David W. Brady detiene la cattedra Bowen H. e Janice Arthur McCoy di Scienze Politiche presso la Graduate School of Business (GSB) della Stanford University ed è il Davies Family Senior Fellow presso l’Hoover Institution. Da molti anni, attraverso la Hoover Institution della Stanford University, è partner del CISE per ricerche comparate internazionali e transatlantiche su temi elettorali.
Brett Parker è uno studente di dottorato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Stanford University e assistente di ricerca presso la Hoover Institution.
Traduzione di Elisabetta Mannoni.
Il periodo precedente le elezioni del 2018 è stato caratterizzato da un consenso generalizzato in merito ai probabili risultati. Gli analisti che scrivono per FiveThirtyEight, Sabato’s Crystal Ball, Cook Political Reports e altri siti web dediti alle previsioni elettorali attribuiscono ai democratici un’alta probabilità di assumere il controllo della Camera, mentre invece alte sono le chance che il Senato resti repubblicano.
Perché analisti, giornalisti, sondaggisti e altri sono così convinti che questo 2018 porterà una Camera democratica? Uno dei fattori più frequentemente citati è lo scarso apprezzamento di cui gode il Presidente Trump, che negli ultimi due mesi si è mantenuto poco sopra al 40%. Tassi di approvazione così bassi sono stati storicamente forieri di notevoli arretramenti nel Congresso per il partito del Presidente. Se definiamo come ‘terremoto’ (‘wave‘) di metà mandato una perdita netta di almeno 30 seggi alla Camera per il partito del Presidente, allora una approvazione presidenziale inferiore al 50% è stato spesso il segnale di un terremoto incombente. I presidenti Truman, Johnson, Nixon, Clinton, Bush II e Obama avevano tutti livelli di approvazione inferiori al 50% durante le elezioni di metà mandato in cui i loro partiti hanno subito perdite superiori ai 30 seggi. Quindi, la bassa valutazione dell’operato di Trump suggerisce caldamente un terremoto in arrivo.
L’altro onnipresente barometro dei risultati a midterm è la domanda circa il ‘Generic Congressional Ballot’ (GCB, d’ora in avanti). Questa chiede agli intervistati “se le elezioni si svolgessero oggi, voteresti Democratico o Repubblicano per il Congresso?” Alla vigilia delle tre più recenti ‘elezioni terremoto’ (1994, 2006 e 2010) il sondaggio Gallup attribuiva al partito poi risultato prevalente un cospicuo vantaggio nel GCB (Repubblicani +7 punti nel 1994, Democratici +7 punti nel 2006 e Repubblicani +15 punti nel 2010). A metà settembre, RealClearPolitics segnalava i Democratici in vantaggio di circa 8 punti nel GBC – più o meno nello stesso periodo, nel ciclo elettorale del 2010, i Repubblicani avevano un vantaggio di soli 4 punti circa. Preso insieme al livello di approvazione ben poco brillante del Presidente Trump, il GCB ha contribuito al posizionamento dei Democratici come favoriti.
Sia l’approvazione presidenziale che le intenzioni di voto sono correlati ad una serie di altre variabili, tra cui il coinvolgimento degli Stati Uniti in guerre, la crescita economica e la disoccupazione, tutte cose a loro volta correlate agli esiti elettorali. In particolare, la condizione dell’economia in generale era una volta un eccellente rivelatore di come avrebbero votato i cittadini statunitensi. Infatti, fino agli inizi degli anni ‘90, gli scienziati politici potevano stimare i risultati di un’elezione presidenziale senza sbagliare di più di qualche punto percentuale, usando una serie di semplici misure economiche (Lewis-Beck 1988). Tuttavia, la rilevanza di indicatori economici oggettivi è diminuita durante l’era moderna, in cui è l’identificazione di partito ad aver assunto un ruolo sempre più importante nel determinare gli atteggiamenti degli elettori e le scelte di voto (Nivola e Brady 2008)[1]. Dal 2000 in poi, Democratici e Repubblicani hanno più volte favorito alle elezioni candidati del proprio partito con percentuali superiori al 90%, e i loro stessi atteggiamenti verso l’economia sembrano essere strettamente legati al partito che è al governo. Come mostra la Figura 1, la percentuale di Democratici e Repubblicani che ritengono che l’economia stia migliorando è quasi interamente determinata dal partito del Presidente. Oggi più dell’80% dei Repubblicani pensa che l’economia stia migliorando, mentre solo il 20% dei Democratici ha la stessa impressione. In larga misura, l’identificazione di partito, e la sua distribuzione tra tutti i cittadini, sembrano aver preso, nella maggior parte delle elezioni, il ruolo dapprima rivestito da fattori di tipo economico.
Fig. 1 – Percentuale dei diversi gruppi per identificazione di partito che ritiene che l’economia stia migliorandoLa solidificazione della forte relazione tra identificazione di partito e comportamento elettorale può essere fatta risalire all’inizio degli anni ‘90. Il controllo della Camera da parte dei Repubblicani nel 1994 portò infatti a termine una trasformazione della politica statunitense. I Democratici erano stati il partito di maggioranza nel Congresso nei precedenti 40 anni, oltre ad aver sempre avuto un numero superiore di elettori identificati con il partito rispetto ai Repubblicani. All’inizio degli anni ‘60 i Democratici erano il doppio dei Repubblicani; e all’inizio degli anni ’80 i Democratici conservavano ancora un vantaggio di quasi 20 punti nell’elettorato americano (vedi Figura 2). Nel 1994, tuttavia, i Democratici si trovarono di fronte a un nuovo sistema partitico. Uno in cui vi era una sostanziale parità tra Democratici, Repubblicani e Indipendenti. Il divario tra Democratici e Repubblicani si era ridotto ad un margine di 4/6 punti che è poi quello odierno, mentre gli Indipendenti erano già sulla buona strada per raggiungere lo status di maggioranza relativa di cui godono oggi.
Fig. 2 – Identificazione di partito negli Stati Uniti, 1937-2014Questo nuovo sistema di partito ha le seguenti caratteristiche: 1) voto polarizzato al Congresso, 2) Presidenti che sono divisivi, non unificanti e 3) elezioni incerte in cui in gioco c’è il controllo del governo. Dal 1992, tre delle sei elezioni di midterm sono state elezioni terremoto, con il controllo della Camera che è cambiato ogni volta da un partito all’altro. Inoltre, le elezioni di midterm del 1994, del 2006 e del 2014 hanno cambiato colore politico alla maggioranza in Senato. Al contrario, nei 60 anni compresi tra il 1932 e il 1992 solo sei delle quindici elezioni off-year furono elezioni terremoto, e solo una (1946 – l’ottantesimo Congresso) portò al cambiamento del partito di maggioranza alla Camera. Tutte le altre aumentarono la maggioranza democratica (1958 – ottantaseiesimo Congresso e 1974 – il novantaquattresimo Congresso) o la ridussero (1938 – il settantaseiesimo Congresso, 1942 – il settantottesimo Congresso e il 1966 – il novantesimo Congresso).
Una conseguenza naturale dell’aumento del voto basato sull’identificazione di partito è che l’economia ha perso il grosso del suo potere predittivo rispetto alle elezioni. Malgrado ciò, determinare i risultati delle elezioni è diventato più semplice sotto alcuni aspetti. Come accennato in precedenza, è abbastanza facile prevedere come la maggior parte dei Repubblicani e dei Democratici voterà alle elezioni contemporanee. Il 90% (all’incirca) tenderà a favorire al Congresso il candidato del proprio partito, e relativamente pochi divergeranno dal loro orientamento partitico. Questa intuizione suggerisce una formula semplicistica ma potente per calcolare la quota democratica del voto bipartitico: prendere la proporzione di democratici e repubblicani nell’elettorato, moltiplicare per le percentuali di ciascun partito che intende votare democratico, quindi aggiungere la frazione di Indipendenti che intendono fare lo stesso. Sebbene forse non così preciso come i vari modelli proposti online, questo metodo ha dalla sua il vantaggio di essere parsimonioso e di poter produrre una stima nazionale piuttosto accurata avvalendosi di informazioni limitate. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno per produrre la stima è (1) le quote di elettori che si identificano con uno dei due partiti e degli Indipendenti; (2) l’affluenza alle urne di ciascuno di questi gruppi; e (3) la distribuzione approssimativa del voto bipartitico all’interno di ciascun gruppo.
La prima di queste tre misure è abbastanza facile da ottenere: alcune imprese di sondaggi nazionali producono stime settimanali delle percentuali di Democratici, Repubblicani e Indipendenti nella popolazione. Quello che queste organizzazioni spesso fanno è anche interrogare i cittadini identificati e non sul GCB, fornendo una stima ragionevole del punto (3) di cui sopra. Calcolare l’affluenza è la difficoltà più grande. Nelle elezioni di midterm, determinare quali persone si sentiranno sufficientemente motivate per esprimere un voto è un compito arduo, pur aggregando i dati a livello nazionale. Per risolvere questo problema, siamo tornati su due delle misure che abbiamo discusso in precedenza: l’approvazione presidenziale e lo stato dell’economia. Sebbene meno potenti di un tempo nel determinare il voto dell’elettore, le circostanze economiche possono ancora influenzare la decisione di individuo di andare o meno a votare. I cittadini identificati con il partito opposto a quello al governo, che credono che l’economia stia andando male, potrebbero essere particolarmente motivati a voler cambiare la situazione. Al contrario, coloro che si sentono a proprio agio con lo stato dell’economia potrebbero avere meno incentivi ad attendere in fila alle urne. Se considerati insieme all’approvazione o meno del Presidente e del suo partito, le attitudini rispetto all’economia possono aiutarci a calcolare i probabili tassi di affluenza.
Usando quest’intuizione, abbiamo deciso di creare una formula che stimasse l’affluenza sulla base dell’approvazione dell’operato del Presidente e delle attitudini rispetto alla situazione economica. Grazie all’American National Elections Study e al Cooperative Congressional Survey, abbiamo a disposizione dati sulle valutazioni di approvazione dell’operato del Presidente e sull’affluenza alle urne, che risalgono al 1982. Inoltre, ANES e CCS forniscono anche stime su come gli statunitensi hanno percepito l’economia in ogni annata elettorale degli ultimi 35 anni. In questi sondaggi viene chiesto agli intervistati “Nei prossimi 12 mesi, ti aspetti che l’economia, nel paese nel suo insieme, peggiori, rimanga più o meno la stessa o migliori?” Abbiamo calcolato la percentuale, per ciascuna categoria di identificazione di partito, di intervistati che hanno risposto “migliorerà”, in ogni particolare anno, e abbiamo usato questi dati come indice di ottimismo economico. Servendoci delle valutazioni di approvazione presidenziale, di questa stima di fiducia economica e della conoscenza di quale partito controllasse la Casa Bianca, abbiamo creato equazioni che stimano le percentuale di ciascuno dei diversi gruppi per identificazione di partito voterà in una particolare elezione di midterm. La Figura 3 presenta i risultati di questo calcolo. Per aumentare la precisione, abbiamo stimato l’affluenza sulla scala di identificazione di partito completa, a sette punti, anziché sulla struttura semplificata a tre punti (vedi nota [1]). Cioè, invece di valutare l’affluenza tra (1) Democratici, (2) Repubblicani e (3) Indipendenti, stimiamo l’affluenza tra (1) ‘Fortemente democratici’, (2) ‘Debolmente democratici’, (3) ‘Indipendenti tendenti democratico’, (4) ‘Indipendenti puri’, (5) ‘Indipendenti tendenti repubblicano’, (6) ‘Debolmente repubblicani’, e (7) ‘Fortemente repubblicani’. Come i grafici nella Figura 3 chiariscono, i nostri modelli di affluenza sono abbastanza precisi, divergendo solitamente di appena qualche punto dagli effettivi tassi di affluenza osservati.
Fig. 3 – Partecipazione elettorale per identificazione di partito, prevista (in nero) e reale (colorata)Inoltre, questi grafici corroborano l’idea secondo cui in generale è più probabile che nelle elezioni di midterm vadano a votare i Repubblicani che non i Democratici. Con l’eccezione del 2006, i Repubblicani di ogni tipo (tendenti, deboli e forti) hanno dimostrato di votare a tassi più alti rispetto al corrispondente gruppo Democratico durante il periodo in esame. Questo vantaggio ha aiutato il GOP a compensare il suo ritardo nell’identificazione di partito: per quanto ci siano meno Repubblicani, sono generalmente più propensi dei Democratici a votare.
Procuratici quindi un modello adeguato per l’affluenza, siamo ora in grado di fare valutazioni sul probabile esito delle elezioni di midterm del 2018. Il sondaggio settimanale di YouGov ci fornisce i valori di tutte le variabili necessarie per stimare l’affluenza alle urne; ci consente anche di approssimare la distribuzione dell’identificazione di partito nell’elettorato americano, e delle intenzioni di voto di ciascuna categoria di identificati. Questi numeri vengono visualizzati nella Tabella 1 di seguito. Moltiplicando per riga, possiamo calcolare la quota di voto che ciascun partito dovrebbe aspettarsi di ricevere da ciascun gruppo. Sommando in verticale questi numeri si ottiene la percentuale complessiva di voti che ciascun partito dovrebbe ottenere, e da queste due cifre si può ottenere una stima del voto popolare nazionale per la Camera. Questo calcolo ci porta a suggerire che il Partito Democratico riceverà all’incirca il 52,9% del voto questo autunno.
Tab. 1 – Previsioni di affluenza e comportamento elettorale per identificazione di partitoIl 52,9% sembra essere una stima molto favorevole per i Democratici. Dopotutto, se catturassero il 52,9% dei seggi della Camera, finirebbero con circa 230 deputati eletti, sufficienti per una maggioranza di 13 seggi. Tuttavia, come hanno osservato numerosi studiosi, questa semplice matematica dipinge quasi certamente un quadro troppo roseo per i Democratici. Dall’ultima riorganizzazione del Congresso del 2010, i Repubblicani hanno sempre ricevuto un ‘bonus di seggi’ alla Camera, cioè una percentuale di seggi conquistati che supera la loro quota di voti. Ad esempio, nel 2016 i candidati Repubblicani hanno vinto circa il 51,3% del voto bipartitico per la Camera. Tuttavia, hanno finito con il conquistare 241 seggi, un bonus di 18 seggi rispetto alla loro quota di seggi prevista. Allo stesso modo, nel 2014 il GOP ha catturato il 52,9% dei voti, ma ha vinto 247 distretti congressuali, per un bonus di 17 seggi. Infine, nel 2012, i Repubblicani hanno vinto solo il 49,4% dei voti, ma hanno comunque ottenuto la maggioranza della Camera con 234 seggi, un bonus di 19 seggi. L’origine di questo bonus è controversa: alcuni lo attribuiscono principalmente al gerrymandering repubblicano nelle assemblee legislative statali, mentre altri incolpano la grande concentrazione di elettori democratici nelle aree urbane. Tuttavia, indipendentemente da quale ne sia la causa, questo fenomeno di sovra-rappresentazione fornisce indubbiamente ai Repubblicani un vantaggio sostanziale nelle elezioni per il Congresso. Di conseguenza, anche se i Democratici probabilmente vinceranno il voto popolare per la Camera nel 2018, le loro possibilità di conquistarne la maggioranza sono assai inferiori.
Questo è il quadro della situazione a metà settembre. Tuttavia, con le elezioni a circa un mese e mezzo di distanza, i Democratici hanno ancora un ampio margine di tempo per migliorare le loro prospettive. In particolare, hanno ampi margini di miglioramento tra gli elettori Indipendenti. In questo momento, i Repubblicani hanno un vantaggio tra gli Indipendenti Puri che hanno espresso un’intenzione di voto. Questo dato è in linea con le recenti tendenze elettorali: il GOP ha infatti ricevuto il voto della maggioranza degli elettori Indipendenti in ognuna delle ultime quattro elezioni legislative, con i Democratici che hanno invece prevalso nel 2008. Tuttavia, vi è motivo di ritenere che nel 2018 i Democratici interromperanno questo ciclo di fallimenti alla Camera. L’approvazione del Presidente Trump tra gli Indipendenti Puri è stata costantemente bassa, non riuscendo a superare il 40% nei sondaggi YouGov in nessuna rilevazione settimanale dalla metà di luglio. Inoltre, mentre i candidati Democratici sono stati mediamente molto indietro rispetto ai Repubblicani tra gli Indipendenti puri, hanno sostanzialmente raggiunto la parità all’interno di tale gruppo tra metà agosto e inizio settembre (vedi Tabella 2).
Tab. 2 – Evoluzione delle intenzioni di voto degli Indipendenti PuriSe i Democratici fossero in grado di pareggiare con i Repubblicani o addirittura superarli tra gli Indipendenti Puri, allora la loro quota di voti prevista salirebbe a circa il 53,5%, fornendo loro altri 2-3 seggi. Questo aumento marginale potrebbe essere sufficiente per aiutare i Democratici a superare il bonus in termini di seggi dei Repubblicani e conquistare la Camera.
L’altro sviluppo che potrebbe potenzialmente aiutare i Democratici è un calo sostanziale nei giudizi di approvazione del Presidente Trump. Il nostro modello suggerisce che l’affluenza democratica aumenta di circa 2 punti percentuali con ogni calo di 1 punto nei giudizi di approvazione del Presidente, mentre l’affluenza Repubblicana diminuisce di 1 punto percentuale per ogni punto di calo dell’approvazione dell’operato d Trump. Quindi, se l’approvazione di Trump diminuisse di tre punti complessivamente, la prevista quota democratica dei voti aumenterebbe fino a circa il 53,9%, cifra più che sufficiente per garantire una maggioranza ai Democratici alla Camera. E data la volatilità del Presidente, un simile calo nei giudizi di approvazione rientra nel campo delle possibilità.
Solo il tempo saprà dire se qualcuno di questi sviluppi si verificherà, e la progressione delle udienze politicamente esplosive di Kavanaugh potrebbe facilmente interferire con il nostro calcolo elettorale entro novembre (in particolare dato che il 29% degli Indipendenti Puri si dichiara indeciso a questo punto della campagna). Al momento, tuttavia, mentre i Democratici sono fortemente favoriti per catturare la maggioranza del voto popolare nazionale nelle elezioni di midterm, le loro probabilità di conquistare una maggioranza di seggi alla Camera sono all’incirca pari al 50%. Salvo grossi cambiamenti di qui a novembre, qualunque partito finisca per avere il controllo della Camera, avrà una maggioranza estremamente esigua.
Riferimenti bibliografici
Campbell, Angus, Philip E. Converse, Warren E. Miller, e Donald E. Stokes, (1960). The American Voter, New York, Wiley.
Dalton, Russell J. (1984), ‘Cognitive Mobilization and Partisan Dealignment in Advanced Industrial Democracies’, The Journal of Politics, 46(01), pp. 264–84.
Lewis-Beck, Michael S. (1988), ‘Economics and the American voter: Past, present, future’, Political Behavior, 10(1), pp. 5-21.
Lewis-Beck, Micheal S., Helmut Norpoth, William G. Jacoby, e Herbert F. Weisberg (2008), The American voter revisited, Ann Arbor, University of Michigan Press.
Nivola, Pietro S., e David W. Brady, (a cura di) (2008), Red and Blue Nation?: Consequences and Correction of America’s Polarized Politics, Washington, Brookings Institution Press.
[1] Pochi concetti sono stati cruciali nello studio del comportamento elettorale come quello di identificazione di partito sviluppato da Campbell e dai suoi colleghi (1960). L’idea di fondo è che gli individui sviluppino un attaccamento socio-psicologico nei confronti di un partito politico, attraverso l’ambiente familiare o attraverso esperienze chiave durante il processo di socializzazione alla politica. Questo paradigma si è rapidamente affermato come una chiave per interpretare gli atteggiamenti politici e il comportamento di voto soprattutto negli Stati Uniti. Nonostante l’emergere di cambiamenti strutturali nelle configurazioni dell’identificazione a partire dagli anni ’80 (Dalton 1984), questa conserva ancora un ruolo centrale negli studi elettorali, particolarmente in riferimento al caso americano (Lewis-Beck et al. 2008).
Negli Stati Uniti, l’identificazione di partito viene rilevata attraverso una misura standard, che coincide con il concetto stesso, e forma una scala a 7 punti (Fig. 4). Nei sondaggi, agli intervistati viene chiesto se, parlando in generale, si considerino democratici, repubblicani, indipendenti o qualcos’altro. A chi si identifica con uno dei due maggiori partiti viene quindi chiesto se si definiscono un democratico/repubblicano forte o non forte. In questo modo sono formate le quattro categorie estreme della scala. Gli intervistati che dicono di essere indipendenti (o altro), ricevono una domanda diversa, che chiede loro se sono tendono verso il Partito Repubblicano o il Partito Democratico. Quelli che rispondono di propendere per uno dei due partiti formano le categorie degli indipendenti tendenti verso un partito, gli altri sono gli indipendenti puri.
Fig. 4 – La scala a 7 punti dell’identificazione di partito e la sua costruzione (clicca per ingrandire)