Sul fronte della composizione della classe politica, ed in particolare della delegazione di parlamentari che rappresenteranno l’Italia a Bruxelles e Strasburgo, le elezioni europee del 2019 rappresentano un passaggio molto meno rivoluzionario di quello che avevano rappresentato le elezioni del 2014. Il profilo della nostra delegazione è sensibilmente cambiato ma, rispetto al passato recente e meno recente, i cambiamenti sono stati meno radicali, e lo stesso si può dire sul fronte della rappresentanza femminile e dell’età media degli eletti. Una fase di consolidamento dunque, come spesso capita subito a valle di un momento di estrema innovazione (*).
Innanzi tutto è importante chiarire un punto: domenica 26 maggio gli italiani hanno eletto 76 parlamentari europei, ma tre di essi entreranno in carica solo dopo la Brexit, e dunque, presumibilmente, a fine ottobre (**). La delegazione attuale è pertanto da considerarsi composta ancora da 73 eletti, così come nel 2014, e le analisi che seguiranno si riferiscono a coloro che entreranno in carica da subito.
Di questi 73 eletti, i parlamentari uscenti che sono riusciti ad ottenere una riconferma sono 29, ovvero il 40%. Sembra una cifra ridotta, ma così non è se la si confronta con l’ultimo quarto di secolo. Dal 1994 infatti, questa è la seconda elezione meno innovatrice sotto il profilo della classe politica.
Figura 1 – Tasso di ricambio nella delegazione italiana al Parlamento europeo (1994-2019, % nuovi eletti su eletti totali)
Le elezioni europee costituiscono una consultazione molto particolare dal punto di vista della classe politica: quella di parlamentare europeo è una carica estremamente remunerativa dal punto di vista economico ma rimane molto meno ambita, sul fronte simbolico e di potere politico effettivo, rispetto a quelle di livello nazionale. Sotto il profilo del cursus honorum politico, la carica di parlamentare europeo è stata tradizionalmente considerata in Italia o come la tappa finale di una carriera che sul fronte nazionale si è rivelata importante ma non eccelsa, o come una tappa intermedia da utilizzare come rampa di lancio in vista di un possibile rientro entro i confini nazionali. Questo elemento agisce in modo significativo sul tasso di rinnovo della delegazione italiana, perché non è detto che un uscente si ricandidi e non è detto che chi si ricandida riesca a superare la concorrenza di chi si affaccia per la prima vota. Questo a maggior ragione in un contesto competitivo basato sulle preferenze. Vi sono molti altri fattori che contribuiscono ad un tasso di rinnovo così alto, ed in particolare contribuisce in tal senso l’estrema mutevolezza che il sistema partitico italiano ha tradizionalmente mostrato negli ultimi anni sia sul fronte dell’aspetto dell’offerta che sul fronte della volatilità elettorale. Ad esempio, è certamente quest’ultima ad aver giocato un ruolo decisivo sul fronte del rinnovo della classe politica alle europee del 2019, visto il forte ridimensionamento del PD (passato da 31 a 19 parlamentari) e la notevole crescita della Lega (passata da 6 a 28 parlamentari).
Eppure, nonostante, l’agire combinato di tutti questi fattori, il 40% degli uscenti, stavolta, ha ottenuto la rielezione.
Tabella 1 – Rieletti e nuovi eletti nella delegazione italiana al Parlamento UE 2019
Dei 44 nuovi eletti, oltre la metà sono leghisti, e la cosa non sorprende visto che l’ammontare della delegazione della Lega è più che quadruplicata. Tra gli esordienti, spiccano il sindaco di Cascina Susanna Ceccardi, l’economista euroscettico Antonio Maria Rinaldi, l’ex forzista Silvia Sardone, la senatrice liberale Cinzia Bonfrisco e Gianna Gancia, moglie d Roberto Calderoli. I quattro rieletti del Carroccio sono invece Bizzotto, Ciocca, Lancini e Zanni (ex M5S), mentre dopo 18 anni di onorato servizio a Bruxelles è stato chiesto un passo indietro a Mario Borghezio.
Sono particolarmente interessanti le dinamiche che, su fronte del rinnovo della classe politica, hanno caratterizzato il M5S e il PD. In entrambi i casi infatti si è assistito ad un ridimensionamento delle rispettive delegazioni, ma questo non ha impedito un tasso di rinnovo piuttosto significativo. La cosa si spiega assumendo un’ottica più complessiva, che analizzi non tanto il numero di rieletti sul totale della nuova delegazione, ma piuttosto il numero effettivo di ricandidati, di rieletti e di bocciati sul totale degli uscenti, per ciascuna forza politica. Assumendo quest’ottica ci spieghiamo meglio cosa è avvenuto a questi due partiti.
Tabella 2 – Destino dei componenti la delegazione italiana al Parlamento UE uscente alle elezioni europee del 2019
Partiamo dal PD. Il partito di Zingaretti si presentava con 26 uscenti, ai quali vanno aggiunti i 3 di MDP, che alla fine ha accettato la proposta di dar vita ad una lista comune con i democratici. I 29 uscenti complessivi si sono divisi in modo equamente ripartito in un gruppo di 9 ritirati (tra cui Silvia Costa e Goffredo Bettini), in un gruppo di 10 ricandidati bocciati dagli elettori (tra essi l’ex Presidente del Piemonte Mercedes Bresso, il renziano Nicola Danti e l’ex Ministro Cecyle Kyenge) e in un gruppo di 10 rieletti (tra questi si segnalano la segretaria del partito toscano Simona Bonafè, il Vice Presidente del Parlamento UE uscente David Sassoli, e la capolista nelle Isole Caterina Chinnici). In sostanza, nonostante la presenza di ben 20 ricandidati, che avrebbero potuto rappresentare fino a massima parte della nuova delegazione democratica, ridottasi a 19 unità, circa la metà di coloro che hanno tentato la rielezione non sono riusciti nell’intento. Si tratta di una dinamica molto simile a quella che si era registrata nel 2014: allora la delegazione democratica era aumentata molto rispetto a quella uscente, ma nonostante l’incremento di posti disponibili, e nonostante il 70% degli uscenti si fosse ricandidato (come quest’anno), ben 7 ricandidati su 16 non erano riusciti ad ottenere la riconferma. In partiti strutturati ed in regime di preferenze, essere rieletti non è un compito facile per un parlamentare europeo. Da una parte, la concorrenza è forte perché, come si diceva, l’agone europeo è visto come tappa intermedia della carriera, ovvero come rampa di lancio, da molti esponenti politici in cerca di visibilità nazionale. Dall’altra, le armi con cui gli incumbent possono rispondere ai loro sfidanti sono piuttosto spuntate, visto quanto poco risalto ha l’attività del Parlamento europeo e dei suoi membri a livello nazionale. Questo si aggiunge alle dinamiche correntizie, che nel PD hanno visto, molto recentemente, significativi mutamenti nei rapporti di forza interni. Nel PD vi sono ben 9 nuovi eletti su 19: tra essi figurano personalità di assoluto livello nazionale come Pisapia e Calenda, che hanno registrato un successo notevole a livello di preferenze, ma non mancano anche altre personalità di rilievo come il capolista al Sud Franco Roberti, come Pietro Bartolo (medico di Lampedusa, in lista in rappresentanza del movimento cattolico Demos), come il milanese Pierfrancesco Majorino, e come il fedelissimo di Zingaretti Massimiliano Smeriglio. Personalità indipendenti fortemente simboliche o esponenti di livello medio-alto del partito, spesso già detentori di una carica amministrativa regionale o locale.
Veniamo al M5S, che nel 2014 aveva avuto 17 eletti, e che quest’anno è riuscito a riconfermare solo 9 uscenti, nonostante abbia eletto in totale 14 eurodeputati. Qui il discorso è completamente diverso. La prima colonna della Tabella n. 2 spiega bene quanto avvenuto: i pentastellati avevano sì ottenuto 17 seggi nel 2014, ma al momento del voto gli uscenti effettivamente considerabili come appartenenti al partito di Di Maio erano solo 11, a causa delle numerose defezioni subite nell’ultimo quinquennio. Tutti e 11 gli uscenti sono stati ricandidati, e solo 2 di questi non sono riusciti ad ottenere la riconferma (Laura Agea e Dario Tamburrano, arrivati rispettivamente quarta e quinto nella lista M5S della circoscrizione Centro, in cui sono scattati solo 2 seggi). Il M5S in realtà, ha quindi un tasso di ricandidatura massimo (100%), ed un tasso di successo tra i ricandidati comunque altissimo (80%). Questi dati sono certamente favoriti dal fatto che il Movimento è il partito, tra quelli che hanno ottenuto seggi, che ha ottenuto il livello di consenso più simile a quello di cinque anni fa, ma in realtà sono la conseguenza del fatto che il M5S ha introdotto, per scelta o per necessità, un sistema di selezione dei candidati ben diverso da quello degli altri partiti in lizza. Da un lato, il Movimento è assolutamente contrario agli spostamenti dei propri eletti tra un livello di Governo e l’altro, specie in corso di mandato, perché questo tipo di comportamento viene giudicato dalla base come “carrierista”. Dall’altra, il Movimento ha fortissime difficoltà nell’attirare tra le proprie fila candidati esterni che abbiano una notorietà veramente nazionale. Questi due fattori hanno l’effetto di proteggere l’agone per cui si compete, in questo caso quello europeo, da interferenze esterne, e quindi valorizzano le risorse dei candidati uscenti, che pure non godono di alcun favoritismo formale da parte dei vertici. Agli uscenti viene consentito di provare la ricandidatura (fermo restando il limite di due mandati), ma essi devono guadagnarsela concorrendo alla pari in una selezione interna serrata, alla quale partecipano anche altri candidati, i CV dei quali sono stati prima vagliati a tappeto dai vertici del Movimento. I “candidati alla candidatura” sono poi sottoposti al voto degli iscritti, o meglio della quota di iscritti che generalmente partecipa a tale tipo di selezione (circa 30.000 persone, un quarto degli iscritti complessivi), e sono gli esiti di questa a determinare la composizione della lista. In questo tipo di meccanismo, molto “intimo” ed utilizzato per la prima volta nel 2019 (***), gli uscenti hanno tutti ottenuto la riconferma in lista, e ben 9 su 11 sono poi riusciti ad ottenere la rielezione, nella competizione aperta per le preferenze. Rispetto a questo meccanismo di selezione, vi sono state alcune eccezioni, ed esse sono costituite dalle (poche) personalità esterne che Di Maio è riuscito a cooptare: ma queste rappresentano un pericolo relativo per gli uscenti pentastellati, perché non parliamo di personalità veramente note a livello nazionale. L’unica eccezione è costituita della “Iena” Giarrusso, che infatti non ha avuto alcuna difficoltà ad entrare, prima in lista e poi in Parlamento. Delle cinque capilista donne individuate dal Capo politico poi, alle quali è stato concesso di evitare la competizione interna, ne sono state elette solo 3, e non è certo un caso che tra di esse vi sia l’unica con una qualche notorietà di livello almeno locale (la giornalista d’inchiesta Sabrina Pignedoli). Ha fallito invece il trasferimento a Bruxelles (a conferma di come la prassi del cambio di livello di Governo sia fortemente invisa anche all’elettorato pentastellato) il sindaco di Livorno uscente Nogarin, cui era stata concessa la possibilità di candidarsi, visto che il suo primo mandato locale era concluso e che si profilava una sconfitta nella città da lui amministrata. L’eterogeneità del M5S rispetto alle altre forze politiche, insomma, è consistita proprio in questa sua capacità di tenere isolata la competizione per il seggio europeo rispetto alle dinamiche della politica nazionale. A parità di altre condizioni, più l’agone è protetto da interferenze esterne, più la competizione che vi si struttura valorizza gli uscenti.
Per quanto riguarda le altre forze, numericamente residuali, il forte ridimensionamento di Forza Italia ha portato ad una conseguente contrazione della pattuglia parlamentare berlusconiana. Sono stati riconfermati Tajani (Presidente del Parlamento UE), Comi, Patriciello e Salini. Tra i nuovi, il laziale Salvatore De Meo e nientemeno che lo stesso Silvio Berlusconi. Tra i bocciati illustri, si segnalano Alessandra Mussolini e il segretario dell’UDC Lorenzo Cesa.
In Fratelli d’Italia, inteso come partito, gli eletti sono quasi tutti nuovi. Tra i quattro parlamentari uscenti che hanno tuttavia cercato rifugio nelle liste della Meloni negli ultimi mesi, solo Raffaele Fitto è riuscito ad ottenere la riconferma. Ha fallito in tale obiettivo, ad esempio, Elisabetta Gardini, dopo ben 15 anni di mandato.
Volendo quindi fare un ragionamento complessivo sul fronte del rinnovo della classe politica, è interessante notare cosa è cambiato sotto questo profilo rispetto al 2014 (De Lucia, 2014). Il numero di ritirati e di ricandidati è identico rispetto a cinque anni fa: su 73 uscenti, sono solo 20 coloro che non hanno nemmeno tentato la riconferma, e 53 coloro che l’hanno tentata. Ciò che è cambiato quest’anno è il numero di coloro che sono effettivamente riusciti in questo tentativo: tale numero è salito da 19 a 29 (dal 35% al 55% dei ricandidati). Questo dato dipende essenzialmente dal M5S, che in occasione del suo primo rinnovo di classe politica UE ha assunto un comportamento molto diverso da quello degli altri partiti, ricandidando e confermando la quasi totalità degli uscenti. Stante il limite di due mandati, sarà ben difficile rivedere questo dato tra cinque anni, ma ciò non toglie, anzi arricchisce, la peculiarità costituita dal Movimento in questo ambito.
Venendo al profilo di genere, le elezioni europee del 2019 si configurano come la conferma del nuovo stato dei fatti introdotto dal 2014. Sui 73 componenti la delegazione italiana, le donne passano da 28 a 31, ovvero il 42,5% del totale. Un dato che migliora leggermente, ma che in sostanza conferma, quello che si era registrato nel 2014, che al contrario era stato assolutamente rivoluzionario rispetto al passato, come mostra la Figura 2.
Figura 2 – Rappresentanza femminile nelle delegazione italiana al Parlamento europeo (1979-2019, % su eletti)
La preferenza di genere introdotta a queste elezioni ha sicuramente svolto un ruolo nel mantenere la quota di donne già raggiunta, ma il fatto che il vero balzo sia stato registrato la volta scorsa, quando la preferenza di genere non c’era, non può che far riflettere su quanto il vero mutamento, sotto il profilo della rappresentanza di genere, sia in realtà di livello culturale e, come tale, svincolato da norme formali. Peraltro, il cambiamento del 2014 era stato, davvero, totalmente spontaneo, perché prodotto dalla libera competizione per le preferenze e non derivante, come invece quello registrato alle politiche dell’anno prima, dalle scelte più o meno verticistiche sulla composizione delle liste bloccate.
Disaggregando per partito, ciò che colpisce è senza dubbio il dato leghista. Su 28 eletti del partito di Salvini, 15 sono donne. Oltre il 50%, come il M5S (in questo caso, è una conferma rispetto al 2014). Da questo punto di vista, le “forze del cambiamento” si configurano come in effetti nettamente diverse da quelle tradizionali, PD compreso.
Tabella 3 – Rappresentanza femminile nella delegazione italiana al Parlamento UE: uomini e donne per gruppo, confronto tra uscenti ed eletti nel 2019
Per finire, l’età. I 73 parlamentari europei eletti in Italia nel 2019 hanno mediamente 49,3 anni, un anno e mezzo in più di quanti ne avessero nel 2014 gli eletti in quell’anno, ma ancora quattro anni in meno di quanti ne avessero gli eletti nel 2009. Il ringiovanimento avvenuto cinque anni fa viene dunque confermato, a maggior ragione se si pensa che il lieve incremento registrato in questa occasione è in buona parte determinato dall’incremento del numero dei rieletti, in generale ma soprattutto nel M5S, che cinque anni fa rappresentava la delegazione di gran lunga più giovane delle altre. 29 eurodeputati su 73 (e tra essi, 9 pentastellati) sono gli stessi eletti cinque anni fa e, come del resto tutti noi, non possono che avere cinque anni in più di allora.
Tabella 4 – Età media della delegazione italiana al Parlamento UE: eletti del 2009, del 2014 e del 2019 a confronto
In conclusione, la delegazione italiana a Bruxelles, come da tradizione, è cambiata molto, ma lo ha fatto meno che in passato, confermando le innovazioni del 2014 sia sul fronte della rappresentanza di genere che sul fronte del ringiovanimento complessivo della classe politica. Essa continua ad essere caratterizzata dal consueto, alto, tasso di rinnovo, determinato da fattori intrinseci al tipo di competizione, e soprattutto dal modo in cui i partiti e i politici italiani l’hanno tradizionalmente interpretata. Da questo punto di vista, però, merita attenzione una prassi del tutto innovativa, quella del Movimento 5 Stelle, che si staglia in netta controtendenza rispetto agli altri soggetti in campo. Un meccanismo di selezione protetto, che isolando la competizione per i seggi europei, per scelta o per necessità, da possibili interferenze nazionali, ha premiato i parlamentari uscenti in modo rilevante, superiore rispetto agli altri partiti.
Note
[*] Per l’elaborazione dei dati esposti in questo articolo, in assenza delle decisioni formali sulle opzioni dei plurieletti, si è ipotizzato che Matteo Salvini e Giorgia Meloni rinuncino al seggio ottenuto al Parlamento europeo, e che i due plurieletti, Silvio Berlusconi (FI) e Pietro Bartolo (PD), optino per la circoscrizione insulare (ipotesi che pare la più probabile, anche se ancora del tutto ipotetica, tra quelle possibili).
[**] I tre eletti in questione saranno Sergio Berlato (FDI, circoscrizione Nord Est), Matteo Adinolfi (Lega, circoscrizione Centro) e Fulvio Martuscello (FI, circoscrizione Sud).
[***] Il Movimento 5 Stelle ne ha sperimento uno del tutto analogo in occasione delle elezioni politiche del 2018, in particolare per la selezione dei candidati nei listini bloccati per la parte proporzionale.
Riferimenti bibliografici
De Lucia, F. (2014), Eletti 2014: anche in Europa cambia tutto.
Giovani, donne ed esordienti, in L. De Sio, V. Emanuele, e N. Maggini (a cura di), Le elezioni europee 2014, Dossier Cise n. 6, pp. 165-170, reperibile qui: https://cise.luiss.it/cise/2014/06/06/eletti-2014-anche-in-europa-cambia-tutto-giovani-donne-e-nuovi-eletti/
Tronconi F. e Verzichelli, L. (2007), Il ceto parlamentare alla prova della nuova riforma elettorale, in A. Chiaramonte e R. D’Alimonte (a cura di), Proporzionale ma non solo. Le elezione politiche del 2006, Bologna, Il Mulino, pp. 335-368.
Tronconi F. e Verzichelli, L. (2010), Verso il ceto politico della «terza repubblica»? la rappresentanza parlamentare nella XVI legislatura, in A. Chiaramonte e R. D’Alimonte (a cura di), Proporzionale se vi pare. Le elezioni politiche del 2008, Bologna, Il Mulino, pp. 173-202.
Tronconi F. e Verzichelli, L. (2014), La nuova rivoluzione nel ceto parlamentare. Effetti congiunturali ed interpretazioni diacroniche, in A. Chiaramonte e L. De Sio (a cura di), Terremoto elettorale. Le elezioni politiche del 2013, Bologna, Il Mulino, pp. 203-231.