Autore: Roberto D’Alimonte

  • Perché la soluzione non è il Rosatellum corretto col premio

    Perché la soluzione non è il Rosatellum corretto col premio

    Nella palude in cui siamo finiti dopo il voto del 4 Marzo si comincia a guardare alla ennesima riforma elettorale come alla via di uscita per dare un governo al paese. Per ora la sola proposta in campo è quella annunciata recentemente da Salvini: innestare un premio di maggioranza sull’attuale impianto del Rosatellum. In pratica, il sistema elettorale continuerebbe a prevedere l’assegnazione di un terzo dei seggi nei collegi uninominali e di due terzi con formula proporzionale.  In aggiunta ci sarebbe un premio che dovrebbe andare alla coalizione o al partito che ottiene più voti. I seggi di premio dovrebbero essere sottratti dal totale dei seggi proporzionali ottenuti dai partiti e dalle coalizioni perdenti.

    Un sistema del genere pone una serie di problemi. Il primo è l’entità del premio. Per essere certi che dalle urne esca un vincitore dovrebbe essere variabile e garantire il raggiungimento di una certa percentuale di deputati e senatori. Immaginiamo che alla Camera al vincitore siano garantiti 340 seggi, pari al 54% del totale. Nelle elezioni del 4 Marzo la coalizione di centro-destra ha ottenuto 265 seggi. Per portarla a 340 il premio dovrebbe essere di 75 seggi, da sottrarre alla quota proporzionale degli altri. Un premio di 12 punti percentuali, ma in realtà il premio vero è più alto. Infatti, il centro-destra ha ottenuto i suoi 265 seggi, pari al 42% del totale, con il 37% dei voti. Il premio reale quindi sarebbe effettivamente di 17 punti. Questo perché il premio esplicito di 12 punti si va a sommare al premio implicito di cinque punti generato dal funzionamento dei collegi uninominali.

    Due premi di natura diversa che sicuramente susciterebbero le ire e i ricorsi  dell’avvocato Besostri e probabilmente attirerebbero l’attenzione della Corte Costituzionale. Oltretutto, in occasione delle ultime elezioni la disproporzionalità generata dai collegi uninominali è stata complessivamente limitata perché la distorsione a favore del centro-destra nei collegi uninominali del Nord è stata ‘compensata’ dalla distorsione a favore del M5s nei collegi del Sud. Ma non è detto che vada sempre così.

    Per evitare un premio eccessivo, secondo i canoni della Consulta, occorre fare in modo che il premio non scatti se la forza politica più votata non arriva a una certa soglia di voti , come nell’Italicum, oppure introdurre un premio fisso, cioè un certo numero di seggi da dare alla forza più votata. In entrambi i casi però il sistema elettorale potrebbe non assicurare una maggioranza. Nel primo caso perché nessuno arriva alla soglia e quindi il premio non scatta, nel secondo caso perché il premio potrebbe non essere sufficiente.

    Il secondo problema sta nella differenza di corpi elettorali tra Camera e Senato.  Potrebbe succedere che il premio scatti in una camera e non nell’altra. Poi che si fa?

    Il terzo problema è il più rilevante dal punto di vista politico. A chi si dà il premio alle coalizioni o a singole liste?  Perché il M5s dovrebbe accettare un premio alla coalizione con più voti invece che un premio alla lista con più voti?  Visto che le riforme elettorali si fanno sulla base degli convenienze dei singoli partiti non si vede perché il movimento di Di Maio dovrebbe accettare una riforma che palesemente avvantaggia il centro-destra. Non si dimentichi che il 4 Marzo il M5s ha preso il 32,7% dei voti alla Camera e la coalizione di centro-destra il 37% e che il M5s non fa alleanze e la Lega sì. D’altronde non si vede perché Salvini possa accettare un premio che va solo alla lista visto che la sua lista è al 17,4% e quella di Di Maio al 32,7%.

    Chissà, forse la fantasia dei nostri politici partorirà una soluzione di compromesso che noi non riusciamo a vedere. Quello che vediamo ora è un tentativo di trovare la soluzione ad un problema politico, che è quello della difficoltà a fare alleanze, attraverso il ricorso a tecniche elettorali. Non è sbagliato trasferire la decisione sul governo dai partiti ai cittadini attraverso l’adozione di sistemi elettorali decisivi perché fortemente maggioritari. Ma lo strumento giusto non è il Rosatellum con il premio, ma il doppio turno.

  • Scenari bloccati e maggioranze liquide: le mosse possibili per sbloccare lo stallo

    Scenari bloccati e maggioranze liquide: le mosse possibili per sbloccare lo stallo

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore dell’11 marzo

    Ci vorrà un miracolo per dare un governo al paese. Per capirlo basta fare un banale esercizio. Immaginiamo che questa sia la sequenza del processo di formazione del prossimo governo. Mattarella potrebbe dare l’incarico a una personalità del centro-destra, visto che questo è lo schieramento con la base parlamentare più consistente. Come si evince dalla Tabella 1, con i suoi 265 seggi alla Camera e i suoi 137 seggi al Senato gliene servono rispettivamente 51 e 21 per arrivare a 316 e 158, le soglie di maggioranza nelle due camere. Dove li trova? C’è poco da scegliere. I seggi mancanti possono venire o dal Pd o dal M5s o da tutti e due insieme. Non ce ne sono altri a disposizione. Pd e M5s dovranno decidere se partecipare direttamente (accordo organico) o indirettamente (appoggio esterno) a un governo di centro-destra. Lo faranno? Molto poco probabile.

    Se l’incarico al centro-destra non porterà a nessun risultato, è presumibile che Mattarella incarichi una personalità del M5s. In questo caso la base di partenza sono 227 seggi alla Camera e 112 al Senato. È possibile che in prima battuta il Movimento cerchi di formare un governo di minoranza, senza accordi formali con nessuno (come d’altronde pare voglia fare Salvini), puntando a cercare in parlamento i voti necessari per passare lo scoglio della fiducia. Governi di minoranza o governi della non sfiducia sono tornati di moda. Se non ce la fa (come probabile), e se a quel punto vorrà ancora puntare al governo, Di Maio avrà tre possibilità per cercare i voti che gli mancano. Si chiamano Pd, Forza Italia, Lega. Naturalmente la scelta non dipende solo dal M5s. Bisogna essere in due per un accordo. Di queste tre soluzioni l’unica che si può escludere a priori è un governo con Forza Italia, anche se i numeri ci sarebbero. Certo, se il M5s rinunciasse a una legge sul conflitto di interesse (con annessa nuova regolamentazione del settore televisivo) il cavaliere potrebbe anche arrivare a sponsorizzare un governo pentastellato. Per le stesse ragioni è da escludere una ipotesi che veda insieme M5s, Forza Italia e Lega.

    Restano due opzioni per fare un governo: M5s-Pd e M5s-Lega. La seconda è quella comunemente etichettata come maggioranza populista. C’è chi sostiene che spetti proprio a M5s e Lega dare un governo al paese, in quanto vincitori di queste elezioni. L’argomento non è campato per aria. Si scontra però con altri argomenti. Mettiamo da parte per un momento la questione della disponibilità dei due partiti a stare insieme e soffermiamoci sulle reazioni che un governo M5s-Lega susciterebbe. I mercati e l’Unione non sono soggetti particolarmente apprezzati di questi tempi, ma pesano. Fino ad oggi sono rimasti alla finestra. Non sarà così se si materializzasse l’ipotesi di un governo populista in un paese con un debito pubblico superiore al 130% del Pil.

    Quanto ai due protagonisti del possibile accordo, contrariamente alla vulgata comune che li etichetta entrambi come populisti, in realtà sono molto diversi tra loro. Rappresentano interessi, anche territoriali, diversi. E hanno obiettivi diversi. Un governo con Di Maio premier (227 seggi alla Camera) e Salvini vice (125 seggi) è difficile da immaginare. D’altronde è altrettanto difficile ipotizzare un governo M5s-Pd, anche se su parecchi punti programmatici la distanza che li separa è minore di quanto appaia. Il fatto è che in questa fase per il Pd appoggiare un qualunque governo è rischioso. L’ex partito di Renzi ha bisogno di opposizione per curarsi le ferite. Che siano gli altri ad assumersi la responsabilità di governare. Questa è l’idea che circola. Ma fa a pugni con il senso di responsabilità. È il paradosso di un partito sconfitto, senza il quale i vincitori difficilmente riusciranno a fare un governo. A volte essere in posizione strategica non conviene.

    Tab. 1 – Distribuzione dei seggi per partiti e coalizioni alla Camera e al Senatoriparto_seggi_4_marzo

    Esaurita la rassegna delle soluzioni per così dire convenzionali, occorre prendere in considerazione quelle non convenzionali. Qui serve fantasia. Si parla di un governo di scopo affidato a una personalità super partes con la missione di fare una nuova legge elettorale per tornare al voto in tempi più o meno brevi. Quale legge non si sa. Né è chiaro chi appoggerebbe questo governo. In teoria dovrebbero essere tutti e quattro i maggiori partiti. Molto poco probabile.

    Da ultimo resta la risorsa italica del trasformismo. C’è chi pensa che dopo un periodo di decantazione non sarà impossibile per il centro-destra trovare tra le fila dei pentastellati e dei democratici una pattuglia di transfughi disposti a salvare se stessi, e la patria, consentendo la nascita di un governo. In fondo sarebbe contenta anche l’Europa. Sarebbe un governo stabile, ma non troppo, che non farà molto ma che non farà nemmeno molti danni. In fondo Renzi e Gentiloni hanno tirato avanti così, sfruttando le risorse di un parlamento liquido. Forse il miracolo lo farà proprio lo spettro di nuove elezioni. Ma ci vorrà un po’ di tempo.

  • Perchè il Sud premia il M5S

    Perchè il Sud premia il M5S

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 6 marzo

    Precarietà economica e paure identitarie. Sono questi i fattori dietro il successo del M5S e della Lega. In questo senso l’Italia, seppure su scala maggiore, non è un caso isolato rispetto ad altri paesi europei. Quasi dovunque in occidente le inquietudini prodotte dai processi di trasformazione economici e sociali degli ultimi anni hanno alimentato il successo di partiti anti-establishment. In altri paesi tuttavia sono stati tenuti ai margini del governo (ad esempio in Olanda o in Germania) o integrati in coalizioni più moderate con partiti tradizionali (come in Austria). L’unicità dell’Italia sta nel fatto che queste strategie non sembrano disponibili. Il M5s pare destinato a governare il paese. Questo è il verdetto più importante di questa tornata elettorale.

    Il M5S

    Il successo del movimento di Luigi Di Maio è netto. Ha preso una percentuale più alta di circa sette punti rispetto al suo esordio nel 2013. Caso unico a livello europeo. Tutti hanno perso voti nelle elezioni successive al loro debutto. Non il M5s. Anzi, ha addirittura preso più voti di allora, 10,668 milioni contro 8,691. Soprattutto ha conquistato una posizione assolutamente egemonica nelle regioni meridionali, cosa non vera nel 2013. I dati (Senato) sono straordinari. Complessivamente la sua percentuale di voti al Sud è pari al 43,4% con punte del 48,7% in Campania. Il doppio rispetto al Nord. Questo successo è il risultato di diversi fattori. Il più importante è la questione economica. È un dato che emerge chiaramente nelle analisi del Cise basate su dati raccolti a livello provinciale. La crescita del M5S appare nettamente associata alle province italiane che presentano un più alto tasso di disoccupazione e che sono quasi tutte al Sud. Qui il movimento di Di Maio ha fatto il pieno di voti e seggi sfruttando la rabbia e la voglia di rivalsa del Sud. Ed è qui che il centro-destra nei collegi uninominali ha perso la partita per aggiudicarsi la maggioranza assoluta a livello nazionale. Pare che alla Camera il M5s abbia vinto circa 80 seggi su 101, contro i 3 vinti al Nord e i 5 nelle quattro regioni dell’ex zona rossa.

    Fig. 1 – Risultati elettorali al Sud, 1994-2018sud

    La Lega
    La Lega Nord, il partito creato da Bossi nel 1991, non esiste più. Di quel partito è rimasto per il momento lo statuto. Con queste elezioni è nato definitivamente un nuovo soggetto, la Lega di Salvini. Da quando è diventato segretario Salvini ha puntato a fare del suo partito una forza nazionale. Ci sta riuscendo ora con la nuova Lega, quella che ha messo da parte secessione e devolution. È così che la Lega nazionale è diventata la prima forza del centro-destra a spese di Forza Italia. Ha rafforzato la sua presenza al Nord e ha accelerato la sua penetrazione in zone che una volta le erano precluse. Nelle regioni del Nord è il primo partito con il 27,3% contro il 12,7% di Forza Italia. Ma soprattutto è diventata una presenza importante nelle quattro regioni dell’ex zona rossa, dove è arrivata al 18,7%, e ha creato per la prima volta una testa di ponte rilevante nel Sud dove ha preso mediamente l’8% con una punta del 13,9% nel Lazio. Il tema immigrazione ha pagato. Il suo voto è più alto nelle province dove è più alta la percentuale di stranieri. Per molti elettori la Lega è stata oggi, e continuerà probabilmente a essere in futuro, la vera alternativa al M5S.

    Fig. 2 – Risultati elettorali al Nord, 1994-2018nord

    Forza Italia
    Per il partito di Berlusconi è la fine di un’epoca. Non solo ha toccato il suo minimo storico, ma soprattutto ha perso la leadership del centrodestra, quello schieramento che il Cavaliere si era inventato nel 1994. Al Nord, dove è nata, è diventata il quarto partito. In Lombardia ha preso solo il 14% (Senato) contro il 28% della Lega. Adesso comincia una nuova era nella destra italiana. Si vedrà già dai prossimi giorni come cambieranno i rapporti tra Berlusconi e Salvini. Il nuovo centrodestra a trazione leghista è una novità assoluta. Non siamo così ingenui da pensare che questa sia la fine politica del Cavaliere. È solo un’altra tappa del suo declino, anche se lui pensa che questo voto sia solo un incidente di percorso legato alle sue vicende giudiziarie.

    Fig. 3 – Risultati elettorali nazionali, 1994-2018ita

    Il Pd
    Per il partito di Renzi si apre una fase molto delicata. La sconfitta è netta. Il 26,7% ottenuto in quella che era una volta la sua roccaforte è un minimo storico. Ma soprattutto il Pd ha perso il Sud. Lo si era già visto ai tempi del referendum. Il 14,3% in questa zona è anche esso un minimo storico. Una cosa che queste elezioni hanno confermato al di là di ogni ragionevole dubbio è la scomparsa della sinistra tradizionale. In Italia come in buona parte dell’Europa. La classe operaia non esiste più. Restano gli operai (sempre meno) ma votano Lega e M5S. Esiste invece ancora oggi un elettorato moderato che si divide tra vari partiti (anche il M5S) e che è disponibile a cambiare il proprio voto di fronte a proposte credibili. L’indebolimento di Forza Italia libererà altri elettori moderati in cerca di nuove destinazioni. Con Renzi il Pd ha perso ma senza Renzi che ne sarà?

    Fig. 4 – Risultati elettorali nella Zona Rossa, 1994-2018zona

    Quali maggioranze
    Senza una maggioranza di centrodestra, senza una maggioranza Pd-Forza Italia-LeU le sole opzioni disponibili sono il governo di minoranza dei cinquestelle (appoggiato da chi?), un governo Forza Italia Pd-Lega (difficile vedere insieme Lega e Pd) oppure un governo del M5S con il Pd o la Lega. Dalla lotteria del voto sono uscite due maggioranze a favore del movimento di Di Maio. Ne avevamo parlato sulle pagine di questo giornale come un’ipotesi possibile ed è diventata realtà. Una realtà per ora solo virtuale. Il M5S farà quello che non ha mai fatto finora e cioè allearsi con qualcuno per arrivare al governo con una vera maggioranza? E con chi? Con la Lega o con il Pd? Oppure, pur di non allearsi, preferirà appoggiare dall’esterno un governo fatto da altri per non tornare alle urne ? E non finisce qui. Ammesso che il Movimento decida di passare il Rubicone, Pd e Lega sarebbero disponibili a entrare in un governo cinquestelle? Per ora entrambi negano. Ci vorrà del tempo per venire a capo del puzzle. Difficile, per non dire impossibile, fare un governo senza il M5s, ma difficile farlo anche con il M5S. Intanto facciamo notare sommessamente che la bocciatura dell’Italicum per paura di una vittoria del M5S non è bastata a impedirla.

  • Per i partiti la difficile sfida delle alleanze

    Per i partiti la difficile sfida delle alleanze

    Queste elezioni sono una lotteria. E’ stato così altre volte, ma mai come oggi. Gli esiti possibili, se si crede ai sondaggi pubblicati fino a ora, vanno da una maggioranza risicata per il centro-destra al caos. Tra questi due esiti il M5s occupa un posto speciale. Potrebbe infatti trovarsi di fronte ad un bivio. Dovrà finalmente decidere se andare al governo o no. Va da sé che se il 4 Marzo uscirà dalle urne una maggioranza di centro-destra il problema non si porrà. Sarà il centro-destra a governare per la quarta volta a partire dal 1994. Se però questo evento non si verificasse si aprirà una partita complicata al centro della quale non ci sarà più Berlusconi, ma Di Maio. Succederà perché molto probabilmente non ci saranno maggioranze praticabili senza il Movimento.
    Molti si aggrappano all’ idea che dalla roulette elettorale possa uscire una maggioranza composta da Pd, Forza Italia e centristi di varia estrazione. E’ la soluzione preferita dai mercati e da Bruxelles. Ma con i dati che abbiamo sembra ancor meno probabile di una maggioranza di centro-destra, anche tenendo conto di quel fattore elusivo rappresentato dai deputati e senatori in libera uscita che potrebbero colmare il gap tra la maggioranza assoluta e quella uscita dalle urne. Senza una maggioranza di centro-destra e senza una maggioranza Pd-Forza Italia il gioco passa necessariamente nelle mani del M5s, a meno di non immaginare una alleanza che veda tutti al governo o una coalizione Pd-Forza Italia-Lega. Entrambe queste opzioni non sono credibili. Anche la seconda. Come può la Lega di Salvini lasciare al M5s il monopolio dell’ opposizione? Né, dopo aver visto i candidati attentamente scelti da Salvini, si può ipotizzare una spaccatura del gruppo parlamentare leghista che renda possibile un governo Renzi-Berlusconi. In sintesi, pur in un quadro molto confuso, è praticamente certo che non ci saranno soluzioni governative che vedano insieme Pd e Lega oppure M5s e Forza Italia.
    Se questo ragionamento non è campato per aria, il M5s si troverà al centro della scena e dovrà decidere che fare. Andare al governo o no? Questa è la domanda ineludibile. Si sa che la risposta di Di Maio è positiva. E al momento il M5s, pur con molti distinguo e qualche passo di lato, sembra allineato su questa posizione. Ma questo non risolve il problema. Non si può andare al governo senza maggioranza, e oggi una delle poche cose certe è che il Movimento non avrà la maggioranza assoluta per governare da solo. Davanti a questa evidenza Di Maio se la cava parlando di un governo di minoranza che si cercherà i voti in parlamento ‘con chi ci sta’. E’ una storia utile in campagna elettorale per non dover scegliere alleati prima del voto, ma non sta in piedi. Dopo il voto Di Maio scoprirà rapidamente che il presidente Mattarella non aderirà ad una simile proposta. Basta pensare al rischio che un governo del genere rappresenterebbe nel caso in cui non ottenesse la fiducia. Resterebbe in carica in uno scenario di probabili grandi tensioni senza avere l’esperienza per gestire una situazione simile. Inoltre sarebbe il governo in carica nel caso di nuove elezioni ravvicinate. Per sostituire Gentiloni ci vuole altro.
    Se il M5s vuole andare veramente al governo dovrà finalmente decidere con chi. Dovrà allearsi. Sia che si tratti di mettere insieme un governo organico sia che si tratti di negoziare un appoggio esterno. Hic Rhodus, hic salta. Le opzioni potrebbero essere due. E’ possibile che dalle urne saltino fuori due maggioranze. La prima è quella con M5s, Lega e Fratelli d’Italia. Le seconda quella con M5s, Pd e Liberi e Uguali. Due maggioranze senza Berlusconi. Il primo scenario sarebbe catastrofico per le reazioni che scatenerebbe. Da tempo Di Maio cerca di accreditare il suo movimento come forza di governo. Impresa già di per sé difficile. Allearsi con la Lega la renderebbe impossibile. Il secondo scenario sembra oggi irrealistico. Eppure non è difficile intravedere punti di contatto per un eventuale programma comune tra quelli che presumibilmente saranno i due maggiori partiti in parlamento. Che farà dunque il M5s se effettivamente si dovesse trovare in questa situazione dopo il voto?
    Questo sarà il momento della verità. Ma ci si potrebbe alla fine non arrivare se si verificasse un altro evento caotico, e cioè una maggioranza di centro-destra al Senato ma non alla Camera. Non è escluso che questo accada. Tutt’altro. Il fatto che gli elettori dai 18 ai 24 anni, tra cui il M5s è relativamente più forte, non votino al Senato lo rende possibile. In un sistema proporzionale questa differenza di corpi elettorali non avrebbe un effetto rilevante, ma in un sistema dove i collegi uninominali sono più di un terzo del totale potrebbe fare una grande differenza. E’ assurdo, per non dire folle, che dopo il 1993 non si sia fatta la riforma costituzionale per dare il voto ai diciottenni al Senato. Con l’introduzione di sistemi maggioritari avrebbe dovuto essere la prima riforma da fare. E invece niente. Nemmeno il M5s ha spinto con forza in questa direzione.
    E così oggi ci troviamo a dover considerare tra gli esiti possibili anche quello di un centro-destra con la maggioranza al Senato, ma senza la possibilità di fare un suo governo non avendo i numeri alla Camera. In questo caso sarà la Lega di Salvini a dover decidere che fare. Ma questa è una altra storia. Intanto aspettiamo il voto e vediamo con quali maggioranze saranno eletti i presidenti del Senato prima e della Camera subito dopo. La partita comincerà lì.

  • Il maxi-sondaggio CISE-Sole 24 Ore: la maggioranza resta un miraggio

    Il maxi-sondaggio CISE-Sole 24 Ore: la maggioranza resta un miraggio

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 16 febbraio 2018

    Un sondaggio in cui gli intervistati sono 6000 elettori invece dei 1000-1500, o addirittura meno, dei sondaggi tradizionali dovrebbe consentire di migliorare significativamente le stime sulle intenzioni di voto alle prossime elezioni del 4 Marzo. E’ questa la motivazione principale dietro al sondaggio realizzato dal CISE per questo giornale. Seimila intervistati sono tanti. Eppure è talmente elevata l’incertezza che circonda il prossimo voto che anche con un campione così robusto occorre prendere con grande  cautela i dati che presentiamo qui. Il vantaggio di un campione come questo è che questi dati ci aiutano a esplorare più a fondo le tendenze in corso nelle diverse zone geo-politiche, ma resta pur sempre vero che quando quasi il 40% degli intervistati risponde che non andrà votare, non sa se andrà a votare o non sa per chi votare qualunque risultato è da considerarsi fragile.

    Le intenzioni di voto.

    Il nostro sondaggio conferma questo stato di cose. In questo momento dentro il corpo elettorale ci sono circa 6 milioni di individui che probabilmente voteranno, ma che oggi non sanno per chi.  Ciò premesso, tra quel 62% di intervistati che in questo sondaggio ha manifestato la sua intenzione di voto il M5s  si conferma il primo partito del paese con il 29%, seguito dal Pd con il 23.7%.   Forza Italia e Lega si giocano il terzo posto con una percentuale intorno al 15. A seguire le formazioni minori.  Confrontando questi dati con quelli dei sondaggi delle ultime settimane si notano molte conferme e qualche differenza. Cambia il rapporto tra Forza Italia e Lega. Più debole la prima, più forte la seconda. La forza relativa del M5s e del partito di Salvini accresce la probabilità che possano arrivare alla maggioranza assoluta dei voti insieme a Fratelli d’Italia. Altra cosa è la maggioranza dei seggi. Con questo sistema elettorale non basterà avere la maggioranza assoluta dei voti per arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi.

    Una nuova geografia elettorale. Il boom al Sud del M5s

    Fin qui sono cose note. I dati più significativi di questo sondaggio sono quelli relativi alla distribuzione territoriale del voto.  Qui le sorprese sono molte. Il M5s è stimato al 38% nelle regioni meridionali. E’ un risultato addirittura superiore a quello ottenuto dal suo candidato- presidente nelle ultime elezioni regionali siciliane (35%). Ma anche nelle quattro regioni della ex zona rossa arriva al 26% contro il 28.8% del Pd.  La sua area di relativa debolezza è il Nord dove si ferma al 20.9%, un risultato che lo avvicina alla Lega ma molto inferiore a quello del Pd che con il suo 27% è il primo partito in questa zona.  Il partito di Renzi va bene al Nord ma meno bene nella sua roccaforte tradizionale, le quattro regioni della ex zona rossa, dove invece le intenzioni di voto alla Lega arrivano al 19,8%,  una percentuale vicina a quella del Nord. Il Pd non va bene nemmeno al Sud dove viene doppiato dal M5s. In questa zona non va bene nemmeno Forza Italia. Eppure è qui che il partito di Berlusconi raccoglie una percentuale di intenzioni di voto superiore al Nord e molto superiore alle regioni della ex zona rossa dove addirittura  il suo voto è a una cifra. Per concludere sul punto , non è da sottovalutare nemmeno il 6.9% della Lega al Sud.

    In sintesi uno dei paradossi di questa geografia elettorale è che il Pd è il primo partito sia al Nord che nella ex zona rossa, ma questo non gli basterà a vincere queste elezioni. Oltre ai partiti ci sono le coalizioni incentivate da un sistema elettorale che pur essendo prevalentemente proporzionale prevede una quota significativa di  collegi uninominali senza i quali non si può avere la maggioranza assoluta dei seggi. L’unica forza politica che può puntare a questo traguardo è il centro-destra con il suo 35% di voti.

    Una maggioranza difficile

    In altri tempi (il 15 e il 27 ottobre)  sulle pagine del Sole 24 Ore abbiamo pubblicato una matrice che individua la combinazione minima di seggi uninominali e di seggi proporzionali necessaria e sufficiente per ottenere la maggioranza assoluta. La formula vincente più plausibile è 40-70. Con il 40% dei seggi proporzionali e il 70% dei seggi maggioranza si arriva a 322 seggi alla Camera, sei più della maggioranza. Nei 322 abbiamo incluso 5 seggi della circoscrizione estero. E questo è l’unico elemento ipotetico del calcolo. (hotcanadianpharmacy.com)   Il sondaggio CISE ci dice che il centro-destra non è lontanissimo dalla meta per quanto riguarda la percentuale di seggi proporzionali.  Ed è il solo ad essere in condizione di arrivarci. Il voto disperso che in questo sondaggio è dato al 5% dà una mano. Eventi favorevoli nei giorni prima del voto potrebbero fare il resto per passare dal 35% al 40%.

    La questione aperta riguarda il 70% di seggi MG. Ce la possono fare Berlusconi e alleati ad arrivare lì?   In una delle tabelle in pagina abbiamo stimato i seggi uninominali che il centro-destra potrebbe ottenere al Nord e nella ex zona rossa. Nonostante la crescente volatilità delle preferenze elettorali persistono delle tendenze di voto di lungo periodo che ancora oggi caratterizzano a grandi linee Nord, ex zona Rossa e Sud. La prepotente irruzione sulla scena del M5s e la crescita della Lega fuori dal suo bacino tradizionale le ha modificate, ma non tanto da riuscire a stravolgere completamente il quadro. Il resto lo fa il collegio uninominale.

    Al Nord continua a prevalere il centro-destra ma a trazione leghista. Anche in una competizione tripolare il suo vantaggio marginale in termini di voti si potrebbe tradurre in un grosso successo in termini di seggi. Potrebbe ottenere 78 seggi su 91. Nelle quattro regioni della ex-zona rossa continua a prevalere il Pd anche se indebolito. Al centro-destra potrebbero andare 13 seggi.  E poi c’è il Sud con i suoi 101 seggi uninominali. Da sempre questa è la zona più ballerina del paese. Quella meno ideologica e meno vincolata ad appartenenze partitiche. Non facciamo stime per questa area. Ci limitiamo a dire che se il centro-destra prende il 35% dei voti a livello nazionale (con il 5% di voto disperso) e se le stime in seggi che abbiamo fatto sopra sono corrette, per arrivare alla maggioranza assoluta alla Camera dovrebbe vincere qui 83 collegi su 101. Con un M5s stimato al 38% dei voti non sembra una impresa possibile. Prima di vedere questi dati si poteva ipotizzare che una parte degli elettori del Movimento potessero essere attirati da candidati più noti del centro-destra e quindi defezionare.  Alla luce di questi dati, e ammesso che siano veritieri, la cosa non è realistica. Come si vede nella tabella solo se il centro-destra riuscisse ad arrivare a livello nazionale al 40 o al 45% dei voti e quindi ridurre la sua dipendenza dai collegi del Sud l’obiettivo potrebbe essere raggiunto. Inutile dire che è molto difficile che questo avvenga. Certo, ci sono ancora milioni di elettori indecisi e potrebbero verificarsi eventi inattesi , ma matematica elettorale e tendenze di voto dicono che l’esito più probabile di queste elezioni sarà lo stallo.

    Tabella 1 – Intenzioni di voto nazionalisondaggione int voto naz

    Tabella 2 – Distribuzione geografica intenzioni di voto nelle 3 zone (Nord, Zona rossa, Sud)

    sondaggione int voto naz

    Tabella 3 – Come il centro-destra potrebbe arrivare alla maggioranza assoluta alla Camera (316 seggi)sondaggione path to majority

     

     


    NOTA METODOLOGICA

    Il sondaggio è stato condotto da Demetra nel periodo dal 5 al 14 febbraio 2018. Sono state realizzate 3.889 interviste con metodo CATI (telefonia fissa) e CAMI (telefonia mobile), e 2.107 interviste con metodo CAWI (via internet), per un totale di 6.006 interviste. Il campione, rappresentativo della popolazione elettorale in ciascuna delle tre zone geografiche, è stato stratificato per genere, età e collegio uninominale di residenza. Il margine di errore (a livello fiduciario del 95%) per un campione probabilistico di pari numerosità in riferimento alla popolazione elettorale italiana è di +/- 1,17 punti percentuali. Il campione è stato ponderato per alcune variabili socio-demografiche.

  • Berlusconi snodo obbligato negli scenari del dopo voto

    Berlusconi snodo obbligato negli scenari del dopo voto

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 10 dicembre 2017

    Anche in politica esistono eventi impossibili, eventi certi e eventi probabili. Alla prima categoria appartengono la vittoria del Pd e del M5s alle prossime elezioni. Né l’uno né l’altro possono vincere la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le camere. Non hanno né voti né alleati sufficienti. A questa categoria appartiene anche un governo della sinistra, con Pd e Mdp insieme. Nemmeno la resurrezione politica di Prodi cambierebbe la previsione. Alla categoria degli eventi certi appartiene la partecipazione di Forza Italia a qualunque governo o a qualunque maggioranza si formi dopo il voto. Solo un governo M5s-Lega Nord o un governo Pd-M5s potrebbero cambiare le cose. Ma non sono esiti credibili.

    Poi ci sono gli eventi probabili. Uno di questi è un governo di centro-destra. La coalizione di Berlusconi è ancora in via di formazione, ma se ne conosce già la fisionomia essenziale. Gli attori principali saranno i soliti tre: Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia. A loro si aggiungeranno liste minori che porteranno voti, anche senza prendere seggi. Se diamo retta agli attuali sondaggi questa coalizione è oggi intorno al 35% dei voti. Con questa percentuale non si ottiene il 40% dei seggi proporzionali necessari per vincere, a meno che non ci sia una elevata percentuale di voti dispersi. Se fossero intorno al 10% sarebbe possibile arrivare al 40% dei seggi con il 36% dei voti. Berlusconi potrebbe farcela. E’ questa più o meno la percentuale di cui viene accreditata oggi la sua coalizione. Ma non basterebbe. Dovrebbe vincere anche il 70% dei seggi nei collegi uninominali per arrivare alla maggioranza assoluta.

    I collegi maggioritari sono imprevedibili. Sulla carta è difficile che il centro-destra ne possa vincere 162 su 232 alla Camera e 81 su 116 al Senato, cioè il 70%.  Ma è l’unico attore che può sperare di farcela. Può contare su una solida percentuale di collegi al Nord. Il servizio studi della Camera ha calcolato che con i voti del 2013 ne avrebbe vinti 49 su 91. Oggi ha più voti di allora e il centro-sinistra ne ha meno, mentre il M5s non ne ha abbastanza per arrivare primo nei collegi. Se questo sarà il quadro in primavera il centro-destra potrebbe arrivare a vincere quasi tutti i collegi a Est del Ticino e la gran parte di quelli in Piemonte e Liguria. Come nel 1994. Con questo risultato la partita si giocherà nei collegi del Sud dove tutto è possibile. Se in questa zona la coalizione di Berlusconi andrà veramente bene un governo di centro-destra potrebbe diventare una realtà. Tanto più che se non arrivasse alla maggioranza assoluta, ma ci andasse molto vicino, il trasformismo potrebbe fare il resto. Cose già viste. Insomma una vittoria del centro-destra non ha probabilità zero, a differenza di quella di Pd e M5s.

    Se la coalizione di Berlusconi non vince il governo si farà dopo il voto. In questo caso si aprono scenari complicati e potenzialmente caotici. Il primo è quello di un governo che comprenda Pd e Forza Italia con qualche alleato minore. Naturalmente saranno in molti a gridare allo scandalo. In primis molti elettori del Pd, di Forza Italia e della Lega Nord. Ma questo fa parte del gioco. Gli elettori si rassegneranno. Hanno quasi tutti dimenticato che dopo le elezioni del 2013 finì proprio così. Con Berlusconi al governo con il Pd e la Lega Nord all’opposizione.

    Il problema non sono gli elettori, ma i numeri. Non è affatto detto infatti che la coalizione Pd-Fi sia tanto grande da avere la maggioranza assoluta dei seggi. I sondaggi di oggi dicono che insieme questi due partiti arrivano al 40% dei voti circa. Non ci dicono però quanti seggi avranno singolarmente e complessivamente. In particolare non si sa ancora quale sarà la spartizione dei seggi uninominali tra Forza Italia e Lega Nord.  Dato che Salvini non vuole andare al governo con il Pd la questione è piuttosto delicata. I collegi nelle regioni del Nord sono alla Camera 91. In quanti il candidato comune della coalizione di centro-destra sarà un leghista?  La possibilità di un governo Pd-Fi dipenderà anche da questo dato. Ma dipenderà soprattutto dal fatto che entrambi i partiti vadano molto bene. E le probabilità che questo accada non sono elevate.

    Lo scenario peggiore dal punto di vista della governabilità, e purtroppo quello più probabile, è che Pd e Fi non arrivino alla maggioranza assoluta. In questo caso chi offrirà i voti che mancano?  Sarà Bersani ad appoggiare la coalizione Renzi-Berlusconi? Oppure il M5s?  Non crediamo proprio. O sarà la Lega Nord la candidata al ‘sacrificio’?  Sarà questo il momento in cui esploderanno le contraddizioni che da tempo segnano il partito di Salvini?  E non è nemmeno certo che un Pd indebolito sia disposto a entrare in un governo del genere.

    In conclusione, se il centro-destra non vince e Pd e Fi non ottengono insieme la maggioranza assoluta dei seggi si aprirà una fase molto critica in fondo alla quale non è difficile intravedere i fantasmi di nuove elezioni o un governo del presidente che comunque dovrà trovare i voti in Parlamento per sopravvivere senza governare.

  • Maggioritario partita decisiva, possibile sorpresa M5s al Sud

    Maggioritario partita decisiva, possibile sorpresa M5s al Sud

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 27 ottobre

    Nel 1993 è stata la volta della legge Mattarella. Nel 2005 la legge Calderoli. Nel 2015 l’Italicum. Oggi la legge Rosato. Quattro sistemi elettorali in 24 anni. Senza parlare di due sentenze della Consulta che hanno comunque introdotto sistemi diversi da quelli approvati in Parlamento. Questo è uno dei dati che coglie meglio di tante parole la persistente fragilità del nostro sistema politico dopo la crisi della Prima Repubblica. E non è finita. Purtroppo si scoprirà presto che nemmeno il sistema di voto appena varato ci darà la stabilità di cui l paese ha bisogno per affrontare le sfide difficili che ha davanti.

    Nei prossimi mesi assisteremo a una campagna elettorale in cui centro-destra, centro-sinistra e M5s faranno credere agli italiani di poter arrivare a governare da soli. È possibile. Non si può assegnare uno zero alla probabilità che uno dei tre contendenti possa arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le camere. Ma è assai poco probabile. Non occorre fare complicate simulazioni per arrivare a questa conclusione. Bastano due tabelle che incrocino le percentuali di seggi proporzionali e di seggi maggioritari necessarie per arrivare alla soglia dei 316 seggi alla Camera e dei 158 seggi al Senato (esclusi i senatori a vita). È un esercizio che abbiamo già fatto per la Camera. Ora lo facciamo anche per il Senato. A differenza della tabella già pubblicata abbiamo inserito nel calcolo 5 seggi (su 12) provenienti dalla circoscrizione estero alla Camera e 3 seggi (su 6) al Senato.

    Tab. 1 – Le combinazioni per ottenere la maggioranza dei seggi alla Camerarosatellum camera

    Tab. 2 – Le combinazioni per ottenere la maggioranza dei seggi al Senatorosatellum senato

    In sintesi, queste tabelle servono a rispondere a questa semplice domanda: quale è la combinazione di seggi maggioritari e proporzionali che può produrre un governo di maggioranza come risultato diretto del voto? La risposta è nei numeri. Alla Camera le percentuali minime sono il 60% di seggi maggioritari e il 45% di quelli proporzionali. Al Senato il 50% per entrambi le categorie di seggi. Con queste percentuali il vincente avrebbe 318 deputati e 158 senatori. Cioè una maggioranza risicata. Eppure si tratta di percentuali rilevanti. Nella storia della Seconda Repubblica non è mai successo che una coalizione sia arrivata al 50% dei voti proporzionali alla Camera. Questa percentuale è stata sfiorata dai due poli berlusconiani nel 1994 e dalle coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra nel 2006. Ed erano i tempi del bipolarismo, mentre oggi il formato del sistema partitico è tripolare. Quanto ai collegi uninominali utilizzati tra il 1994 e il 2001, i picchi sono stati registrati dalle coalizioni di Berlusconi nel 1994 alla Camera (63,7%) e al Senato nel 2001 (65,5%). Nessuno è mai arrivato al 70%.

    Cosa fa pensare che a marzo del prossimo anno uno dei tre poli possa arrivare a queste percentuali? Per essere ancora più precisi prendiamo come punto di riferimento la percentuale ottenuta dalla Casa delle Libertà di Berlusconi nel 2001 al Senato, e cioè il 65% dei seggi maggioritari. Se uno dei tre poli ripetesse questo exploit alle prossime politiche dovrebbe comunque arrivare ad ottenere alla Camera il 45 % dei voti proporzionali per riuscire ad avere 330 seggi e la stessa percentuale al Senato per avere 165 senatori. Certo, non si può escludere del tutto che questo avvenga. Ma che probabilità è realistico assegnare ad un evento del genere?

    Ciò premesso, è giusto tener conto di due fattori che potrebbero giocare a favore di un esito maggioritario. Il primo è una quota particolarmente elevata di voto disperso, cioè di voti dati a partiti che restano sotto la soglia di sbarramento del 3%. Più alto è il voto disperso, più alta è la percentuale di seggi che vanno ai partiti sopra la soglia. Questo vuol dire che il 45% dei seggi proporzionali nella nostra tabella potrebbe essere ottenuto con meno del 45% dei voti. Per esempio con un 10% di voti dispersi un partito con il 40% dei voti otterrebbe il 44% dei seggi. Ma anche in questo caso dovrebbe comunque vincere circa il 60% dei seggi maggioritari per arrivare alla Camera a 318 seggi. Il voto disperso può incidere ma non più di tanto. In ogni caso oggi è difficile da stimare. Si dovrà vedere come si coordineranno tra loro i partiti, cioè quale sarà l’offerta politica. Se il coordinamento sarà efficiente, il fattore-voto disperso potrebbe diventare del tutto ininfluente. E allora la partita si giocherà nei collegi uninominali.

    Si dice che l’introduzione dei collegi veri (e non quelli finti del sistema tedesco) avvantaggi centro-destra e centro-sinistra a danno del M5s. Può essere, ma oggi non si può dire con certezza. È vero che nelle regioni del Nord e in quelle della ex-zona rossa il M5s prenderà probabilmente meno seggi di quanti ne avrebbe presi con il consultellum, ma nelle regioni del Sud potrebbe verificarsi l’opposto. Ed è proprio in questa zona del paese che si giocherà la partita decisiva l’anno prossimo. Qui i collegi potrebbero fare la differenza.

    Ma anche così bisogna essere inguaribili ottimisti o grandi imbonitori per credere e far credere a un successo schiacciante di uno dei poli. Conquistare il 60-70 % dei seggi maggioritari e il 40-45% di quelli proporzionali a livello nazionale è un traguardo molto difficile da raggiungere nell’attuale contesto. Tanto più che deve essere raggiunto in entrambe le camere. E si sa bene che l’esito del voto al Senato potrebbe differire da quello della Camera per diverse ragioni. In primis la mancata riforma costituzionale per dare il voto ai diciottenni anche al Senato.

    In conclusione, continuiamo a dubitare che siano gli elettori a scegliere il prossimo governo. Come ai tempi della Prima Repubblica lo faranno i partiti dopo il voto rimescolando le carte. Aggiungiamo però che in ogni caso il sistema elettorale appena approvato è un passo avanti rispetto ai sistemi confezionati dalla Consulta. In fondo sono tornati i collegi uninominali. Sono pochi. Avrebbero dovuto essere molti di più, come erano con la legge Mattarella. Ma accontentiamoci per ora. Anche così la loro resurrezione è già un piccolo miracolo.

  • Il “pallottoliere” del Rosatellum

    Il “pallottoliere” del Rosatellum

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 15 Ottobre 2017

    Per capire come finiranno le prossime elezioni politiche non servono strumenti complessi o ragionamenti particolarmente sofisticati. Basta una semplice tabella che tenga conto delle regole del voto e degli attori in competizione. Sulle prime deciderà il Senato in settimana. Il Rosatellum-bis pare destinato ad essere definitivamente approvato. Sui secondi  sappiamo già quanto ci interessa sapere in questa fase, e cioè il numero. Ci sarà una coalizione di centro-sinistra, una di centro-destra e il M5s. Non conosciamo la composizione delle coalizioni, ma è un dato che non serve per quello che vogliamo dimostrare ora.

    Il nuovo sistema elettorale assegnerà alla Camera 232 seggi in altrettanti collegi uninominali con la formula della maggioranza relativa e 386 seggi con formula proporzionale. Per vincere i primi basterà che un candidato ottenga un voto più degli altri. Per ottenere i secondi occorrerà avere almeno il 3% dei voti a livello nazionale. Fuori dal conto restano i 12 seggi della circoscrizione estero che, esclusi dai nostri calcoli, potrebbero comunque essere decisivi per formare un governo dopo il voto. I “Pallaro” (il senatore italo-argentino che sostenne il governo Prodi ma poi contribuì alla sua caduta) del 2018 potrebbero ancora essere una risorsa del sistema.

    Nella tabella abbiamo fatto una operazione semplicissima. Abbiamo incrociato la percentuale dei 386 seggi proporzionali che un qualunque attore potrebbe ottenere con la percentuale dei 232 seggi maggioritari che lo stesso attore potrebbe vincere nei collegi uninominali. I numeri nelle singole caselle della tabella sono il totale dei seggi che risultano dall’incrocio delle due percentuali. Per esempio, se uno dei tre principali attori della competizione – centro-sinistra, centro-destra o M5s- ottenesse il 35 % dei seggi proporzionali e il 50% dei seggi maggioritari il numero dei suoi deputati sarebbe 251.  E così via.

    In questo momento noi non sappiamo quanti voti e quanti seggi prenderanno il M5s e  ciascuna delle due coalizioni che si presenteranno alle prossime elezioni. Ma pur non conoscendo questo dato la tabella fa vedere con matematica chiarezza che la combinazione di seggi proporzionali e di seggi maggioritari difficilmente produrrà una maggioranza a favore di uno dei contendenti, cioè quei 316 seggi che servono alla Camera per fare il governo.  Certo, se ipotizziamo che uno dei tre attori possa conquistare il 50 per cento dei seggi proporzionali e il 70 di quelli maggioritari il gioco sarebbe fatto e non staremmo qui a preoccuparci di come si farà il governo dopo il voto. Ma è realistico che la coalizione di Renzi o quella di Berlusconi oppure il partito di Di Maio possano arrivare a queste percentuali ?  La risposta non può che essere negativa.

    Ma se anche immaginassimo che uno dei contendenti arrivi al 40 per cento dei seggi proporzionali dovrebbe pur vincere il 70% dei seggi maggioritari per ottenere  una maggioranza risicata di 317 seggi totali. Se invece ipotizziamo che uno dei tre competitori vinca il 55 per cento dei seggi maggioritari dovrebbe ottenere la percentuale straordinariamente elevata del 50 per cento dei seggi proporzionali per arrivare a 321 seggi totali. Pur nell’incertezza che caratterizza in questa fase il comportamento degli elettori queste combinazioni appaiono decisamente poco credibili.

    E allora la conclusione è ineludibile: il prossimo governo dovrà necessariamente nascere dalla scomposizione delle coalizioni che si presenteranno davanti agli elettori in campagna elettorale e dalla loro ricomposizione in una maggioranza di governo che non corrisponderà alle solenni promesse fatte agli elettori al momento del voto. E tutto ciò sperando che sia possibile assemblare una qualunque maggioranza di governo, viste le preclusioni, i veti e le idiosincrasie dei nostri partiti.

    Sarà un brutto spettacolo. Con buona pace di tutti coloro che votando no al referendum del 4 Dicembre 2016  e applaudendo la sentenza della Consulta sull’Italicum del Febbraio 2017 credevano di fare il bene dell’Italia.pallottoliere tabella

  • Doppio turno contro l’incertezza

    Doppio turno contro l’incertezza

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 24 settembre

    Diciamolo subito per fugare illusioni e finzioni. Il nuovo sistema elettorale proposto dal Pd non risolverà il problema della governabilità di questo paese. Nelle condizioni in cui siamo ci vuole ben altro. Occorrono sistemi a due turni. Non importa se di collegio o di lista, ma a due turni. Oggi non li vuole nessuno, perché nessuno vuole che siano gli elettori a decidere i governi. Il Rosatellum-bis è un sistema misto a un turno. I collegi uninominali, e cioè la parte maggioritaria del mix, sono troppo pochi per generare un livello di disproporzionalità tale da favorire la creazione di una maggioranza di governo al momento del voto. Alla Camera i seggi maggioritari sono 232 contro 386 seggi proporzionali. Al Senato rispettivamente 109 e 200. Con questi numeri e con gli attuali rapporti di forza tra i maggiori partiti l’esito del voto sarà comunque di stampo proporzionale. Anche se si formeranno coalizioni prima del voto i governi si faranno dopo. E il governo più probabile resta quello tra Pd e Forza Italia con l’aggiunta di partitini o di pezzi di ceto politico in libera uscita. Da questo punto di vista non cambierà nulla rispetto ai due consultelli che si vuole sostituire. Tranne che non ci sarà più un premio di maggioranza alla Camera ad alimentare la possibilità- per quanto labile- di un esito maggioritario e una soglia dell’8% al Senato a frenare la frammentazione partitica.

    Dal punto di vista dei partiti e degli elettori invece cambiano molte cose. Sparisce completamente il voto di preferenza. Senza riforma tutti i senatori e una parte dei deputati saranno eletti con le preferenze. Con la riforma nessuno. Tutti i candidati e tutti gli eletti saranno decisi dalle segreterie di partito, cioè dai leaders. Per chi non ama le preferenze non è un dramma. In fondo la resurrezione dei collegi uninominali restituisce in parte agli elettori la possibilità di giudicare le scelte dei partiti. Ma è certo che la totale cancellazione del voto di preferenza offrirà un potente argomento retorico agli oppositori della riforma.

    Non occorre essere degli specialisti per capire che questa modifica è una delle ragioni per cui Berlusconi ha accettato un sistema con una quota di quei collegi che lui e Casini hanno voluto abolire nel 2005 quando fu fatta la riforma Calderoli. Tra l’altro questi collegi sono congegnati per limitarne l’efficacia. I candidati appaiono su una scheda affollata di simboli affiancati dalle liste dei partiti che li sostengono e senza la possibilità per gli elettori di votare solo il candidato che piace. In altre parole parte maggioritaria e parte proporzionale del sistema sono così strettamente fuse da depotenziare l’effetto del collegio uninominale sulla competizione. Un meccanismo che non dispiace al leader di Forza Italia. Così come sicuramente piace il ritorno delle coalizioni alla Camera, dove non sono previste dal sistema in vigore.

    Fermo restando che oggi Berlusconi preferirebbe un sistema proporzionale puro, il Rosatellum-bis rappresenta per lui comunque un miglioramento rispetto alla situazione attuale. Con questo sistema il difficile dilemma se fare o meno il listone di tutti i partiti del centro-destra è superato. Nei collegi uninominali si presenteranno con candidati comuni come nel 1994 e nel 2001. Litigheranno sulla spartizione di queste candidature, ma alla fine troveranno l’accordo. Nella parte proporzionale, che è quella che conta di più, non dovranno fare alcun listone. Ci sarà una coalizione in cui ognuno sarà presente con il suo simbolo e la sua lista di candidati. Alleati sì, ma anche separati. Stessa cosa nel campo Pd. In fondo la combinazione di collegi e coalizioni può essere utile anche al partito di Renzi. Offre una opzione in più. Può consentire di fare accordi con altri partitini- di sinistra o di centro-sia concedendo loro qualche seggio nei collegi uninominali sia stipulando una alleanza formale nella parte proporzionale.

    Questa riforma- lo ripetiamo- non risolverà il problema politico principale del paese che è quello di avere regole che favoriscano la formazione di governi stabili e responsabili. Ma solo gli illusi e gli ingenui possono pensare che dopo il ‘combinato disposto’ del voto del 4 dicembre e della sentenza della Consulta sull’Italicum si potesse percorrere questa strada ora.

    D’altra parte, questa riforma risolve molti problemi dei partiti che l’hanno proposta. E questo è il motivo per cui ha sulla carta un ampio sostegno. Aggiungiamo però che, tutto sommato, rispetto alla situazione attuale rappresenta un piccolo miglioramento. Ci restituisce in parte i collegi maggioritari – per quanto depotenziati- e semplifica il processo elettorale. A dire il vero, il sistema di voto proposto non è proprio così semplice, ma ha il vantaggio di essere lo stesso nelle due camere. (Xanax) In questo modo si correggono i pasticci creati dalla Consulta con le sue sentenze. Il presidente Mattarella, che da sempre spinge per l’armonizzazione, sarà contento. Meno contenti sono Di Maio, Bersani e i signori delle preferenze. Per alcuni di loro l’unico vero vantaggio è la scomparsa della soglia dell’ 8% al Senato, visto che con il Rosatellum la soglia del 3% si applica in entrambe le camere. Ma questo non basterà a convincerli.

    Che questo progetto non vada bene a tutti non è una sorpresa. E’ difficile che le riforme elettorali fatte a ridosso delle elezioni siano un gioco a somma positiva, cioè che siano neutre. Qualcuno è destinato a rimetterci. Si tratta di vedere se i perdenti avranno i numeri in parlamento per bloccare la riforma. Alla Camera gli darà una mano il voto segreto. Al Senato l’esigua maggioranza su cui si regge il governo. La partita non è chiusa. Tutt’altro.

  • Benefici e rischi della lista unitaria per il leader di FI

    Benefici e rischi della lista unitaria per il leader di FI

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 10 settembre 2017

    Alle prossime elezioni politiche il centro-destra si presenterà con una unica lista oppure Forza Italia, Lega Nord e Fdi si presenteranno ognuno per conto proprio? Tra le tante domande sulla prossima campagna elettorale questa è certamente una delle più intriganti. La questione non avrebbe senso se il sistema di voto fosse veramente proporzionale. In questo caso ogni partito si presenterebbe con il proprio simbolo, il proprio programma e la propria lista di candidati. Ma non è così. I due sistemi con cui si voterà la prossima primavera non sono del tutto proporzionali. Quello della Camera prevede un premio che consente alla lista con il 40% dei voti di arrivare al 54% dei seggi. Quello del Senato prevede una soglia di sbarramento dell’8% che può scendere al 3% se i partiti fanno parte di una coalizione che prende il 20% dei voti. Premio di maggioranza e sconto sulla soglia sono due meccanismi che alterano la logica proporzionale della formula di assegnazione dei seggi e quindi le convenienze dei partiti e le loro strategie elettorali.

              Sulla base dei sondaggi disponibili oggi sembra poco probabile che alla Camera una lista possa arrivare al 40% dei voti. Ma non è questo quello che conta. Le campagne elettorali sono fatte di finzioni. La presenza del premio spingerà Pd e M5s a rivolgersi agli elettori con un appello di stampo maggioritario. Chiederanno di votare per loro per poter arrivare al 40% e governare da soli. Che la cosa sia irrealistica è irrilevante.  La poca fiducia nei sondaggi e la presenza di una larga fetta di elettorato indeciso avvalorano la finzione. Ma anche le finzioni devono avere una sia pur minima parvenza di credibilità.  Nemmeno il Berlusconi redivivo di oggi può presentarsi davanti agli elettori con la lista di Forza Italia da sola e pretendere di poter arrivare al 40% dei voti, quando tutti i sondaggi lo danno tra il 12% e il 15%. Ammettiamo pure che queste percentuali siano sottostimate, ma dal 15% al 40% ce ne corre. Quindi, per poter partecipare alla fiera delle finzioni Berlusconi deve allearsi.

              Se potesse fare una coalizione con Lega Nord e Fdi il problema non si porrebbe. Sarà così al Senato. Ma alla Camera le coalizioni non sono ammesse. Qui i tre partiti di centro-destra devono confluire tutti in una lista unica. E questo crea vari problemi: di visibilità, di leadership, di programma, e soprattutto di candidature. Alla Camera ci sono 100 collegi plurinominali. In ognuno di questi Forza Italia presenterà un capolista che verrà automaticamente eletto se il partito prenderà un seggio in quel collegio. Se ne prendesse due, il secondo seggio andrebbe al candidato in lista con più preferenze. Con questo sistema Berlusconi ha la certezza di poter far eleggere più o meno 100 deputati di suo gradimento. Gli altri eventuali eletti di Forza Italia saranno sempre messi in lista con il suo benestare anche se la loro elezione dipenderà dai voti di preferenza che riusciranno a raccogliere e non solo dalla benevolenza del capo. In ogni caso, tutti i seggi spettanti a Forza Italia andranno a candidati di Forza Italia.

              Cosa succede invece con la lista unitaria? I capilista sono sempre 100.  Come verranno divisi tra Forza Italia, Lega Nord e Fdi?  Già sarà un’operazione complicata. Ma indipendentemente dalla spartizione di questi 100 seggi, il grosso problema è che ogni componente della lista unitaria avrà meno eletti nominati dalle segreterie di quanti ne avrebbe se corresse da sola. E questo certamente non può piacere a Berlusconi e a Salvini. Il secondo problema riguarda in particolare Forza Italia. La lista unitaria otterrà certamente più di 100 deputati. Se diamo credito alle attuali stime sulle intenzioni di voto, che la danno al 35% circa, dovrebbe averne più del doppio. E chi saranno? Chi fra i candidati della lista unitaria la spunterà sugli altri nel gioco delle preferenze?

              A occhio e croce dovrebbe essere avvantaggiata la Lega Nord che ha un radicamento territoriale al Nord maggiore di Forza Italia. Se così è, la lista unica del centro-destra presenta un grosso rischio per Berlusconi. Il Cavaliere si potrebbe ritrovare alla Camera con un gruppo parlamentare più piccolo di quello di Salvini, anche avendo più voti di lui alla luce del risultato del Senato dove i voti ai singoli partiti si vedono visto che lì la lista unica non è necessaria.

              Ma senza listone il cavaliere non potrebbe partecipare alla fiera delle finzioni, né – e vale la pena sottolinearlo- potrebbe partecipare alla gara per arrivare primo. E questa non è una finzione. In fondo, a ben vedere, i premi  in palio alle prossime elezioni sono due. Uno è quello che si ottiene arrivando al 40%, l’altro è quello che si ottiene arrivando primo, cioè prendendo un voto più dei rivali.  Con una lista unitaria è plausibile che il centro-destra possa ambire quanto meno al secondo di questi premi, il che non è da sottovalutare. E chissà che non possa addirittura puntare al primo se le cose si mettessero davvero bene da qui alla prossima primavera. E allora si farà la lista unitaria del centro-destra?  Più sì che no. Una lista unica e due monete. Parallele naturalmente.