Autore: Lorenzo De Sio

  • Dietro la sfida di Wilders: l’Olanda come caso studio di competizione sulle issues

    Dietro la sfida di Wilders: l’Olanda come caso studio di competizione sulle issues

    Lorenzo De Sio

    (Traduzione in italiano di Cristiano Gatti)

    Mancano ormai poche ore al voto in Olanda, che peraltro si svolge in un clima caratterizzato da una duplice tensione: tensione per i timori di un’affermazione del populista di destra Geert Wilders, e tensione diplomatica tra l’Olanda (e altri paesi europei) e la Turchia. Tuttavia, il nostro sguardo non può che essere di tipo analitico, alla ricerca di come le tensioni legate al voto olandese si inscrivano in tendenze più generali, e possano essere lette in modo efficace usando delle specifiche lenti teoriche. È così che presentiamo i primi risultati di una ricerca sull’Olanda: la prima di una serie che coprirà anche Francia, Germania, e infine l’Italia nel 2018.

    Il quadro della ricerca

    In generale, i sistemi partitici in tutto l’Occidente appaiono sempre di più messi alla prova. Dopo che gli anni Novanta e Duemila hanno visto la prevalenza di una competizione tra due partiti o due blocchi di partiti mainstream con politiche relativamente simili e moderate, gli ultimi anni hanno visto la comparsa inedita di partiti (e leader) sfidanti e di successo, con esempi sia a destra (Donald Trump, l’UKIP, il Front National) che a sinistra (Bernie Sanders, SYRIZA, Podemos, Jeremy Corbyn e Benoît Hamon). Tali nuovi, sfidanti partiti e leader condividono, invece, una attenzione conflittuale su un set relativamente ridotto di temi di policy controversi che si sono dimostrati di successo dal punto di vista elettorale.

    L’avvento di questa nuova epoca nella competizione partitica presenta una sfida, non solo per i professionisti e gli opinionisti ma persino per le attuali teorie della competizione partitica. A questo proposito, noi crediamo che uno specifico focus su specifici temi, e su come essi sono strategicamente usati per la competizione partitica, potrebbe essere una delle chiavi per capire le dinamiche sottostanti alla competizione partitica in questi tempi turbolenti. In particolare, ciò che noi ipotizziamo è che attori nuovi e sfidanti potrebbero avere successo semplicemente perché, a differenza dei vecchi partiti mainstream, rinunciano a sviluppare sistemi ideologici onnicomprensivi ed esaustivi, ma piuttosto si focalizzano su un set relativamente ristretto di temi che può offrire un potenziale elettorale rilevante, ed evitano con cura di prendere posizione su altri temi che potrebbero alienare la simpatia di molti elettori potenziali.

    In breve questa posizione proviene dalla teoria della issue yield, che è stata recentemente usata per analizzare il ruolo dell’integrazione europea nelle elezioni del Parlamento europeo del 2014 (che spiega efficacemente l’apparente paradosso della duratura e relativamente scarsa importanza del tema Europa, combinata con il successo elettorale dei partiti anti-europei). Per vedere in che misura tale teoria (e il suo focus su specifici e ristretti “pacchetti di temi” proposti dai partiti) è capace di far luce sull’evoluzione dei sistemi partitici in Europa, noi, al CISE, abbiamo deciso di intraprendere uno studio comparato sulla competizione sui temi in diversi paesi nei quali si terranno le elezioni generali nel 2017 e nel 2018. L’elenco programmato al momento include Olanda, Francia, Germania e Italia, che già costituiscono un campione rilevante di paesi europei. In ciascun paese, noi intendiamo svolgere un sondaggio panel CAWI in due ondate, prima e dopo le elezioni, abbinato a un monitoraggio sistematico di Twitter e l’analisi della comunicazione ufficiale prodotta dai partiti politici e dai leader. L’idea è di mappare sia le opportunità offerte dai vari temi disponibili per la strategia del partito, sia l’abilità di tali partiti di sfruttare queste opportunità enfatizzando i temi sui quali essi hanno un alto rendimento.

    La ricerca sull’Olanda nel 2017

    Il sondaggio CAWI è stato condotto da Demetra srl, Italia, su rispondenti web reclutati in Olanda, Le interviste sono state realizzate tra il 27 febbraio e il 7 marzo 2017 su un campione quota (N=1000) di cittadini olandesi maggiori di 18 anni. Le quote sono state predeterminate per: combinazioni di età e sesso, livello di istruzione e provenienza geografica. Alcuni dei risultati mostrati sono anche basati su ponderazione aggiuntiva in base al ricordo del voto passato.

    Di conseguenza, prima delle imminenti elezioni generali olandesi, che avranno luogo il 15 marzo, noi abbiamo realizzato un sondaggio CAWI (Computer-Assisted Web Interview) sulla popolazione olandese in età di voto, con lo scopo di ricostruire la configurazione dell’opinione pubblica olandese su una varietà di aspetti che riguardano i temi principali discussi durante la campagna. In particolare, il questionario (oltre le classiche domande utilizzate nella ricerca sul comportamento di voto) chiedeva agli intervistati di scegliere tra obiettivi di policy concorrenti; di selezionare quali partiti ritenevano credibili nel perseguire gli obiettivi selezionati; quali partiti ritenevano credibili nel perseguire obiettivi generali, condivisi dall’intera popolazione (per esempio la protezione dal terrorismo); e infine il livello di priorità che assegnavano a specifici obiettivi di policy.

    Ora noi presentiamo su questo sito i primi risultati dell’analisi di questi dati. Naturalmente queste analisi non sono fatte per catturare la complessità della campagna politica in questa elezione olandese (cosa che ci si potrebbe difficilmente attendere da osservatori non olandesi, anche se aiutati da esperti olandesi); piuttosto, noi vogliamo testare se il framework analitico offerto dalla issue yield theory è capace di dare un senso (in un modo relativamente parsimonioso) alle complesse dinamiche della competizione partitica, specialmente nel difficile caso dell’intensa competizione multi-partitica dell’Olanda, e in un contesto internazionale di radicali sfide agli equilibri dei precedenti sistemi partitici. Di conseguenza, noi presentiamo le analisi esplorando le seguenti domande di ricerca:

    1. Quali sono le opportunità offerte dai vari temi più attrattivi dal punto di vista elettorale in base allo stato attuale dell’opinione pubblica olandese (e quali partiti sono nella posizione migliore per sfruttarle)? Esiste un qualche consenso condiviso riguardo una generica “Agenda olandese”? Questo corrisponde a uno specifico (forse di destra) Zeitgeist, oppure ci sono, piuttosto, una serie di (forse ancora non sfruttate) opportunità offerte da temi di sinistra? Queste domande sono esaminate in un articolo con Vincenzo Emanuele e Mathilde van Ditmars.
    2. Agli intervistati olandesi è stato chiesto di valutare la credibilità dei diversi partiti nel raggiungere obiettivi specifici. Quali sono gli schemi di tali valutazioni di credibilità? Sono semplicemente guidati dalle affiliazioni partitiche oppure gli intervistati si sentono liberi anche di considerare gli altri partiti credibili? Ci sono partiti che nel complesso sono percepiti come più credibili? Questa e altre domande sono esaminate con Aldo Paparo e Mathilde van Ditmars.
    3. Infine, la domanda forse più rilevante dal punto di vista politico: qual è la combinazione ottimale delle opportunità offerte dai vari temi per ciascun partito? Quali sono i temi che possiamo aspettarci siano enfatizzati (e quali evitati) da ciascun partito? Questa domanda finale è esaminata con Nicola Maggini e Mathilde van Ditmars.

    Questo è certamente solo l’inizio, pochi giorni prima dell’elezione, dell’esplorazione e dell’analisi di questi dati, che saranno anche sviluppati in pubblicazioni scientifiche, e – cosa più importante – in comparazione con i risultati che proverranno da sondaggi analoghi in Francia, Germania e Italia.

     

  • The Dutch Parliamentary election of 2017: a case study of issue competition

    The Dutch Parliamentary election of 2017: a case study of issue competition

    Lorenzo De Sio

    Party systems across the Western world appear increasingly challenged. After the 1990s and 2000s saw the prevalence of a two-bloc (or two-party) competition by mainstream parties with relatively similar, moderate policies, recent years have seen an unprecedented emergence of successful challenger parties (and leaders), with examples both on the right-wing (e.g. Donald Trump, the UKIP, the Front National) and on the left wing (e.g. Bernie Sanders, SYRIZA, Podemos, Jeremy Corbyn and Benoît Hamon). Such new, challenger parties and leaders share instead a conflictual emphasis on a relatively small set of controversial policy issues that have proved electorally successful.

    The emergence of this new age in party competition presents a challenge, not only to practitioners and commentators, but even to existing theories of party competition. In this regard, we believe that a specific focus on specific issues, and how they are strategically used for party competition, might be one of the keys for understanding the underlying dynamics of party competition in these turbulent times. In particular, what we hypothesize is that new, challenger actors might be successful simply because, unlike older mainstream parties, they refrain from developing all-encompassing, comprehensive ideological frameworks, but rather focus on a relatively narrow set of issues which can offer a relevant electoral potential, and carefully avoid taking positions on other issues which could alienate the sympathy of many potential voters.

    This in short a position derived from issue yield theory, which has recently been used for analyzing the role of the EU integration issue in the 2014 EP elections (successfully explaining the apparent paradox of an enduring, relatively low importance of the EU issue, combined with the electoral success of anti-EU parties). In order to see to what extent such theory (and its focus on the specific, narrow “issue packages” proposed by parties) is able to cast a light on the evolution of party systems in Europe, we at CISE decided to embark in a comparative study of issue competition in several countries that will hold general elections in 2017 and 2018. The planned list currently includes the Netherlands, France, Germany and Italy, which already constitute a relevant sample of EU countries. In each country we plan to conduct a two-wave, pre- and post-electoral CAWI panel survey, coupled with a systematic Twitter monitoring and analysis of the official communication produced by political parties and leaders. The idea is to map both the issue opportunities available for party strategy, and the ability of such parties to exploit these opportunities by emphasizing the issues over which they have a high issue yield.

    The CAWI survey has been conducted by Demetra srl, Italy, on Web respondents recruited in the Netherlands. Interviews have been fielded between 27 February and 7 March 2017 on a quota sample (N=1000) of Dutch citizens above 18. Quotas have been predetermined on: age/sex combinations, level of education, and geographical region. Some of the results shown are also based on an additional weighting by past vote recall.

    As a result, ahead of the upcoming Dutch general election, to be held on the 15 March, we fielded a CAWI (Computer-Assisted Web Interview) survey over the Dutch voting age population, with the aim of reconstructing the Dutch public opinion configuration on a variety of aspects concerning the main issues discussed during the campaign. In particular, the questionnaire (beyond classic questions employed in voting behaviour research) asked respondents to choose among rival policy goals; to select which parties they would deem credible for achieving the selected goal; which parties they would deem credible for achieving general goals, shared by the whole population (e.g. protection from terrorism); and finally the level of priority they would assign to particular policy goals.

    We now present on this website the first results of analyzing these data. Of course these analyses are not meant to capture the complexity of the political campaign in this Dutch election (which could hardly be expected from non-Dutch observers, although helped by Dutch country experts); rather, we want to test whether the analytical framework offered by issue yield theory is able to make sense (in a relatively parsimonious way) of the complex dynamics of party competition, especially in the difficult case of the intense multi-party competition of the Netherlands, and in an international context of radical challenges to previous party system equilibria. As a result, we present analyses exploring the following research questions:

    1. What are the most electorally attractive issue opportunities according to the current state of the Dutch public opinion (and what parties are in the best position to exploit them)? is there any shared consensus over a general “Dutch agenda”? Does it correspond to a specific (perhaps right-wing) Zeitgeist, or there are rather also a number of (perhaps yet unexploited) left-wing issue opportunities? These questions are explored in an article with Vincenzo Emanuele and Mathilde van Ditmars.
    2. Dutch respondents were asked to assess the credibility of different parties in achieving specific goals. What are the patterns of such credibility assessments? Are they simply driven by party affiliations, or do respondents feel free to also deem other parties credible? Are there any parties that are overall perceived as more credbile? This and other questions are explored with Aldo Paparo and Mathilde van Ditmars.
    3. Finally, perhaps the politically most relevant question: what is the optimal combination of issue opportunities for each party? What are the issues that can be expected to be emphasized (and which to be avoided) by each party? This final question is explored with Nicola Maggini and Mathilde van Ditmars.

    This is of course only the beginning, few days before the election, of the exploration and analysis of these data, which will also be developed in scientific publications, and – most importantly – in comparison with the results that will come from analogous surveys in France, Germany and Italy.

     

  • The risks and opportunities of Europe: How issue yield explains (non-)reactions to the financial crisis

    Lorenzo De Sio, Mark N. Franklin, Till Weber, The risks and opportunities of Europe: How issue yield explains (non-)reactions to the financial crisis, Electoral Studies, Volume 44, December 2016, Pages 483-491, ISSN 0261-3794.

    The financial crisis subjected the EU to its first truly serious stress test. A majority of citizens is now opposed to further integration. But party systems have barely adjusted, instead perpetuating traditional patterns of an evasive mainstream with Euroskeptic fringes. To explain this unexpected outcome we draw on issue yield (De Sio and Weber, 2014), a general model of political competition that unites public opinion, party unity and electoral support. Issue yield highlights how the crisis affected risks and opportunities differently for pro- and anti-integration parties. For such an asymmetric constellation, the model predicts the muffled choices supplied by most parties on EU matters. We use the European Election Studies 2009/2014 and the Chapel Hill Expert Surveys 2010/2014 to document these patterns.
    Keywords: Agenda setting; European integration; Party competition; Public opinion

  • Il referendum: un esperimento di proiezione in tempo reale

    Il referendum: un esperimento di proiezione in tempo reale

    Gli eventi elettorali recenti (il referendum Brexit; la vittoria di Trump) hanno testimoniato un fenomeno che è sempre più rilevante nelle recenti elezioni: la presenza di un gap informativo nelle prime ore dopo la chiusura dei seggi. Con l’afflusso dei primi risultati da alcune città, emerge una situazione di incertezza: in particolare quando i risultati provengono da zone con una specifica tradizione politica, così che il risultato parziale dello scrutinio nazionale non è rappresentativo di quello che sarà il risultato finale. Questo spesso produce una profonda incertezza, con effetti rilevanti non solo sull’opinione pubblica e sulle reazioni dei politici, ma anche (ben più rilevanti) in termini di turbolenze sui mercati finanziari. Solo con la progressiva stabilizzazione dei risultati ufficiali (di solito, molte ore più tardi) l’incertezza diminuisce.

    Con l’avvicinarsi del referendum costituzionale (e con qualche turbolenza sui mercati finanziari già visibile, in reazione alle incertezze sui risultati del referendum) abbiamo ritenuto, al CISE, di fare uno sforzo per cercare di ridurre questo gap informativo nelle poche ore tra l’afflusso dei primi risultati e la stabilizzazione dello scrutinio finale.

    Di conseguenza, abbiamo deciso di costruire un esperimento di “nowcasting” (proiezione, previsione in tempo reale), presentando delle proiezioni sui risultati finali – sulla base del progressivo afflusso di risultati locali – i cui risultati saranno immediatamente disponibili (e aggiornati) in tempo reale sul sito del CISE durante la notte del referendum (probabilmente 30-45 minuti dopo la chiusura dei seggi, anche se la facilità del processo di conteggio per il referendum potrebbe permettere un afflusso precedente di primi risultati). Si tratta di una procedura sperimentale che non abbiamo testato finora su risultati elettorali effettivi, e il cui scopo principale è quello di raccogliere dati per le applicazioni future, e di mostrare problemi e difficoltà specifiche.

    Il nostro esperimento si basa su assunti relativamente semplici, e la struttura dell’algoritmo lo è altrettanto (anche se il suo sviluppo e implementazione ha presentato un alto livello di complessità).

    L’intuizione fondamentale alla base del nostro approccio è che i dati di sondaggio – raccolti prima delle elezioni – consentono di formulare previsioni anche a livello locale. Questo è possibile ricorrendo non tanto ai risultati complessivi del sondaggio in termini di percentuali per il SI e per il NO (che hanno inevitabili problemi di affidabilità – vista la presenza di distorsioni campionarie rilevanti), quanto a un elemento informativo più complesso: la matrice di flusso che collega le precedenti scelte di voto degli intervistati (sia per le politiche 2013 che perle europee 2014) alla loro intenzione di voto al referendum. In altre parole, si usa l’ultimo sondaggio CISE (condotto poche settimane prima delle elezioni) per stimare le scelte referendarie degli elettori che avevano votato per i diversi partiti nelle elezioni passate. Applicando questa matrice di flusso ai risultati elettorali effettivi a livello comunale, siamo in grado di formulare una aspettativa sul risultato del referendum in ciascuno dei circa 8000 comuni italiani.

    Quest’operazione si basa su due presupposti: 1) che la scelta passata di voto sia un buon predittore della scelta di voto referendaria; 2) che la stima della matrice di flusso non sia estremamente distorta dai problemi di distorsione campionaria. La prima ipotesi sembra ragionevole per questo particolare referendum, che è stato fortemente politicizzato sulla figura di Matteo Renzi; la prima appare complessivamente tutto sommato applicabile, in quanto le relazioni bivariate (come ad esempio una matrice di flusso) sono meno influenzate dalle distorsioni campionarie rispetto ai semplici risultati sulla scelta di voto referendaria. In aggiunta, un terzo assunto implicito è che non siano avvenuti drammatici riallineamenti delle scelte degli elettorati dei vari partiti nelle ultime settimane di campagna.
    Una volta che queste aspettative a livello locale sono formulate prima del giorno del referendum (aspettative che prevedono, ovviamente, a livello nazionale, una vittoria del NO con il 54%, rispecchiando i risultati del sondaggio condotto poche settimane prima delle elezioni), la procedura è pronta per raccogliere i primi risultati quando affluiranno dai comuni. Con l’arrivo dei primi risultati a livello comunale, ciascuno di essi viene confrontato con la previsione preelettorale, producendo così un vettore di correzione che identifica l’errore della previsione preelettorale rispetto al risultato effettivo, e quindi quantifica la correzione necessaria. Con l’arrivo di più comuni, questi vettori di correzione comunali vengono poi combinati in un vettore di correzione nazionale (o anche a livello regionale), che viene applicato a tutte le previsioni pre-elettorali per tutti i comuni ancora mancanti. Il risultato è una stima del risultato nazionale. In un certo senso, la procedura di cui sopra è semplicemente una applicazione sistematica del ragionamento elementare che sia i politici che osservatori fanno quando arrivano i primi risultati: “se hanno perso in uno dei loro collegi elettorali più forti, questo non suona bene per il risultato nazionale”.
    Com’è ovvio, questa procedura è inevitabilmente vulnerabile alla specificità dei fenomeni locali. Specialmente quando il numero di comuni è relativamente piccolo, c’è il forte rischio di generalizzare a tutto il paese un errore di previsione che potrebbe essere il risultato di specifiche dinamiche locali. Se, per esempio, il risultato in uno dei primi comuni è stato realizzato con una campagna referendaria molto aggressiva ed efficace, questo potrebbe essere erroneamente proiettato a livello nazionale. Stimare questi errori (e la sensibilità dell’algoritmo a questi problemi) è precisamente uno degli obiettivi di questo esperimento: valutare la misura in cui tali distorsioni locali possono essere trattate, o meglio, se tali distorsioni sono così forti che il modello di previsione è ancora peggiore dello scrutinio vero e proprio. Inoltre, questo esperimento consentirà la raccolta di una grande quantità di dati sulla distribuzione geografica della sequenza di afflusso dei risultati effettivi. Tutte queste informazioni permetteranno di migliorare il modello in vista delle future elezioni.

    Le stime in tempo reale, in diretta, prodotte dal modello di previsione saranno disponibili sul sito del CISE a partire da domenica 4 novembre, poco dopo la chiusura dei seggi (23:00 ora italiana).

  • The Italian constitutional reform referendum: a “nowcasting” experiment

    The Italian constitutional reform referendum: a “nowcasting” experiment

    Recent electoral events (the Brexit referendum; Trump’s victory) have testified a phenomenon that is increasingly relevant in recent elections: the presence of an information gap in the first hours after the end of the scrutiny. As first results start to flow in from specific local areas, uncertainty emerges. This is especially true when results come from areas with a particularly specific political tradition, so that the partial scrutiny is not representative of what might be the final result. This often produces a deep uncertainty, with relevant effects not only on public opinion and politicians’ reactions, but also (an perhaps more relevantly) in terms of turbulence on financial markets. Only as results of the official scrutiny start to stabilize (usually, many hours later) uncertainty decreases.

    With the Italian constitutional referendum approaching (and with some turbulence on financial markets already emerging in reaction to uncertainty over the referendum results) we wondered, at CISE, about making an effort at reducing this information gap in the few hours between the inflow of the first results and the stabilization of the final count.

    As a result, we decided to set up a “nowcasting” experiment, presenting forecasts about the final results – based on the inflow of local results – whose results will be immediately available (and updated) in real time on the CISE website during the referendum night (likely 30-45 minutes after polls close, although the ease of the counting process for a referendum might allow an earlier inflow of first results). It is an experimental procedure that we did not test on actual election results, and whose main aim is to collect data for future applications, and to show problems and challenges.

    Our experiment is based on simple assumptions, and the structure of the algorithm is relatively simple (although its development and implementation presented several challenges).

    The fundamental intuition behind our approach is that poll data – collected before the election – allow to formulate predictions even at the local level. This is not done using the actual poll results (which are only relatively reliable – relatively, given all the biases that affect polls – at the national level), but rather by resorting to a more complex piece of information: the flow matrix relating vote choice in the last elections (both the 2013 general election and the 2014 European election) to vote intention in the referendum. In other words, we use the last CISE poll (conducted few weeks before the election) to estimate the referendum choices of voters that had voted for different parties in past elections. By applying this flow matrix to previous electoral results at the local level, we are able to formulate a referendum vote expectation at the local level. This of course rests on two assumptions: 1) that past vote choice is a good predictor of referendum choice; 2) that the estimation of the flow matrix is not affected by dramatic biases. The first assumption appears reasonable for this particular referendum, which was heavily politicized on the figure of Matteo Renzi; the second appears applicable, as bivariate relationships (such as a flow matrix) are less affected by sample bias than the sheer referendum results.

    Once all these local level pre-referendum predictions are made (which obviously predict at the national level a 54% victory of the NO, mirroring the results of the poll conducted few weeks before the election), the procedure is ready for accepting the first results that flow in from local areas. As first local areas report results, each result is compared with the pre-electoral prediction, thus producing a correction vector that identifies how the poll-based local prediction was off, compared to the actual results. Correction vectors from local areas are then averaged together, and the final averaged correction is applied to the pre-electoral predictions for all local areas where actual results are not yet available. As a result, a national estimate is obtained.

    In a way, the above procedure is simply a systematized application of the elementary reasoning that both politicians and observers perform when looking at first results, which might be exemplified by a typical sentence: “if they lost in one of their strongest constituencies, this doesn’t sound good for the national result”.

    As obvious, such procedure is inevitably vulnerable to the specificity of local phenomena. Especially when the number of local areas is relatively small, there is the strong risk of generalizing to the whole country an error of prediction which might be the result of specific local dynamics. If, for example, the result in one of the first cities was produced by a very aggressive and successful referendum campaign, this might be incorrectly projected at the national level. This is precisely one of the goals of this experiment: to assess the extent to which such local biases can be dealt with, or rather whether such biases are so strong that the prediction model is even worse than the actual referendum scrutiny. Also, this experiment will allow the collection of a large amount of data about the geographical pattern in the inflow of actual results. All this information will allow us to improve the model towards future elections.

    The live real-time estimations produced by the forecasting model will be available on the CISE website on Sunday, Nov 4, shortly after polls close (11 PM Italian time).

     

  • I voti che non arrivano e il dilemma di Renzi

    I voti che non arrivano e il dilemma di Renzi

    di Lorenzo De Sio

    E così, eclissata da notizie politicamente ben più rilevanti che giungono da Oltremanica, si è conclusa questa tornata di elezioni amministrative. Un risultato senza dubbio complesso da decifrare, ma da cui si possono trarre alcune indicazioni chiave riguardo alle strategie nazionali dei vari partiti, soprattutto riguardo al futuro.

    Partiamo dagli elementi chiave del risultato. A mio parere questi si possono sintetizzare come segue:

    1. Torino
      Flussi 2011-2016: Torino

      L’affermazione del Movimento 5 Stelle. Nel confronto fondamentale con le amministrative del 2011, l’affermazione del M5S si conferma come reale e strutturale. Non si è trattato di una effimera fiammata di antipolitica nelle strane elezioni del 2013 (dovuta magari agli errori di Bersani): si tratta ormai di una presenza strutturale della politica italiana. Il M5S fu il primo partito alle politiche del 2013; in queste amministrative si conferma come un partito che, da solo – senza dover costruire alleanze con miriadi di liste civiche – è in grado di arrivare sistematicamente ai ballottaggi in molte città.

      Bologna
      Bologna

      Ma soprattutto, una volta arrivato ai ballottaggi, gode di un vantaggio sistematico dovuto a una capacità di penetrazione trasversale nell’elettorato, che non si ferma di fronte a confini ideologici. Le analisi di flusso mostrano infatti che il M5S vanta consistenti flussi di voto tanto dal centrosinistra (soprattutto nel primo turno: emblematico il caso di Torino) quanto dal centrodestra (soprattutto nel secondo turno).

    2. La difficoltà del Pd. In termini di città governate, il Pd vede un netto peggioramento rispetto al 2011.

      circos_na
      Napoli

      I flussi evidenziano che le difficoltà del Pd vengono, essenzialmente, dall’incapacità di compensare con nuovi acquisti al centro e a destra le perdite subite nell’elettorato di centrosinistra. Al di là delle situazioni locali, infatti, i flussi nelle principali città mostrano che i candidati Pd, già al primo turno, quasi ovunque acquistano elettori tra chi aveva votato centrodestra cinque anni prima; ma al tempo stesso ne perdono molti di più verso il M5S (in alcuni casi in modo davvero massiccio, come a Torino) e verso l’astensione.

      Milano
      Milano

      E’ importante sottolineare la strutturalità di questo dato, che vediamo in tutte le quattro grandi città che abbiamo analizzato (Milano, Torino, Bologna e Napoli). Anche nel caso di Milano, che viene spesso indicato come caso di successo, diverso dalle altre città: anche qui, la sostituzione di elettori di sinistra con elettori di centro-destra (a saldo finale negativo), che avevamo etichettato – nel caso di Torino – come “mutazione genetica” è chiaramente presente.

    3. La sostanziale inadeguatezza dell’offerta politica di sinistra radicale, che in nessun caso (tranne che in alcune sfide locali molto specifiche) riesce a intercettare gli elettori delusi dal Pd, che si dirigono piuttosto verso il M5S o verso l’astensione.
    4. La non scomparsa (!) del centrodestra, che – nonostante l’assenza di una forte leadership nazionale e una certa sofferenza verso la ricollocazione più moderata del Pd, cui spesso cede voti (vedi punto 2) – si mostra, quando è unito, decisamente competitivo, a testimonianza della presenza di un blocco di elettori di centrodestra capace di mobilitarsi in presenza di una coalizione unita e con buone candidature.

    Alla luce di questi risultati, si possono fare alcune considerazioni relative alle strategie di competizione dei principali partiti, e ai loro esiti. La prima di queste è relativa ovviamente alla strategia del Pd. Come è noto, l’obiettivo strategico di Renzi fin dall’inizio della sua avventura politica è stato quello di espandere il Pd fuori dall’area tradizionale di centrosinistra, alla ricerca di elettori moderati. Va tuttavia detto a questo si può arrivare con due strategie alternative.

    La prima è una classica strategia posizionale (in parte riconducibile all’approccio utilizzato da Tony Blair venti anni fa all’epoca della “terza via”): assumere posizioni più moderate per attrarre elettori dal centro-destra, mettendo in conto di perdere qualche elettore di sinistra. La seconda invece è una strategia di tipo ecumenico, fondata sulla propria credibilità nel raggiungere obiettivi trasversali che stanno a cuore all’intero elettorato (es. la crescita economica, il rinnovamento della politica, ecc.). Il punto è che Renzi storicamente ha alternato le due strategie, con risultati diversi. In particolare la campagna delle europee 2014 non solo cadeva in un momento di “luna di miele”, a pochi mesi dal suo insediamento (ma fu un insediamento non elettorale, e molto controverso), ma soprattutto fu caratterizzata da una strategia chiaramente ecumenica. Renzi fece leva sulla sua credibilità nel rinnovare la politica (la rottamazione), nel dare più spazio alle donne, nel difendere l’Italia in Europa, e nel poter rimettere in moto l’economia. Tutti temi su cui era ritenuto molto più credibile del M5S e del centrodestra, e che fruttarono il clamoroso risultato del 2014, in cui Renzi riuscì a realizzare il sogno di ogni politico: guadagnare voti nel campo avversario senza perdere i propri.

    Il problema è che dopo le europee Renzi ha abbandonato questa strategia, per perseguire invece una più classica strategia posizionale. In parte ciò era inevitabile, dovendo affrontare questioni controverse (il Jobs Act, la riforma della scuola, la legge elettorale, la riforma costituzionale), ma al tempo stesso l’impressione è che tutte queste questioni, più che come problemi da risolvere pragmaticamente (e su cui far valere la propria credibilità apartisan), siano state presentate come vere e proprie rese dei conti, con l’idea spesso di ri-attizzare vecchie divisioni (o in qualche caso di inventarle, come quella tra “veri” e “falsi” partigiani), ipotizzando che questa capacità di sconfiggere e ridicolizzare gli avversari fosse destinata a produrre dividendi elettorali.

    Già le elezioni regionali del 2015, disputate in questa nuova fase, avevano mostrato che questa strategia posizionale aveva senza dubbio prodotto una smobilitazione tra gli elettori più di sinistra (come tutto sommato atteso), ma tuttavia senza sfondare nel centrodestra. Gli apporti di elettori moderati erano stati minimi, e non avevano compensato le perdite a sinistra. E qui siamo all’oggi, perché queste parole si rivedono perfettamente nelle matrici di flusso di oggi, sia nelle città vinte che in quelle perse dal Pd. E lo si vede anche nel fatto che il centrodestra – dato ripetutamente per scomparso con il tramonto della leadership di Berlusconi – è in realtà vivo e vegeto. E qui si osserva il primo limite della strategia posizionale: l’idea – collocandosi più al centro – di rendere marginale il centrodestra, rendendo al tempo stesso non necessaria la sinistra radicale. Ebbene, questa idea sembra ormai scontrarsi sistematicamente con il problema dei voti di centrodestra che non arrivano, se non in misura marginale e non sufficiente a compensare quelli persi a sinistra. Si tratta di un dato che si era visto già alle regionali dell’anno scorso: la scarsa disponibilità dell’elettorato di centrodestra a votare per Renzi, nonostante le sue politiche (dalla riforma della scuola, al Jobs Act, all’abolizione della Tasi per tutte le prime case) abbiano mostrato abbondanti segnali di attenzione verso questo elettorato.

    Virginia_Raggi_-_Festival_Economia_2016Ma c’è un secondo limite di questa strategia posizionale: è dovuto al fatto che – ovviamente – la semplificazione della politica su un asse sinistra-destra sarà utile sul piano analitico, ma non esprime completamente la struttura attuale della competizione tra partiti. E lo si vede chiaramente dal successo trasversale del M5s. Un successo che per molti aspetti deriva dai problemi di Renzi. In parte, la strategia posizionale di Renzi (non solo in termini comunicativi, ma di misure prese) ha scontentato molti a sinistra, che a questo giro hanno premiato il M5S. In parte, non si può non notare che in alcuni ambiti la credibilità di Renzi sugli obiettivi trasversali è scesa molto. Emblematico il caso del rinnovamento della politica: su questo tema Renzi nel 2014 insidiava da vicino il M5s come partito più credibile; oggi i dati delle indagini CISE ci dicono che c’è una distanza abissale. Evidentemente l’opinione pubblica percepisce che alla rottamazione di un ceto politico non è corrisposta una rottamazione delle pratiche concrete della politica. In questo senso va sottolineato che il punto di forza del M5S è nell’aver mantenuto una forte connotazione su alcuni temi specifici, evitando attentamente le questioni ideologicamente più controverse. Di qui la sua capacità di ottenere voti in modo trasversale. Infine, va sottolineata la capacità del M5S di catturare voti a sinistra (a confronto con la perdurante marginalità della sinistra radicale). In questo senso probabilmente a fare premio è la sua capacità di innovazione trasversale (il M5S combina in modo originale temi classici della sinistra con temi trasversali e altri temi addirittura conservatori), ma soprattutto la sua forza elettorale data ormai per acquisita, e che lo fa ormai considerare come un concorrente naturale per i ballottaggi e per la vittoria finale. Questo senza dubbio dà la sensazione di un voto non sprecato, diversamente da quello alla sinistra radicale (tranne quei rari casi in cui quest’ultima è competitiva). Un problema simile a quello che spesso affligge il centrodestra: competitivo quando è unito, ma marginalizzato quando si presenta diviso.

    E veniamo quindi alle conclusioni, in termini di aspetti da monitorare nei prossimi mesi. Il primo è senza dubbio come evolverà la strategia di Renzi, e come verrà risolto il dilemma tra strategia posizionale e ecumenica. Se Renzi insisterà in una strategia posizionale, in cui conflitti e divisioni vengono addirittura alimentati, o se invece cercherà di recuperare l’approccio usato in passato, magari puntando a recuperare credibilità proprio sul tema del rinnovamento della politica, su cui oggi è in posizione più debole rispetto al passato, e forse dedicandosi con maggiore attenzione alla propria base di centrosinistra. Il secondo è relativo al M5S. Il M5S per motivi strutturali deve utilizzare una strategia ecumenica; tuttavia sconta ancora un deficit di credibilità, ad esempio sui temi economici. E’ probabile che la stessa amministrazione di grandi città potrebbe avere un effetto su quest’ultima. Infine rimane ovviamente la grande incognita, cioè le strategie del centrodestra. Il risultato ci mostra che il centrodestra è vivo e vegeto, ma l’impressione è che non possa recuperare la centralità del passato con una leadership radicale. Il problema è che la ricostruzione di un profilo moderato e trasversale del centrodestra richiede la soluzione della questione della leadership, che per adesso appare di là da venire in tempi rapidi.

  • Il Renzi che vince e il Renzi che “non vince”

    Il Renzi che vince e il Renzi che “non vince”

    di Lorenzo De Sio

    Le elezioni europee dell’anno scorso ci avevano mostrato con chiarezza il Renzi che vince. Le regionali di pochi giorni fa mostrano un risultato diverso. Nonostante un centrodestra in crisi di leadership e progetto politico ormai da anni, e molto frammentato nella maggior parte delle regioni al voto, il Pd in alcuni casi (Liguria, Veneto, Umbria) ha perso clamorosamente o è andato vicinissimo a una sconfitta inaspettata; in altri, ha faticato molto per affermarsi, e spesso vi è riuscito quasi solo grazie alla frammentazione degli avversari. Perdendo quasi ovunque molti punti percentuali anche rispetto alle precedenti regionali, e perdendo ovunque molti voti assoluti, in un contesto di grande aumento dell’astensione. Insomma, non sembra esattamente una vittoria. Forse sarebbe esagerato paragonarla alla “non vittoria” di Bersani del 2013. Oltretutto si tratta di elezioni locali in cui non era in gioco direttamente Renzi, in cui hanno contato le personalità e le storie politiche dei candidati, nonché la capacità del centrodestra di avere candidati credibili. Tuttavia è impossibile nascondere che non si tratta di un risultato positivo per il Pd di Renzi.

    E quindi, da dove viene questo risultato? A mio parere è necessaria una riflessione che vada oltre le “attenuanti generiche” che abbiamo visto poc’anzi, per entrare nello specifico delle strategie di competizione. Esiste una differenza tra il Renzi che vince e il Renzi che “non vince”, o è solo il frutto del caso?

    Come conquistare il voto moderato? Due strategie

    Il problema di fondo che Renzi si è trovato di fronte dall’inizio è abbastanza semplice. Si tratta di partire da un partito (e da un elettorato) di centrosinistra, per riuscire poi a catturare una quota aggiuntiva di elettori più moderati, arrivando quindi a rappresentare una vera maggioranza del paese, riuscendo quindi a costruire un partito stabilmente competitivo sul piano elettorale, e in grado di governare in modo efficace.

    Per ottenere questo risultato, le strategie possibili (e alternative) sono essenzialmente due:

    1)      La prima è di spostare il baricentro politico-ideologico del partito, rendendolo più moderato. Questa strategia mette in conto di poter perdere voti a sinistra (e magari di subire una piccola scissione), perché parte dal presupposto che ci sia un ampio bacino di elettori moderati, disponibili a lasciare il loro schieramento per abbracciare un Pd più moderato, e quindi in grado non solo di compensare le perdite a sinistra, ma magari di fornire addirittura anche un surplus di voti. Si tratta della classica strategia “posizionale” teorizzata ormai oltre cinquant’anni fa da Anthony Downs nella sua Teoria economica della democrazia (1957), e che molti riconoscono attuata con successo, ad esempio, da Tony Blair con il suo progetto del New Labour (ma su questo si potrebbe discutere a lungo).

    2)      La seconda è invece quella che potremmo definire una strategia di tipo “ecumenico”, basata sulla competenza. Si tratta di scegliere un piccolo pacchetto di temi che stanno a cuore a tutti gli elettori (sia di centrosinistra che di centrodestra) su cui il partito o candidato è in grado di presentarsi semplicemente come più competente, senza considerazioni ideologiche. Un candidato che abbia le carte in regola per attuare questa strategia può compiere il piccolo miracolo di conquistare elettori moderati senza perdere i suoi elettori di partenza. [pull_quote_right]Reagan nel 1980 e Obama nel 2008: due candidati decisamente radicali (per niente “centristi”) che tuttavia riportarono vittorie molto ampie [/pull_quote_right]Si tratta della strategia cosiddetta della valence politics, descritta e teorizzata anch’essa oltre cinquant’anni fa da Donald Stokes (1963). Stokes partiva dall’esempio storico dell’elezione di Ike Eisenhower del 1952, ma esempi simili sono chiaramente quelli di Reagan nel 1980 e Obama nel 2008: due candidati decisamente radicali (per niente “centristi”) che tuttavia riportarono vittorie molto ampie proprio grazie a questa strategia (vedi De Sio 2011).

    Renzi 1 contro Renzi 2

    Ora, a mio parere non è difficile vedere che Renzi ha cambiato strategia tra le europee dell’anno scorso e le ultime regionali.

    Nei mesi che precedettero le europee, Renzi evitò accuratamente qualunque tema che potesse evocare divisioni ideologiche. Respinse la richiesta di Alfano di affrontare il tema dell’articolo 18 (l’avrebbe fatto dopo le elezioni); si adoperò per una misura come quella degli 80 euro, destinata a beneficiare una platea abbastanza vasta e trasversale (non solo di elettori di sinistra), ma soprattutto insistette moltissimo su temi trasversali come la capacità di rimettere in moto l’economia, di dare più spazio alle donne nella politica e nella società, di far valere maggiormente gli interessi dell’Italia in Europa. Temi che per definizione non sono né di sinistra né di destra, su cui Renzi poteva rivendicare (anche data la virtuale assenza di leader avversari) una maggiore credibilità, e che sono emersi, dalle analisi, come determinanti per il suo grande successo alle europee.

    Il contrasto con quanto avvenuto dopo le europee è abbastanza forte. Coerentemente con quella che alcuni commentatori hanno identificato come l’idea del “Partito della Nazione”, Renzi è di fatto passato dalla precedente strategia “ecumenica” a una strategia chiaramente posizionale (la prima che abbiamo visto poc’anzi). [pull_quote_left]Renzi è di fatto passato dalla precedente strategia “ecumenica” a una strategia chiaramente posizionale[/pull_quote_left]Ha iniziato a costruire un profilo valoriale (se non ideologico) più nettamente moderato, cercando (e poi esibendo) una chiara rottura con i sindacati; senza temere (anzi lasciando intendere che non sarebbe stato un problema) una potenziale scissione a sinistra; e rispondendo in maniera dura anche alla protesta degli insegnanti.

    Ovviamente la politica è più complicata dei modelli teorici. In molte delle scelte del premier c’è semplicemente il fatto che iniziare a prendere dei provvedimenti comporta inevitabilmente delle divisioni. E non si possono tacere le responsabilità della minoranza interna del Pd, che sembra non aver mai voluto né riconoscere la legittimità della leadership di Renzi (la cui affermazione alle primarie, va ricordato, non sarebbe stata possibile senza l’enorme serie di errori e fallimenti della leadership precedente), né avviare un confronto pragmatico con Renzi sulle cose concrete da fare. Tuttavia a mio parere molte delle scelte di Renzi sono state chiaramente simboliche, volte a mostrare agli elettori moderati che il Pd non aveva paura né dei sindacati né degli insegnanti, e quindi ad accreditarlo presso gli elettori moderati.

    Il test delle regionali

    Il punto, e qui veniamo forse al motivo della “non vittoria”, è che questi voti moderati non sembrano essere arrivati. Emblematico è il caso di Raffaella Paita in Liguria (con alcune similitudini con quello di Alessandra Moretti in Veneto). La Paita era praticamente un modello perfetto della strategia posizionale del “Partito della Nazione”: rottura a sinistra per cercare il voto moderato. Una candidatura nata infatti con l’invito esplicito agli elettori di centrodestra a venire a votare alle primarie (peraltro molto controverse e punteggiate da sospetti di irregolarità), e poi suggellata dalla nascita di un altro candidato a sinistra, accreditando quindi chiaramente il profilo moderato della Paita. Un test perfetto per la strategia posizionale; un test che tuttavia sembra essere fallito miseramente. Non solo la sua candidatura non ha sfondato nel centrodestra (gli elettori moderati sono rimasti compattamente nel centrodestra nonostante la debolezza della candidatura di Toti), ma sembra aver in parte smobilitato l’elettorato di centrosinistra, che in misura significativa sembra essersi astenuto (non ritenendo credibile neanche la candidatura di Pastorino).

    Gli altri candidati presidenti, pur a volte presentandosi senza la sinistra radicale (come nel caso di Rossi), hanno mantenuto identità più in linea con l’eredità tradizionale del centrosinistra, e adottato strategie “ecumeniche” basate sulla competenza. Vale per Rossi, Emiliano, Ceriscioli, e per lo stesso De Luca (molto discusso, ma che al tempo stesso gode di un consenso praticamente plebiscitario nella Salerno che ha governato per anni): tutti candidati che hanno ottenuto buone affermazioni, pur in un contesto generale di aumento dell’astensione e di calo del Pd.

    Che fare?

    Di conseguenza, l’impressione è che queste elezioni abbiano mostrato un dato inaspettato (anche per molti analisti): la scarsa disponibilità degli elettori di centrodestra a votare il Pd, anche quando quest’ultimo si presenta con un volto decisamente più moderato, facendo una corte serrata proprio a questi elettori. Ovviamente nessuno è in grado di dire quanto questo problema sia relativo ai singoli candidati, e quanto in realtà Renzi, in un voto nazionale, avrebbe invece la capacità di sfondare davvero nel centrodestra, diversamente dai candidati presidente. Tuttavia per adesso sembra che gli elettorati di centrosinistra e centrodestra non siano così permeabili, e che di conseguenza forse Renzi potrebbe dover ritornare a una strategia di tipo “ecumenico” e cercare di non soffiare più sul fuoco delle divisioni a sinistra. Staremo a vedere.

    Riferimenti bibliografici

    De Sio, Lorenzo. 2011. Competizione E Spazio Politico. Le Elezioni Si Vincono Davvero Al Centro?. Bologna: Il Mulino.

    ———. 2014a. “Chi risolverà i problemi dell’Italia? Partiti, obiettivi e credibilità.” Dossier CISE Le Elezioni Europee 2014, 99.

    ———. 2014b. “Da dove viene la vittoria di Renzi?” Dossier CISE Le Elezioni Europee 2014, 171.

    Downs, Anthony. 1957. An Economic Theory of Democracy. New York,: Harper.

    Stokes, Donald E. 1963. “Spatial Models of Party Competition.” American Political Science Review 57: 368–77.

     

  • Da dove viene la vittoria di Renzi?

    Da dove viene la vittoria di Renzi?

    di Lorenzo De Sio

    Da dove viene la vittoria di Renzi? La maggior parte dei commenti e delle analisi che si sono succeduti nei giorni successivi al risultato delle ultime elezioni si è concentrata essenzialmente sulla descrizione del successo del Pd: sulle sue caratteristiche di interclassismo, sulla capacità di sfondare al Nord (e soprattutto al Nord-Est, finora tallone d’Achille del centrosinistra), eccetera. Nulla tuttavia sulle possibili cause di questo successo. Com’è stato possibile che un partito che un anno fa aveva il 25% oggi abbia oltre il 40%, e per di più in elezioni tradizionalmente favorevoli ai partiti antisistema, come sono le elezioni europee? E’ cambiata la leadership, d’accordo. Ma cos’è esattamente, tra le varie caratteristiche che differenziano il Pd di Renzi da quello di Bersani, che ha fatto la differenza?

    Due strategie possibili

    Tenterò qui di proporre un’ipotesi di spiegazione basata su qualche argomento teorico e su alcuni dati: precisamente i dati dell’indagine campionaria CISE “Temi, leader e priorità”, svolta in modalità CAWI (ovvero con interviste Web[1]) nella prima settimana del maggio scorso.

    L’argomento teorico è abbastanza semplice. I partiti e i leader, per cercare di vincere le elezioni, possono cercare di ricorrere, in sintesi, a due tipi diversi di strategia.

    1) la prima strategia è di focalizzarsi su temi che dividono l’elettorato. Si sceglie un tema su cui esistono posizioni sia favorevoli che contrarie (ad esempio, i matrimoni gay, oppure l’idea di tagliare i servizi pubblici per abbassare le tasse, ecc.) e si sceglie di parlare di quello, propagandando con forza la posizione del partito per attrarre nuovi elettori. In genere i partiti scelgono un tema che soddisfi tre condizioni: a) che gli elettori del partito siano più o meno tutti d’accordo sulla posizione del partito; b) che al di fuori del partito quella posizione sia condivisa anche da altri elettori, creando quindi il potenziale per un guadagno elettorale: c) che non ci siano altri partiti importanti che giocano su quello stesso tema (De Sio 2010; De Sio e Weber 2011). In base a questo modello è possibile identificare i temi più favorevoli a ciascun partito. Ad esempio, per un partito come la Lega temi con queste caratteristiche sono, in base ai dati della nostra indagine, il rendere l’immigrazione più restrittiva, e il welfare meno accessibile agli immigrati; per il M5s sono il tagliare le spese per gli F35 e adottare un diverso modello di sviluppo; per il Pd sono il rimanere nell’Euro e il redistribuire il reddito a favore dei più deboli; per Fi, l’idea per cui la lotta all’evasione fiscale deve venire dopo l’abbassamento delle tasse.

    2) Esiste poi una strategia alternativa. Focalizzarsi invece su alcune questioni su cui l’elettorato è quasi completamente unito, che quindi sono ormai essenzialmente considerati come dei problemi da risolvere. Esempi tipici sono il riuscire a rimettere in moto l’economia, creando posti di lavoro; rinnovare la politica tagliandone i costi; riuscire a difendere con più forza gli interessi italiani in Europa. Su questi temi i partiti non hanno ovviamente diverse posizioni (chi non sarebbe d’accordo?): tuttavia non tutti hanno la stessa credibilità nel poterli affrontare. Di conseguenza questi temi, detti tecnicamente valence issues (Stokes 1963; Stokes 1992), portano a una competizione di tipo diverso, in cui i vari partiti si concentrano solo sui temi su cui ritengono di essere più credibili degli altri (De Sio 2011). Ovviamente il problema è che un partito può sfruttare questa strategia solo se, almeno su un tema, viene considerato più credibile degli altri.

    I dati: quali strategie erano possibili?

    Rispetto a queste due diverse strategie, vediamo quali risorse avevano a disposizione i vari partiti all’inizio della campagna elettorale, in base ai nostri dati. Riguardo alla strategia dei temi-chiave (strategia 1), si può dire che ogni partito avesse a disposizione alcuni temi-chiave in grado di portare un vantaggio simile, senza grosse differenze tra partiti: si tratta dei temi visti poco sopra. Solo Forza Italia appariva in una posizione di svantaggio, con il solo tema delle tasse in grado di essere sfruttato efficacemente. Riguardo invece alla seconda strategia (credibilità nel risolvere i problemi), avevo anticipato (in un post del 9 maggio) che le valutazioni di credibilità dei nostri intervistati erano notevolmente sbilanciate a favore del Pd. Rispetto a 17 problemi del nostro Paese, su cui avevamo chiesto agli intervistati quale partito fosse più credibile nel risolverli, in 10 casi il Pd era considerato nettamente più credibile degli altri (più di dieci punti di distacco sul secondo partito considerato più credibile). Il M5S era invece considerato il più credibile solo su tre problemi, e anche su questi era insidiato da vicino dal Pd.

    Tabella 1 – valutazioni di credibilità attribuite dagli intervistati ai vari partiti sui principali problemi dell’Italia
    Chi è più credibile per…

    Nessuno è davvero credibile (%)

    Partito più credibile (%)

    Secondo partito più credibile (%)

    Gap di credibilità tra primo e secondo partito (punti pct)

    (N)

    Temi favorevoli al Pd

    Dare più spazio alle donne nella politica e nella società

    36.9

    Pd

    35.2

    M5s

    10.3

    +25.0

    (1575)

    Far ripartire l’economia italiana

    46.1

    Pd

    28.6

    Fi

    10.0

    +18.6

    (1575)

    Rilanciare la scuola italiana

    47.5

    Pd

    26.7

    M5s

    8.3

    +18.4

    (1576)

    Far valere maggiormente gli interessi dell’Italia in Europa

    42.1

    Pd

    27.6

    M5s

    10.5

    +17.1

    (1576)

    Creare nuovi posti di lavoro

    49.6

    Pd

    24.2

    Fi

    9.9

    +14.2

    (1574)

    Pagare rapidamente i debiti dello Stato verso le imprese creditrici

    51.6

    Pd

    22.5

    M5s

    10.0

    +12.5

    (1576)

    Facilitare l’accesso al credito per cittadini e imprese

    46.8

    Pd

    23.3

    M5s

    12.1

    +11.2

    (1579)

    Semplificare la burocrazia

    41.5

    Pd

    26.7

    M5s

    15.6

    +11.1

    (1570)

    Spingere l’Europa a privilegiare la crescita economica, invece del rigore sui conti pubblici

    49.2

    Pd

    22.2

    M5s

    11.3

    +10.9

    (1576)

    Tutelare e valorizzare il patrimonio artistico e culturale

    53.7

    Pd

    19.8

    M5s

    9.4

    +10.5

    (1570)

    Temi favorevoli al M5s

    Ridurre i costi della politica

    39.0

    M5s

    26.8

    Pd

    22.1

    +4.7

    (1579)

    Rinnovare la classe politica

    39.2

    M5s

    26.6

    Pd

    23.7

    +3.0

    (1576)

    Combattere l’inquinamento e il dissesto del territorio

    51.4

    M5s

    14.8

    Sel

    14.3

    +0.6

    (1576)

    Ma la questione chiave emergeva sui problemi che stavano più a cuore agli intervistati: economia e lavoro (il 61% degli intervistati li considerava i più importanti, contro il 26% che dava priorità ai costi della politica). Su entrambi questi temi, il M5s era considerato addirittura al terzo posto, meno di Fi; e il gap tra Pd e Fi era di 14 punti (sul “creare nuovi posti di lavoro”) o addirittura quasi 19 punti (sul “far ripartire l’economia italiana”). Di conseguenza, sulle valutazioni di credibilità, il Pd appariva nettamente avvantaggiato. E in una misura che andava al di là del solo elettorato Pd.

    Già, ma come si costruisce la credibilità?

    Qui c’è un punto chiave, che a mio parere fa giustizia di tante polemiche sull’importanza della campagna elettorale, e sul fatto che il M5s abbia sbagliato o meno le scelte della campagna (vedi le polemiche su Hitler, ecc.). I dati mostrano in maniera molto chiara che le reputazioni di credibilità erano già strutturate in modo estremamente favorevole al Pd prima dell’entrata nel vivo della campagna elettorale. Il motivo è molto semplice: sappiamo ormai da molti anni che la campagna elettorale è di fatto permanente (Blumenthal 1980); tutto quello che si fa in politica contribuisce a creare una reputazione di credibilità ed efficacia.

    Da questo punto di vista forse la scarsa credibilità nel risolvere i problemi attribuita dagli intervistati al M5s viene da un po’ più lontano. Per lo meno dall’inizio della legislatura, mettendo insieme: l’atteggiamento poco costruttivo verso le altre forze in parlamento e il possibile governo Bersani (che ha suggerito che il M5s avesse come priorità quella di mantenere la propria purezza ideologica in chiave elettoralistica, piuttosto che di collaborare ad affrontare i problemi del paese); alcune prese di posizione ideologiche su alcuni temi chiave (arrivando a rifiutare la proposta Renzi di superamento del bicameralismo, di fatto semplicemente perché l’aveva proposta Renzi); infine l’attenzione quasi monopolistica ai temi della casta politica (che sono al primo posto solo per una minoranza di elettori), lasciando sempre più in secondo piano i temi del lavoro e dell’economia, su cui il M5s non aveva proposte convincenti.

    E specularmente si capisce il frenetico e ossessivo attivismo di Renzi (con picchi a volte francamente curiosi, come le riunioni di segreteria fissate alle 7.30 del mattino), teso fin dai primi giorni di segreteria (e poi di governo) a mostrare la propria capacità di fare la differenza con qualcosa di concreto: costruendo un accordo (pur criticabile) su legge elettorale e riforma del Senato; redistribuendo un po’ di reddito a favore dei meno abbienti (gli 80 euro); portando effettivamente qualche risultato concreto ad esempio sulla parità di genere, sia al governo che nelle liste elettorali (tema su cui, non a caso, la credibilità del Pd è valutata di 25 punti superiore al M5s). Un attivismo che, vedremo tra un attimo, ha pagato in termini elettorali.

    Ma essere credibili conta davvero per il voto?

    Tutto questo servirebbe a poco, tuttavia, se gli elettori non utilizzassero la credibilità per le loro scelte, votando magari in maniera ideologica o per altri motivi. Di conseguenza bisogna vedere quanto hanno contato queste valutazioni di credibilità negli orientamenti di voto. Per farlo è necessario condurre un’analisi statistica non proprio banale, ovvero la stima di un certo numero di modelli di regressione lineare, i cui risultati riporto qui in forma sintetica (Tabella 2). Si tratta, semplicemente, dell’uso di una tecnica che permette di valutare il peso relativo di diversi aspetti nell’influenzare la tendenza a votare per un certo partito.

    Tabella 2 – Peso di diversi fattori esplicativi sulla propensione a votare per un partito in generale, e per i vari partiti separatamente

    Modelli specifici

    Modello generale (tutti i partiti)

    Pd

    M5s

    Fi

    Caratteristiche sociodemografiche (zona geografica, dimensioni città, sesso, età, titolo di studio, condizione professionale)

    3%

    4%

    6%

    3%

    Ideologia (autocollocazione sinistra-destra) e senso di vicinanza a un partito

    30%

    32%

    31%

    49%

    Valutazioni di credibilità nel risolvere i problemi

    16%

    22%

    21%

    9%

    Posizioni su temi specifici

    1%

    4%

    2%

    3%

    Totale “spiegato” dal modello

    49%

    61%

    60%

    63%

    Nota: il modello è prudente (in senso pessimistico) nello stimare l’influenza delle valutazioni di credibilità, perché ipotizza che il senso di vicinanza a un partito sia causalmente antecedente alle valutazioni di credibilità, mentre alcuni test aggiuntivi (qui non riportati) suggeriscono il contrario.
    Nota 2: La variabile dipendente è la propensione di voto (PTV) a ciascun partito (scala 0-10); le percentuali riportate sono differenze di R-quadrato tra ciascun modello e il modello che include solo i blocchi di variabili precedenti, causalmente antecedenti.

    La tabella ci dice, in breve, che le valutazioni di credibilità hanno contato parecchio. Ma andiamo con ordine. La prima colonna riporta il modello generale, stimato mettendo insieme tutti i partiti (anche i piccoli). In questo caso il complesso delle variabili utilizzate permette di “predire” circa la metà (49%) delle tendenze dichiarate da ciascun intervistato a votare ciascun partito[2]. I punti chiave sono abbastanza semplici:

    1) anzitutto le caratteristiche socio-demografiche (come già noto da molti anni) ormai contano pochissimo per le scelte di voto (il 3% circa);

    2) gli orientamenti politici di lungo termine dei cittadini (posizione sull’asse sinistra-destra; senso di vicinanza a un partito) invece contano ancora come il fattore più importante (30%);

    3) la notizia fondamentale (e abbastanza inedita per l’Italia) è che le valutazioni di credibilità hanno contato per il 16%, cioè quasi la metà degli orientamenti politici di lungo termine. In un paese che per anni, dopo il muro di Berlino, è stato diviso dal muro di Arcore, si tratta di un dato senza dubbio nuovo;

    4) le posizioni su temi specifici divisivi (strategia 1 vista in precedenza) sembra abbiano avuto un’importanza marginale.

    E il dato ancora più interessante appare analizzando separatamente i tre principali partiti: la credibilità diventa ancora più importante per spiegare i punteggi (più alti o più bassi della media) di Pd e M5s (rispettivamente 22 e 21% di “varianza spiegata”), mentre Forza Italia presenta un profilo chiaramente più ideologico: i punteggi a questo partito sono essenzialmente motivati dai propri orientamenti pregressi, con scarsissima importanza della credibilità (o non credibilità) attribuita a Forza Italia per risolvere i problemi.

    In conclusione

    In definitiva, la credibilità ha contato molto, e in modo inedito. Questo da un lato spiega perché Renzi ha avuto un tale successo, e perché il M5s ha invece patito una netta sconfitta[3]. E al tempo stesso sembra circoscrivere l’impatto della campagna elettorale: le reputazioni di credibilità si costruiscono essenzialmente con i fatti, e di conseguenza sono più difficili da cambiare nel corso di una campagna. Da questo punto di vista, l’insistenza di Renzi nel voler riuscire a realizzare qualche fatto concreto (ad esempio gli 80 euro, ma pure l’innegabile risultato sulla parità di genere al governo e nelle liste) sembra aver pagato. Mentre certi accenti della campagna elettorale sembrano aver più che altro rinforzato le valutazioni di (non) credibilità precedenti.

    Al tempo stesso, i dati di questa analisi sembrano delineare in modo più chiaro la sfida e i problemi di Renzi. Il presidente del consiglio sembra riuscito a trasmettere l’idea che le scelte politiche ed economiche di questo periodo non sono necessariamente obbligate, e richiedono energia e decisione: di conseguenza ha spinto gli elettori a considerare con attenzione il criterio della credibilità nel risolvere i problemi[4]. Il problema è però che la credibilità può essere volatile, di conseguenza va sistematicamente e continuamente consolidata con fatti e risultati. Un Renzi che si presentasse alle prossime elezioni politiche senza aver mantenuto le sue promesse di cambiamento e di incisività vedrebbe il suo risultato seriamente in discussione. Un parziale antidoto a questo problema potrà essere, in futuro, il consolidamento di un risultato elettorale (in grado di sopravvivere anche a crisi di credibilità) mediante la costruzione di un profilo politico-ideologico del partito. Ma questa è un’altra storia.

    Riferimenti bibliografici

    Blumenthal, Sidney. 1980. The permanent campaign: Inside the world of elite political operatives. Beacon Press Boston.

    De Sio, Lorenzo. 2010. «Beyond “position” and “valence”. A unified framework for the analysis of political issues». Working Paper. https://cadmus.eui.eu/handle/1814/14814.

    ———. 2011. Competizione e spazio politico. Le elezioni si vincono davvero al centro? Bologna: Il Mulino.

    De Sio, Lorenzo, e Till Weber. 2011. «Issue yield: a general model of issue saliency based on party competition strategies, with an application to the 2009 EP Elections». In St. Gallen.

    Magalhães, Pedro C. 2014. «Introduction – Financial Crisis, Austerity, and Electoral Politics». Journal of Elections, Public Opinion and Parties 24 (2): 125–33. doi:10.1080/17457289.2014.887090.

    Reif, Karlheinz, e Hermann Schmitt. 1980. «Nine Second-Order National Elections-A Conceptual Framework for the Analysis of European Election Results». European Journal of Political Research 8 (1): 3–44.

    Stokes, Donald E. 1992. «Valence Politics». In Electoral Politics, a cura di Dennis Kavanagh, 141–62. Oxford: Clarendon Press.

    Stokes, Donald E. 1963. «Spatial Models of Party Competition». American Political Science Review 57: 368–77.

     


    [1] L’indagine è stata condotta su un campione di 1600 intervistati, rappresentativo della popolazione italiana in età di voto per genere, età e ambito geografico, con successive ponderazioni su variabili socio-demografiche e politiche. Le interviste sono state condotte tra il 29 aprile e il 9 maggio 2014.

    [2] All’intervistato viene chiesto, per ciascun partito, quanto è probabile che in futuro possa mai votare per quel partito (su una scala da 0 a 10). Trattandosi di punteggi attribuiti da singoli individui, il 49% di varianza spiegata è un risultato molto alto.

    [3] Tanto più grave in elezioni di tipo second-order , in cui la ricerca internazionale afferma in modo consolidato che sono favoriti i partiti con caratteristiche simili a quelle del M5s (Reif e Schmitt 1980).

    [4] Non si tratta di un fatto scontato. Ad esempio, nei paesi che hanno firmato accordi di salvataggio finanziario con istituzioni internazionali, lo spazio di autonomia nelle politiche economiche si è in alcuni casi talmente annullato da rendere di fatto i temi economici (incluso le valutazioni di competenza e credibilità) quasi irrilevanti per le scelte di voto (Magalhães 2014).

  • Chi risolverà i problemi dell’Italia? Partiti, obiettivi e credibilità

    Chi risolverà i problemi dell’Italia? Partiti, obiettivi e credibilità

    di Lorenzo De Sio

    Le elezioni europee si avvicinano, e stiamo ormai per entrare nelle ultime due settimane di campagna elettorale. E’ questo il momento in cui ciascun partito completa la definizione della sua “offerta politica”: ovvero la scelta dei temi chiave su cui puntare, in modo da influenzare la percezione che del partito hanno gli elettori, e di conseguenza la successiva decisione di voto, in una direzione favorevole al partito.

    L’idea di base è che alcuni temi permettono ai partiti di trovare consensi al di là della propria tradizionale base elettorale. Di conseguenza, se il partito riesce a imporre un tema come centrale nella campagna, può aspettarsi  benefici in termini elettorali.

    Per indagare meglio quali sono i temi e le caratteristiche di leadership più favorevoli ai vari partiti (in una parola, le risorse strategiche),  il CISE ha – in occasione di queste elezioni europee – condotto una specifica indagine web “Temi, leader e priorità”, partendo dal presupposto che per capire le strategie dei partiti è anzitutto indispensabile capire quali temi possano essere, in base alle opinioni dell’elettorato, particolarmente favorevoli a un partito.

    Ciò è particolarmente vero per le cosiddette valence issues [Stokes 1963], ovvero quei temi che – invece che essere divisivi – rappresentano obiettivi condivisi per l’intero elettorato. Esempi tipici sono la crescita economica o la sicurezza dalla criminalità.
    Su questi temi, gli elettori non valutano tanto le diverse posizioni, ma si chiedono semplicemente quali partiti siano maggiormente credibili per realizzare questi obiettivi.

    E’ questa quindi la domanda che abbiamo rivolto al nostro campione, per valutare quale partito venisse ritenuto più credibile, relativamente a 17 diversi obiettivi che abbiamo ritenuto essere condivisi dalla stragrande maggioranza degli italiani.

    I risultati sono in parte sorprendenti, perché rivelano nell’elettorato una capacità e autonomia di giudizio che va oltre le proprie preferenze partitiche. E che mostra chiaramente come i partiti debbano selezionare attentamente i temi su cui puntare.

    Ma vediamo in dettaglio i risultati in alcune tabelle con la medesima struttura: per ciascun obiettivo riportiamo anzitutto la percentuale di intervistati che ritengono che nessun partito sia davvero credibile per realizzarlo, seguita dalla percentuale di intervistati che ritiene ciascun partito come il più credibile (abbiamo sempre riportato i tre principali partiti, più tutti gli altri che superassero il 5% di intervistati che li ritengono i più credibili). In fondo a ogni tabella c’è infine la percentuale che, nel campione, ha intenzione di votare quel partito. Quest’ultima serve a capire se un partito risulta credibile anche al di là dei propri elettori, o se viceversa non riesce a convincere neanche tutti loro.

    La tabella 1 mostra un primo gruppo di obiettivi.  Sono quelli in cui la “gerarchia di credibilità” tra i vari partiti riflette in maniera chiara i loro attuali rapporti di forza in termini di intenzioni di voto, vedendo al primo posto – come partito considerato più credibile – il Pd, al secondo il M5s e al terzo Fi. In prima battuta, si potrebbe pensare che su questi temi gli elettori di ciascun partito tendano a considerarlo credibile solo perché è “il loro partito”. In realtà non è completamente così.

    Si può infatti anzitutto osservare che esistono importanti variazioni nelle percentuali di “nessuno è credibile”. Questa categoria – su tutti i problemi considerati nell’indagine – è sempre la più numerosa (segno del perdurante bassissimo livello di fiducia nei partiti italiani). Tuttavia varia di dimensioni: in questo primo gruppo di problemi raggiunge il massimo per “rendere la giustizia più efficiente e veloce”, dove il 56.4% del campione non ritiene nessun partito credibile, e scende al 36.9% per “dare più spazio alle donne nella politica e nella società”, dove il Pd è considerato credibile dal 35,2% del campione, addirittura oltre il suo attuale livello di intenzioni di voto (che corrisponde al 30,1% dell’intero campione, quindi comprendendo indecisi e potenziali astenuti). Segno evidentemente che l’insistenza di Renzi sulla parità di genere, sia nella composizione del governo che nella formazione delle liste, ha avuto successo nel proiettare sul Pd un’impressione di credibilità su questo tema. Va inoltre notato che lo stesso distacco tra Pd e M5s varia significativamente: raggiunge il massimo (con 25 punti) proprio per la parità di genere, mentre scende ad appena 5.2 punti sulla capacità di rimettere l’Europa in mano alla politica piuttosto che ai tecnici, dove il Pd viene considerato poco credibile anche da molti dei suoi potenziali elettori.

    Tabella 1 – valutazioni di credibilità con gerarchia Pd, M5s, Fi.

    Ma, più in generale, il fatto che queste valutazioni di credibilità non dipendano in maniera meccanica dal partito preferito si vede dal fatto che, sui restanti 8 temi, addirittura anche le gerarchie di credibilità sono diverse dai rapporti di forza tra partiti. Un secondo gruppo che presentiamo è quello dei temi economici (Tabella 2). Questo gruppo mette chiaramente in evidenza la scarsa credibilità del M5s su questi temi. Nonostante infatti, nel nostro campione, Forza Italia sia sensibilmente dietro al M5s in termini di intenzioni di voto, su questi temi viene considerata il partito più credibile da una percentuale maggiore di elettori. Tuttavia, in questo caso, il primato del Pd appare netto.

    Tabella 2 – valutazioni di credibilità con gerarchia Pd, Fi, M5s.

    Dove invece il Pd cede la posizione di partito più credibile è sui temi relativi al rinnovamento della politica, e soprattutto alla riduzione dei costi (Tabella 3). Qui è ovviamente il M5s a farla da padrone, risultando il più credibile in un’area che è addirittura il doppio delle sue attuali intenzioni di voto. Di conseguenza non c’è da sorprendersi che questo partito punti con forza su questi temi. Tuttavia va anche osservato che il Pd non è molto distante in termini di credibilità complessiva. Segno che evidentemente lo sforzo di Renzi ha in parte reso il Pd maggiormente credibile in termini di rinnovamento della politica (un risultato forse impensabile con i precedenti gruppi dirigenti), ma non al punto di superare il primato di Grillo su questi temi.

    Tabella 3 – valutazioni di credibilità con gerarchia M5s, Pd, Fi.

    Veniamo a questo punto ad esaminare due gruppi di temi che appaiono maggiormente connotati in senso ideologico, come maggiormente legati all’immagine tradizionale della sinistra e della destra. Il primo gruppo (Tabella 4) vede infatti, tra i partiti più credibili (sopra il 5%), entrare Sel, che prende il posto di Forza Italia. Si tratta della lotta all’inquinamento e al dissesto del territorio, nonché della tutela e valorizzazione del patrimonio artistico e culturale. Sul primo, è al primo posto il M5s, ma praticamente a pari merito con Sel, che su questo tema viene considerato il partito più credibile da un bacino di molte volte maggiore al suo elettorato; colpisce il Pd che è solo terzo in questa graduatoria, ma in effetti Renzi ha finora dato pochissimo spazio a questi temi nella sua campagna e nella sua azione di governo finora. Sul secondo tema invece il Pd risulta decisamente più credibile, col M5s al secondo posto e Sel al terzo.

    Tabella 4 – valutazioni di credibilità favorevoli alla sinistra.

    La Tabella 5 riporta infine alcuni temi favorevoli in generale ai partiti di destra: si tratta dei temi relativi a “law and order”, ovvero alla capacità di combattere sia la criminalità comune che quella organizzata. Qui il Pd è ancora al primo posto, ma con valori molto più bassi, perché vede avvicinarsi molto altri partiti, soprattutto di destra. Ciò è soprattutto vero per “rendere i cittadini più sicuri dalla criminalità”. Qui ovviamente la Lega Nord si avvicina moltissimo al Pd (arrivando quasi al primo posto), ma soprattutto anche Fratelli d’Italia supera nettamente il 5% di intervistati che lo ritiene il partito più credibile. Il M5s supera appena il 5%. Invece sulla lotta alla criminalità organizzata prevale il Pd, seguito a distanza dal M5s; sopra il 5% troviamo anche Ncd e Lega, segno che anche l’azione di Alfano come ministro dell’Interno gli ha evidentemente conferito una maggiore credibilità.

    Tabella 5 – valutazioni di credibilità favorevoli alla destra.

    In conclusione, quali informazioni possiamo trarre da questi dati? L’idea di fondo è che queste valutazioni di credibilità  (di cui i partiti sono ovviamente consapevoli, senza bisogno di sondaggi) permettono di svelare in modo misurabile le risorse strategiche di cui dispongono i partiti, e dunque di esprimere delle aspettative su quali temi cercheranno di sfruttare in campagna elettorale. In questo post ci siamo occupati soltanto di valence issues, ovvero di obiettivi condivisi. Qui è chiaro ad esempio che la Lega ha interesse a puntare con forza sui temi della sicurezza, mentre Sel dovrebbe enfatizzare quelli dell’ambiente e del territorio. Passando ai partiti più grandi, il M5s deve ovviamente puntare soprattutto sul rinnovamento della politica, ed evitare il più possibile (come peraltro fa) di parlare di economia. Temi invece su cui dovrebbe puntare Forza Italia, che infatti ha dato segno di considerarli rilevanti (ad esempio con la proposta di Berlusconi di innalzare le pensioni più basse). Infine la situazione del Pd appare più favorevole: sulla maggior parte dei temi viene considerato il partito più credibile. Fatto che da solo dovrebbe spingere questo partito a puntare proprio su queste valence issues piuttosto che su temi più divisivi (come ad esempio i diritti dei gay, le scelte di politica fiscale, ecc.) che qui non abbiamo esaminato. Tuttavia anche tra le valence issues ne esistono alcune più favorevoli al Pd e altre meno: di qui potremmo sviluppare l’attesa che Renzi, in questo scorcio finale di campagna, dovrebbe puntare maggiormente su temi come l’economia e la parità di genere, dove può godere di un significativo vantaggio competitivo nei confronti di Grillo, rispetto a quelli del rinnovamento della politica. Staremo a vedere.

     

     

  • “Scopri il tuo partito, crea la tua community”! È online euandi, la Voting Advice Application pan-europea

    “Scopri il tuo partito, crea la tua community”! È online euandi, la Voting Advice Application pan-europea

    di Lorenzo De Sio

    Scopri il tuo partito, crea la tua community“: è questo quello che offre a tutti i cittadini europei euandi, la Voting Advice Application pan-europea sviluppata dallo European University Institute in collaborazione con il CISE e con il Berkman Center for Internet and Society della Harvard University.

    Cos’è una Voting Advice Application (VAA)? Semplicemente, è anzitutto un sito Web in cui l’utente, dopo aver indicato le sue opinioni su una serie di temi d’attualità, può scoprire quali sono i partiti più vicini alle sue posizioni politiche (ognuno con un punteggio da 0 a 100%). Le VAA son diffuse da tempo in vari paesi europei, in particolare nei paesi scandinavi e in Germania, dove la VAA “Wahl-o-mat” (gestita dal governo federale) ha registrato 13 milioni di utenti (un elettore su cinque!) alle ultime elezioni politiche.

     Ma euandi è qualcosa di più e di molto diverso. Anzitutto è una VAA pan-europea (come la VAA EU Profiler 2009, di cui è l’evoluzione). E’ infatti disponibile per tutti i 28 paesi dell’Unione Europea, e in tutte le lingue dell’Unione; ma soprattutto permette a qualunque utente di “giocare” a votare in un altro paese, confrontando le sue posizioni non solo con i partiti del suo paese, ma anche con quelli degli altri 27, o con tutti gli oltre 240 partiti dei 28 paesi dell’UE.

    Soprattutto, euandi introduce caratteristiche radicalmente nuove rispetto a tutte le altre VAA: 1) una serie di rappresentazioni grafiche innovative (una vista 3D dello spazio politico, dove la posizione dell’utente è in relazione a vari “pianeti” che rappresentano i partiti; e una mappa della propria Europa politica, dove i vari luoghi cambiano colore se sono più o meno simili alle proprie opinioni); 2) la possibilità di interagire con gli altri cittadini: è possibile infatti scoprire gli altri utenti euandi con opinioni simili alle proprie, contattandoli poi tramite i social network; 3) la possibilità di creare delle community online per interagire con gli altri utenti euandi, aprendo possibilità sconfinate per l’interazione politica online.

    Oltre ad offrire un servizio importante ai cittadini di tutta Europa, euandi tuttavia ha anche e soprattutto importanti risvolti scientifici: i dati raccolti da euandi permetteranno un’analisi dettagliata e su larga scala della struttura degli atteggiamenti politici di un gruppo molto ampio di cittadini europei, nonché una ricostruzione – per la prima volta – dell’influenza della propria rete sociale di appartenenza sulla struttura delle opinioni politiche, e possibilità di analisi delle dinamiche dell’interazione politica online. Il tutto in una tipica applicazione Big Data, progettata per la prima volta da un gruppo di scienziati sociali e non da un’azienda.

    E questo spiega l’interesse del coinvolgimento del CISE , che ha partecipato attivamente a questo progetto promosso dallo European University Institute, e che vanta la collaborazione del Berkman Center for Internet and Society della Harvard University.

    Happy euandiing!