Autore: Roberto D’Alimonte

  • Stop alle coalizioni litigiose, la sfida è la governabilità

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 9 novembre 2014

    Il premio alla lista è una buona idea. Su questo non ci sono dubbi. La sorpresa davanti all’ennesimo colpo di scena non deve oscurare il merito della questione. Senza il premio alle coalizioni saltano alcune delle caratteristiche più critiche dell’Italicum attuale. Una è la presenza della doppia soglia: una soglia più alta per le liste che stanno da sole (8%) e una più bassa (4,5%) per quelle che si accoppiano. Con il premio solo alla lista la soglia diventa necessariamente unica. Questo semplifica la competizione elettorale e assicura l’autonomia dei partiti. L’altro vantaggio del premio alla lista è l’eliminazione dell’incentivo a fare liste fasulle per raccogliere voti da utilizzare per vincere il premio. Nelle elezioni del 2013  la coalizione di Berlusconi comprendeva ben 9 liste. Nel 2006 erano 12, e quella di Prodi addirittura 14.  Lo stesso meccanismo è presente nell’ Italicum nella sua versione attuale. Last but not least, con il premio solo alla lista si elimina il rischio di risultati ‘perversi’. Infatti, con il premio alla coalizione potrebbe accadere che uno solo dei partiti coalizzati superi la soglia di sbarramento. In questo caso incasserebbe tutti i seggi spettanti alla coalizione sfruttando i voti dei suoi alleati che restano sotto la soglia.

    Queste sono tutte ottime ragioni per dire che il premio alla lista è una buona cosa dal punto di vista tecnico. Ma lo è anche dal punto di vista politico.  Infatti una modifica del genere altera positivamente il modello di competizione che ha caratterizzato la politica della Seconda  Repubblica. A partire dal 1994 questo modello si è basato sulla coesistenza di partiti più grandi e partiti più piccoli all’interno di coalizioni pre-elettorali. La formazione di queste coalizioni è stata incentivata prima- dal 1994 al 2001- dal collegio uninominale e dalla disponibilità dei partiti più grandi a spartire i collegi della Mattarella con i partiti più piccoli. Dopo la riforma elettorale del 2005 l’incentivo alla formazione di queste coalizioni era legato alla presenza di un premio di maggioranza e dal meccanismo della doppia soglia. Per massimizzare la possibilità di vincere i partiti più grandi corteggiavano quelli più piccoli. Questi ultimi erano spinti ad accettare l’abbraccio per ottenere lo sconto sulla soglia e eventualmente partecipare al governo in caso di vittoria. Il risultato finale erano coalizioni poco coese e governi instabili. Con il premio solo alla lista questo modello sparisce.

    Se questo sarà l’Italicum futuro ogni partito correrà da solo. Un partito vincerà il premio di maggioranza al primo turno se raggiungerà una certa soglia di voti che per ora è fissata al 37%. Oppure al secondo turno se nessuno raggiungerà tale soglia e si andrà al ballottaggio. Con questo sistema solo i partiti più grandi avranno possibilità di vincere e quindi di governare. I più piccoli dovranno accontentarsi di essere presenti in parlamento, ammesso che superino la soglia di sbarramento. Oppure dovranno confluire in quelli più grandi come ospiti in un listone dentro il quale perderanno la propria identità. Se questo ultimo sarà effettivamente uno degli effetti del premio alla lista i partiti più grandi diventeranno sempre più grandi trasformandosi ancor più in partiti acchiappatutti. Quando Renzi parla di partito della nazione è probabile che pensi ad una evoluzione del genere, che il premio alla lista indubbiamente favorisce.

    E’ possibile che tutto ciò porti alla lunga ad un assetto bipartitico della politica italiana?  Sì e no. Da un certo punto di vista è certo che il premio alla lista favorirà una competizione incentrata sui due partiti più competitivi. Una volta che gli elettori si saranno resi conto che votare un partito minore vuol dire non influire sulla scelta del governo una parte di loro sceglierà di dare il suo voto a uno dei due partiti che hanno reali possibilità di vincere. Questo produrrà una tendenza al bipartitismo. In ogni caso però è del tutto improbabile che solo due partiti sopravvivranno. Nemmeno in Gran Bretagna si è arrivati a questo. Se le soglie di sbarramento non saranno troppo elevate ci saranno sempre partiti piccoli che rappresenteranno un elettorato incoercibile. Esattamente come avviene in Gran Bretagna nonostante la camicia di forza del collegio uninominale maggioritario.

    Ed è giusto che sia così. Per questo è bene che le soglie di sbarramento non siano troppo elevate. In fondo il nuovo Italicum garantirebbe una maggioranza assoluta di seggi a chi vince indipendentemente dalla presenza di partiti minori. A chi vince andrà il 54% dei seggi, i perdenti – piccoli e grandi – si spartiranno il restante 46%. In questo modo la governabilità è facilitata dal fatto che il vincitore avrà una maggioranza assoluta . La rappresentatività è assicurata dalla presenza di una opposizione plurale. Inoltre con il premio solo alla lista ci sarà una garanzia in più di governabilità perché al governo ci sarà un partito solo e non una coalizione di partiti potenzialmente litigiosi. Dalla competizione per coalizioni a quella per grandi partiti il mutamento è significativo ma non altera la qualità democratica del sistema.

    Il fatto curioso di tutta questa vicenda è che al momento di grandi partiti ce n’è uno solo, il Pd.  Ed è il Pd che ha chiesto il premio alla lista. E questo si spiega. Quello che non si capisce è perché Berlusconi, che non è più il leader di un grande partito, voglia accettare questa modifica. E’ uno dei misteri della politica italiana.  Ma forse la cosa è meno misteriosa di quanto sembra a prima vista. Le dimissioni sempre più vicine di Napolitano e l’elezione del nuovo capo dello Stato potrebbero essere uno dei motivi. L’altro forse è il futuro di Mediaset. In ogni caso questa volta forse la riforma riparte davvero. Per Renzi, e per il paese, sarebbe un bel passo avanti.

    Tab. 1 La composizione delle coalizioni pre-elettorali nella Seconda Repubblica (numero di partiti in coalizione)

  • Le scelte obbligate del governo Renzi

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 5 ottobre 2014

    Molti non hanno ancora capito cosa è successo con il voto del 25 Febbraio 2013. Quelle elezioni non sono state come le altre. Hanno segnato una rottura profonda degli equilibri politici su cui si regge il paese. Hanno rappresentato una svolta, per certi aspetti drammatica, della nostra storia recente. Ricordiamo i fatti. L’aspettativa largamente diffusa era che da quel voto sarebbe venuta fuori una maggioranza di centro-sinistra imperniata sull’asse Bersani-Monti. Era l’esito auspicato dall’Europa. E invece non è andata così. Gli elettori italiani non si sono allineati alle aspettative prevalenti fondate su wishful thinking e sondaggi fasulli.

    Per la prima volta in un Paese dell’Unione Europea le elezioni politiche sono state vinte da un partito populista, anti-europeo. Perché il vincitore di quelle elezioni- sia chiaro- è stato Grillo. Per chi non lo ricordasse il M5s alla Camera ha preso il 25,6% dei voti contro il 25,4% del Pd e il 21,6% del Pdl. Nemmeno Forza Italia nelle elezioni del 1994 ha ottenuto un risultato simile. Per Grlllo hanno votato tutti: giovani e meno giovani, laureati e diplomati, managers e operai, lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi. Un vero ‘partito acchiappatutti’. Il successo di Grillo è stato un urlo di protesta di un paese che non ne può più. E la sua vittoria è stata anche la vittoria di  Renzi. Se dal voto del 25 Febbraio fosse venuto fuori un governo Bersani-Monti oggi Renzi sarebbe una figura marginale della politica italiana. E invece quel voto ha aperto a Renzi prima la strada del partito e poi quella del governo.

    Cosa è cambiato da quel giorno?  Poco o niente. La situazione politica, e soprattutto quella parlamentare, sono più o meno le stesse. Certo, ci sono stati movimenti fra i gruppi parlamentari e ci sono state scissioni ma il quadro di fondo è sempre fragilissimo. L’Italia è ancora sull’orlo della ingovernabilità. Stretta tra un Berlusconi che è sempre lì con il suo pacchetto di elettori fedeli, le sue Tv e le sue figlie e un Grillo che aspetta il cadavere del paese sulla riva del fiume. Le defezioni nel campo di Berlusconi e in quello di Grillo non hanno cambiato gli equilibri parlamentari. Il M5s non si è sgretolato e il Ncd di Alfano non è decollato. Il governo si regge ancora su una maggioranza fragilissima.  Al Senato il premier può contare sulla carta su circa 170 voti. (katieaustin.tv) Ma in questo calcolo ci sono tutti, i delusi dentro il partito di Alfano e i dissidenti dentro il Pd. Questi sono i fatti. Il resto sono chiacchiere.

    Ma forse c’è chi pensa che esistano altre maggioranze. Quali? Tra chi?  O  magari c’è chi pensa che Renzi sia sostituibile con un altro leader del Pd. Illusione. Renzi oggi è il Pd. Che piaccia o meno. Ma il vero punto è un altro. Il paese di oggi non è diverso rispetto a quello che ha urlato la sua voglia di cambiamento il 25 Febbraio scorso. La voglia di votare contro tutti e contro tutto è la stessa e cova sotto la cenere. I condizionamenti europei sono gli stessi e, come abbiamo già detto,  gli equilibri in parlamento sono gli stessi. E di tutto questo Renzi deve tener conto nella sua azione di governo.

    Il premier ha sicuramente fatto molti errori da Febbraio a oggi. Nella composizione del governo, nella tempistica delle riforme, nella sottovalutazione della complessità del processo legislativo , nel rifiuto di costruire intorno a sé uno staff di collaboratori che non siano solo gli amici fidati. E chi più ne ha più ne metta. Ma non ha sbagliato nel rivolgersi al paese reale cercando un consenso senza il quale oggi in Italia non si va da nessuna parte. In democrazia contano i voti, non i desideri. E  Renzi ha dimostrato – alle europee- e continua a dimostrare- con la popolarità di cui gode – cosa serve per mantenere il consenso. E tutto ciò nonostante il perdurare della crisi economica. Con una situazione parlamentare difficile come quella che ha ereditato e con la difficoltà di andare alle urne con questo sistema elettorale, o con il prossimo che ancora non c’è, il consenso popolare è la sola carta che il premier ha in mano in questo momento.

    E’ giusto però incalzare Renzi per spingerlo a dare concretezza alla sua azione, perché è solo nei risultati sull’economia che il premier saprà mantenere quel consenso e trasformarlo in qualcosa di positivo per il Paese. Visti gli scenari parlamentari che abbiamo descritto è anche un percorso obbligato, perché altri scenari sono astratti. A meno che qualcuno non pensi che la vera alternativa a Renzi sia la troika. Ma anche la troika avrebbe bisogno di voti in parlamento. Chi glieli darebbe?

  • Bicameralismo perfetto, anomalia italiana

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 20 luglio 2014

    Capita spesso nel nostro paese che si discuta di massimi sistemi  senza alcun riferimento fattuale. E’ il caso del dibattito sulla riforma del Senato e in particolare sul nodo della elezione diretta o indiretta dei futuri senatori.  Per i critici della riforma elezione popolare e democrazia sono sinonimi.  Una seconda camera eletta dai consiglieri regionali, come previsto dal disegno di legge governativo,  e non dai cittadini sarebbe una istituzione sostanzialmente non democratica. Questo è un argomento privo di ogni fondamento empirico.

    Tanto per cominciare la maggioranza dei paesi della Unione Europea (15 su 28) non hanno una seconda camera. In altre parole sono sistemi parlamentari monocamerali.

    Tra i 13 paesi che hanno una seconda camera solo in 5 paesi  i suoi membri sono eletti direttamente dai cittadini.  In Spagna , tra l’altro, una parte dei membri sono designati dalle Comunità Autonome. Tra questi 5 paesi solo in Italia, Polonia e Romania si può dire che la seconda camera abbia dei poteri legislativi rilevanti. E solo l’Italia ha un sistema parlamentare in cui il Senato ha esattamente gli stessi poteri della Camera. Questo per enfatizzare ancora una volta una anomalia italiana che dura da troppo tempo.

    Così come l’elezione diretta  della seconda camera non è una qualità dei regimi democratici, non esiste  correlazione tra elezione diretta e peso politico delle seconde camere. Nel grafico in pagina si vede bene come esistono paesi bicamerali in cui alla elezione diretta del Senato  non corrisponde un suo ruolo rilevante nel processo legislativo. In Spagna e nella Repubblica ceca l’ultima parola sulla legislazione ordinaria, compresa quella relativa al bilancio, appartiene alla camera bassa. In altre parole, in caso di disaccordo tra i due rami del Parlamento, il Senato non ha  potere di veto. Non è così invece in Francia e Germania.  Il Bundesrat tedesco è nominato dai governi del Lander e il Senato francese è eletto da una platea di circa 150.000 grandi elettori. Eppure entrambi hanno più poteri del Senato spagnolo che è eletto direttamente dal popolo.

    Ma questi fatti non bastano. Per contestare la legittimità di un Senato non elettivo la critica iperdemocratica usa due altri argomenti legati all’Italicum. Questo sistema elettorale prevede un premio di maggioranza nel caso in cui un partito o una coalizione arrivi al 37% dei voti ovvero nel caso di ballottaggio, se nessuno arriva a questa soglia al primo turno. (https://loscoches.com/) La combinazione di premio di maggioranza e Senato non elettivo sarebbero un attentato alla democrazia. Come se solo una camera bassa eletta con sistema proporzionale fosse compatibile con un Senato non eletto direttamente dal popolo. Ma quale fondamento empirico ha una affermazione del genere ? In base a questo metro di giudizio la Gran Bretagna sarebbe un sistema ben poco democratico. Nel 2005  Tony Blair ha vinto il suo terzo mandato con il 35% dei voti (contro il 32% dei conservatori). Per la precisione , con questa percentuale il partito laburista ha ottenuto il 55% dei seggi . E  la Camera dei Lords non è certamente una istituzione eletta dal popolo. Stessa cosa in Francia. Nel 2012 il partito socialista di Hollande ha conquistato il 53% dei seggi nella Assemblea Nazionale con il 29 % dei voti ottenuti al primo turno. E Il Senato francese, come già detto, non è eletto dai cittadini.

    Ultimo argomento degli iperdemocratici. Un Senato non elettivo non sarebbe compatibile con un sistema elettorale , come l’Italicum, che prevede le liste bloccate. I nominati sarebbero troppi. Mettiamo da parte la questione complicata se siano preferibili le liste bloccate o il voto di preferenza e concentriamo sull’Italicum. Il fatto è che con l’Italicum buona parte dei deputati verranno eletti in collegi uninominali o al massimo binominali.  Parlare di liste bloccate in questo caso è fuorviante. Gli elettori che voteranno un dato  partito in un dato collegio sono nella condizione di sapere che il loro voto servirà a eleggere il primo o i primi due candidati di quel partito in quel collegio. Se quei candidati non sono graditi non voteranno il partito, come avveniva al tempo della Mattarella.

    E’ giusto che una riforma costituzionale di questa portata sia sottoposta ad una analisi minuziosa e approfondita. E’ così che il testo originale proposto dal governo è stato  senza dubbio migliorato, anche grazie al lavoro dei due relatori Finocchiaro e Calderoli.  Ma è anche  doveroso che il dibattitto tenga conto non solo di criteri normativi astratti ma di dati empirici concreti. Guardando le cose in maniera pragmatica e in chiave comparata questa riforma è un passo che ci avvicina all’Europa, eliminando finalmente una anomalia ingiustificabile del nostro sistema istituzionale.

  • Ballottaggi: L’affluenza in calo di 20 punti ha ribaltato i risultati

    di Roberto D’Alimonte

    Alla fine possono essere tutti contenti o tutti scontenti. Chi più, chi meno. Motivi di soddisfazione e motivi di rammarico si sono equamente distribuiti. Le amministrative rappresentano una sfida difficile e imprevedibile. Soprattutto quando si decidono al ballottaggio. Fattori locali e clima nazionale si mescolano in maniera spesso indecifrabile. E poi, sopra tutto, pesa l’affluenza che nei 18 capoluoghi in cui si è votato domenica è calata mediamente di 20 punti percentuali. Non tutti tornano a votare a distanza di due settimane dal primo turno. Chi per indifferenza, chi per convinzione che la partita sia già chiusa, chi per l’assenza dei candidati sindaco preferiti, chi per la mancanza dei candidati di lista che sono presenti al primo turno ma non al secondo. E così l’elezione può diventare in certi casi una sorta di roulette. E’ capitato anche questa volta.

    Per il Pd queste elezioni sono state tutto sommato un successo, ma non travolgente. Ha vinto e ha perso. In questa consultazione il fattore Renzi non ha giocato o ha giocato poco. Pd e alleati hanno vinto in 19 capoluoghi su 27. Otto al primo turno e 11 al secondo. Cinque anni fa erano stati 15. Ma hanno perso male a Livorno, a Potenza e a Perugia, roccaforti del centro-sinistra, oltre che a Padova, Urbino e Foggia dove avevano vinto 5 anni fa. Le sconfitte a Potenza e Perugia sono una spiacevole sorpresa. Qui al primo turno i candidati del Pd avevano sfiorato la vittoria distanziando largamente i loro rivali. Il vero motivo di soddisfazione per il partito di Renzi sono le vittorie in 6 capoluoghi su 7 al Nord. Ha vinto dovunque era all’opposizione e ha perso a Padova dove governava.

    Per lo schieramento di Berlusconi queste elezioni rappresentano uno scampato pericolo. Nelle condizioni di incertezza in cui si trova l’esito avrebbe potuto essere peggiore. Certo, bruciano le sconfitte in tutti i capoluoghi del Nord dove governava, soprattutto Bergamo e Pavia. Ma si può consolare con le vittorie a Padova, dove il sindaco sarà Massimo Bitonci della Lega, oltre che a Perugia, Urbino e Foggia. Cinque anni fa aveva vinto in 12 capoluoghi. Adesso sono 6 più Potenza che è un caso particolare. Non è proprio un bel risultato ma, come si è detto, poteva andare peggio.

    In fondo anche il M5s può cantare vittoria. Avrebbe potuto restare a bocca asciutta e invece porta a casa un risultato clamoroso con la vittoria di Nogarin a Livorno. Per questo deve ringraziare il Pd e le sue divisioni interne. Ma una rondine non fa primavera. A livello locale l’Italia resta un paese bipolare, con un terzo polo scomodo ma poco influente. In questa arena la competizione è tra coalizioni e non tra partiti come alle europee. Il M5s può vincere solo in circostanze molto particolari, come a Livorno e qualche anno fa a Parma.

    Tra tutti il più contento deve essere Fdi, il partito della Meloni, che – dopo la sconfitta alle europee – è salito agli onori delle cronache locali per aver vinto a Potenza presentandosi con il solo appoggio dei Popolari di Mauro e senza quello dei suoi alleati tradizionali del centro-destra, Fi-Ncd-Udc, che avevano puntato su un altro candidato. Insieme a Livorno e a Perugia, la sconfitta del Pd qui rappresenta la maggiore sorpresa di queste elezioni. Il candidato del centro-sinistra aveva ottenuto il 47,8% al primo turno contro il 16,8% di quello di Fdi. Il secondo turno è finito con il vincente De Luca che ha preso il 58,5%. Anche qui come a Livorno hanno pesato le divisioni del Pd, ma qui più che a Livorno ha giocato un ruolo determinante l’astensione. Dopo Terni, Potenza è il capoluogo dove è aumentata di più, ben 26,7 punti percentuali. Il 75,1% degli elettori ha votato al primo turno, e solo il 48,4% al secondo. A Livorno invece l’ affluenza è calata di 14 punti.

    Tab. 1 – Risultati del secondo turno nei 18 comuni capoluogo di provincia

    I veri perdenti di queste elezioni sono i sindaci. Se ne sono ripresentati in 13 su 27 e solo 4 sono stati riconfermati due di centro-destra (Ascoli Piceno e Teramo) e due di centro-sinistra (Terni e Ferrara). Gli altri sono stati puniti da un elettorato che è diventato sempre più insofferente nei confronti di chi governa. Alle europee il fenomeno non si è verificato grazie al fattore Renzi. Invece le amministrative hanno largamente punito le amministrazioni uscenti. In 16 capoluoghi su 27 il governo locale ha cambiato colore.

    Adesso si volta pagina. Per un po’ non ci saranno elezioni alle porte. Renzi potrà dedicarsi totalmente alla sua agenda riformista. Berlusconi avrà il tempo per decidere come rilanciare il suo partito. E anche il M5s potrà riflettere su cosa fare da grande.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 10 Giugno

  • Alle comunali è ancora il centrodestra il secondo polo

    di Roberto D’Alimonte e Aldo Paparo

    Il grande successo del Pd di Renzi alle europee ha fatto passare in secondo piano il risultato delle amministrative. Eppure il primo turno delle elezioni comunali ci ha restituito una fotografia dell’Italia diversa da quella della consultazione per il Parlamento europeo. Intendiamoci: il Pd ha vinto anche in questa arena. Quello che invece cambia è il tipo di competizione. A livello europeo lo scontro era Pd-M5s, a livello locale invece è tornato ad essere centrosinistra contro centrodestra. La differenza la fa – naturalmente – il sistema elettorale.

    Le europee sono una corsa per partiti singoli perché il sistema proporzionale con cui si vota non richiede accordi preventivi. In questa arena si contano dunque i partiti e non le coalizioni. Fin dall’inizio della campagna elettorale la sfida per il primato è stata percepita come un affare che riguardava il partito di Renzi e quello di Grillo. Forza Italia è sempre stata vista come il terzo polo. A livello locale invece le cose stanno diversamente. La corsa per eleggere sindaco e consiglio nei comuni con più di 15.000 abitanti è un affare che riporta in primo piano le coalizioni. Il sistema non è un proporzionale quasi puro come alle europee, ma un proporzionale con premio di maggioranza e ballottaggio. Vince il candidato sindaco che ottiene al primo turno il 50% più uno dei voti. Se nessuno ci riesce i due candidati più votati si sfidano due settimane dopo al ballottaggio. Con questo sistema le coalizioni sono importanti. E quando si parla di coalizioni il M5s sparisce di scena perché è un partito irrimediabilmente solo. Per questo recede al terzo posto cedendo il secondo al centrodestra.

    Dei 28 comuni capoluogo (comprendendo Cesena) dove si è votato Domenica scorsa in 10 casi la partita è già finita al primo turno. In 9 comuni ha vinto il centrosinistra. Solo a Ascoli Piceno l’ha spuntata il centrodestra che presentava il sindaco uscente. In nessun comune ha vinto il M5s e solo a Reggio Emilia e Campobasso è arrivato secondo.

    In 18 comuni l’esito della competizione è dunque rinviato al secondo turno che si terrà Domenica 8 Giugno. Con quali duelli? In 14 casi la sfida sarà tra un candidato del centrosinistra e uno del centrodestra. Solo in due casi – Modena e Livorno – lo sfidante del candidato di centrosinistra sarà un esponente del M5s. Il terzo caso è anomalo. Infatti a Potenza il candidato del centrosinistra affronterà un candidato sostenuto da Fdi e due liste civiche. Infine a Caltanissetta il candidato sostenuto da Pd dovrà vedersela con uno sostenuto solo da liste civiche. Come andrà a finire in questi 18 comuni? A Bergamo, Biella, Cremona, Urbino e Foggia l’esito è troppo incerto per fare un pronostico. A Pavia e Teramo invece dovrebbero vincere i sindaci uscenti del centrodestra che in entrambi i casi hanno margini di vantaggio che sembrano incolmabili. Lo stesso si può dire a favore dei candidati di centrosinistra a Verbania, Modena, Perugia, Terni, Bari, Caltanissetta (dove il Pd è alleato dell’Udc) e Potenza. Anche a Vercelli e a Pescara Pd e alleati hanno un vantaggio importante ma non decisivo.

    I due casi forse più interessanti sono Padova e Livorno. Nel capoluogo veneto il sindaco uscente del centrosinistra si presenta in testa dopo il primo turno, ma ha raccolto solo un voto su tre e può contare su un margine davvero ristretto sullo sfidante appoggiato da Fi, Lega e Fdi. Il fattore decisivo potrebbe essere il comportamento al secondo turno di quel 10% di elettori padovani che al primo turno hanno votato per Maurizio Saia, ex senatore Pdl, fuoriuscito al momento della scissione di Fli e sostenuto in queste comunali da Ncd-Udc. A Livorno è la prima volta che si va ballottaggio per eleggere il primo cittadino. Mai il centrosinistra aveva fallito l’obiettivo di vincere al primo turno. Invece stavolta il suo candidato si ferma appena sotto al 40%. Si presenta al secondo turno saldamente in vantaggio, avendo comunque raccolto oltre il doppio dei voti del secondo classificato, il candidato sostenuto dal M5s. Ma la partita non può considerarsi chiusa. Parma insegna anche se i tempi sono diversi.

    Tab. 1 – Risultati nel primo turno dei candidati sindaco sostenuti dai diversi partiti considerati

    Fatti tutti i conti, si può stimare che il secondo turno dovrebbe essere molto favorevole al Pd di Renzi. Cinque anni fa vinse in 16 capoluoghi. Questa volta potrebbero essere molti di più. In ogni caso, comunque vadano i ballottaggi, sappiamo già che il M5s è il grande sconfitto di questa consultazione, come lo è stato in quella per le europee. Certo, se vincesse a Modena o a Livorno dove è ancora in corsa potrebbe consolarsi. Ma non siamo più al tempo del ballottaggio vinto da Pizzarotti a Parma quando le aspettative erano modeste e quella vittoria segnò l’inizio di una crescita che sembrava inarrestabile. Adesso il giudizio è diverso. A distanza di anni il M5s, che è nato come movimento di base, continua a far fatica a sfidare con successo l’organizzazione e il personale dei partiti tradizionali. Come l’anno scorso ha dimostrato di nuovo di essere un partito più nazionale che locale. E’ la leadership di Grillo a fare la differenza. E nei comuni si vede. Nei 28 capoluoghi il divario di voti tra quelli ottenuti alle europee e quelli delle comunali è nettissimo anche se presenta interessanti variazioni territoriali. Nei comuni della zona rossa il risultato dei candidati sindaci è, in media, di circa 5 punti inferiore rispetto a quello della lista alle Europee. Al nord questa differenza cresce fino a sfiorare i 7 punti percentuali. Ma nei capoluoghi del sud arriva a superare i 15 punti percentuali.

    In conclusione, è una Italia a due facce. Almeno per ora. Nonostante il centrodestra sia uno schieramento in crisi, il M5s non è riuscito neanche questa volta a prenderne il posto. A livello locale il bipolarismo italiano è ancora quello classico della Seconda Repubblica con Pd e alleati contrapposti a Fi e alleati. E con l’Italicum sarà molto probabilmente così anche a livello nazionale. Grillo può attendere.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore dell’1 Giugno 2014

  • Con il Consultellum al Pd solo 270 seggi

    di Roberto D’Alimonte

    Il grande successo di Renzi in queste europee stimola curiosità proibite. Se si andasse a votare per il Parlamento nazionale con l’attuale sistema elettorale, quello che è scaturito dalla sentenza della Consulta, cosa accadrebbe alla Camera? Come è noto, il sistema elettorale in vigore è di tipo proporzionale con varie soglie. Per i partiti singoli, quelli cioè non in coalizione, la soglia di sbarramento è del 4%. (https://treehouselodge.com) Chi sta sotto la soglia non prende neanche un seggio a vantaggio dei partiti sopra la soglia che in questo caso avrebbero una percentuale di seggi superiore alla loro percentuale di voti. Ciò premesso, la risposta alla domanda è nella colonna A della tabella qui sopra: il Pd avrebbe 270 seggi. Non basterebbero i seggi di Ncd per arrivare alla maggioranza assoluta. Ci vorrebbero anche quelli della sinistra radicale. Va da sé che sommare Alfano alla lista Tsipras sarebbe un’operazione molto complicata.

    Seconda domanda (B): cosa succederebbe se Pd, M5S, Fi e Lega avessero i voti delle europee e lista Tsipras e Ncd restassero sotto la soglia? Anche in questo caso il Pd non arriverebbe alla maggioranza assoluta di 316 seggi. Ci si avvicinerebbe senza raggiungerla. Dovrebbe fare il governo con uno degli altri partiti in parlamento. Un bel rebus anche in questo scenario.

    Terza domanda (C): supponendo che sia Ncd che la lista Tsipras prendano il 4%, che percentuale di voti dovrebbe prendere il Pd per arrivare ai fatidici 316 seggi? Il 46,8%. In questo caso avrebbe 309 seggi cui si aggiungerebbe il seggio della Valle d’Aosta e 6 dei 12 seggi della circoscrizione estero. Ma arrivare al 46,8% non è cosa semplice nemmeno per uno come Renzi. Per esempio, in Europa ci sono riusciti in Italia la Dc nel ’48, in Spagna il Psoe nel 1982, in Germania la Cdu-Csu nel ’57 e poi di nuovo nel ’76 e nell’83. Di questi tempi può succedere di tutto. Anche che Renzi riesca in un’impresa del genere, ma è oggettivamente difficile.

    L’ultimo scenario è quello con Ncd e lista Tsipras sotto la soglia del 4% (D). In questo caso basterebbero poco più dei voti che Renzi ha preso alle europee per raggiungere l’obiettivo della maggioranza assoluta, e cioè il 42,6% invece del 40,8%.

    Tab. 1 – Ipotesi di composizione della Camera con il sistema elettorale attualmente in vigore

    Le simulazioni sono esercizi astratti. Il voto per le politiche attiverebbe altre dinamiche e un’offerta politica diversa. Eppure queste simulazioni fanno vedere bene una cosa: con l’attuale sistema elettorale è estremamente difficile che alla Camera si possa produrre una maggioranza direttamente nelle urne, anche con un Pd oltre il 40%. Paradossalmente sarebbe più facile al Senato. Sarebbe esattamente il contrario di quello che è successo alle politiche dello scorso anno con il Porcellum. Allora la maggioranza a favore del centrosinistra di Bersani ci fu alla Camera ma non al Senato. Se invece si votasse con l’Italicum sarebbe tutta un’altra storia. Ma l’ultimo capitolo della storia dell’Italicum è ancora da scrivere.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 29 maggio 2014

  • Renzi, alta fedeltà e nuovi voti a 360°

    di Roberto D’Alimonte

    Due fattori hanno contribuito in maniera decisiva al successo del Pd di Renzi. Il primo è stato la sua capacità di portare a votare i suoi elettori, quelli che avevano votato Pd nel 2013. Un altro Pd. Il secondo è stato la sua capacità di allargare la base di consensi del suo partito, nonostante questo tipo di consultazione sia difficile per un partito di governo in tempo di crisi. Il primo fattore ha pesato più del secondo.

     A mano a mano che diventano disponibili i voti ai partiti a livello di singole sezioni elettorali si riesce a capire meglio come sono andate effettivamente le cose. Sono cinque per ora le città in cui grazie a questi dati si sono potuti calcolare i flussi tra i partiti e dai partiti verso l’astensione. La base di riferimento sono le elezioni politiche dell’anno scorso. Si tratta di una consultazione ovviamente molto diversa da quella delle europee, ma per quello che ci interessa questo non è molto rilevante. E’ ben noto che alle europee si è sempre votato meno che alle politiche, ed è stato così anche questa volta. Ma questo non altera le conclusioni della analisi sui flussi perché questa comprende per l’appunto anche i movimenti dal voto al non voto e viceversa.

    In fondo non è molto complicato spiegare come Renzi ha vinto. In un contesto in cui i votanti in queste elezioni sono stati circa 6.500.000 in meno rispetto al 2013 il Pd ha conquistato 2.500.000 in più. L’affluenza è andata giù e Renzi è andato su. Semplice. E’ più complicato spiegare perché questo è successo. Perché gli altri partiti hanno perso voti – ad eccezione della Lega che ne ha guadagnati circa 300.000 – e Renzi ne ha presi di più? Cosa dicono i flussi di voto nelle nostre 5 città? Da dove vengono i voti del Pd?

    Il dato più chiaro è che vengono in primo luogo dal Pd stesso. Il tasso di fedeltà del suo elettorato in queste elezioni è stato straordinario. Quelli che lo avevano votato nel 2013 sono tornati quasi tutti a votarlo nel 2014. Una mobilitazione molto efficace. E tanto più sorprendente perché queste erano elezioni europee e non politiche. Anche tenendo conto del fatto che l’elettorato Pd è più propenso a votare anche in questo tipo di consultazione un tasso di fedeltà così elevato è inusuale. Questo è stato il primo merito di Renzi e la base principale del suo successo. Infatti, la prima- e più importante- regola per vincere è quella di portare a votare i propri elettori. Renzi c’è riuscito. Gli altri no.

    A Firenze hanno votato Pd oggi addirittura il 95% dei suoi vecchi elettori. E questo- sia detto per inciso- spiega anche lo straordinario successo di Dario Nardella, neo sindaco. Il tasso di fedeltà più basso si è registrato a Palermo – e non è una sorpresa- ma siamo sempre al 71%. Il confronto con gli altri partiti è impietoso. A Venezia il Pdl ha perso il 58% del suo elettorato verso l’astensione, a Palermo il 61%. Va meglio-si fa per dire- a Torino con il 35% e a Firenze con il 20%, ma perché qui la base di consensi era inferiore. Più o meno la stessa cosa è successa al M5s. A Venezia non sono tornati a votarlo il 25% di quelli che lo avevano scelto nel 2013, a Firenze il 38%, a Palermo il 45% e così via.

    Questo fenomeno va sotto il nome di astensionismo asimmetrico. Renzi avrebbe vinto anche solo grazie a questo fattore. Ma ha vinto ancora meglio perché è scattato un altro meccanismo. Per vincere – o per vincere bene- si devono conquistare nuovi elettori e non solo tenersi i vecchi. E qui si vedono i frutti della capacità di attrazione del premier. Come avevamo anticipato ieri, e come si vede nei dati di oggi nelle 5 città, il Pd ha pescato in misura variabile nell’elettorato di quasi tutti i partiti rivali. Ma, tra tutti, c’è un flusso che è particolarmente significativo, ed è quello che proviene da Scelta Civica. La vecchia formazione di Monti praticamente non esiste più. Una buona parte dei suoi elettori sono andati verso il Pd, ma molti non si sono recati alle urne. A Torino ha ceduto al partito di Renzi il 60% del suo elettorato del 2013 mentre un 15% è andato al partito di Alfano. In questa città il flusso verso l’astensione è minimo. Stessa cosa più o meno a Firenze. Ma non è così a Palermo. Qui oltre alle defezioni verso il Pd e il Ncd, si nota anche un flusso verso Forza Italia (11%) e verso l’astensione (14%). E così grazie a Scelta civica una quota di elettori moderati sono stati traghettati gradualmente verso il centro-sinistra, destinazione prima Monti e poi Pd. Ma senza Renzi non sarebbe successo.

    I flussi verso il Pd non si fermano qui. Agli elettori di Scelta civica vanno poi aggiunti anche quelli del M5s e di Fi. Sono passaggi di voto di entità più modesta, pare. Ma tutto fa brodo. Nel complesso sembra che il movimento di Grillo sia stato relativamente più ‘generoso’ nei confronti del partito di Renzi. A Firenze il 17% dei suoi vecchi elettori ha scelto il Pd, mentre ha fatto la stessa cosa il 12% degli elettori Pdl. A Torino i dati sono rispettivamente 12% e 9%. Da ultimo anche una parte degli elettori della Lega ha ‘tradito’ contribuendo a ingrossare le fila del Pd. A Torino il 12%, a Venezia addirittura il 36%, a Parma il 14%. Sono tutti questi rivoli che hanno portato Renzi ad uno storico 40,8%.

    Fig. 1 – Destinazioni degli elettorati delle Politiche 2013 alle Europee 2014

    Queste elezioni erano per Renzi un passaggio difficile e delicato che ha voluto affrontare senza nemmeno mettere il suo nome sulla scheda. Le europee sono elezioni rischiose per i grandi partiti e soprattutto per quelli di governo. Si è visto quello che è successo in quasi tutti i paesi della Unione, ad eccezione della Germania dove in realtà anche la Merkel ha preso meno voti rispetto alle scorse politiche.

    Adesso la sfida per Renzi è quella di consolidare questo successo. Se ci riesce, ci ricorderemo di queste elezioni come di una tappa importante verso la costruzione, intorno al Pd, di un nuovo blocco sociale e elettorale, tendenzialmente maggioritario. In questo Renzi è, tra l’altro, facilitato dal fattore tempo. Da qui al 2018 non ci sarà più un turno di elezioni a carattere nazionale. Infatti una volta c’erano le elezioni regionali. Chi non ricorda le dimissioni di D’Alema dopo il cattivo risultato per il centro-sinistra delle regionali del 2000? Ma allora la gran parte delle regioni andava al voto nello stesso giorno. Il prossimo anno non sarà così. A causa di vari scioglimenti anticipati ci sono ben 9 regioni in cui non si voterà il prossimo anno. Questo orizzonte temporale rappresenta una grande occasione per portare avanti un programma di governo di medio termine senza distrazioni elettorali. In un paese dove governare è molto difficile anche questo aiuta.

     

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 28 maggio 2014

     

  • Il Pd vince dappertutto, anche nel Nord-Est

    di Roberto D’Alimonte

    Quello del nuovo Pd di Renzi è, in valori percentuali, il terzo miglior risultato elettorale nella storia della Repubblica. Solo la Dc di De Gasperi nel 1948 e quella di Fanfani nel 1958 hanno fatto meglio. Dopo il 1958 nessun partito ha superato il 40% dei voti. Il Pd di oggi è arrivato al 40,8%. E’ il primo partito in tutte le province, con le sole eccezioni di Isernia (Fi), Sondrio (Lega) e Bolzano (Svp), Primo in 107 province su 110. Mai successo in tutta la storia della Repubblica, sia la Prima che la Seconda.

    Fig. 1 – Primo partito per provincia

    E’ diventato una forza nazionale con una presenza territoriale omogenea. Questa è la sua distribuzione di consensi nel paese: 41,1% nel Nord-Ovest, 39,1% nel Nord-Est, 52,5% nel Centro, 36% al Sud. Resta sovra-rappresentato nelle regioni della ex zona rossa (il Centro) e sotto-rappresentato al Sud, ma è diventato il primo partito anche nel Nord-Est. Anzi in questa zona, che comprende Lombardia, Veneto, Friuli V.G. e Trentino A.A. ha preso più voti da solo di quanti ne abbiano preso insieme tutti i partiti del centro-destra: 39,1% contro 35,3%. Non era mai successo prima. A confronto, sia Fi che il M5s sono partiti meridionali. Come si vede nella figura 2, Forza Italia ha raccolto il 47% dei suoi consensi al Sud e il M5s il 46%. Per il partito di Renzi il dato è il 34%. In termini di votanti il Sud pesa per il 39% sul totale dell’elettorato italiano. E’ chiara la sovra-rappresentazione del partito di Berlusconi e di quello di Grillo in questa area.

    Fig.2 – Composizione per zone geopolitiche dei diversi elettorati

    Ma il dato rivelatore è un altro. Nelle elezioni politiche dell’anno scorso hanno votato 35.348.709 di italiani. In queste europee sono stati 28.904.574. Sono quindi rimasti a casa quasi 6,5 milioni di elettori. Eppure il Pd di Renzi ha preso circa 2,5 milioni di voti in più. La affluenza va giù e il Pd va su. Il Pd di Bersani nel 2013 si era fermato a 8.644.187 voti, quello di Renzi è arrivato a 11.172.861. Giusto che si guardi alle percentuali, ma i valori assoluti sono altrettanto importanti. Nelle politiche del 2013 il Pd di Bersani aveva perso quasi 3,5 milioni di voti rispetto a quello di Veltroni del 2008. Adesso la tendenza si è invertita.

    Il 40,8% è quindi il risultato di due fenomeni concomitanti: l’aumento dei voti Pd in valore assoluto e la diminuzione dell’affluenza alle urne che è calata di quasi 17 punti percentuali, passando dal 75% delle politiche del 2013 al 59% di queste europee. Le percentuali di voto sono frazioni: se aumenta il numeratore e allo stesso tempo cala il denominatore, la percentuale di voto sale. Nel caso del Pd sarebbe bastato che Renzi avesse preso gli stessi voti di Bersani per avere una percentuale di voti più alta. Invece ne ha presi di più. Da qui il boom. E tutto questo è successo in un contesto elettorale che, come abbiamo scritto prima del voto, non era favorevole al Pd. Infatti nel resto d’Europa i partiti di governo sono andati male. Da noi è stato il contrario.

    Tra gli altri partiti solo la Lega può essere soddisfatta. Ha aumentato i suoi voti sia in percentuale che in valori assoluti, rispettivamente più 2,1 punti percentuali e più 300.000 voti. Per le altre formazioni le perdite sono significative. E’ vero che si trattava di europee e non di politiche, ma Pd e Lega hanno guadagnato e gli altri hanno perso. Tra gli altri le perdite più pesanti riguardano la coalizione di Monti e in particolare Scelta civica che nella sua versione europea ha preso solo 200.000 voti. Ma anche Forza Italia e il M5s hanno subito pesanti defezioni nell’ordine di milioni di elettori. Nonostante ciò, sia l’uno che l’altro restano forze significative nel panorama politico italiano. Nel caso di Forza Italia non vale solo il dato di questo partito. Facendo la somma di tutte le formazioni del centro-destra si arriva al 31%. Non è poco, viste le condizioni precarie di questo schieramento. Ed è comunque una percentuale sufficiente per andare ad un eventuale ballottaggio. Quanto al partito di Grillo ha preso più voti – in valore assoluto- del Fronte Nazionale in Francia e dell’ UKip in Gran Bretagna. Il M5s ha perso ma non è crollato.

    Come si è prodotto questo risultato? Solo l’analisi dei flussi potrà darci una risposta attendibile. Ma non la si può fare ora perché mancano i dati delle oltre 60.000 sezioni elettorali. Al momento si possono fare solo delle ipotesi. La più semplice e parsimoniosa è che la vittoria di Renzi sia il frutto di un mix di fattori. In primo luogo l’astensionismo che ha colpito più il centro-destra che il centro-sinistra e il M5s. Una cifra di 6 milioni e mezzo di elettori che hanno votato alle politiche e non hanno votato alle europee pesano sul risultato finale. In tante elezioni l’astensionismo asimmetrico è stato il fattore decisivo. Questa volta però c’è dell’altro.

    Il Pd di Renzi ha certamente conquistato nuovi consensi. Molti elettori della coalizione di Monti nel 2013 questa volta hanno votato Pd. Una parziale conferma di questo fenomeno ci viene da Torino, unica città dove è stato possibile calcolare i flussi. Il 50% degli elettori torinesi di Monti ha votato il partito di Renzi. Ma il Pd ha preso voti- in misura inferiore- sia dal M5s che da Fi. Un unico caso è troppo poco per arrivare a conclusioni certe. Ma è plausibile che la vecchia formazione di Monti abbia svolto un ruolo importante nel traghettare elettori moderati verso il centro-sinistra. E’ noto che i passaggi di voto diretti da uno schieramento all’altro sono stati un fenomeno limitato nella Seconda Repubblica. Scelta civica ha funzionato da ponte.

    Prima ci sono state le primarie. Adesso queste elezioni. Il nuovo Pd comincia a prender forma. Ma la strada è lunga. Di questi tempi i voti vanno e vengono. L’incertezza, la volubilità delle opinioni e dei comportamenti è il tratto saliente della politica italiana. Insieme alla rabbia e alla speranza. Fa bene Renzi a predicare prudenza e umiltà, anche nel momento del trionfo. Solo una efficace azione di governo coerente con gli obiettivi annunciati potrà consolidare il successo di oggi creando intorno al Pd e al suo leader un nuovo blocco sociale stabile. Ci vogliono le riforme. A cominciare da quelle istituzionali per rendere il paese finalmente più governabile, più giusto e più europeo.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 27 maggio 2014

  • L’integrazione nella UE risposta al populismo

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 18 maggio 2014

    Le elezioni europee sono sempre state elezioni un po’ particolari. Queste lo sono ancora di più.  La gente le sente come meno importanti di quelle nazionali. Si vota per un parlamento distante di cui si sa poco o niente. La posta in gioco è minore e si va meno a votare. A partire dal 1979 l’affluenza è sempre calata. Alle ultime elezioni del 2009 è stata il 43%, ma con rilevanti variazioni territoriali. Escludendo i paesi con voto obbligatorio (Belgio e Lussemburgo) si va dal massimo di Malta (79%) al minimo della Slovacchia (20%). L’Italia è sempre stata uno dei paesi in cui si è votato di più, il 65,1%  nel 2009. Ma il calo, a partire dal 1979, è stato costante anche da noi.

                La differenza tra quanto si vota alle politiche e quanto si vota alle europee è un altro dato che coglie bene il relativo disinteresse dei cittadini europei verso la competizione per il Parlamento di Strasburgo. Anche in questo caso gli andamenti sono molto diversi territorialmente. Mettendo a confronto l’affluenza alle europee del 2009 con quella alle ultime politiche tenutesi nei vari paesi (e sempre escludendo i paesi con voto obbligatorio)  si va da una differenza minima di 6 punti in Lettonia ad una massima di 39 punti in Svezia e Slovacchia. Tutto sommato- fino ad oggi- la differenza in Italia è stata modesta: 10 punti percentuali. In Germania è stata di 28 punti.

                Questo è il quadro storico della partecipazione al voto. Il 25 Maggio sarà la stessa cosa?  Sono due le novità che possono fare la differenza. (https://driventheatre.com) La prima è legata a quella norma del  Trattato di Lisbona che parla di un presidente della commissione nominato dal parlamento europeo su proposta del consiglio ‘tenuto conto del risultato delle elezioni europee’. Grazie ad una interpretazione estensiva di questa norma i maggiori partiti europei hanno nominato dei propri candidati alla presidenza della commissione. Così, per la prima volta i cittadini europei voteranno non solo per i propri rappresentanti nel Parlamento di Strasburgo ma anche per un candidato alla presidenza dell’esecutivo di Bruxelles. Quasi una elezione diretta. Peccato che pochi lo sappiano. Resta comunque una novità simbolicamente importante, per quanto controversa. Ma non cambierà molte le cose. Non questa volta almeno. Non è così invece per l’altra novità di queste elezioni. Sono le prime dopo la più grave crisi che la Comunità/Unione Europea abbia attraversato nella sua storia.

                Sono le crisi che producono il cambiamento, soprattutto quelle profonde e prolungate. E quella cominciata nel 2010 certamente lo è. Milioni di persone in tutti gli stati membri ne sono state toccate e sono state costrette a fare i conti con i costi e i benefici dell’appartenenza ad una comunità che prima della crisi era ancora una cosa vaga per i più. Oggi l’Euro e l’Unione sono diventati in molti paesi il tema centrale della campagna elettorale. Da questo punto di vista queste sono le prime vere elezioni europee. Lo sono perché l’Europa è diventata una linea di divisione tra i partiti, tra quelli che difendono le ragioni dell’Euro e dell’Unione e quelli che invece sono scettici o addirittura contrari all’uno e all’altra.

                Partiti populisti, euroscettici o eurofobi sono presenti in quasi tutti i paesi europei. Dove più e dove meno. Non c’è da meravigliarsi se avranno successo. Soprattutto in alcuni paesi. Tra questi in particolare in Gran Bretagna, dove lo UKIP di Lafarge è dato addirittura davanti a Laburisti e Conservatori, in Francia e in Italia.  La rabbia, il disincanto, la paura ne alimentano l’appeal. Giocano a loro favore molti fattori. La crisi economica è uno. Ma c’è anche il fatto che queste sono elezioni in cui, proprio perché la posta in gioco non è il governo nazionale, gli elettori si sentono più liberi di votare in modo diverso, più liberi di punire i partiti maggiori, e soprattutto quelli al governo, e di premiare i partiti più radicali e anti-sistema. Anche Il meccanismo elettorale proporzionale li favorisce.

                Il successo relativo di questi partiti domina il dibattitto sui media, ma in realtà non è un grave rischio di per sé. Anzi, la loro presenza, dando voce alla protesta, servirà a dar vigore al discorso sull’Europa e alla fine a legittimare maggiormente le istituzioni e le politiche dell’Unione. E’ finito il tempo del consenso acritico. E’ giusto che l’Europa non sia più un fatto scontato. I partiti europeisti saranno costretti a chiarire il loro messaggio e a difendere le ragioni dell’integrazione.

                Il vero rischio è che si faccia una lettura distorta del risultato del 25 maggio. E allora è essenziale che tutti tengano ben presente che non è affatto vero che l’idea di una Europa unita sia cosa del passato. Su questo i dati degli ultimi sondaggi dell’Eurobarometro sono molto istruttivi. Nonostante cinque anni di crisi profonda e lacerante, nemmeno l’Euro ha perso il sostegno della maggioranza dei cittadini europei. Questo è vero addirittura in Grecia. Ma ciò che colpisce di più è la convinzione che per affrontare la crisi e la sfida della globalizzazione non si possa più contare sui vecchi stati nazionali. Una convinzione che  è assolutamente maggioritaria e diffusa in maniera omogenea in tutti i paesi della UE. Su questo tema praticamente scompaiono le differenze tra paesi. Ed è la stessa convinzione che spiega il sostegno a una maggiore integrazione nei campi della politica di difesa e di sicurezza oltre che della politica estera.

                Per questo non sorprende che il sentimento di cittadinanza europea sia più diffuso di quanto molti credono. Certo, ci sono differenze importanti tra paesi su questa dimensione. La crisi pesa. Nei paesi più colpiti, come l’Italia, la Grecia, Cipro è un sentimento minoritario. I cittadini di questi paesi sono allineati, ma per ragioni diverse, agli inglesi nel sentirsi meno europei degli altri. E questo deve far riflettere. Non era così una volta. Ma nel complesso il quadro non è negativo. Non si può dire che sia in crisi l’idea di un destino comune dei popoli europei. E’ in crisi il messaggio sul come perseguirlo. Con quali politiche e con quali obiettivi.  Al messaggio nichilista dei partiti populisti, euroscettici e eurofobi si deve contrapporre con forza quello dei partiti convinti che l’Europa se non sarà una non sarà niente.

  • L’ex Cavaliere indebolito ma ancora indispensabile

    di Roberto D’Alimonte
    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 8 maggio 2014

    Quello che è successo Martedì in commissione affari costituzionali del Senato è emblematico. Sulla carta il governo aveva i numeri per fare passare il suo testo per la riforma del bicameralismo paritario senza dover ricorrere ai voti dell’opposizione. Infatti sul totale dei 29 membri della commissione 15 appartengono a partiti della maggioranza di governo. Per la precisione, i 15 sono così divisi: 9 del Pd, 3 del Ncd, 1 Popolare per l’Italia (Mauro), 1 di Scelta Civica, 1 del gruppo delle autonomie (il senatore Palermo, eletto a Bolzano). All’opposizione ci sono 4 senatori del M5s, 2 della Lega Nord (tra cui Calderoli), 5 di Forza Italia, 1 di Sel e il senatore Campanella, fuoriuscito dal M5s e ora nel gruppo misto. Nella votazione sull’ordine del giorno Calderoli, che di fatto tendeva a stravolgere l’impianto della riforma voluto da Renzi, doveva finire 15 a 14 a favore del governo. E invece il governo è stato battuto perché tutte le opposizioni hanno votato contro, compresi i senatori di Forza Italia, e la maggioranza si è divisa, con Mineo del Pd (gruppo Civati) che si è assentato e Mauro dei Popolari per l’Italia che ha votato a favore della proposta di Calderoli.
    Quello che è successo dopo lo ha raccontato Berlusconi in persona quando durante la conferenza stampa di ieri per la presentazione del dipartimento cultura di Forza Italia ha dichiarato pubblicamente di avere subito “una forte pressione per dire che era importante votare il testo base”, per non essere accusati di interrompere la collaborazione con il governo Renzi. E così, in una secondo round, con i voti di Forza Italia il testo del governo è stato approvato e il treno della riforma costituzionale è tornato sui binari giusti dopo aver rischiato di deragliare paurosamente. Certo, resta in piedi il pasticcio di un ordine del giorno che dice una cosa e un testo base che ne dice una altra molto diversa, ma verrà trovato il modo di risolvere la questione sul piano procedurale. Quello che conta è che la discussione in commissione avverrà sulla base del modello di riforma proposto dal governo e non su un modello completamente diverso.
    La proposta di Calderoli è stata una mossa abile fatta da chi conosce bene gli umori del parlamento oltre che le sue procedure. Dentro c’era di tutto: dalla diminuzione del numero dei deputati al rafforzamento del ruolo delle regioni e soprattutto l’elezione diretta di una parte consistente dei nuovi senatori. Questo ultimo era l’elemento su cui il senatore della Lega puntava per spaccare il gruppo del Pd in commissione, visto che tra i suoi membri la maggioranza non è vicina al premier e non è insensibile ai richiami della proposta Chiti, che prevedeva anche essa un Senato elettivo. A Calderoli alla fine non è andata bene. Meglio così. Se l’avesse spuntata tutto sarebbe tornato in discussione con conseguenze difficili da prevedere. Renzi ha ragione quando dice che è stato fatto un passo importante.
    Questa vicenda è comunque illuminante sotto molti aspetti. Al Senato la fragilità della maggioranza di governo è tale che senza il sostegno di Forza Italia Renzi non può fare le riforme che ha messo in cantiere. Questo è un fatto. Già sull’Italicum alla Camera si erano viste le prime avvisaglie del tipo di guerriglia parlamentare in cui rischia di impantanarsi il governo. Al Senato è peggio perché qui il sistema elettorale non ha ingrossato la rappresentanza del Pd, come invece è avvenuto alla Camera. A Palazzo Madama i numeri sono quelli che sono, sia in commissione che in aula. Chi aveva ancora dei dubbi sulla validità della scelta di Renzi di cercare la collaborazione di Berlusconi per fare le riforme istituzionali dovrà ricredersi. Il premier ci ha visto bene. E’ bastata la defezione di Mauro, esponente di un minuscolo partito della maggioranza, per rischiare di bloccare tutto. La esiguità della maggioranza esalta il potere di ricatto di chiunque ne faccia parte. Questa volta Renzi può consolarsi che gli esponenti del suo partito in commissione non hanno defezionato, a parte Mineo. Ma in futuro? Cosa potrebbe succedere sugli altri passaggi della riforma del Senato senza poter contare su una maggioranza allargata a Fi? Per non parlare dell’Italicum che prima o poi dovrà essere discusso a Palazzo Madama e su cui esistono forti riserve da parte di settori consistenti del Pd , e non solo.
    Ma l’appoggio di Fi non è gratuito. Perché i suoi senatori in commissione hanno inizialmente votato un ordine del giorno che era palesemente in contrasto con il patto del Nazareno? E’ vero che il testo del governo comprende elementi che esulano da quell’accordo. Ma sono elementi marginali e sui quali Renzi era, ed è, pronto ad accettare modifiche. Sono le modifiche che nei prossimi giorni saranno presentate al testo base. Si poteva approvare quel testo già in prima battuta. E invece Fi si è schierata inizialmente a favore di una proposta che non c’entra nulla con il patto del Nazareno. Perché? Secondo Calderoli non si voleva dare a Renzi un trofeo da sbandierare in campagna elettorale. Ed è certamente così. Ma si voleva anche dimostrare pubblicamente la dipendenza di Renzi dal sostegno di Fi. Per quanto indebolito Berlusconi resta ancora un attore necessario in questa fase della politica italiana. Martedì scorso ce lo ha ricordato.