Un ruolo chiave dell’astensione; il ritorno (ma se ne era mai andato?) del “muro di Arcore”, ovvero di una sostanziale impermeabilità tra centrosinistra e centrodestra: sono queste le due chiavi di lettura del cambiamento elettorale tra politiche 2022 e europee 2024, come emerge dai flussi elettorali stimati in base al nostro sondaggio preelettorale CAWI.
Vediamo più in dettaglio, partendo anzitutto dalle destinazioni del voto 2022. Fatti 100 i voti 2022 di ciascun partito, dove sono andati? I risultati sono nella tabella che segue; il modo più rapido di analizzarli è anzitutto confrontando, per ogni partito, due tassi: il tasso di fedeltà e quello di defezione verso l’astensione.
Riguardo al primo, ovvero la capacità di riportare al voto chi ti aveva votato nel 2022, emergono già differenze impressionanti. Al primo posto c’è chiaramente FdI, con il 66% di elettori fedeli, seguito dal Pd con il 60% e da Alleanza Verdi-Sinistra (AVS) con il 58%. I valori sono bassi rispetto a quelli di un confronto politiche su politiche (in cui in genere i tassi di fedeltà di chi vince possono arrivare al 75-80%), e questo ci dice quanto è difficile convincere chi ti ha votato alle politiche a tornare a votarti anche alle europee. Gli altri partiti sono su valori ancora più bassi: Fi al 54%, Lega al 51%, ma soprattutto Azione/Iv/+Europa con il 42%, e il M5s con il 35%. E proprio il dato del M5s ci conduce al secondo indicatore chiave: la defezione verso l’astensione. Qui il M5s è al primo posto, avendo perso verso l’astensione ben il 50% del proprio elettorato. E’ un valore altissimo, visto che gli altri partiti invece si attestano su valori di circa la metà: Pd, Azione/Iv/+Europa, Fi e Fdi sono tutti tra 23 e il 26%. Le eccezioni virtuose sono invece Avs (perde solo il 18% dei suoi voti verso l’astensione) e la Lega (addirittura solo il 6%).
Ultimo punto fondamentale, relativo alle perdite: in generale il grosso dei flussi si concentra all’interno della stessa area politica (oltre all’ovvia coalizione di governo, abbiamo evidenziato nella stessa area M5s, Avs e Pd), mentre i flussi diretti tra aree sono molto più scarsi. All’interno della stessa area si vede una notevole mobilità (anche se maggiore dentro il centrodestra), mentre le perdite verso l’area opposta sono più scarse. Fanno in parte eccezione il M5s, che perde il 5% dei suoi voti direttamente verso il centrodestra, e la Lega, che perde più di un elettore su dieci verso il Pd (forse un possibile effetto dell’ulteriore spostamento a destra del partito di Salvini, anche attraverso la candidatura di Vannacci).
Per studiare al meglio i guadagni, invece delle perdite, è utile guardare la tabella delle provenienze (vedi sotto): i voti alle europee dei vari partiti da dove provengono?
E qui vengono alcuni dati davvero interessanti. Anzitutto il successo di Fratelli d’Italia è prevalentemente alimentato dai propri alleati. Fatti 100 i voti attuali di FdI, 75 vengono da vecchi elettori di FdI, 8 dalla Lega e 4 da Fi. Appena 7 vengono dall’astensione (FdI – assieme a Fi al 3 – è il partito in cui ha pesato meno la rimobilitazione dall’astensione), e solo 3 direttamente dal centrosinistra. Anche la Lega pesca solo dal resto della coalizione, nonché dall’astensione, mentre Forza Italia prende voti rilevanti (oltre uno su dieci) dai centristi, e in parte anche da Pd e M5s.
Nel centrosinistra, il Pd pesca dai propri alleati, ma anche dai centristi e addirittura dalla Lega, e prende voti importanti (15 su 100) dall’astensione. Schema simile anche per Avs, che si è alimentata in modo importante con voti provenienti dal Pd (27% dei suoi attuali voti), mentre il M5s ha il tasso di attrazione più basso (su 100 voti, solo 17 vengono da altre provenienze). Infine, non va trascurato che i centristi, pur con una pessima performance, hanno preso qualche voto dal Pd: di fatto 15 su 100 dei loro attuali voti.
I dati complessivi sono anche presentati nel diagramma Sankey che segue. L’interpretazione complessiva si può ridurre essenzialmente alle due considerazioni iniziali. La prima è che le elezioni europee sono difficilissime sul piano della mobilitazione: chi non è riuscito a combatterla (il M5s) ha pagato un prezzo molto pesante. La seconda è che i flussi sembrano muoversi quasi esclusivamente all’interno delle classiche aree politiche di centrosinistra e centrodestra, a conferma del permanere di quello che Ilvo Diamanti chiamò il “muro di Arcore”, ovvero di una sostanziale bipolarizzazione delle scelte di voto dei cittadini italiani. Si tratta di un aspetto chiave che abbiamo sottolineato molte volte, e tenerne conto sarà imprescindibile per le strategie di coalizione (nelle future elezioni amministrative e politiche) dei partiti italiani.
(immagine dal videoclip di “Torna a casa” dei Måneskin)
TL;DR: Già dal 2018-2019 gli elettori M5S che venivano dal centrodestra “tornano a casa”, testimoniando il riassorbimento della sfida trasversale del M5S, e il perdurante bipolarismo delle scelte degli italiani. Nel centrodestra, gli errori di Salvini permettono quindi a Meloni – che sta nella stessa area – di crescere facilmente nei consensi. Il centrodestra poi fa la mossa chiave di riconoscere questo bipolarismo (nonché quello promosso dalla legge elettorale) e di presentarsi unito, senza puntare a rischiose operazioni centriste, e vince. Il centrosinistra no, e perde. Adesso il Pd ha il dilemma se continuare su un progetto tecnocratico-centrista, oppure se riconoscere uno schema bipolare e ricostruire una strategia unitaria del centrosinistra.
Come spiegare il successo di Meloni? Da dove viene l’ascesa della nuova leader di centrodestra e futura prima premier donna della storia d’Italia? Ha pesato il governo Draghi? O le sue qualità di leader? O gli italiani si sono spostati a destra, e magari avevano voglia di una “donna forte”? Oppure si erano semplicemente stancati di tutto, e hanno voluto provare l’unica che non aveva mai governato? Probabilmente un po’ di tutto questo; ma io al tempo stesso voglio proporre un’interpretazione più generale, che – se compatibile con le ulteriori analisi che arriveranno in queste settimane e mesi – probabilmente ci fornirà anche qualche indicazione per il futuro.
Un ritorno al bipolarismo?
L’idea di fondo è semplice: il voto del 25 settembre potrebbe segnare l’inizio di un nuovo ciclo; perché segna finalmente la ricomposizione tra due elementi del sistema politico italiano che erano stati in tensione lacerante per un intero decennio (dal 2013 fino ad oggi): 1) la struttura essenzialmente bipolare delle opinioni politiche e delle scelte di voto degli italiani (peraltro ancorata dalla presenza, in quasi tutti i tipi di elezione, di sistemi elettorali con forti elementi maggioritari): testimoniata da quella scarsissima permeabilità di voto tra partiti di centrosinistra e centrodestra, che Ilvo Diamanti battezzò il “Muro di Arcore” (Diamanti 2008); 2) La sfida fortissima a questa struttura che era venuta dal M5S: l’unico partito che, con il suo appello iniziale anti-establishment, ottenne un consenso completamente trasversale (come mostrato da molte analisi) e risultò primo partito nel 2013 e 2018. Nessun altro partito (con la parziale eccezione di Monti, ma su valori bassi e politicamente ininfluenti)era mai riuscito o riuscirà più a bucare il muro di Arcore. Anche Renzi riuscì solo alle Europee 2014 a fare un exploit con una campagna basata su temi trasversali (De Sio 2014) e con forti venature di populismo, ma in seguito – nonostante essersi spinto con Jobs Act e Buona Scuola dove non aveva osato neanche Berlusconi – non riuscì mai a conquistare voti nel centrodestra (né, con i suoi candidati, nelle amministrative dal 2015 (De Sio 2015) in poi; né nel referendum costituzionale; né nel 2018).
La ricomposizione si compie tra 2018 e 2019, con gli elettori di centrodestra che tornano a casa
Questa ricomposizione inizia già tra 2014 e 2018. Di fronte al boom “populista” del M5S nel 2013, la reazione dei due schieramenti storici arriva sotto forma di due nuove proposte politiche di stile populista. 1) Il Pd di Renzi propone uno stile comunicativo fortemente populista (memorabile il discorso al Senato con mano in tasca e vistosa ostentazione di sgrammaticature e accento toscano), ma poi, al governo, si perde in una linea politica moderata (Jobs Act, Buona Scuola) che contribuisce alla sconfitta nel referendum costituzionale e poi alla fine di quel modello (il Pd successivo abbandonerà lo stile populista). Quel tentativo di risposta dal centrosinistra al populismo del M5S essenzialmente fallisce. 2) Quello che invece non fallisce è il progetto della nuova Lega di Salvini, che nasce come possibilità concreta di una nuova offerta radicale (di stile comunicativo populista) all’interno del centrodestra. Salvini infatti nelle politiche del 2018 riesce (un po’ a sorpresa) a battere Forza Italia nella gara interna per la leadership del centrodestra. Si tratta di un passaggio fondamentale, perché il sorpasso della Lega nel 2018 mostra agli elettori di centrodestra (orfani della guida di Berlusconi già dal 2011) la possibilità concreta di una nuova e fresca leadership per la loro area, aggressiva e “populista” quanto basta da poter competere con il M5S.
E infatti non è un caso che, già da subito dopo il voto del 2018, si compie la “digestione” del M5S all’interno dell’antico e radicato bipolarismo dell’elettorato italiano. Quegli elettori di centrodestra che nel 2013 e 2018 erano stati sedotti dal M5S, infatti nel giro di pochi mesi iniziano a tornare a casa (chissà se tra loro ci sarà anche una ragazza di nome Marlena?…), traghettati dalla nuova e “populista” leadership di Salvini, che testimonia che esiste un futuro per il centrodestra anche dopo Berlusconi. E’ spettacolare osservare, nella serie storica della media dei sondaggi compilata da YouTrend (vedi figura), come il passaggio di voti da M5S a Lega (confermato da varie analisi di flussi successive) inizia già da subito dopo il voto, con la crescita della Lega e la discesa del M5s nei sondaggi. Ancora prima dell’inizio del Conte I, Salvini è ormai salito tra il 25% e il 30% (assorbendo anche voti da Forza Italia). Il governo gialloverde, poi, (con la spartizione tematica tra chiusura all’immigrazione – di destra – per la Lega, e reddito di cittadinanza – di sinistra – per il M5S) accelera ulteriormente il processo, che con le elezioni europee del 2019 è sostanzialmente terminato. Le analisi dei flussi dell’epoca testimoniano chiaramente il massiccio passaggio da M5S (che quasi si dimezza: da 33 a 17) a Lega (che raddoppia: da 17 a 34): gli elettori di centrodestra sono tornati a casa. Un esito che ovviamente ha un’altra importante implicazione: gli elettori rimasti nel M5S dopo il 2019 sono essenzialmente quelli che provenivano dal centrosinistra. Non a caso molte analisi successive confermano che gli elettori M5S, pur se in parte “non collocati”, hanno opinioni politiche nettamente di sinistra (spesso anche radicali), specie su temi economici e ambientali.
Gli errori di Salvini e l’ascesa di Meloni
Alla luce di questa ristrutturazione dell’elettorato M5S sulle antiche linee di faglia del bipolarismo degli elettori italiani, gli sviluppi successivi non sono particolarmente inattesi, e seguono l’antico principio visto all’opera nella Seconda Repubblica, per cui la mobilità elettorale attraverso gli schieramenti era quasi nulla, ma la mobilità interna agli schieramenti poteva anche essere molto alta (tanto si rimaneva sempre dentro il centrodestra, quindi non se ne comprometteva la vittoria in future elezioni). E’ così che, all’interno di questa ricostituita area di consenso (la cui consistenza complessiva resta essenzialmente invariata, mantenendo questo schieramento sempre in vantaggio sistematico), c’è tuttavia una forte reattività agli eventi, che segna il declino di Salvini e l’ascesa di Meloni. In particolare: 1) La credibilità della nuova leadership di Salvini viene anzitutto azzoppata dall’errore strategico di far cadere il governo nell’estate 2019, sperando in nuove elezioni e ritrovandosi invece all’opposizione del nuovo governo giallorosso. Come si vede dall’evoluzione dei sondaggi, già questo discredito apre la strada alla crescita di FdI (in parallelo al calo della Lega), con Meloni che supera il 15% già a ottobre 2020, mesi prima della nascita del governo Draghi; 2) la partecipazione della Lega al governo Draghi sembra fare il resto, con FdI che beneficia dal restare all’opposizione. Qui avviene infatti la seconda parte della crescita di Meloni (sempre a spese quasi esclusivamente della Lega) che la porta a superare la Lega e ad avvicinarsi al 25%.
Chi si ricorda del bipolarismo e chi no: vincitori e sconfitti
Il resto, più che storia, è cronaca. Alla luce di questa ricomposizione della struttura bipolare dell’elettorato italiano, i partiti legati a queste due diverse aree fanno scelte strategiche completamente diverse.
Nel centrodestra ci si ricorda del bipolarismo… Nonostante il soverchiante clima di commentatori ed editorialisti che identificava in un modello centrista-tecnocratico (guidato o ispirato a Draghi) il futuro del sistema politico italiano, il centrodestra non ci pensa due volte, e sorprendendo forse qualche commentatore (ma non gli osservatori più attenti) decide ovviamente, con il consueto pragmatismo dei leader di quell’area, di mettere da parte qualunque divisione e di presentarsi ancora una volta unito al voto. In prospettiva, viene addirittura da giocare con l’ipotesi fantasiosa che la scelta di tenere FdI all’opposizione non fosse stata concordata con gli altri partner, in modo che il centrodestra avesse diversi “brand” (due dentro, uno fuori dal governo) così da proteggersi dai danni di reputazione derivanti dal sostenere un governo di larghe intese a guida tecnica (un tipo di governo che per i partiti politici è praticamente kryptonite).
…nel centrosinistra alcuni se ne ricordano, altri no I partiti che rappresentano l’elettorato di centrosinistra invece non fanno scelte coordinate, e scelgono direzioni diverse.
Il M5S, cronologicamente, è il primo a ricordarsi della dinamica bipolare. Già durante il governo giallo-rosso, Conte (anche con qualche contestazione interna) trasforma progressivamente la linea del M5S in una linea “di sinistra” (soprattutto su temi economici, a partire dalla bandiera del reddito di cittadinanza, e ambientali), consapevole che il M5S trasversale di un tempo non esiste più, e che i voti andranno cercati nel centrosinistra, magari a sinistra del Pd. E alla fine, di fronte a un governo Draghi che non può rispondere adeguatamente su queste posizioni (con la maggioranza ampia ed eterogenea che lo sostiene), e percependo l’avvicinarsi delle elezioni, lancia qualcosa di simile a ciò che nella Prima Repubblica avremmo chiamato “verifica”: presentando a Draghi nove questioni (di fatto un programma elettorale fortemente di sinistra) e avviando di fatto la vicenda parlamentare che porterà alle prime dimissioni di Draghi (respinte da Mattarella) e poi alle seconde (accettate). A prescindere da una futura alleanza col Pd (che non arriverà), Conte crea in ogni caso una strategia che può preservare i consensi del partito (o addirittura accrescerli, rispetto ai sondaggi) perché è tutta puntata all’interno del bacino elettorale del centrosinistra (al di qua del muro di Arcore).
La strategia del Pd invece di fatto mostra di non riconoscere i vincoli del bipolarismo (o forse di non volerli riconoscere, perché magari la sua leadership puntava deliberatamente a un progetto tecnocratico-centrista? Si tratta di un punto non ancora chiaro, soprattutto alla luce di episodi come la caduta del Conte II e la scissione di Di Maio). Le scelte che fa il Pd infatti sono, alla caduta di Draghi, di chiudere immediatamente la porta all’alleanza col M5S e di puntare a un’alleanza con Calenda (che tuttavia fallirà). Si tratta di una strategia che di fatto ignora totalmente i vincoli bipolaristi del sistema, ovvero il “muro di Arcore” e il sistema elettorale (che con la sua componente maggioritaria premia le coalizioni ampie e competitive). Riguardo a quest’ultimo punto: anche se si fosse fatta l’alleanza con Calenda (che comunque rifiuta) il suo contributo sarebbe stato modesto nel colmare l’enorme distanza dal centrodestra, e la legge elettorale avrebbe comunque fatto strage del progetto nel maggioritario dei collegi uninominali.
Ovviamente, non si può addossare interamente al Pd la responsabilità del fallimento nel costruire una coalizione con potenziali alleati spesso riottosi e litigiosi; tuttavia bisogna prendere atto in ogni caso dell’esito: il Pd (con il suo naturale ruolo di coalition maker) fallisce nel costruire una coalizione efficace.
In realtà probabilmente nel Pd si scommetteva comunque che il progetto con Calenda, pur comportando la rinuncia al potenziale 12-15% del M5S, avrebbe avuto un appeal tale da attrarre nuovi elettori. Ma da dove? Certamente non dal M5S: quindi dal centrodestra. E questo testimonia l’ignoranza dell’esistenza del muro di Arcore, per cui (come all’epoca di Renzi) un progetto moderato guidato dal Pd si sarebbe ancora una volta fermato contro le urne. Per tacere di alcuni ulteriori difetti secondari della strategia del Pd: (1) il fatto di ispirarsi a un’”agenda Draghi” che non è un’agenda (un progetto) ma un metodo di lavoro, e quindi non chiarisce una visione del futuro che prenda posizione, indispensabile in un’elezione politica; (2) il fatto di andare in campagna elettorale, di fatto, senza un candidato premier, visto che Draghi aveva detto abbastanza chiaramente di non essere interessato. Probabilmente Pd (e Calenda) sapevano benissimo di non poter vincere, e avevano in realtà in mente uno scenario di mancata maggioranza che avrebbe aperto trattative post-voto (di qui l’insistenza del Pd per diventare almeno primo partito); ma anche questo piano B denota ignoranza della legge elettorale e della ri-bipolarizzazione delle scelte di voto: la combinazione di fattori che ha dato al centrodestra una comoda maggioranza. Come spiegare quindi il fallimento del Pd nel formare una coalizione efficace? Ci possono essere varie ipotesi: 1) semplice errore di valutazione, e sottovalutazione della dinamica bipolare (o sopravvalutazione dell’appeal dell’agenda Draghi); 2) insufficienti risorse diplomatiche capaci di mettere d’accordo alleati litigiosi. Tuttavia una terza ipotesi che non si può scartare è che non si sia trattato di errori, ma di una precisa linea politica: l’idea di non essere interessati a una proposta politica di centrosinistra alternativa al centrodestra (nonostante qualche tardivo tentativo di creare fronti contro la destra), ma di puntare invece tutto su un progetto di tipo tecnocratico-centrista. Niente di male, ma: (1) si trattava di una scommessa praticamente impossibile da vincere, dati i vincoli; (2) una svolta programmatica di questa portata avrebbe probabilmente richiesto un congresso. E quindi, direi, eccoci serviti con il principale dilemma su cui dovrà riflettere attentamente il prossimo congresso del Pd.
Il risultato
Alla luce di queste considerazioni, sul risultato c’è poco da dire. La principale incognita era la capacità di Meloni di fare il pieno della sua area politica. Si può dire che sia andata abbastanza bene (diversamente da com’era andata a molti candidati Lega e Fdi nelle recenti amministrative), anche se il centrodestra guidato da FdI non sembra aver fatto veramente il pieno dell’elettorato di centrodestra, dove in alcuni casi (soprattutto nei centri delle grandi città) una parte dell’alta borghesia moderata di centrodestra (tradizionalmente di Forza Italia) potrebbe aver premiato Calenda (che comunque correva da solo, e quindi senza rischio di regalare voti al Pd). Riguardo al centrosinistra, niente di sorprendente. La strategia del M5S ha permesso a Conte di consolidare il nuovo M5S (di fatto un partito di sinistra un po’ radicale), mentre il Pd sì è avvicinato in modo drammatico al peggior risultato della sua storia (quello del 2018), sia in termini di partito che di coalizione. E probabilmente un effetto perverso della strategia di rinunciare di fatto alla competizione può essere stato un’ulteriore depressione della partecipazione al voto (il cui crollo è il vero dato esplosivo di queste elezioni). Un risultato abbastanza solido della letteratura scientifica dice infatti che il fatto che l’elezione sia percepita come incerta e competitiva è un formidabile motore di partecipazione al voto. E quindi l’idea che non solo la competizione era persa in partenza a livello nazionale, ma lo era anche nella stragrande maggioranza dei collegi uninominali, potrebbe aver ulteriormente smobilitato l’elettorato di centrosinistra.
Un nuovo ciclo bipolare?
Il successo del centrodestra, appoggiato su un pragmatico e attento riconoscimento della struttura bipolare delle scelte degli italiani (e della legge elettorale) potrebbe aprire un nuovo ciclo di ritorno al bipolarismo, con un centrodestra compatto (in attesa di un centrosinistra in grado di riorganizzarsi). La sfida per Meloni è quella di tradurre il successo elettorale in capacità effettiva di governo; ma in questo la nuova maggioranza può contare anche sulle reti di rapporti di Forza Italia, della Lega, nonché su ottimi rapporti con importanti gruppi di interesse che sono rilevanti per la politica italiana, e che verosimilmente potranno contribuire con personale e idee. Se Meloni riuscirà (anche gestendo efficacemente i rapporti con gli alleati) a costruire questa sorta di “berlusconismo 2.0”, con una rappresentanza efficace dell’elettorato dal suo lato del muro di Arcore (quell’elettorato accomunato dal rifiuto della sinistra, che accusa di proporre solo tasse e assistenzialismo), potrebbe creare un nuovo modello di centrodestra in grado di vincere anche più di un’elezione. Riguardo al campo del centrosinistra, è evidente che in questo momento è orfano non solo di una leadership unitaria, ma anche di una strategia unitaria (e forse anche di una visione e di un’analisi unitaria delle grandi trasformazioni del nostro tempo). Ed è il Pd, il coalition maker naturale, che dovrà scegliere il dilemma tra puntare ancora sul progetto tecnocratico-centrista di questa elezione, o se mirare a ricostruire lo spirito delle coalizioni di centrosinistra della Seconda Repubblica (in due casi vittoriose anche contro Berlusconi), con partiti che – in termini di possibile somma di voti – non sono lontani dal centrodestra, o che addirittura (con un progetto politico che era quello originario del “campo largo”, e che forse semplicemente non c’è stato il tempo per costruire) potrebbero batterlo, anche senza sommare al 100% i rispettivi voti. L’impressione è che i vincoli del bipolarismo di elettorato e di leggi elettorali (maggioritarie a tutti i livelli amministrativi, con un’importante componente maggioritaria per le politiche) non siano compatibili con ipotesi centriste. Staremo a vedere.
(ringrazio Davide Angelucci, Roberto D’Alimonte e Nicola Maggini per i commenti a una precedente versione del testo)
Riferimenti bibliografici
De Sio, Lorenzo. 2014. «Da dove
viene la vittoria di Renzi?». In Le Elezioni Europee 2014, a.c. di Lorenzo
De Sio, Vincenzo Emanuele e Nicola Maggini. Roma: Centro Italiano Studi
Elettorali, 171-173.
De Sio,
Lorenzo. 2015. «Il Renzi che vince e il Renzi che “non vince”». In Dopo
la luna di miele: Le elezioni comunali e regionali fra autunno 2014 e primavera
2015, a c. di Aldo Paparo e Matteo Cataldi. Roma: Centro Italiano Studi
Elettorali, 309–12.
Con dati da 7289 comuni su 7904, l’affluenza è attualmente del 64,06% contro il 73,86% del 2018. Un calo di dieci punti, il più importante della storia della Repubblica, praticamente il doppio del precedente calo più importante, registrato tra 2008 e 2013 (vedi la serie storica).
Tra le possibili spiegazioni che dovranno essere approfondite:
il naturale ricambio generazionale, che produce cali costanti da decenni in tutta l’Europa Occidentale;
possibili effetti di astensionismo involontario, anche legati all’emergenza meteo in alcune regioni;
la scarsa competitività percepita dell’elezione, il cui esito da settimane veniva dato essenzialmente per acquisito (sia a livello nazionale che in termini di collegi uninominali);
la legislatura terminata in anticipo;
come nel caso del governo Monti (dopo il quale si registrò il precedente calo più marcato) la presenza di un governo di larghe intese, con partiti in difficoltà di fronte all’aver sostenuto misure oggetto di importanti compromessi.
Nonostante spesso venga riportata una piccola crescita tra 1996 e 2001, in realtà l’affluenza alle elezioni politiche cala ininterrottamente dal 1987 (vedi figura).
L’incremento tra 1996 e 2001 spesso riportato in molte analisi in realtà è dovuto al fatto che fino al 1996 nell’affluenza venivano contati anche i residenti all’estero (pochissimi di loro tornavano a votare). Se si tiene conto del diverso conteggio emerge un calo costante dal 1987. (vedi la nostra analisi del 2018). Per questo motivo, un’eventuale dato di affluenza stabile sarebbe a maggior ragione una notizia sorprendente.
Percentuali di affluenza alle elezioni politiche 1948-2018
Pur con alcune peculiarità metodologiche, le intenzioni di voto rilevate dalla recente indagine CISE-ICCP confermano lo stabile vantaggio della coalizione di centrodestra (anche se meno dei principali sondaggi: il distacco stimato è di 11 punti), il mancato decollo del “terzo polo” di Calenda (fermo poco sopra il 5%), ma al tempo stesso evidenziano una forte crescita del Movimento 5 stelle (oltre il 16%). L’interpretazione suggerisce un possibile “effetto Churchill” sul voto del 25 settembre (dal nome del leader britannico che, dopo il trionfo sulla Germania nazista, patì una pesantissima sconfitta elettorale): a essere premiati potrebbero essere gli attori (centrodestra, M5s) con una netta visione di futuro e un accento sul cambiamento, più di quelli (centrosinistra, Calenda) che rivendicano continuità con il governo uscente (peraltro con un paese in difficoltà economica) e con identità programmatica incerta.
Come abbiamo anticipato in altre analisi, in questi giorni abbiamo
condotto un’ampia indagine campionaria (con questionari somministrati via Web) che
contribuisce al progetto internazionale ICCP
(nato e coordinato dal CISE) sulla competizione partitica nel mondo
occidentale. Un’indagine il cui fuoco principale sono le opinioni dei cittadini
su un gran numero di temi politici trattati nella campagna elettorale, che tra
l’altro ci ha fornito una miniera di informazioni sulla struttura degli
elettorati dei diversi partiti e sulle possibili strategie di competizione di
questi ultimi in questo scorcio finale di campagna elettorale (le strategie
effettive le stiamo anche misurando su Twitter, e le analizzeremo nei prossimi
mesi). Informazioni che contribuiranno anche al progetto nazionale POSTGEN, che indaga la possibile emersione
di una nuova generazione con atteggiamenti e comportamenti politici post-ideologici
(vedi es. De Sio e Lachat 2020a, 2020b).
Tuttavia, in un’importante campagna elettorale, e a pochi
giorni dal black-out pre-elettorale che impedirà di avere informazioni
affidabili sulle intenzioni di voto nelle ultime due settimane (sulla
discutibilità del black-out vedi questo
contributo), non potevamo non contribuire al dibattito pubblico, pubblicando
anche i dati relativi alle intenzioni di voto.
Una (lunga ma necessaria) premessa di metodo
Vanno però specificate alcune avvertenze. La prima è che l’indagine
ICCP non è un’indagine ottimizzata per le intenzioni di voto. Le indagini
sulle intenzioni di voto in genere hanno infatti questionari molto brevi e
presentando la domanda chiave nel giro di pochi minuti, per evitare possibili
effetti di distorsione delle domande precedenti, e per rendere massimo il
numero di intervistati che completano il questionario.
La nostra indagine invece ha utilizzato un questionario lungo e articolato
(oltre i 15 minuti); e rendeva necessario collocare la domanda sull’intenzione
di voto nella seconda metà del questionario. Questo peraltro potrebbe
comportare anche una possibile influenza delle domande precedenti sulla domanda
finale dell’intenzione di voto (influenza che abbiamo anche stimato attraverso
un disegno sperimentale – alternando diverse collocazioni della domanda – e di
cui abbiamo tenuto conto nelle stime finali delle intenzioni di voto).
Infine, va detto che la nostra indagine non fa parte di una serie regolare
(settimanale o mensile), e quindi non ci ha dato la possibilità di fare
correzioni di stabilizzazione (magari basandoci su sondaggi precedenti) come
possibile per gli istituti di sondaggio veri e propri, che svolgono indagini
regolari e frequenti. E’ una della importanti differenze tra le aziende di
sondaggi e invece (come noi) i centri di ricerca che usano sondaggi per
le proprie ricerche. Per certi versi, il nostro sondaggio rappresenta un
esempio della variabilità statistica dei campioni utilizzati per i sondaggi,
senza applicare possibili correzioni per questa variabilità.
Ciò premesso, va detto che in termini metodologici
l’indagine è un’indagine campionaria assolutamente standard; peraltro,
un’indagine assolutamente analoga (tranne che per la lunghezza del
questionario) svolta nel 2018 fornì risultati molto vicini al risultato
effettivo (anche se un singolo successo non è di per sé una prova di una
metodologia affidabile!). I dati sono stati raccolti con metodologia CAWI (cioè
con questionari Web, sviluppati dal CISE) su un campione di 861 intervistati,
da mercoledì 31 agosto fino a lunedì 5 settembre, dalla società Demetra di
Mestre. Come per tutte le indagini CAWI, gli intervistati sono stati estratti
da un pool di potenziali intervistati, in modo da costituire un campione (non
probabilistico) che fosse rappresentativo della popolazione italiana in età di
voto per combinazione di sesso e classe di età, titolo di studio e zona
geografica. I non cittadini sono stati esclusi dal questionario. Sui dati così
raccolti abbiamo poi applicato, come avviene in tutti i sondaggi pubblicati,
una ponderazione (che mira a correggere gli effetti della distorsione del
campione) per sesso, combinazione di classe ed età, zona geografica, e
soprattutto ricordo del voto (di coalizione) espresso nella precedente elezione
del 2018. Infine, riguardo all’intenzione di voto, abbiamo applicato (vedi
sopra) correzioni specifiche, derivate da una stima sperimentale dell’effetto
della collocazione della domanda sull’intenzione di voto. Se fossero tratte da
un campione probabilistico, le stime sarebbero affette da un margine di errore
di circa +/- 3 punti percentuali; in realtà – come per tutti i sondaggi
pubblicati – il campione di partenza è non probabilistico: di
conseguenza i margini di errore possono anche essere maggiori.
Le intenzioni di voto
Queste premesse erano necessarie, visto che i risultati che
presentiamo sono per certi versi un po’ diversi da quelli pubblicati dai
sondaggi più recenti. La Tabella 1 presenta la distribuzione delle risposte
alla domanda sull’intenzione di voto (la domanda era “Immagini che domani ci siano le elezioni politiche per il
Parlamento nazionale. Lei quale partito voterebbe per la Camera dei Deputati?
Per favore, scelga solo una delle seguenti opzioni”).
Tabella 1 – Intenzioni di voto nell’indagine CISE/ICCP – 31 agosto-5 settembre
Dai dati emergono alcuni elementi principali, che
sintetizziamo brevemente:
1. La vittoria del centrodestra ancora una volta non appare in discussione, pur se con valori inferiori a quelli riportati dagli istituti di sondaggio in questi giorni: la coalizione di centrodestra totalizza infatti circa il 42% delle intenzioni di voto, contro il 31% del centrosinistra;
2. Appare anche confermato il ruolo di primo partito di Fratelli d’Italia, pur se nei nostri dati questo partito registra una performance leggermente inferiore ad altri sondaggi di questi giorni; FdI viene infatti dato al 23%, contro il 21,4% del Pd, che invece è in linea con altri sondaggi;
3. Entrando nel dettaglio delle due coalizioni principali:
a. Il vantaggio leggermente inferiore del centrodestra rispetto ad altri sondaggi (che vedono distacchi tra 15 e 18 punti) è legato anche alla stima particolarmente bassa della Lega, che nella nostra indagine scenderebbe sotto le due cifre (al 9,6%), mentre Forza Italia viene data all’8%; anche Noi Moderati nella nostra indagine risulta sotto l’1% rispetto a stime maggiori (intorno al 2%) nei sondaggi pubblicati;
b. All’interno del centrosinistra, l’indagine ha una stima particolarmente positiva per l’alleanza Verdi-Sinistra (5,9%), mentre Più Europa viene data sotto la soglia di sbarramento del 3% (al 2,3%) in linea con altri sondaggi, così come Impegno Civico (1,4%);
4. Il dato forse più eclatante è quello del M5S, che le nostre stime vedono al 16,6%; si tratta di un dato superiore non solo alle medie dei sondaggi pubblicati più di recente (intorno al 12%), ma anche ai sondaggi più ottimisti (che lo danno al massimo al 14%);
5. Infine, la stima per Azione-Italia Viva (5,3%) appare leggermente inferiore alle stime viste finora (intorno al 6 e il 7%); viene inoltre confermato Italexit sopra la soglia di sbarramento (3,6%). (https://realdetroitweekly.com/)
L’interpretazione: un possibile “effetto Churchill” sul voto del 25
settembre?
Pur se con alcune differenze rispetto ai sondaggi
pubblicati, le tendenze indicate dalle intenzioni di voto nella nostra indagine
sono, a grandi linee, assolutamente analoghe a quelle viste finora:
1. Il vantaggio strutturale del centrodestra, e l’assenza di reale competitività del centrosinistra: dati che non appaiono realmente in discussione (il margine di vittoria particolarmente basso da noi stimato – undici punti – non solo appare comunque confortevole, ma rappresenta un valore particolarmente basso, rispetto alle stime di tutti gli istituti).
2. La conferma del mancato decollo di Azione-Italia Viva: un partito con ambizione di “terzo polo” a due cifre (con l’obiettivo neanche troppo celato di andare vicino al 20% ottenuto a Roma, dimenticando forse che l’Italia non è Roma) e che tuttavia non è ancora riuscito a decollare, rimanendo sulle stime viste da mesi.
3. La crescita del M5S. Presentato da molti come destinato all’estinzione dopo la scissione di Di Maio e la successiva caduta del governo Draghi (all’epoca era spesso stimato sotto il 10%), il partito guidato da Conte mostra invece una forte tendenza alla crescita, confermata da tutti gli istituti (pur se finora non sui livelli da noi registrati).
Intanto una prima osservazione è che, con queste prime settimane di campagna, hanno iniziato a svilupparsi le dinamiche tipiche dell’avvicinamento al voto. Gli elettori iniziano ad attrezzarsi per prendere una decisione. Come fanno? Riattivano un interesse per la politica leggermente maggiore, cercano di fare un piccolo bilancio di quello che hanno visto fare in questi anni, cercano di farsi un’idea sui vari partiti in lizza (non tanto sulle proposte dettagliate di policy, ma più semplicemente alla ricerca di chi rappresenti meglio i loro valori e interessi), e soprattutto valutano cosa potranno aspettarsi dai diversi partiti in futuro, se e quando questi andranno al governo. Ecco: questa naturale proiezione verso il futuro della campagna elettorale rappresenta a nostro parere una chiave di lettura per capire le conseguenze delle scelte strategiche con cui i vari schieramenti e partiti si sono preparati al voto.
Lo schieramento di centrodestra ha fatto la prima mossa vincente (archiviando in un pomeriggio le liti di mesi) presentandosi con un’ampia coalizione, dando quindi priorità all’essere competitivi nei collegi uninominali per poter avere una maggioranza in grado di governare in modo certo (cosa che è ormai molto probabile), e con regole abbastanza chiare in grado di promettere con certezza chi sarà premier in caso di vittoria. In secondo luogo, a questa promessa di certezza di governo ha abbinato una serie di proposte che configurano importanti cambiamenti, ovvero una visione di futuro che non sia la semplice ripetizione del passato. Non sono proposte ecumeniche, ma in molti casi divisive e di parte: ma proprio per questo permettono a un lato importante della società italiana (quello più conservatore) di riconoscersi con chiarezza in qualcuno che rappresenterà efficacemente i suoi valori e interessi (vedi le caratterizzazioni tematiche di FdI, Lega e FI).
Lo schieramento di centrosinistra ha invece di fatto scelto dall’inizio, con la rottura col M5S, di rinunciare – a nostro parere – a essere (realisticamente) competitivo per ottenere una possibile maggioranza; e poi ha gestito in modo inefficace le trattative con altri possibili alleati (arrivando anche alla rottura con Calenda), di fatto quindi rendendo poco rilevanti le sue eventuali proposte di governo, perché molto difficilmente potrà vincere. A questo va abbinata la scelta di legarsi alla c.d. “agenda Draghi”, prefigurando un possibile ritorno di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Questo – suggeriamo – ha aggiunto ulteriore incertezza alla proposta del centrosinistra, perché (1) Mario Draghi non ha mai dato alcuna particolare disponibilità a tornare al governo, quindi non è tuttora chiaro agli elettori chi sia il candidato premier del centrosinistra, quindi cosa succederebbe in caso di eventuale vittoria; (2) i provvedimenti presi dal governo Draghi sono stati quasi sempre compromessi tra partiti di destra e di sinistra, e perciò ispirarsi a quell’“agenda” significa inevitabilmente rendere poco riconoscibili le proprie proposte (non a caso la campagna del Pd oscilla tra gli estremi della candidatura del moderato Cottarelli e l’attacco “da sinistra” al Jobs Act renziano) che finiscono per caratterizzarsi essenzialmente soltanto sui diritti civili e di fatto sulla difesa delle scelte del precedente governo; (3) il richiamo al governo Draghi configura inevitabilmente uno sguardo rivolto al passato, senza idee particolarmente chiare relative al futuro (e peraltro con un presente fatto di una situazione economica per certi versi drammatica, con bollette alle stelle e la prospettiva concreta di razionamento dell’energia). E considerazioni analoghe valgono anche per il mancato decollo (almeno finora) di Azione (vedi la caratterizzazione del partito), che forse rappresenta ancora meglio l’adesione a quel modello.
Mentre invece il M5S di Conte, il primo a rompere col governo Draghi, ha forse intuito per primo (poche ore prima del centrodestra, che ha condiviso poi la stessa scelta) la necessità di staccarsi da quell’esperienza per presentarsi in modo chiaro con proposte votate a un cambiamento, e chiaramente caratterizzate in modo da offrire – come il centrodestra – non l’adesione a un modello tecnocratico-ecumenico (e potenzialmente indifferenziato) ma invece la possibilità di identificare chiaramente la rappresentanza di particolari valori e interessi, specie sui temi economici. In questo caso, specularmente al centrodestra, per una parte più progressista e radicale della società italiana.
Non sappiamo se il risultato elettorale sarà in linea con
queste interpretazioni. Tuttavia, in questo caso, potremmo davvero essere di
fronte a una sorta di “effetto Churchill” (Franklin e Ladner 1995). Il grande leader britannico,
nell’elezione che seguì la vittoria contro la Germania nazista, subì una
cocente sconfitta elettorale. Forse con un po’ di ingratitudine, ma con molto
pragmatismo, gli elettori britannici premiarono i laburisti che promettevano un
progetto di futuro (negli anni successivi il governo Attlee dette vita, primo
al mondo, al primo nucleo del moderno welfare state), invece che
limitarsi a ringraziare Churchill per il lavoro fatto. Occorre ricordare spesso
quell’episodio, che ci insegna sempre che la competizione elettorale si gioca
sul futuro, non sul passato. Stiamo a vedere.
Riferimenti bibliografici
De Sio, Lorenzo, e Romain
Lachat. 2020a. «Issue competition in Western Europe: an introduction». West
European Politics 43(3): 509–17.
———. 2020b. «Making sense of party strategy innovation: challenge to
ideology and conflict-mobilisation as dimensions of party competition». West
European Politics 43(3): 688–719.
Franklin, Mark, e Matthew Ladner. 1995. «The Undoing of Winston
Churchill: Mobilization and Conversion in the 1945 Realignment of British
Voters». British Journal of Political Science 25(4): 429–52.
Basandosi sul questionario molto ricco della recentissima indagine CISE-ICCP, analizziamo la “domanda” politica espressa dagli elettorati dei vari partiti e mostriamo su quali temi questi partiti sono considerati credibili, e quindi in grado di rispondere in modo efficace. I risultati mostrano due aspetti fondamentali: (1) la netta predominanza, nell’offerta partitica, dei temi “culturali” (Europa, diritti civili, ambiente) rispetto a quelli economici; tuttavia con la vistosa eccezione del M5S, che rappresenta l’unico partito caratterizzato in modo forte sui temi economici, sia in termini di domande espresse dal suo elettorato (su posizioni redistributive di sinistra) che in termini di credibilità percepita. Un fattore che potrebbe spiegare la crescita del M5s. (2) una “polarizzazione indotta”: gli elettorati di vari partiti esprimono domande “miste” (che combinano, sui diversi temi, posizioni tradizionalmente “di sinistra” e altre “di destra”) mentre invece la caratterizzazione dell’offerta dei vari partiti appare nettamente di destra o di sinistra (ben più che in passato), quindi con una polarizzazione ideologica che non c’è nell’elettorato, ma viene prevalentemente indotta dai partiti.
A pochi giorni dal black-out pre-elettorale, i vari sondaggi concordano più o meno tutti nell’evidenziare il solido vantaggio della coalizione di centro-destra, ma al tempo stesso la forte crescita del M5S e l’invece difficile decollo del “terzo polo” di Calenda (vedi qui le nostre stime).
In questo articolo presentiamo invece alcuni risultati tratti dall’ultima indagine CISE condotta nell’ambito del progetto internazionale ICCP. Si tratta di un’indagine il cui fuoco principale non sono tanto le intenzioni di voto (che pure analizziamo in un’analisi separata), ma invece le opinioni dei cittadini su un grande numero di temi politici trattati nella campagna elettorale. Tuttavia, come vedremo, proprio la ricchezza di queste informazioni ci permette di rispondere a domande forse ben più importanti per il ruolo che le elezioni giocano nella democrazia. Quali sono le domande espresse dai cittadini? E quelle specifiche degli elettori dei vari partiti? E come l’offerta dei partiti (percepita dai cittadini) è in grado di rispondere a queste domande? E ancora: in base a queste considerazioni, possiamo ricostruire e anticipare quali saranno le strategie dei partiti in queste ultime due settimane di campagna elettorale?
Le domande degli elettori, e l’offerta dei partiti
La risposta che offriamo a questi quesiti si basa sulla
lente teorica della teoria della issue yield (De Sio e Weber 2014), che potremmo tradurre con
“rendimento” dei diversi temi politici. L’idea di fondo è che i partiti, per vincere
le elezioni, dovrebbero concentrare la propria campagna su quegli obiettivi politici
che: (1) sono più largamente (se non unanimemente) condivisi nella propria
base elettorale; e che al tempo stesso (2) sono condivisi anche in generale
(ovvero anche da elettori degli altri partiti), fornendo quindi un potenziale
di espansione elettorale. I temi che coniugano meglio queste due
caratteristiche sono detti high-yield (ad alto rendimento), con un
rendimento misurabile con un apposito indice, e sono di fatto temi win-win,
perché permettono di guadagnare elettori senza perdere la propria base di
partenza.
Concentrandosi su questi temi, peraltro, i partiti svolgono anche una funzione
fondamentale della democrazia, impegnandosi su obiettivi condivisi anche fuori
dal proprio partito, e quindi realizzando quella responsiveness (corrispondenza
tra attività di governo e preferenze dei cittadini) che è al cuore della
definizione di democrazia (Dahl 1971).
Un primo esercizio interessante è quindi anzitutto per noi
l’identificazione di questi temi per ciascun partito: ovvero la domanda politica
che anima il suo elettorato. Però, in secondo luogo, non va dimenticato che i
politici costruiscono un’offerta politica che può avere anche una
caratterizzazione diversa, dedicando la loro attenzione e costruendo la loro
reputazione su un insieme di temi che caratterizzano la loro leadership e la
loro gestione del partito, che possono anche essere diversi dai desideri del
loro elettorato.
La teoria della issue yield offre strumenti per misurare anche questa offerta
politica (e quindi la discrasia con la domanda), chiedendo agli intervistati quali
partiti ritengono credibili nel realizzare i vari obiettivi, e quindi – in
definitiva – cosa si aspettano che i partiti facciano effettivamente una volta
al governo (D’Alimonte, De
Sio, e Franklin 2019). Si può quindi fare una diversa identificazione
dei temi ottimali di ciascun partito (con una versione
modificata dell’indice di issue yield: vedi De Sio e Weber 2020), e quindi confrontare domanda
e offerta, cogliendo in che modo l’offerta politica di un partito magari
presenta una discrasia rispetto dalle domande formulate dai suoi elettori.
Ma vediamo subito degli esempi.
Fratelli d’Italia – una leader di destra per elettori con alcune opinioni
di sinistra
La Tabella 1 presenta la top 10 di obiettivi tematici per l’elettorato del partito di Giorgia Meloni, ovvero i 10 obiettivi tematici con il rendimento potenziale più alto. Si tratta dei temi che presentano la combinazione migliore di unanimità interna e popolarità nella popolazione generale: corrispondono all’idea che per vincere le elezioni bisogna riuscire a sfruttare la combinazione tra capacità di compattare il proprio partito e capacità di rappresentare opinioni molto diffuse nella popolazione in generale. Come si può vedere, sono tutti obiettivi con un alto grado di compattezza all’interno di FdI (consenso compreso tra il 75 e il 94%), ma al tempo stesso largamente condivisi da una quota di elettori amplissima (tra il 48 e l’86%, a seconda degli obiettivi), molto più alta del 15,4% del campione che già ora voterebbe FdI. Ad esempio nel caso della limitazione dell’immigrazione, si tratta di un obiettivo praticamente unanime dentro FdI (94%), ma al tempo stesso condiviso dal 68% dell’intero campione, e che non a caso produce un indice di rendimento altissimo (0.93, rispetto a un massimo possibile di 1).
Uno sguardo d’insieme a questi dieci obiettivi ci dà quindi
un’idea dell’ipotetico programma che, se promosso in campagna elettorale,
garantirebbe a FdI la massima possibilità di espansione elettorale senza andare
contro le opinioni dei suoi elettori. Ed emerge un quadro non scontato: come si
vede dai colori degli orientamenti politici generali (L per obiettivi “di
sinistra”, R per obiettivi “di destra”, anche se a volte la
classificazione è inevitabilmente
arbitraria), gli obiettivi ottimali per espandere FdI sono in parte
tradizionalmente di destra (limitare l’immigrazione, rigassificatori,
presidenzialismo, no al reddito di cittadinanza, ridimensionare la
magistratura), ma in parte anche tradizionalmente di sinistra (eutanasia,
ridurre l’età pensionabile, garantire l’aborto, salario minimo). Può sembrare
sorprendente, ma non si tratta di un fenomeno inedito; leader come Marine Le
Pen in Francia e Geert Wilders in Olanda (e per certi versi la stessa Lega di
Salvini) hanno intercettato con successo il voto di cittadini con orientamenti
che vanno oltre gli orientamenti ideologici del ventesimo secolo: cittadini
chiaramente di destra sul tema dell’immigrazione e sull’Europa (anche se spesso
non favorevoli ad uscirne), ma al tempo stesso con orientamenti di protezione
economica dal libero mercato (quindi di sinistra), e al con posizioni spesso
progressiste su alcuni temi dei diritti civili, come eutanasia e aborto. Non
sorprende quindi osservare che chi oggi ha intenzione di votare FdI possa avere
queste posizioni.
Tabella 1 – Obiettivi ottimali in base
all’elettorato del partito: Fratelli d’Italia
Al tempo stesso, però, è rilevante chiedersi qual è il tipo
di offerta che questi cittadini si accingono a votare (vista attraverso le
percezioni degli intervistati). Lo si può fare costruendo la stessa lista, ma
questa volta incorporando anche le valutazioni (da parte del campione) degli
obiettivi su cui FdI è considerato verosimilmente più credibile, quindi con una
valutazione “sul campo” del partito e dell’attuale leadership politica di
Giorgia Meloni. La Tabella 2 presenta questa lista.
E il confronto tra le due tabelle non potrebbe essere più
rivelatore. Quando si incorpora infatti una valutazione della effettiva
leadership del partito (e non solo usando le posizioni dei suoi elettori) si
vede nettamente come la caratterizzazione di FdI sia nettamente e
inequivocabilmente su posizioni di destra. Della lista precedente, tutti gli
obiettivi “di sinistra” (eutanasia, età pensionabile, aborto, salario minimo) escono
dalla top 10, e vengono sostituiti da altri obiettivi: la prima new entry,
a onor del vero, è l’obiettivo trasversale (V=valence issue, obiettivo
trasversale) di combattere la violenza sulle donne (Meloni è ritenuta credibile
dal 29% dell’intero campione: è la prima in graduatoria tra tutti i partiti –
essendo tra l’altro l’unica donna leader), ma gli altri sono il no allo ius
soli/scholae, il nucleare, il no alla legalizzazione della cannabis, la
riduzione del welfare per gli immigrati).
Tabella 2 – Obiettivi ottimali considerando anche la percezione di credibilità del partito: Fratelli d’Italia
Per FdI si configura quindi una strategia molto coerentemente di destra, pur a fronte di una domanda del suo elettorato (e della cittadinanza in generale) più complessa e variegata. Come si conciliano questi due aspetti? Com’è possibile che cittadini che su alcuni temi hanno opinioni anche di sinistra finiscano per votare per un partito che si presenta coerentemente come di destra? La risposta sta nella salienza dei temi. A guardare bene, tutti i temi con la massima credibilità per Meloni sono temi di tipo culturale e non economico (con l’unica eccezione del reddito di cittadinanza, che tuttavia ormai è diventato un tema-bandiera dello scontro con il M5s), a testimonianza del fatto che l’identità di Meloni è stata costruita su temi prevalentemente culturali (specie immigrazione ed Europa), silenziando temi economici che avrebbero potuto essere divisivi (e su cui una posizione di destra avrebbe potuto scontentare l’elettorato FdI). Questo può conciliarsi con una minore rilevanza dei temi economici per gli elettori FdI (di fronte a una scelta magari dominata dalla prospettiva di cambiamento rispetto al governo attuale) oppure di operare una proiezione, per cui magari – attratti da FdI su temi culturali – tendono a pensare che anche sui temi economici (su cui c’è silenzio) realizzerà proposte a loro gradite. Diverso è invece il caso di temi culturali come aborto ed eutanasia. In questo senso è stata interessante la sortita di Chiara Ferragni, che ha additato le pratiche di governo di FdI a livello locale per rendere sempre più difficile l’aborto (es. nelle Marche): i dati ci dicono che la base di questo partito è invece su posizioni ben diverse (83% per tutelarlo, addirittura un punto in più del totale del campione); quindi questo tema potrebbe rappresentare un potenziale punto debole.
Infine, i dati sulla credibilità ci dicono anche qualcosa sul potenziale di espansione di FdI. Su alcuni di questi temi, i valori di credibilità raggiungono valori che testimoniano la capacità di Meloni di parlare in modo credibile al 25% e oltre dell’intero campione (potenzialmente intorno al 37% dei voti validi), e su alcuni (no al reddito di cittadinanza, combattere la violenza sulle donne) FdI è anche al primo posto nella graduatoria di credibilità tra i diversi partiti. Su altri non è al primo posto (ad esempio sul limitare l’immigrazione, dove la Lega gode di una credibilità di 18 punti superiore), ma comunque è considerata credibile da una percentuale molto importante di intervistati. L’attesa è quindi che, se Meloni condurrà una campagna strategica, lo farà sui temi [LDS2] di questa lista[LDS3] ; temi che potrebbero garantirle un’ulteriore espansione oltre le attuali stime.
Lega: svolta a destra, nonostante l’elettorato
Passiamo ora all’altro grande partito di destra radicale in gioco in questa tornata elettorale: la Lega. Dopo aver ricoperto un ruolo di assoluto protagonista nella passata legislatura, la formazione di Matteo Salvini pare destinata – dai dati di sondaggio – a essere forse addirittura doppiata da Fratelli d’Italia. La Tabella 3 riporta le 10 tematiche con il rendimento potenziale più alto per la Lega, in base alla domanda del proprio elettorato e di quello generale. In linea con quanto visto per Fratelli d’Italia (e più in generale con le note ambiguità ideologiche dei partiti di destra radicale soprattutto in ambito economico), a emergere è una domanda tematica piuttosto mista da un punto di vista di tradizionali posizioni sinistra-destra: prevalentemente (seppure non univocamente) di destra culturale e sinistra economica. Infatti, la domanda rivolta alla Lega abbina posizioni avverse all’arrivo di nuovi immigrati e all’integrazione di quelli esistenti (con l’opposizione a riforme più inclusive della legge sulla cittadinanza) con anche posizioni ben più “aperte” culturalmente (e ampiamente condivise nell’elettorato) su temi di diritti civili che non riguardano l’immigrazione, come l’eutanasia. Al contempo, parrebbe rimanere per la Lega una parte di domanda di sinistra economica da soddisfare, con temi come la riduzione dell’età pensionabile e delle disuguaglianze di reddito e l’introduzione di un salario minimo. Da questo punto di vista, con la sola opposizione alla misura “di bandiera” M5s del reddito di cittadinanza (seppure supportata dalla Lega nel contratto e nell’esperienza di governo del Conte I), il quadro pare abbastanza coerente: forse anche sorprendentemente, vista l’assenza in questa lista di alcuni cavalli di battaglia di destra economica del Carroccio , su tutte la flat tax (probabilmente per lo scarso consenso che questo tema gode presso l’elettorato generale, 22%).
Tabella 3 Obiettivi ottimali in base all’elettorato del partito: Lega
La Tabella 4 modifica il quadro incorporando la credibilità della Lega presso l’elettorato sul conseguimento dei vari obiettivi. Ne emerge un quadro cambiato ed estremamente interessante, riassumibile parlando di una coerente agenda di destra: culturalmente ed economicamente. Vi è quindi una discrasia tra domanda e offerta: scompaiono infatti dalla lista i temi di sinistra, culturale ed economica, lasciando spazio a posizioni coerentemente di destra.
Il partito di Salvini si conferma infatti quello principe,
agli occhi dell’elettorato, per il contrasto all’immigrazione, essendo il più
credibile in assoluto sui tre temi ora più redditizi: limitazione
dell’immigrazione (con un abissale 18% di scarto sul secondo partito più
credibile, FdI), opposizione a ius soli/scholae (4% di scarto dal secondo
partito più credibile) e riduzione dell’accesso ai servizi sociali per gli
immigrati (8% di scarto dal secondo partito più credibile). Queste posizioni
sono integrate coerentemente da altri obiettivi tradizionalmente conservatori da
un punto di vista culturale (come l’opposizione alla legalizzazione delle
droghe leggere), nonché da obiettivi più salienti in quanto legati alla
congiuntura storica come il ritorno al nucleare e il presidenzialismo. Forse
ancor più interessante è, poi, la sostituzione dei temi economici di sinistra
con altri di destra, con la comparsa della tanto enfatizzata flat tax e di
altri temi classici come la rottamazione delle cartelle esattoriali, sui quali
la Lega è il partito più credibile. Resta inoltre l’opposizione al reddito di
cittadinanza, insieme anche all’obiettivo economico valence della
riduzione delle tasse sul lavoro.
Insomma, come nel caso del partito di Giorgia Meloni, a
fronte di una domanda elettorale piuttosto variegata, una volta considerata anche
la credibilità percepita della Lega sui vari temi, per il partito di Matteo
Salvini si configura un “ritorno alla destra” più classica da un punto
di vista ideologico: conservatrice da un punto di vista culturale e a favore
del libero mercato economicamente. I tempi dell’ambiguità alla “flat tax piú
reddito di cittadinanza” sembrano essere stati messi alle spalle.
Tabella 4 Obiettivi ottimali considerando anche la percezione di credibilità del partito: Lega
Evidentemente anche per questo partito l’appello ai temi
culturali fa premio sulle differenze di opinione su temi economici. Un secondo
tema di riflessione è inoltre la stima relativamente bassa del consenso alla
Lega, rispetto al suo bacino di credibilità: una spiegazione potrebbe essere
l’aver patito (rispetto a Fratelli d’Italia, che ha posizioni e credibilità
simili) il sostegno attivo al governo Draghi.
Forza Italia: la perdurante eredità di Berlusconi
Nella Tabella 5 sono illustrati i 10 obiettivi tematici con il rendimento più alto per Forza Italia. Come si può osservare, emerge un quadro in parte inatteso, che unisce proposte tradizionalmente di destra (come la limitazione dell’immigrazione, l’abolizione del reddito di cittadinanza, il presidenzialismo) con proposte tradizionalmente di sinistra, come ad esempio eutanasia, aborto, Europa. Si tratta di un aspetto fino a questo punto in parte coerente con il profilo di Forza Italia, partito tradizionalmente liberale ed europeista. Tuttavia, l’aspetto più interessante è dato dalla concomitante presenza di obiettivi “di sinistra” legati alla protezione economica, come la riduzione dell’età pensionabile e l’introduzione del salario minimo. Il risultato evidenzia dunque come l’elettorato di Silvio Berlusconi, in linea con altri partiti di destra sia europei, sia italiani, presenti istanze conservatrici su alcuni temi (come l’immigrazione), progressiste su alcuni temi di diritti civili non legati all’immigrazione (aborto e eutanasia) abbinate ad altre di protezione socio-economica, e quindi più orientate verso politiche tradizionalmente di sinistra sui temi del lavoro.
Tabella 5 Obiettivi ottimali in base all’elettorato del partito: Forza Italia
La Tabella 6 mostra invece come cambia la gerarchia degli obiettivi tematici, quando si incorporano le valutazioni di credibilità su Forza Italia, quindi considerando come la domanda dell’elettorato interseca invece l’offerta politica di Forza Italia, come percepita dai cittadini . I risultati evidenziano un posizionamento molto più di destra del partito, in cui obiettivi di sinistra vengono sostituiti chiaramente da altri di destra, in particolare sotto l’aspetto economico: flattax, contrarietà ad un aumento della tassa di successione, rottamazione delle cartelle esattoriali. Peraltro, il partito di Berlusconi risulta particolarmente credibile su due obiettivi trasversali particolarmente significativi: la riduzione delle tasse sul lavoro (credibilità 28%) e il sostegno alla crescita economica (26%), per i quali viene considerata come la forza politica più credibile da parte dell’elettorato. A questi temi economici, si accompagnano poi alcuni obiettivi di tipo culturale tradizionalmente di destra, come il nucleare (credibilità 19%) e altri in linea rispetto alla proposta storica di Forza Italia, come la riduzione dei poteri della magistratura (credibilità 16%)
Tabella 6 Obiettivi ottimali, considerando anche la percezione di credibilità del partito: Forza Italia
Complessivamente, emerge dunque un profilo di Forza Italia
fortemente incentrato sulla dimensione dello sviluppo economico e della
riduzione delle tasse, chiaramente in linea con la tradizione del partito.
Sebbene non manchino elementi “culturali”, la massima credibilità della
leadership del partito si ottiene su quegli aspetti più economici e legati alla
dimensione “produttiva”. La parziale contraddizione rispetto alle posizioni
dell’elettorato illustrata precedentemente, può dunque essere spiegata con la
maggiore credibilità che il partito di possiede su queste tematiche
trasversali. La riduzione delle tasse (generalizzata) e lo sviluppo
rappresentano due obbiettivi generali, che apportano benefici alla popolazione
complessivamente intesa, garantendo quindi, nella percezione degli elettori, un
supporto anche da quelle fasce di elettorato che richiedono una protezione
sociale più forte. Dato il grande margine di credibilità di cui gode
(all’incirca un quarto dell’elettorato), essi costituiscono gli aspetti su cui
puntare per concretizzare il proprio potenziale di espansione al partito di
Silvio Berlusconi: c’è quindi da attendersi un’enfasi su questi temi nel resto
della campagna.
Azione-Italia Viva: un partito liberale moderato con elettori liberali di
sinistra?
Tabella 7 Obiettivi ottimali in base all’elettorato del partito: Azione
Azione-Italia Viva è l’unico partito veramente nuovo che
analizziamo, e scaturisce dalle due esperienze di Carlo Calenda e Matteo Renzi.
Entrambi nati e cresciuti politicamente nell’ambito del centrosinistra,
condividono tradizionalmente (oltre all’avversione per il M5S) un’impostazione
di sinistra più sui temi “culturali” (soprattutto Europa e diritti civili) che
su quelli economici, dove invece entrambi i leader hanno sempre avuto posizioni
più chiaramente moderate (uno dei principali provvedimenti del governo Renzi fu
la riforma del mercato del lavoro inserita nel Jobs Act), culminate nella
recente identificazione con l’”Agenda Draghi”.
In realtà l’elettorato che in questo momento è intenzionato
a votare Azione appare essenzialmente liberale (di sinistra) sui temi culturali
(UE, aborto, eutanasia, mantenere il welfare per gli immigrati, pro Ddl Zan –
ovvero per inasprire le pene per le discriminazioni anti-LGTBQ+), con posizioni
chiaramente atlantiste (pro NATO e pro armi all’Ucraina – su quest’ultimo tema
addirittura d’accordo all’81%, contro il 41% dell’intero campione), e con
posizioni invece conservatrici sui temi dell’ambiente e dell’energia (pro
nucleare, pro rigassificatori). Fin qui, quindi, sulle caratteristiche
dell’elettorato di Azione, ovvero le domande espresse da questo elettorato.
Incorporando invece la misurazione delle caratteristiche di questo partito e
della sua leadership, emerge un quadro in parte diverso.
Una volta incorporate le valutazioni di credibilità, infatti la selezione di obiettivi che vengono percepiti come credibilmente attesi da Azione-Italia Viva non è particolarmente di sinistra, come visibile in Tabella 8. Retrocedono fuori dalla top 10 alcuni obiettivi di sinistra come la tutela dell’aborto, l’eutanasia, il no alla flat tax, il Ddl Zan. Questi lasciano posto ad altri temi: uno progressista sui diritti civili (ius soli/scholae), uno istituzionale tendenzialmente di sinistra (no al presidenzialismo), ma poi un ulteriore tema atlantista (sanzioni alla Russia) e uno economicamente conservatore (favore all’aumento dell’età pensionabile). Il risultato è che, se si fa infatti eccezione per l’orientamento pro-UE (che per convenzione attribuiamo alla sinistra, ma che in realtà è difficile da attribuire a uno dei due grandi orientamenti politici), ai primi posti troviamo infatti gli orientamenti atlantisti (armi all’Ucraina, Nato, mantenere le sanzioni alla Russia), abbinati a un insieme di posizioni conservatrici su energia ed economia; segue il no al presidenzialismo, e solo in nona e decima posizione compaiono due temi (culturali) più chiaramente di sinistra. Di nuovo quindi una parziale discrasia tra domanda e offerta, in cui ancora una volta l’elettorato si orienta probabilmente più su temi culturali, per premiare un’offerta che tuttavia è caratterizzata in modo un po’ diverso (soprattutto sui temi della politica estera e dell’energia), e che ricorda per certi versi il profilo di alcuni classici partiti liberali di destra (come la FDP tedesca).
Tabella 8 Obiettivi ottimali considerando anche la percezione di credibilità del partito: Azione
Peraltro, c’è un ultimo dato rilevante che potrebbe spiegare
perché questo partito non sta riuscendo a decollare nei sondaggi quanto si
sarebbe atteso. Interpretando i valori di credibilità come potenziale di
espansione, è in effetti vero che su alcuni temi (UE, NATO, rigassificatori)
Calenda è considerato credibile da una percentuale del campione compresa tra il
12 e il 17% (in voti validi, potenzialmente tra il 18 e il 25%), ma è anche
vero che su questi temi comunque è soltanto al quarto o quinto posto nella
graduatoria della credibilità rispetto agli altri partiti. Appare dunque
difficile che, pur insistendo su questi temi, la campagna di Azione possa
attrarre voti da altri partiti. Almeno per quanto riguarda il ruolo dei temi
nello spiegare le scelte di voto (ma contano molti altri fattori), questo potrebbe
spiegare perché Azione finora non ha visto una dinamica fortemente espansiva
nelle intenzioni di voto.
Partito Democratico: diritti civili e status quo
La Tabella 9 riporta i 10 obiettivi tematici con il rendimento potenziale più alto per il partito di Enrico Letta, in base alla configurazione dell’opinione della propria base e dell’elettorato in generale. Come per Fratelli d’Italia, anche qui la configurazione tematica vincente per il PD dal lato della domanda combina temi con sia ampio o ampissimo consenso nell’elettorato generale (tra il 66% e l’86%), sia assoluta compattezza interna (dall’83% al 97%): caratteristiche dalle quali conseguono degli indici di rendimento molto alti (tra 0,80 e 0,97). Emblematico, da questo punto di vista, il tema della legalizzazione dell’eutanasia nei casi di malattia incurabile: il più condiviso generalmente in questo elenco – dall’86% del nostro campione, ben oltre il 14,3% che voterebbe il PD –, e al contempo condiviso da 9 elettori su 10 di questo partito (89%), il che consegue in un indice di rendimento di 0,87. La base del PD è, inoltre, praticamente unanime (97%) sul tema, invece relativamente più controverso nell’elettorato generale, di restare all’interno dell’Unione Europea, facendo letteralmente schizzare l’indice di rendimento di questo tema quasi al valore massimo di 1 (0,97).
Un’analisi complessiva di questo pacchetto di temi ad alto rendimento illustra una classica domanda di sinistra, prevalentemente ‘left-libertarian’, e cioè di sinistra economica abbinata a posizioni liberali e di apertura sui temi culturali e dei diritti, tipici della socialdemocrazia dell’Europa occidentale (e.g., Kitschelt 1994). Infatti, al PD sembrano si rivolgono elettori favorevoli a temi “postmaterialisti” come l’eutanasia e la tutela dalle discriminazioni a sfondo sessuale, così come la tutela dell’aborto e dell’ambiente. E in più è chiarissima la vocazione europeista degli elettori PD. Infine, tra le domande degli elettori PD emergono con forza anche temi di tradizionale sinistra economica: difesa della progressività fiscale contro la flat tax, salario minimo, lotta alle disuguaglianze di reddito. Parziali eccezioni a questo quadro sono costituite dai temi sulla collocazione internazionale dell’Italia all’interno del blocco NATO – anche qui, a dire il vero, di conservazione dello “status quo” – e dall’atteggiamento favorevole ai rigassificatori per contrastare la crisi energetica. Due issues molto salienti in questo momento, che parrebbero dipendere più dalla congiuntura storica legata alla guerra russo-ucraina che da un profilo organico di domanda richiesta alla formazione di Letta.
Tabella 9 Obiettivi ottimali in base all’elettorato del partito: Partito Democratico
Il quadro, però, mostra alcuni cambiamenti una volta considerata la percezione del PD e della leadership di Enrico Letta, attraverso la credibilità del partito su vari obiettivi (Tabella 10). Pur non con differenze drastiche, balza all’occhio il depauperamento dei temi di sinistra economica una volta che la credibilità del PD su questi temi viene inserita nell’equazione. Infatti, se da un lato permane l’opposizione alla battaglia “di bandiera” del centrodestra (progressività fiscale, ovvero no flat tax), tuttavia la minore credibilità del PD su obiettivi economici di sinistra più radicali (e di cambiamento attivo piuttosto che di conservazione dello status quo) fa scomparire dalla lista salario minimo e lotta alle disuguaglianze di reddito. Ciò pare in linea con i trend storici di moderazione ideologica e progressiva trasformazione in “partiti pigliatutto” della socialdemocrazia europea, da anni ampiamente documentati in letteratura, dei quali una forma è la maggiore enfasi su temi non economici, prevalentemente postmaterialisti (e.g., Abou-Chadi e Wagner 2019). Sorprende, peraltro, l’assenza di temi valence da questo elenco, data proprio l’assodata natura del PD come “partito di governo”. Quello che rimane è quindi un’agenda, a livello di credibilità, sia di apertura socio-culturale su immigrazione (accoglienza, welfare, ius soli) e inclusione (inasprimento delle pene per la discriminazione di LGBTQ+); sia di conservazione dei tradizionali assetti istituzionali (elezione del Presidente della Repubblica in Parlamento) e internazionali (pro-UE, NATO e occidente, con conferma di sanzioni alla Russia e invio di armi all’Ucraina) dell’Italia.
È peraltro interessante notare come, su tutti questi temi,
il PD risulti il partito più credibile in assoluto nel nostro campione, con
distacchi dai secondi classificati sempre rilevanti (tra il 5% e l’11%). Insomma,
il quadro che emerge è chiaro: come nessun altro, il PD è il partito dello
status quo, tolte alcune aperture a livello di diritti, e da un punto di vista
strategico la sua agenda difficilmente può uscire da questi temi. Temi che
peraltro parlano anche a molti elettori in termini di credibilità, ma che sono
difficili da usare perché configurano quasi sempre il mantenimento della
situazione attuale, e quindi non configurano chiaramente un progetto di futuro.
Tabella 10 Obiettivi ottimali considerando anche la percezione di credibilità del partito: Partito Democratico
Alleanza Verdi-Sinistra: la prevalenza dei temi culturali
Nella Tabella 11 sono illustrati i dieci obiettivi tematici con il rendimento più elevato per l’Alleanza Verdi-Sinistra, che quindi rappresentano le domande più coerenti e elettoralmente produttive dell’elettorato di questa alleanza. In maniera sostanzialmente prevedibile, si tratta di un insieme di istanze legate a temi di sinistra su cui il partito gode di una sostanziale omogeneità interna. In tutti i casi infatti il consenso interno si aggira intorno al 90%, raggiungendo addirittura il 100% per aborto e difesa della progressività fiscale.
Si tratta di un mix di proposte di natura economica
(mantenere la progressività fiscale, riduzione delle differenze di reddito,
salario minimo) e culturali (aborto, eutanasia, no al nucleare, immigrazione),
che presentano un indice di rendimento particolarmente elevato, che, in certi casi
(progressività fiscale e aborto), raggiungono i valori massimi della scala dato
– oltre al forte consenso interno – l’ampio supporto nell’elettorato.
Tabella 11 Obiettivi ottimali in base all’elettorato del partito: Alleanza Verdi-Sinistra
La Tabella 12, come visto finora, integra invece la credibilità del partito nella selezione degli obiettivi ottimali. La situazione rimane sostanzialmente simile, tuttavia con qualche importante differenza. I risultati infatti evidenziano un forte posizionamento di sinistra del partito, con tutti e dieci i temi di nuovo tradizionalmente caratteristici di questa parte politica. L’aspetto più interessante è dato tuttavia dalla sopraggiunta prevalenza di obiettivi culturali (che diventano la netta maggioranza) rispetto a quelli economici. Temi come la protezione dell’ambiente (22%) lo ius scholae (16%) e la contrarietà alla riduzione all’accesso al welfare per gli immigrati (15%) costituiscono gli obiettivi in cui il partito risulta più credibile e quindi quelli che gli possono garantire una maggiore sostegno elettorale oltre la propria base. La credibilità di AVS (e quindi anche la sua capacità di allargare il proprio bacino di consensi) sembra dunque giocarsi prevalentemente su una dimensione culturale che economica.
Tabella 12 Obiettivi ottimali, considerando anche la percezione di credibilità del partito: Alleanza Verdi-Sinistra
Movimento Cinque Stelle: l’unico caso di dominio dei temi economici
Passando adesso ad esaminare il Movimento Cinque Stelle, la Tabella 13 presenta i dieci obiettivi tematici con il più alto potenziale per il partito pentastellato. A conferma di un processo di cambiamento nel proprio elettorato (che negli anni ha perso la sua parte di elettori che venivano dalla destra, confluiti in Lega e FdI), le domande dei potenziali elettori del partito guidato dall’ex Presidente del Consiglio Conte sono tutte su obiettivi tradizionalmente di sinistra, sia culturali che soprattutto economici. Tra quelli con un maggior potenziale di rendimento c’è ad esempio l’eutanasia (consenso nel partito al 89% e nell’elettorato al 86%), il salario minimo (89% nel partito e 84% nella società), la riduzione dell’età pensionabile (87% nel partito e 79% nella società) e il sostegno alla progressività fiscale (87% nel partito e 79% nell’elettorato). Ma a colpire c’è soprattutto la preponderanza di temi economici tra le domande che animano l’attuale elettorato M5S (6 obiettivi su 10, caso unico tra i partiti analizzati).
Tabella 13 – Obiettivi ottimali in base all’elettorato del partito: Movimento Cinque Stelle
Complessivamente, appare dunque una domanda politica coerentemente di sinistra in particolare sui temi economici, ma anche su quelli culturali. Vediamo adesso però se e come questa domanda viene intercettata e sfruttata con successo dall’offerta del M5S, vista attraverso la sua percezione di credibilità da parte degli elettori rispetto alle varie tematiche (Tabella 14).
Volendo, la considerazione anche della credibilità del M5S
spinge ancora più in alto gli obiettivi di tipo economico, che salgono alle
prime posizioni: in primis sostegno al reddito di cittadinanza (misura
minoritaria nel campione totale, ma un 40% è pur sempre appetibile) e introduzione
del salario minimo. La cosa non risulta certamente sorprendente: la difesa del
reddito di cittadinanza costituisce senza dubbio uno dei punti centrali del
programma M5S, principali sostenitori dell’introduzione della misura già dalla
campagna 2018. Lo stesso salario minimo è poi divenuto una misura cardine del
programma di Conte, che ne sosteneva l’introduzione anche durante l’esperienza
del Governo Draghi. Gli altri obiettivi includono battaglie storiche del
partito, come ad esempio il sostegno al superbonus e l’opposizione a nuove
centrali nucleari, e alcune tematiche legate ai diritti civili, come l’aborto e
l’inasprimento delle pene per chi commette discriminazioni anti-LGBTQ+.
Tabella 14 Obiettivi ottimali considerando anche la percezione di credibilità del partito: Movimento Cinque Stelle
Ulteriore aspetto particolarmente interessante è dato dalla
maggiore credibilità accordata al Movimento su alcune tematiche trasversali, come
il combattere la violenza sulle donne, la riduzione della povertà e il
garantire ai cittadini prezzi sostenibili di luce e gas. All’incirca un quinto
dell’elettorato infatti, ritiene che il Movimento sia particolarmente credibile
su questi temi, collocandolo primo tra le forze politiche per credibilità (come
nel caso della riduzione della povertà) o comunque tra le prime, a breve
distanza dalle altre. Si tratta di un aspetto, se letto insieme ai dati
relativi al reddito di cittadinanza e al salario minimo particolarmente
importante. La strategia del M5S di caratterizzarsi a sinistra, puntando sulla credibilità
su temi economici, potrebbe infatti spiegare la crescita osservata per questo
partito, visto che su questi temi il potenziale di credibilità per il M5S è
decisamente alto, quindi configurando una plausibile espansione. È dunque
possibile che questi temi acquisiscano ancora più centralità nella campagna
elettorale del M5S.
In conclusione: tra “polarizzazione indotta” e declino dei temi economici
(con l’eccezione del M5S)
Quale interpretazione complessiva dare, alla luce
dell’interpretazione complessiva del rapporto tra domanda e offerta di
obiettivi politici, che abbiamo visto per tutti i principali partiti? A nostro
parere gli aspetti principali sono due.
Il primo di essi è una sorta di “polarizzazione indotta”.
Polarizzazione nel senso che, diversamente dal passato, assistiamo a un ritorno
di destra e sinistra. I partiti italiani, quando usiamo la teoria della issue
yield per ricostruire la loro offerta programmatica ottimale, appaiono
infatti nel 2022 – con poche eccezioni – caratterizzati coerentemente in
termini di obiettivi di sinistra o di destra. Si tratta di una situazione nuova
rispetto al passato, che invece aveva visto partiti come Lega e M5S (in linea
con altri esempi internazionali) caratterizzati nel 2018 da obiettivi ottimali
in parte “misti”, e che erano stati alla base del loro successo elettorale.
Tuttavia si tratta di una polarizzazione indotta: perché se invece
guardiamo – per i singoli partiti – il passo precedente, ovvero le domande
espresse dai loro elettorati, si tratta di domande molto più miste e meno
polarizzanti; che configurerebbero alcuni temi consensuali con un supporto
ampio (prevalentemente con posizioni conservatrici sull’immigrazione, e
progressiste sull’economia).
Il secondo è, invece, il netto predominio dei temi culturali
rispetto a quelli economici. In modo per certi versi spiazzante (data la
difficile situazione economica, o forse proprio per questo), quasi tutti i
partiti appaiono avere una caratterizzazione prevalente su temi culturali
(su cui sembra avvenire il grosso dello scontro politico) piuttosto che su temi
economici. In questo senso l’eccezione più vistosa è quella dem Movimento 5
Stelle, che invece appare chiaramente trovare il cuore delle proprie risorse
competitive sui temi economici. Per certi versi, le difficoltà della situazione
economica potrebbero quindi offrire una chiave di lettura per la crescita
recente del M5S, a fronte di rapporti di forza tra gli altri schieramenti che
appaiono essenzialmente stabili rispetto agli ultimi mesi.
Riferimenti bibliografici
Abou-Chadi, Tarik e Markus Wagner. 2019. The Electoral Appeal of Party Strategies in Postindustrial Societies: When Can the Mainstream Left Succeed? The Journal of Politics, 2019 81:4, 1405-1419.
Dahl, Robert Alan. 1971. Polyarchy: Participation and Opposition. New Haven; London: Yale University Press.
D’Alimonte, Roberto, Lorenzo De Sio, e Mark N. Franklin. 2019. «From
issues to goals: a novel conceptualization, measurement and research design for
comprehensive analysis of electoral competition». West European Politics.
De Sio, Lorenzo, e Till Weber. 2014. «Issue Yield: A Model of Party
Strategy in Multidimensional Space». American Political Science Review
108(04): 870–85.
———. 2020. «Issue yield, campaign communication, and electoral performance: a six-country comparative analysis». West European Politics 43(3): 720–45.
Kitschelt, Herbert. 1994. The Transformation of European Social Democracy. Cambridge Studies in Comparative Politics. Cambridge: Cambridge University Press.
Immagine: “Uomo con una zappa” di Jean-François Millet. Nel racconto “Le tre domande”, Lev Tolstoj narra di un imperatore che ottiene da un uomo con una zappa la risposta a tre domande esistenziali.
E’ ormai imminente (domenica 3 e lunedì 4 ottobre) l’inizio di un’importante tornata di elezioni amministrative. 1192 comuni al voto, di cui 119 con popolazione superiore ai 15 mila abitanti (oltre alle elezioni regionali in Calabria, e alle elezioni comunali in altre regioni nelle settimane successive), per un totale di oltre 12 milioni di cittadini interessati dal voto.
Il significato più importante di ciascuna di queste elezioni è ovviamente locale; tuttavia, come sempre, è e sarà inevitabile leggere queste elezioni anche come test politico, cercando un possibile denominatore comune tra i risultati che emergeranno nelle varie città. Da questo punto di vista, la rilevanza di questo test è particolare almeno per due motivi.
Perché sono elezioni importanti
Il primo è che si tratta delle prime elezioni amministrative dopo la nascita del governo Draghi, che ha introdotto un’insieme di tensioni all’interno del sistema partitico: da un lato costringendo a collaborare al governo partiti di orientamenti politici nettamente diversi tra loro; dall’altro, evocando disegni di ristrutturazione del sistema attraverso la formazione di un possibile soggetto politico centrista (un ipotetico “partito per Draghi”, di cui molto si parla ma in cui il diretto interessato ovviamente non ha alcun coinvolgimento) destinato secondo i suoi promotori a un ruolo pivotale in un sistema partitico non più bipolare.
Il secondo motivo è che si tratta di elezioni che cadono ormai a ridosso dell’elezione (all’inizio del nuovo anno) del Presidente della Repubblica. Un buon risultato di alcuni partiti alle amministrative (Fratelli d’Italia in primis, ma non solo) potrebbe spingerli a puntare con forza verso elezioni anticipate per capitalizzare il clima di opinione favorevole (considerando peraltro che l’attuale Parlamento è stato eletto in un’epoca in cui il M5S aveva il 33%, Forza Italia il 14, FdI appena il 5, e in cui i parlamentari del Pd furono scelti dall’allora segretario Matteo Renzi). E la prospettiva di puntare al voto anticipato avrà un’influenza decisiva sulle scelte di voto per il Capo dello Stato.
Tre domande
Di qui dunque la rilevanza di queste elezioni. Ma come valutare il risultato? In termini generali appaiono rilevanti tre domande principali. (Per dati specifici e un’analisi completa dell’offerta politica, vedi l’analisi che pubblicheremo qui sul sito Cise tra poche ore).
1. Quanto influirà il cambiamento di strategia del centrosinistra? Premesso che il confronto più rigoroso che andrà effettuato è quello con le precedenti amministrative negli stessi comuni, ovvero quelle del 2016, va osservato che in quella tornata Il Pd si trovava in una stagione politica totalmente diversa. Sotto la leadership di Matteo Renzi, dopo le europee del 2014 il Pd aveva adottato una strategia chiaramente centrista: con provvedimenti come il Jobs Act e la Buona Scuola, e scegliendo di correre alle amministrative senza la sinistra e con candidati che puntavano al centro. Scelta che portò però a una grave difficoltà del centrosinistra, con un netto peggioramento rispetto alla tornata del 2011. La situazione di oggi è nettamente diversa. Le leadership di Zingaretti e Letta hanno segnato una discontinuità in questo senso: da un lato ritornando a costruire candidature locali con profili che puntano più chiaramente a un bacino elettorale di centrosinistra; dall’altro, puntando anche a cercare di includere lo stesso Movimento 5 stelle, che – dopo aver perso dopo il 2018 (nei sondaggi) circa metà dei suoi voti, soprattutto verso Lega e FdI – si trova oggi con una base elettorale più caratterizzata verso centrosinistra. In alcuni casi questo ha portato addirittura a candidati comuni; in altri casi andrà visto se e quanto gli elettori M5s convergeranno sui candidati di centrosinistra (al primo o al secondo turno). Ecco quindi la prima domanda. Questo cambiamento di strategia (a fronte invece di un centrodestra quasi sempre unito, come in passato) produrrà una maggiore competitività del centrosinistra rispetto al 2016?
2. I candidati delle due coalizioni principali che performance avranno? Un secondo aspetto importante è relativo alla capacità delle coalizioni di presentare candidati di qualità e di prestigio, in grado di intercettare anche un voto di opinione esterno ai loro partiti. In questo senso, centrosinistra e centrodestra appaiono oggi in una posizione leggermente diversa. Il centrosinistra (nella sua accezione allargata, ovvero includendo il M5s o comunque puntando anche agli elettori di quel partito) presenta non solo una componente “popolare”, ma anche un partito come il Pd che vanta una buona capacità di relazionarsi con le classi dirigenti (casomai è stato proprio accusato di essere un “partito delle élite”); di qui l’attesa che il profilo dei candidati di centrosinistra (alcuni esempi sono l’ex manager – e sindaco – Sala a Milano, ma anche l’ex ministro Gualtieri a Roma o l’ex rettore Manfredi a Napoli) potrebbe essere in grado di catturare il voto di opinione meno legato ai partiti. Al contrario, il centrodestra si trova in una fase molto delicata: la progressiva eclissi della leadership di Berlusconi e di Forza Italia (con un ruolo chiave nel coinvolgere la società civile) ha fatto sì che ormai le forze trainanti nel centrodestra siano la Lega e Fratelli d’Italia. Partiti con tratti di radicalismo: ben capaci di mobilitare un consenso di massa, ma con più problemi a relazionarsi con le classi dirigenti (locali e nazionali: si tratta di un aspetto stigmatizzato ad esempio dalle recenti prese di posizione di Giancarlo Giorgetti nella Lega), quindi con più difficoltà nell’attrarre candidature di prestigio e appeal trasversale. Questo aspetto emergerà nei risultati del voto?
3. Tornerà un bipolarismo centrodestra-centrosinistra nelle elezioni locali? L’ultima questione è relativa alla struttura della competizione. Come è noto, la legge elettorale per i comuni è maggioritaria a due turni: produce quindi un esito bipolare, ma questo non impedisce che nelle diverse città siano diversi poli ad affermarsi. In passato il Movimento 5 stelle riuscì senza difficoltà ad arrivare ai ballottaggi, e addirittura ad eleggere importanti sindaci. In questa tornata, i sondaggi nelle città più importanti (nonché la minore forza del M5s, passato dal 33% del voto del 2018 – primo partito – a circa la metà nei sondaggi più recenti) hanno indicato che difficilmente i candidati del M5s potranno anche solo arrivare al ballottaggio, salvo ovviamente sorprese. Questa previsione sarà confermata? (Lorazepam) In questo caso sarà importante capire se – a partire dal voto locale – si confermerà un ritorno di una struttura di competizione bipolare, in cui il grande terzo polo di questi anni – il M5s – viene ricondotto a prendere posizione (come peraltro emerso chiaramente nella strategia di Giuseppe Conte) all’interno di una dinamica nuovamente bipolare tra centrodestra e centrosinistra.
Tre domande, quindi, cui avremo prime risposte tra pochi giorni, e che ci daranno indicazioni importanti sull’evoluzione del nostro sistema politico.
Riferimenti bibliografici
De Sio, L., 2016. «I voti che non arrivano e il dilemma di Renzi». In Cosa succede in città? Le elezioni comunali 2016, Roma: Centro Italiano Studi Elettorali, 173–77.
A new book edited by Lorenzo De Sio and Romain Lachat has been just published by Routledge; information is available here.
The book presents the results of the Issue Competition Comparative Project (ICCP) (data and documentation is openly accessible and available free of charge through the ICCP and GESIS websites), which analysed six elections in six important European countries (Austria, France, Germany, Italy, Netherlands, and UK) between 2017 and 2018 through a focus on post-ideological issue competition, leveraging a fresh theoretical perspective – and innovative data collection and analysis methods – emerging from issue yield theory.
The contributors to this volume cast a new light on electoral developments that have affected Western Europe in recent years, pointing to the key distinction between problem-solvers (parties and leaders that leverage their technocratic competence, and present a consensual, win-win view of contemporary transformations) and conflict mobilizers (that instead invest on the mobilization of conflict emerging from these transformations), as well as to the ability of some actors to mobilize voters across traditional ideological boundaries. In this light, parties commonly identified as “populist” simply emerge distinctively as cross-ideological conflict mobilizers; but mainstream parties appear vital and competitive as well, when they properly identify and leverage their issue advantages. Thus, the fate of democracy in Western Europe does not appear doomed to a triumph of populist appeals, but rather openly depending on the ability of political parties to leverage issue opportunities that emerge from societal demands and needs. (https://www.utahfoodbank.org)
The chapters in this book were originally published as a special issue of West European Politics.
È di poche ore fa la notizia della scomparsa di Hans
Schadee. A chi non fa parte della comunità dei sociologi e politologi
quantitativi italiani forse questo nome non dirà granché. Tuttavia si tratta di
un nome che invito tutti i lettori di questo sito – politici, giornalisti, studenti,
semplici cittadini interessati all’analisi delle elezioni – a ricordare, d’ora
in avanti. Perché, banalmente, Hans è stato all’origine della diffusione in
Italia (e ne è rimasto un punto di riferimento per decenni) degli strumenti avanzati
di analisi quantitativa al servizio delle scienze sociali, in particolare (ma
non solo) per le analisi dei comportamenti di voto.
Dai racconti che ho sentito negli anni, Henri Mari Adam “Hans”
Schadee (con la c dura, e l’accento sulla prima delle due “e”) fu “scoperto” a
una Summer School all’università di Essex, in cui insegnava, a metà degli anni ’70,
da un drappello di giovani italiani tra cui Roberto D’Alimonte e Piergiorgio
Corbetta. Fu Corbetta a convincerlo a venire in Italia (nella Bologna del ’77!),
intuendo che le sue grandi competenze e la sua grande generosità avrebbero potuto
dare tantissimo alle scienze sociali in Italia, allora ancora lontane da un uso
sistematico di tecniche quantitative avanzate.
E così fu. Nel lavoro di ricerca con l’Istituto Cattaneo Hans
fu protagonista sia della fase basata su dati ecologici territoriali (con la
sistematizzazione, già all’inizio degli anni 80, delle tecniche di stima dei
flussi elettorali: ancora oggi quasi tutte le stime che vedete in giro basate
su dati di sezione si basano sui modelli sviluppati da Hans con Piergiorgio
Corbetta) che della successiva svolta verso i dati di survey, sfociata poi nelle
ricerche degli anni ’90 che portarono, all’inizio del Duemila, alla nascita del
consorzio interuniversitario Itanes: la palestra dove si sono formate decine di
giovani ricercatori nel campo dell’analisi dei comportamenti di voto, che oggi
lavorano in tantissime università italiane. Quindi si può dire che Hans, attraverso
Itanes e nella sua lunga attività nel dottorato di ricerca all’Università di Trento,
ha dato un contributo fortissimo a far sì che la sociologia e la scienza
politica italiana oggi non abbiano niente da invidiare a quelle degli altri
paesi nella capacità di usare metodi quantitativi avanzati. E scorrendo oggi il
profluvio di analisi quantitative prodotte dagli studiosi italiani di
comportamenti di voto, è quasi impossibile trovare qualcuno la cui formazione
non sia riconducibile in qualche modo all’insegnamento di Hans.
Per parte mia, io ebbi la fortuna e il privilegio di conoscerlo
quando Roberto D’Alimonte, di fronte a una mia proposta di tesi su nuove tecniche
quantitative particolarmente ostiche riguardo ai flussi elettorali, capì che la
migliore scelta come correlatore non poteva che essere Hans. Fu lì che conobbi questo
studioso di immense conoscenze, e mi resi conto che sotto un’apparenza a volte
ruvida in realtà nascondeva un’inaspettata gentilezza e soprattutto un’immensa
generosità. Fu bello poi, negli anni di Itanes, crescere fino a potersi confrontare
con franchezza con Hans sui temi più disparati (dalla politica italiana a intricate
discussioni sulla multidimensionalità nei modelli spaziali di voto), e trovare
anche lo spazio per scrivere qualche piccola cosa insieme, ovviamente sui
flussi elettorali.
Ci lascia un grande studioso che ha dato tanto all’accademia
italiana; e un uomo gentile e generoso.
Nelle ore immediatamente successive alla chiusura delle urne negli Stati Uniti, lo scorso 3 novembre, non è stato possibile attribuire subito la vittoria al candidato democratico Joe Biden né escludere a strettissimo giro una riconferma del Presidente uscente Donald J. Trump. Questa situazione, in parte inedita, ha fatto scattare in poche ore l’ennesimo processo ai sondaggi di opinione, giudicati ancora una volta fallimentari, soprattutto alla luce del fatto che non si era materializzata la prevista “ondata blu” a favore di Biden e dei Democratici. Prudenza avrebbe voluto, in realtà, che si aspettasse il sedimentarsi del risultato effettivo. A maggior ragione in una elezione come questa in cui, già prima dell’apertura delle urne, si attendeva un numero molto consistente di voti postali, i cui risultati sarebbero arrivati in coda allo scrutinio ufficiale. Ecco perché il momento migliore per valutare in maniera ponderata l’accuratezza dei sondaggi è adesso, con risultati praticamente definitivi.
Sondaggi della vigilia vs. risultati effettivi
Iniziamo, dunque, dal prendere visione dei dati, sintetizzati nella tabella qui di seguito (Tabella 1). Essi si riferiscono ai 17 Stati americani considerati “battleground”, cioè “contendibili”, dal sito RealClearPolitics. Questa testata ha elaborato una media dei principali sondaggi della vigilia, indicata per ogni Stato nella prima colonna da sinistra. Nella seconda colonna è indicata invece la differenza effettiva tra i voti ricevuti in ogni Stato da Biden e quelli ricevuti da Trump. Nella terza e ultima colonna, poi, è indicata la differenza tra i sondaggi e i risultati effettivi. Tale differenza può essere considerata all’interno del margine di errore dei sondaggi quando è uguale o inferiore a 3,1% (per semplicità, visto che questo è il margine di errore tipico di un sondaggio con 1000 intervistati; a voler essere precisi, non direttamente applicabile a queste “medie di sondaggi”, né a sondaggi con diverso numero di intervistati). In fondo alla tabella, infine, è presentato il dato nazionale.
Per semplificare la lettura sono evidenziati in giallo tutti i casi in cui la distanza tra sondaggio e risultato effettivo è stata superiore al normale margine di errore (in 7 Stati sui 17 considerati), in rosso invece gli errori più macroscopici (superiori al 6%).
Tab. 1 – Media sondaggi e risultati effettivi delle elezioni presidenziali USA. Fonte: RealClearPolitics
Cosa emerge? Sui 17 Stati considerati, in 15 casi i sondaggi hanno previsto correttamente l’assegnazione dello Stato al candidato Presidente, sbagliando dunque solo in due casi.
A livello nazionale, infine, i sondaggi prevedevano un distacco di 7,2 punti a favore di Biden; allo stato attuale del conteggio, il distacco è di 3,4 punti, meno della metà. La differenza, anche in questo caso, è di poco superiore al margine di errore normalmente considerato.
In definitiva, i sondaggi ci hanno preso oppure no? Potremmo rispondere “sostanzialmente sì”, se oltre ai numeri nudi e crudi consideriamo anche altri fattori.
I limiti di tutti i campioni dei sondaggi
Iniziamo da una precisazione sul concetto di “margine di errore”. A rigore applicare i “margini di errore” previsti dalla teoria statistica agli attuali sondaggi, negli Stati Uniti e non solo, non sarebbe possibile. Per applicare il margine di errore che abbiamo considerato, cioè il 3% circa per i sondaggi con 1.000 o più intervistati, infatti, il campione dovrebbe essere “probabilistico”: a essere intervistati ai fini del sondaggio dovrebbero essere soltanto individui estratti in modo casuale dall’intera popolazione di riferimento. Nella realtà, però, intervistare effettivamente le “prime scelte” del campione sarebbe impossibile o troppo costoso. Anzitutto, perché elenchi del tutto esaustivi degli elettori e dei loro recapiti non esistono o sono troppo costosi da realizzare. Poi, perché può capitare che una persona estratta sia tecnicamente – anche solo momentaneamente – irraggiungibile. Di conseguenza i sondaggisti la sostituiranno con una persona “simile”. Così facendo, però, viene compromessa la costruzione probabilistica del campione, e il margine di errore effettivo diventa di fatto sconosciuto. Alla luce di questo punto, in realtà dovremmo rovesciare le nostre considerazioni: con campioni non probabilistici, il fatto che i risultati effettivi delle elezioni rientrino quasi sempre nel margine di errore è paradossalmente un piccolo miracolo (!) e segna un punto a favore dei sondaggisti.
Le polemiche sull’“ondata blu”
Ma c’è stata o no l’“ondata blu”? Parliamone. Riportando la maggioranza assoluta dei voti, cioè superando il 50% dei consensi, Biden è risultato il candidato più votato della storia americana con 78,2 milioni di voti raccolti. Inoltre, Biden ha aumentato i suoi voti non facendo solo riferimento al proprio tradizionale elettorato concentrato nei Blue States (riconquistando tre Stati persi da Hillary Clinton nel 2016), ma addirittura strappando alcuni stati (Georgia e Arizona) che erano repubblicani da molti anni. Il risultato, in base allo stato attuale dello scrutinio, potrebbero essere addirittura 306 voti elettorali: se fosse così, sarebbe un risultato addirittura superiore a quello di Trump nel 2016, che aveva vinto 304 a 227 contro Hillary. Certamente, l’idea di una “ondata blu” di cui si era parlato alla vigilia suggeriva anche un successo ancora più netto dei democratici, con la possibilità di riconquistare il controllo del Senato (questione, comunque, attualmente appesa ai ballottaggi che ci saranno tra alcune settimane in Georgia). Tuttavia, con un risultato come quello che si è andato definendo in queste ore è difficile sostenere che la vittoria di Biden non sia stata chiara e inequivocabile, e su questo decisamente in linea con le previsioni della vigilia (ricordiamo che per Nate Silver, alla vigilia del 3 novembre, il candidato democratico aveva l’89% di possibilità di farcela).
Il fattore mobilitazione in America
C’è però una domanda legittima che potrebbe sorgere dalla lettura dei sondaggi di cui abbiamo parlato finora: passi per il margine di errore, passi pure per la vittoria inequivocabile di Biden, ma perché quasi tutti i sondaggi della vigilia tendevano a “sbagliare” in una direzione favorevole al candidato democratico? Per rispondere occorre considerare come il fattore “mobilitazione” degli elettori possa influenzare il risultato di una qualsiasi elezione, e come questo possa accadere in particolar modo negli Stati Uniti contemporanei. Già prima del voto, commentando i risultati di un nostro sondaggio (https://open.luiss.it/2020/10/29/non-saranno-strategie-basate-su-temi-concreti-ad-aiutare-trump-ecco-perche/) avevamo suggerito che di fronte al netto predominio di Biden sui vari temi di interesse dell’opinione pubblica, un eventuale successo inferiore alle aspettative o addirittura una vittoria di Trump avrebbero dovuto essere imputati a dinamiche legate alla mobilitazione elettorale. Il perché è presto spiegato: i sondaggi scattano un’istantanea dell’opinione pubblica, ma poi bisogna vedere quanti elettori dei due campi avversi vanno effettivamente a votare e quanti invece alla fine per vari motivi rinunciano. Le varie cronache arrivate dagli Stati Uniti ci hanno confermato che questo è stato uno dei fattori fondamentali: il campo di Trump, soprattutto negli ultimi giorni, si è mobilitato con forza per cercare di portare più elettori possibili al voto. Trump, che nel 2016 ottenne 62,9 milioni di voti, stavolta è riuscito a conquistare 72,8 milioni di elettori, quasi 10 milioni di voti in più rispetto a 4 anni fa: di fatto un’“ondata rossa” che ha tentato di contrastare e fermare una possibile “ondata blu”. Tuttavia, anche a fronte di questa ondata rossa, Biden è riuscito a mobilitare un’ondata ancora più ampia: aumentando di 12,4 milioni di voti il bottino dei Democratici rispetto al 2016 e, quindi, incrementando ulteriormente da 2,9 a 5,4 milioni di voti il distacco sullo sfidante repubblicano nel voto popolare. È in queste dinamiche che si cela il motivo principale delle differenze tra sondaggi e risultato finale. Nel momento in cui milioni e milioni di persone in più rispetto alle attese si recano alle urne, soprattutto persone con livelli di istruzione più bassa e in alcuni casi anche americani di origine ispanica, si palesa con maggior evidenza l’indiscutibile difficoltà dei sondaggisti contemporanei di intercettare alcuni gruppi demografici. Un limite su cui occorrerà necessariamente lavorare, anche ampliando campioni di intervistati, in alcuni casi sottodimensionati per Stati americani così combattuti e allo stesso tempo potenzialmente decisivi per l’assegnazione della Casa Bianca.