiti presentano un candidato in un collegio. Chi vince in quel collegio va in Parlamento. I candidati non possono contare solo su lobby ristrette per vincere il seggio, come nel caso del voto di preferenza, ma devono cercare consensi tra tutti gli elettori del collegio. Sono la soluzione di gran lunga migliore per favorire un rapporto più stretto tra elettori ed eletti. Ma sulla loro adozione c’è un veto del Pdl. Per questo il Pd ha proposto come alternativa i collegi uninominali proporzionali. Questi sono poco noti, e molto poco compresi, nonostante siano utilizzati per  le elezioni provinciali. Con i collegi maggioritari hanno in comune la caratteristica positiva citata sopra: i candidati si devono presentare davanti agli elettori con la loro faccia per cercarne i voti.  Ma, a differenza dei loro omologhi maggioritari, presentano delle controindicazioni. In ogni caso rappresentano una alternativa valida al voto di preferenza.

    Pubblicato sul sito del Sole 24 Ore dell’ 1/08/2012 

  • Il rischio di ridurre la governabilità

    di Roberto D’Alimonte

              Il partito socialista francese ha vinto le ultime elezioni presidenziali e quelle parlamentari con meno del 30 per cento dei consensi. Per la precisione ha ottenuto il 49  per cento dei seggi nella assemblea nazionale con il 29 per cento dei voti.  Il premio è stato dunque di ben 20 punti. In realtà è stato ancora più alto tenendo conto dei seggi vinti da candidati affiliati  con i quali è arrivato al 52 per cento. Questo spread seggi-voti  è il meccanismo che , insieme alla elezione diretta del presidente, favorisce la governabilità in presenza di una frammentazione politica molto elevata.

                Il partito democratico italiano ha oggi più o meno la stessa consistenza del suo omologo francese e potrebbe vincere allo stesso modo le prossime elezioni. Infatti l’attuale deprecatissimo sistema elettorale consente al primo partito  – e oggi il PD lo è- di avere alla Camera il 54 per cento dei seggi. Un premio certamente consistente che  da noi desta scandalo e in Francia no. Naturalmente esiste una  spiegazione. In Francia il premio viene prodotto da un sistema a due turni con collegi uninominali maggioritari che ‘nasconde’  la trasformazione di una minoranza in maggioranza. Da noi invece l’operazione è ‘brutale’ e quindi viene considerata da molti come una distorsione inaccettabile. Anzi una lesione della democrazia.

                Anche dentro il PD,  che oggi sarebbe il maggiore beneficiario dell’attuale sistema di voto, molti la pensano così.  Ed è questo uno dei motivi per cui il partito di Bersani è disposto a rinunciare al tipo di premio previsto dall’attuale legge elettorale e ad ‘accontentarsi’  di un premio meno consistente.  Messi da parte il doppio turno, il ritorno alla legge Mattarella, il modello spagnolo e quello tedesco e varie combinazioni dei due, l’orientamento sulla riforma elettorale pare  quello di ritoccare l’attuale sistema di voto   eliminando le liste bloccate e sostituendo il premio di maggioranza con  un premio di governabilità .  I due premi sembrano simili e invece non lo sono affatto. L’attuale premio assicura sempre e comunque una maggioranza di seggi ( il 54 % alla Camera) al partito o alla coalizione con un voto più degli altri.  Con il nuovo premio chi arriva primo ottiene solo dei seggi  in più rispetto alla sua percentuale di voti.  Quanti seggi in più ?  Una percentuale che il Pd vorrebbe di 15 punti e il Pdl meno.

                Il nuovo premio è funzionale al quadro politico attuale. Ed è questo il vero motivo per cui sembra esserci una convergenza su questo meccanismo. Con questo premio ci sarà un vincitore ma non avrà la maggioranza assoluta dei seggi. Il governo si farà in parte nelle urne e in parte in Parlamento. La sera delle elezioni si saprà quale partito (o quale coalizione) ha la maggioranza relativa dei seggi ma non si saprà con quali e quanti alleati aggiuntivi riuscirà a fare il governo.  Facciamo un esempio realistico con i dati di oggi che però- occorre dirlo- potrebbero anche non essere più veri domani. Oggi il Pd vale circa il 28 per cento dei voti. Potrebbe vincere il premio da solo e andare più o meno al 38-40 per cento dei seggi. Con chi farà il governo dopo il voto ?  Ovviamente dipenderà dall’esito. Se il polo di centro (Udc e altri) arrivasse al 15 per cento  la soluzione potrebbe essere un governo Pd-polo di centro, Ma se Casini e alleati non andassero così bene ?  Allora il quadro si complicherebbe. Vendola, Di Pietro, lo stesso Berlusconi potrebbero tornare in ballo. Anzi, Vendola potrebbe essere della partita anche prima del voto. Infatti è  possibile che il Pd si presenti alle elezioni con una alleanza pre-elettorale con Sel, semprechè il nuovo sistema di voto preveda la possibilità di assegnare il premio anche alla coalizione più votata. Ma il quadro non cambierebbe sostanzialmente. Una alleanza Pd-Sel  conquisterebbe il premio ma non arriverebbe comunque alla maggioranza assoluta dei seggi.  La coalizione pre-elettorale dovrebbe essere allargata dopo il voto e diventare quindi una coalizione post-elettorale. Forse addirittura una grande coalizione.

                Il premio di governabilità è una trovata ingegnosa. Va bene al Pd perché gli consente di non dover scegliere prima del voto tutti gli alleati ma gli consente comunque di pesare di più come primo partito del sistema.  Con questo premio sia il Pd che l’Udc evitano scelte pre-elettorali difficili. Dopo il voto sarà più facile convincere i propri sostenitori ad accettare l’alleanza perché il voto non sarà decisivo, cioè non produrrà una maggioranza di governo.  La forza persuasiva dei numeri legittimerà la scelta degli alleati. Anche al Pdl di oggi un sistema del genere va bene, soprattutto se il premio sarà basso. Con i voti che ha ,e senza alleati, Berlusconi non può vincere. E allora meglio un sistema elettorale proporzionale che favorisca la formazione del governo in parlamento dove il peso del suo partito potrebbe essere determinante. Un sistema del genere non dispiace nemmeno ai sostenitori di Monti.  Infatti  se l’esito delle prossime elezioni non sarà decisivo una grande coalizione, con Monti premier, potrebbe diventare una necessità. Mercati e Unione Europea applaudirebbero.  Resta da vedere se il passaggio dal premio di maggioranza attuale al premio di governabilità futuro andrà bene al paese. Riuscirà a garantire condizioni sufficienti di governabilità  in una situazione di grande frammentazione  e di  pesante crisi economica? Basterà lo spread seggi-voti contenuto nel nuovo premio a garantire stabilità politica e coesione dei governi?  In condizioni normali la risposta sarebbe negativa. Oggi è tutto da vedere.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 27/07/2012

  • I Democratici facciano le primarie con il sistema a doppio turno

    Di Roberto D’Alimonte

    Finalmente si comincia a vedere una luce in fondo al tunnel della politica italiana.  La confusione sotto il cielo è ancora grande ma  le primarie del Pd (e quelle del Pdl) rappresentano un punto fermo per cominciare a capire gli scenari futuri. Particolarmente importanti saranno le primarie del Pd. Infatti, date le divisioni del centrodestra, potrebbero essere una sorta di elezioni anticipate.  In altre parole, chi vincerà le primarie democratiche potrebbe vincere anche le elezioni del 2013 e diventare presidente del consiglio.  Anche per questo motivo Bersani ha avuto coraggio e ha dimostrato lungimiranza nell’accettare la sfida. In punta di statuto- uno statuto veltroniano- poteva non farlo. Invece ha fatto bene, superando le resistenze interne , a non difendere il suo diritto alla premiership invocando le primarie da lui vinte tre anni fa.  Si faranno nuove primarie modificando lo statuto. Ci sarà una grande mobilitazione che riavvicinerà il partito e i suoi candidati alla gente. Ne uscirà un leader fortemente legittimato. Però, perché tutto questo accada occorre che le regole della competizione siano ‘eque’ (fair, si direbbe meglio in inglese).

    Al momento tutte le regole non si conoscono. Bersani si è limitato a dire che si procederà  entro l’anno a “primarie aperte per la scelta del candidato dei progressisti e dei democratici italiani alla guida del Paese”. Questa espressione lascia intendere due cose, entrambe molto rilevanti. La prima è che il diritto di voto non sarà limitato agli iscritti o ai simpatizzanti dichiarati di uno dei partiti del centrosinistra . Primarie aperte vuol dire che chiunque potrà votare, indipendentemente dalla tessera o dalle simpatie politiche. Così è stato nelle primarie precedenti vinte da Prodi, Veltroni e Bersani. E’ giusto che sia così anche questa volta. E’ una scelta rischiosa , soprattutto per Bersani, e proprio per questo molto coraggiosa. Ma è anche una scelta che paga perché allargando la platea degli elettori può favorire il rafforzamento del Pd.

    Primarie di partito  o di coalizione ?  Venerdì scorso Bersani ha dato una risposta anche a questa domanda.  Il riferimento ai progressisti e ai democratici non può che voler dire che saranno primarie di coalizione e non solo del Pd. Questa dovrebbe essere l’ interpretazione corretta. Ma qui nasce il primo problema. Come si fa a fare primarie di coalizione senza una coalizione ?  Oggi la coalizione non c’è.  C’era nelle recenti elezioni amministrative, ed era quella di Vasto, Pd-Idv-Sel,  ma il Pd non ha detto ancora che questa sarà la coalizione con cui si presenterà alle prossime politiche. Quindi, a rigor di logica, la coalizione dovrà essere decisa prima delle primarie se queste devono essere di coalizione. Questo pone un altro problema legato al sistema elettorale. Se l’attuale sistema viene cambiato e  salta il premio di maggioranza senza che sia sostituto dal doppio turno, salta anche la necessità di fare alleanze prima del voto. Ogni partito si presenterà da solo e gli accordi tra partiti si faranno dopo il voto. Quindi, in questo caso salterà anche la necessità di fare primarie di coalizione. Saranno solo primarie del Pd senza la partecipazione di esterni. Che senso avrebbe farvi partecipare Vendola e Di Pietro ?

    Se il sistema elettorale in vigore non cambia, o per essere più precisi se resta il premio di maggioranza,  il Pd deve scegliere tra l’opzione Prodi e quella Veltroni: una grande coalizione o una corsa solitaria (o quasi) ?  Nel primo caso le primarie di coalizione hanno un senso. Nel secondo no. Dato che è altamente improbabile che il Pd si presenti da solo alle prossime elezioni , se il sistema di voto non cambia,  si faranno primarie di coalizione, come lascia intendere la dichiarazione di Bersani. Ma chi deciderà quale sarà la coalizione ?  Il partito prima delle primarie o i candidati nel corso delle primarie ?  E quali saranno le altre regole della competizione ?  Quelle che non compaiono nella decisione presa dalla direzione del Pd Venerdì scorso .

    La prima regola dovrà disciplinare la presentazione delle candidature.  Ci deve essere un filtro per impedire che la consultazione diventi un caravanserraglio.  Non crediamo che alla fine sarà un problema trovarne uno ‘equo’.  Un problema invece più delicato sarà quello dei finanziamenti. Come verranno regolamentati ?  Questa è questione assai delicata. Dulcis in fundo, quale sarà il sistema elettorale che deciderà il vincitore ?  E’ impensabile che in primarie con più candidati e soprattutto in primarie in cui ci saranno – ed è certo- più candidati del Pd possa essere applicata la regola della maggioranza semplice, cioè vince il candidato con un voto più degli altri. Ci vuole il doppio turno. Sarà più complicato e più costoso ma è certamente più equo e più ‘legittimante’.  Il partito socialista francese ha fatto così.  Dopo aver studiato il sistema delle primarie del Pd  lo ha adottato aggiungendovi il doppio turno. Adesso tocca al Pd copiare il Ps. A meno che non si voglia ricorrere a sistemi elettorali che funzionano come il doppio turno ma con un turno solo.

    Intanto aspettiamo di vedere cosa succederà nelle prossime settimane in tema di legge elettorale. E’ ora di mettere un punto fermo anche su questa questione per continuare a fare chiarezza.

     

     

     

    Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 10 Giugno 2012

  • Comunali 2012: risultati percentuali per partiti e coalizioni

    di Roberto D’Alimonte

    Quanto valgono oggi i partiti? Tra tutte le domande cui cercare risposta nel recente voto comunale questa è certamente la più difficile. La eterogeneità della offerta politica è così elevata che tutto ciò che possiamo chiedere ai dati è di darci delle tendenze più che delle risposte.

    È quello che avevamo già fatto (si veda il Sole 24 Ore del 9 maggio) con i dati dei 26 comuni capoluogo ed è quello che possiamo fare ora con i dati di tutti i 157 comuni sopra i 15mila abitanti. La tendenza più netta riguarda la frammentazione del voto. È il risultato della presenza di tantissime liste locali, ma anche dell’indebolimento dei partiti maggiori. Fa impressione vedere che in questi comuni il Pdl abbia ottenuto solo 426.797 voti (12,1%) contro i 1.720.237 voti (39,8%) che in questi stessi comuni aveva preso nelle politiche del 2008. Per il Pd il quadro è solo un po’ meno brutto: da 1.380.634 (32%) a 555.178 (15,7%). Per avere un dato più realistico sulla consistenza di Pd e Pdl occorre aggiungere ai loro voti quelli delle liste collegate ai candidati sindaco da loro sostenuti. Per il Pdl si tratta di 414.877 voti con i quali il partito di Berlusconi arriva al 23,9%. I voti da aggiungere alla lista del Pd sono 386.738 con i quali arriva al 26,7% dei voti.


    Questa è la sola operazione possibile per cercare di dare una risposta alla domanda iniziale, ma è pur sempre arbitraria. In questo modo infatti si attribuiscono a Pdl e Pd tutti i voti di tutte le liste locali che fanno parte della loro coalizione senza tener conto che nella coalizione ci sono altri partiti alleati. Per questo motivo è meglio guardare alla consistenza delle aree politiche più che a quella dei partiti per farsi una idea più realistica sulla distribuzione attuale dei consensi. In questo modo si riesce a cogliere chiaramente perché Pd e alleati hanno largamente vinto queste elezioni. Infatti le liste di centrosinistra hanno raccolto complessivamente 1.651.389 voti contro 1.069.067 delle liste di centrodestra. Il confronto con i dati del 2008 è opinabile trattandosi di una elezione politica, ma è comunque utile perché fa vedere come il centrosinistra, nonostante il forte calo della partecipazione elettorale tra le due elezioni, abbia preso quasi gli stessi voti mentre non è stato così per il centrodestra che invece ne ha persi più di un milione. Tanti elettori moderati non si sono recati alle urne. Questo, insieme alla divisione del centrodestra, è stato il fattore decisivo che ha consentito al Pd e ai suoi alleati di ottenere una vittoria così netta in questa tornata elettorale.


    I dati analizzati qui sono già obsoleti. L’esito di queste elezioni ha già modificato le preferenze degli elettori. È la naturale conseguenza di un quadro politico estremamente fragile in un contesto di incertezza e volatilità. Ciò premesso, con questi dati quale potrebbe essere l’esito delle prossime elezioni politiche? È molto probabile che la coalizione Pd-Idv-Sel possa vincere a condizione che: 1. resti l’attuale sistema elettorale con il premio di maggioranza; 2. l’offerta politica non cambi significativamente; 3. l’astensionismo sia elevato; 4. il centrodestra rimanga diviso. Le ultime tre condizioni sono legate tra loro. In particolare la partecipazione elettorale sarà molto influenzata dalla presenza di credibili novità nel campo moderato. E questo potrebbe fare la differenza.

    Ma ci saranno queste novità fuori e dentro il perimetro del centrodestra? Qualcosa si sta muovendo. Il Movimento 5 Stelle è ormai diventato un competitore temibile per il voto di tutti i partiti tradizionali. Non è chiaro come riuscirà a fare il salto dal livello locale a quello nazionale, ma intanto cresce nelle intenzioni di voto registrate da tutti i sondaggi.

    Renzi ha lanciato la sua sfida alla attuale classe dirigente del Pd. Il sindaco di Firenze non vuole uscire dal Pd, vuole conquistarne la leadership grazie alle primarie. Ma non è affatto detto che Bersani gliele conceda né che le vinca. Montezemolo aspetta che si chiariscano le cose dentro il centrodestra. Non sbaglia a temporeggiare in questa fase in cui sono ancora indefiniti sia le regole che gli attori della competizione. Prima o poi però dovrà decidere e non è affatto chiaro come si presenterà. È difficile che possa riuscire a fare il “federatore” dei moderati come fece il Berlusconi del 1994. Altre novità sono in preparazione. Il Pdl deve fare qualcosa se non vuole sparire. Cosa? Non si sa ancora. Brandire il progetto del semi-presidenzialismo francese non basta. Anche nella Lega si annunciano cambiamenti dopo i prossimi congressi. Insieme a Pizzarotti, Tosi è l’altro vero vincitore di queste elezioni. Vincere a Verona al primo turno con una propria lista prendendo il 57% dei voti è un fatto che deve far riflettere i leghisti e gli altri.

    Se Maroni riuscirà a plasmare una nuova Lega applicando il “modello Verona” ne vedremo delle belle nel Nord del paese. Queste elezioni hanno evidenziato in maniera inequivocabile il vuoto di rappresentanza in questa area. Lo stesso vuoto che esisteva negli anni 1992-1994. Le vittorie dei sindaci di centrosinistra non devono trarre in inganno. Hanno vinto per abbandono dell’avversario, non per forza propria. Nulla di male. Si può vincere in tanti modi e non è certo colpa del Pd se gli altri lo fanno vincere. La responsabilità del partito di Bersani è un’altra. Il Pd di oggi, come i Progressisti di Occhetto nel 1994, ha davanti a sé una occasione storica per allargare i suoi consensi al Nord e non solo. Ma ancora una volta si presenta a questo appuntamento con una offerta politica inadeguata.

    Di fronte a un Paese che chiede con forza una nuova classe dirigente quella del Pd appare irrimediabilmente “vecchia”. Nelle facce e nelle idee. In fondo nemmeno questa è una colpa. Anche così il Pd di Bersani resta il primo partito del Paese, e il più solido. Il problema è che questo Pd non ce la fa a riempire il vuoto lasciato da Pdl e Lega. Eppure questa volta, a differenza del 1994, potrebbe vincere, nonostante i suoi scomodi alleati. Ma molte cose devono andare per il verso giusto perché questo accada.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 27/5

  • Comunali 2012: il risultato dei blocchi

    di Roberto D’Alimonte

    I dati del giorno dopo confermano il quadro. Le tendenze che si sono viste lunedì sono quelle che i dati completi (o quasi) confermano. Il centro-destra ha subito una netta sconfitta sia in termini di comuni vinti e persi sia in termini di voti, il centro-sinistra ha vinto molti comuni e molti altri li vincerà ai ballottaggi ma la sua base di consensi resta più o meno la stessa, il Movimento 5 Stelle è l’unico vero vincitore.

    Vittorie secche e ballottaggi 
    Come era facile prevedere questa volta sono stati pochi i comuni in cui le elezioni si sono decise al primo turno. Nei 157 comuni sopra i 15.000 abitanti è successo solo in 37 casi con 25 vittorie dei candidati targati Pd e alleati, 7 candidati Pdl e alleati, e 2 candidati della Lega. Negli altri 120 comuni si deciderà al ballottaggio. In questi comuni è interessante vedere la distribuzione dei vari tipi di “duelli”. In 58 casi lo scontro è tra i candidati del blocco di centro-sinistra (nelle sue diverse configurazioni) e quello del Pdl e alleati. La Lega va al ballottaggio in 7 casi contro il candidato del Pd e in uno contro il candidato di una lista civica. I candidati del terzo polo (nei suoi vari formati) vanno al ballottaggio in 13 comuni contro i candidati del Pd e alleati e in 6 comuni contro quelli del Pdl e alleati. La sorpresa è il Movimento 5 Stelle che è riuscito a far passare al secondo turno 5 candidati che affronteranno tutti un candidato del blocco di centro-sinistra.

    Partiti e blocchi 
    Il voto ai partiti è quello che attira sempre l’attenzione di tutti gli osservatori ma è un voto impossibile da decifrare in una elezione amministrativa in cui la presenza di tante liste collegate ai candidato-sindaco nasconde la vera forza dei partiti. L’unica cosa che si può dire è che i brand Pd, Pdl ecc. non hanno un grande appeal se per sostenere i propri candidati i partiti storici devono ricorrere ad altri brand con una immagine meno logora. In questa situazione di grande frammentazione sono più indicativi i dati aggregati per aree politiche (i blocchi), come abbiamo fatto nella tabella in pagina. I blocchi sono stati costruiti sommando nei 26 comuni capoluogo i voti ottenuti dai partiti tradizionali e quelli delle varie liste comprese nella coalizione che sosteneva lo stesso candidato sindaco. Dai dati emerge chiaramente che mentre il blocco di centro-sinistra (Pd, Idv, Sel + liste civiche) arretra relativamente poco rispetto alla sua consistenza nel 2008 (dal 43,1% al 37,7%) il blocco di centro-destra (Pdl, Nuovo-Psi, La Destra + liste civiche) passa dal 39,9% del 2008 al 25,7% di oggi. Quanto alla Lega che abbiamo separato dal blocco targato Pdl resta sulle stesse posizioni includendo Verona, grazie allo straordinario successo della lista di Tosi, ma in realtà perde significativamente senza Verona passando dal 4,7% al 2,3%. Per il Carroccio però è più significativo calcolare i voti solo per i comuni in cui era presente. Così facendo si vede che nei 14 comuni del 2012 per cui abbiamo anche il dato delle regionali del 2010 (manca Gorizia) il Carroccio passa dal 15,3% al 5,3%. Se a questo dato sommiamo anche i voti della lista Tosi a Verona il gap si riduce ma resta comunque molto negativo. Per il blocco di centro il discorso è più complicato. In realtà questo blocco non esiste. Non esiste nemmeno il terzo polo. Esistono dei partiti e delle liste collegate che insieme però hanno raccolto un discreto bottino. Ma il dato più significativo è che, nel momento in cui si assiste al netto smottamento dell’elettorato del Pdl e della Lega, l’Udc resta al palo.

    Fig.1: il risultato proporzionale per partiti e blocchi

    Il Movimento 5 Stelle 
    Fino a pochi giorni fa molti irridevano quei sondaggi che davano il movimento di Grillo sopra il 7% dei voti. E invece erano stime corrette. Anzi no, ma per la ragione inversa a quella degli scettici perché ora sappiamo che erano stime al ribasso. Nei 20 comuni capoluogo in cui si è presentato il movimento di Grillo ha ottenuto in media l’8,2% dei voti. Questo dato nasconde però una grande varianza. Nei 10 comuni del Nord (tutti quelli in cui si è votato) la percentuale è stata 11,3. Mentre nei quattro comuni capoluogo della ex zona rossa arriva al 13,1. Al Sud invece il movimento era presente solo in 6 comuni su 12 e i suoi consensi sono modesti, il 3,1%. Questa diversità territoriale non è una sorpresa. Era così anche prima di queste elezioni, ma è poco probabile che sia così dopo queste elezioni. Le condizioni politiche, economiche e sociali sono favorevoli ad una espansione del movimento anche nelle regioni meridionali. Il successo di oggi è destinato ad alimentare quello di domani se nulla cambierà nel campo dei partiti tradizionali.

    Tra questi invece si assiste più al tentativo di demonizzare il pericolo rappresentato da Grillo che a dare risposte concrete ad alcune delle istanze che ne spiegano il successo.

    Verso le politiche del 2013 
    Queste elezioni confermano un dato già rilevato da tutti i sondaggi di opinione negli ultimi mesi. La fine del ciclo berlusconiano ha aperto il mercato elettorale. Ci sono milioni di elettori disponibili a cambiare le loro scelte di voto, ma l’offerta di nuovi “prodotti” è praticamente inesistente. Una fetta di loro ha scelto Grillo. Ma sono molti di più quelli che non hanno ancora deciso per mancanza di alternative accettabili. Se non verranno fuori da qui alla prossima primavera non andranno a votare. Ci sarà una domanda inevasa che rischia di ingrossare ancora di più la marea montante della disaffezione nei confronti della politica e forse nei confronti delle istituzioni democratiche e dell’Europa.

     

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 9/5

  • Oggi il 60% degli elettori è sul mercato

    di Roberto D’Alimonte

    In questo quadro confuso di fine legislatura una sola cosa è certa: il disorientamento di gran parte degli elettori. Nel sondaggio Cise-Il Sole 24 Ore diversi dati lo evidenziano. Uno è l’affluenza alle urne, un altro le intenzioni di voto. Nel 2008 hanno votato circa 38 milioni di elettori, l’80,5% degli aventi diritto; il 19,5% è rimasto a casa. Se si andasse alle urne domani resterebbe a casa il 35%: una cifra che potrebbe salire addirittura al 42% tenendo conto di quelli che sono incerti se votare o meno. Questo vuol dire che almeno 7 milioni e mezzo di italiani che nel 2008 votarono oggi si asterrebbero. Cifra che da sola dà la misura del distacco nei confronti della attuale classe politica.

    Dodici mesi fa non era così: nell’aprile dello scorso anno nel primo dei sondaggi Cise-Il Sole 24 Ore gli astenuti erano il 18,6%. Oggi siamo potenzialmente al 42,1%: solo il 58% è certo di votare. E solo 4 elettori su dieci sanno per che partito votare.Ma fortunatamente non si voterà domani. Nella primavera del 2013 è certo che la partecipazione al voto sarà più alta di quella registrata dal nostro sondaggio. Quanto più alta? Impossibile prevederlo oggi. Dipenderà da molti fattori. In ogni caso sarà più bassa di quella del 2008. L’affluenza alle urne ha cominciato a diminuire dalla fine degli anni settanta a un ritmo medio di circa due punti percentuali ad ogni elezione. In teoria dovremmo quindi aspettarci una partecipazione intorno al 78 per cento. Non sarà così. Un dato del genere – con questa offerta politica – è del tutto irrealistico.

    Per completare il quadro al dato sull’astensione va aggiunto quello sull’indecisione. Come si può vedere dal grafico in pagina, la percentuale di coloro che dichiarano di volere andare a votare ma che non sanno per chi votare è rimasta relativamente stabile negli ultimi 12 mesi. Gli indecisi sono il 19,8 per cento del campione contro il 18 per cento circa di dodici mesi fa. Sommando a questo dato quello sulla astensione il risultato è che meno di 4 elettori su 10 dichiarano oggi di voler andare a votare e per quale partito voterebbero. È su questo 40% dell’elettorato che sono calcolate le percentuali di voto ai partiti riportate in tabella. Si tratta di 18 milioni di elettori sui 36,5 milioni che hanno espresso un voto valido nel 2008. Ora se ipotizziamo che nel 2013 vada a votare il 72% degli elettori, cioè 34 milioni, la conclusione è che oggi ci sono circa 16 milioni di futuri voti in cerca di partito. È un calcolo approssimativo che non tiene conto né delle schede bianche e nulle (circa un milione e mezzo nel 2008) né di coloro che non ci dicono oggi per chi voterebbero pur sapendolo. Eppure anche tenendo conto di queste correzioni il numero di elettori che possiamo chiamare “disponibili” è impressionante e molto simile a quello del periodo finale della Prima Repubblica. Questo vuol dire che esistono oggi le condizioni per un profondo cambiamento del quadro politico, quello che gli esperti indicano con il termine “riallineamento”. Negli anni ’92-’94 furono Bossi e Berlusconi ad approfittarne. Furono loro a rispondere alla domanda di nuovo. Chi saranno oggi? Casini, Pisanu, Grillo, De Magistris ecc.?

    È alla luce di questi dati che va interpretato un altro risultato sorprendente di questo sondaggio. Agli intervistati che hanno risposto di voler andare a votare (il 58 per cento del campione) sono state fatte due domande. Nella prima gli si è chiesto per quale fra i partiti esistenti avrebbero votato. Successivamente gli si è chiesto per quale partito voterebbero se “fosse presente anche una lista guidata da Mario Monti”. Il 29,6 per cento ha risposto che voterebbe per Monti. La presenza di questa lista ridurrebbe i consensi al Pd al 19,6 per cento e quelli al Pdl al 15,2 per cento. Il “partito di Monti” sarebbe di gran lunga il più grande partito italiano. Va da sé che si tratta di un risultato virtuale. Il dato è certamente sovrastimato. Inoltre è un dato fragile come lo sono in questa fase tutti gli altri dati relativi alle intenzioni di voto degli italiani. C’è troppa incertezza in giro per considerare affidabili oggi le percentuali di voto ai partiti. Ma è un dato che fa riflettere. Tanto più che da quanto emerge da altre domande la maggioranza degli intervistati (il 56 per cento) non dà più un giudizio positivo sull’operato dell’attuale governo e non vorrebbe che questa esperienza si ripetesse dopo le prossime elezioni politiche tra un anno. Eppure quasi un elettore su tre tra quelli che sono intenzionati a votare per un partito voterebbe oggi per quello guidato da Monti. A migrare verso questa lista sarebbero in misura quasi uguale gli elettori dei tre partiti che attualmente appoggiano il governo: il 21,7 per cento degli elettori del Pd, il 23,4 del Pdl e il 26,2% dell’Udc. Un sostegno trasversale ma friabile, molto legato al giudizio positivo che i potenziali sostenitori di questa lista danno dell’operato del governo. In ogni caso un sostegno che evidenzia inequivocabilmente la debolezza dei partiti visto che quasi un loro elettore su quattro è disponibile a defezionare.

    Insomma il maggior partito italiano oggi è un partito che non c’è, e che probabilmente non ci sarà. Ma gli attuali partiti non possono consolarsi con l’idea che alle prossime elezioni non troveranno Monti come competitore. Anche senza Monti ci saranno delle novità perché un mercato elettorale aperto, con tanti elettori disponibili, alimenta appetiti e ambizioni che non si sono ancora chiaramente manifestati. In questi giorni stiamo assistendo alle prime manovre di riposizionamento sul fronte del centrodestra. È naturale che questo avvenga in questa area dello spazio politico perché è qui che troviamo la maggioranza degli elettori disorientati in cerca di un nuovo approdo. Come nel 1994. Il partito della nazione è al decollo. Il “nuovo Pdl” è stato invocato e ora è stato annunciato da Alfano. La scomposizione e ricomposizione del centrodestra è iniziata e potrebbe riservare delle sorprese. La più grossa sarebbe il ritorno di Berlusconi sotto diverse spoglie. In fondo il Cavaliere è quello che di mercati e di campagne pubblicitarie se ne intende più di tutti. Sarebbe incredibile che riuscisse a ripetere il “miracolo” del 1994 quando riunì sotto una unica bandiera tutti i pezzi della destra italiana. Incredibile ma non impossibile. Siamo sempre il paese del Gattopardo. (airlines-gethuman.org)

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 21/4/2012

  • The Twilight of the Berlusconi Era: Local Elections and National Referendums in Italy, May and June 2001

    D’ALIMONTE, R. D. R. (2012). The Twilight of the Berlusconi Era:Local Elections and National Referendums in Italy, May and June 2001. SOUTH EUROPEAN SOCIETY & POLITICS, 17, 261–279.

    Following its victory in the spring 2008 general elections, the centre-right coalition led by Silvio Berlusconi formed a government that appeared to be the most cohesive in the history of the Second Republic. Three-and-a-half years later, in November 2011, Berlusconi was forced to resign, ending a long period in which he had dominated Italian politics. By analysing the 2008–11 political–economic cycle, with special attention to the local elections and the referendums of May and June 2011, we argue that the downfall of Berlusconi’s government can be explained by the interplay of the international economic crisis, the scandals related to the prime minister’s private life, the divisions of the parties of the centre-right and the shrinking of its parliamentary base

  • La legge elettorale fra illusioni e pericoli

    D’ALIMONTE, R. D. R. (2012). La legge elettorale fra illusioni e pericoli. IL MULINO, 402–412.

    Questo contributo del Professor D’Alimonte alla rivista il Mulino, analizza rischi e opportunità legate ai tentativi di riforma elettorale avvenuti durante il governo Monti.