Autore: Roberto D’Alimonte

  • Per i futuri senatori resti l’elezione indiretta

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 4 maggio 2014

    Come verrà eletto il nuovo Senato delle autonomie?  Fino alla settimana scorsa alla domanda si poteva rispondere sulla base della proposta presentata dal governo Renzi il 31 Marzo scorso . Adesso non più perché dopo i contatti dentro e fuori la maggioranza di governo il premier ha deciso di accettare delle modifiche. Non è una sorpresa. Il pragmatismo di Renzi è una delle sue virtù.  Di queste modifiche però non si conosce ancora il contenuto. Circolano voci. E’ pericoloso commentare solo delle voci ma qualche volta vale la pena di farlo per mettere in guardia lettori e decisori da tentazioni mal riposte.

                Una di queste voci riguarda la composizione del futuro Senato delle autonomie. Come è noto, il modello originale è basato su una doppia parità: quella tra le regioni e quella tra i rappresentanti regionali (presidenti e consiglieri) e quelli delle autonomie locali (sindaci). A parte il Trentino Alto Adige che per ragioni ignote dovrebbe avere 8 senatori tutte le altre regioni ne hanno 6.  Come avevamo scritto su questo giornale tempo fa (13 Aprile) la parità tra le regioni non regge. Nel nostro caso non ha senso che Valle d’Aosta e Lombardia  abbiano gli stessi senatori. L’altra parità – quella tra i rappresentanti delle regioni e quelli dei comuni- è un pallino del premier, Non è uno scandalo,  ma neanche questo è un elemento necessario del modello. E lo stesso vale per la nomina presidenziale di 21 esponenti della società civile. Sono troppi ed è giusto che il loro numero sia ridotto. Se- come pare- ci saranno modifiche su questi aspetti non cambieranno la sostanza delle cose. Anzi la miglioreranno.

                Quello che invece preoccupa, tra le voci che circolano, è che il nuovo Senato non sarebbe più eletto dai presidenti di regione, consiglieri regionali e dai sindaci.

     Si parla infatti di una elezione dei futuri senatori contestuale a quella dei consiglieri regionali.  In questo caso gli elettori chiamati alle urne per l’elezione dei presidenti delle giunte regionali e dei consigli voterebbero anche per i senatori spettanti alla regione. In altre parole sarebbero gli elettori a scegliere i senatori e non i consigli regionali. Sui  rappresentanti dei comuni non si sa nulla.

                Diciamolo chiaramente: questa modalità di elezione dei futuri senatori viola il  principio della elezione indiretta. Sarebbero i cittadini a scegliere i senatori e non i consigli regionali. (https://norvado.com/) Suona bene, ma è sbagliato. E non è quello per cui Renzi si è battuto fino ad oggi. Ci azzardiamo ad immaginare che più o meno il meccanismo funzionerebbe in questo modo.  Il giorno delle elezioni regionali i cittadini sarebbero chiamati a esprimere il loro voto per uno dei candidati alla presidenza della regione , per una lista di consiglieri a lui collegata che faranno i consiglieri regionali e per una lista di consiglieri che in realtà saranno destinati a fare i senatori. Non sarà facile conciliare tutto ciò sul piano tecnico ma conoscendo la fantasia di Calderoli in materia una qualche soluzione sarà trovata.

                Il punto vero è politico. Un sistema così congegnato non è né carne nè pesce o, come direbbe Sartori,  non è né un cane né un gatto. Sarebbe un ‘cangatto’.  Ma in realtà se il cane è l’elezione diretta sarebbe più un cane che un gatto. Si potrebbe dire un finto ‘cangatto’. E’ vero che l’elezione dei senatori non avverrebbe in una unica tornata elettorale, visto che le regioni votano in tempi diversi , ma questa differenza è marginale. Quello che conta è che i futuri rappresentanti delle regioni nel nuovo Senato sarebbero eletti direttamente e sarebbero senatori a tempo pieno. Che poi si dica che le loro indennità verrebbero pagate dalle regioni fa sorridere. Da chi prendono i soldi le regioni per pagarle?  Questo per dire che con questa modifica non solo salta il principio della elezione indiretta ma anche quello della riduzione dei costi della politica.

                E’ solo una voce. E forse è una voce infondata. In questo caso ci scusiamo con i decisori e soprattutto con i lettori per aver sollevato un problema inesistente. Ma su certe cose è meglio parlare prima piuttosto che lamentarsi dopo. Questa è una di quelle.

     

  • Lombardia come Valle d’Aosta. Il limite del Senato “renziano”

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 13 aprile 2014

    Nella riforma del Senato proposta dal governo c’è molto di buono e altro che si presta a una riflessione critica. Fermo restando che la nuova assemblea non debba essere eletta direttamente (Sole24Ore del 3 Aprile),  sulla sua composizione si può e- a nostro avviso- si deve discutere. Il progetto attuale prevede che ci siano 61 membri di provenienza regionale e 61 di provenienza  comunale. A questi rappresentanti di comuni e regioni si aggiungono 21 membri scelti dal capo dello Stato tra cittadini ‘che abbiano illustrato la Patria per altissimi meriti’, oltre agli ex presidenti della Repubblica e agli attuali senatori a vita che sono 5 in tutto. Il totale fa 148. Ma non è il totale che conta ma la sua distribuzione. Prescindendo dai 21 membri non politici la rappresentanza del nuovo Senato sarebbe equamente divisa tra regioni e comuni. E questo è un punto su cui si deve riflettere. L’altro è la rappresentanza paritaria delle regioni.

                Cominciamo da questo ultimo aspetto. A ogni regione spettano 6 senatori. Solo al Trentino Alto Adige – e non è giusto- ne spettano 8. I 6 senatori sono così distribuiti : il presidente della regione, due consiglieri regionali e tre sindaci tra cui  il sindaco del comune capoluogo di regione. Il totale fa 122 (61 più 61). Data la nostra forma di stato, che la Valle d’Aosta con i suoi 127.844 abitanti debba avere gli stessi rappresentanti della Lombardia che ne ha 9.794.525 è una incongruenza. La parità ha una sua ratio in uno stato federale. E’ così negli USA. La California con i suoi 38 milioni di abitanti elegge due senatori come il Wyoming che ne ha 580.000. Ma gli Usa sono appunto uno stato federale. Noi no.

                Ma nemmeno in Germania, che pure è uno stato federale, i Lander hanno gli stessi rappresentanti nel Bundesrat, la camera alta. La tabella 1 in pagina mostra la sua attuale composizione. Come si vede i Lander con meno di 2 milioni di abitanti hanno 3 rappresentanti, quelli tra i 2 e i 6 ne hanno 4, l’Assia ne ha 5 e quelli sopra i 7 ne hanno 6.  La rappresentanza non è perfettamente proporzionale alla popolazione ma il peso dei Lander comunque varia. Non si vede perché il nostro paese, che non è uno stato federale, debba ispirarsi al modello Usa e non a quello tedesco.

                Una diversa composizione del nuovo Senato più rispettosa dei pesi delle diverse regioni non tocca i paletti ritenuti da Renzi non negoziabili. In pagina sono presentate diverse proposte. La tabella 2 mostra come sarebbe il nuovo Senato se fosse formato esattamente come il Bundesrat.  Ma questa è solo una delle possibili ipotesi. Un altro modo di procedere è quello di assegnare a ciascuna regione un numero fisso di senatori e poi aggiungerne una quota variabile in funzione della popolazione. Sia la quota fissa che quella variabile possono essere di grandezza diversa. In questo campo non esistono numeri magici.

                Nella tabella 3 la quota fissa è di 5 seggi e quella variabile è pari a un seggio ogni milione di abitanti. Il totale fa 149. La regione più piccola, la Valle D’Aosta, avrebbe 5 seggi  mentre quella più grande, la Lombardia, ne avrebbe 14. Se questo divario fosse ritenuto eccessivo si potrebbe aumentare la quota fissa oppure fissare un tetto alla quota variabile. Al contrario se invece fosse ritenuto troppo piccolo si potrebbe ridurre la quota fissa da 5 a 4 oppure a 3 con il risultato aggiuntivo di diminuire il numero dei componenti della assemblea. Una altra variante possibile è quella di assegnare i seggi aggiuntivi con una formula diversa da quella di un seggio ogni milione di abitanti. Questo è quello che si è fatto nella tabella 4. In questa ipotesi la quota fissa è pari a 3 seggi mentre quella variabile funziona ‘alla tedesca’.

                Una volta fissato il numero di senatori spettanti a ciascuna regione resta in piedi la scelta se regioni e comuni debbano essere rappresentati in misura paritaria. In Germania sono i Lander, e non i comuni (a parte città-stato come Amburgo e Brema), a essere rappresentati nel Bundesrat. E la stessa cosa vale nella maggior parte dei paesi. E’ raro che i sindaci facciano parte della camera alta. Ma l’Italia vanta una tradizione municipale che in molti casi non esiste altrove. E il nostro presidente del consiglio è giustamente molto affezionato a questa tradizione. Che nel nuovo Senato ci siano dei sindaci non è una cattiva idea ma che questi debbano essere in numero pari ai rappresentanti delle regioni è materia di discussione. Per approfondire questo punto però non si può solo parlare di  composizione della nuova assemblea, ma occorre riflettere anche sulle  sue funzioni. Le due cose non sono indipendenti.  Su questo ci sarà modo di tornare.

  • Con la revisione del Senato l’Italia si allinea ai paesi UE

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 3 aprile 2014

                I paesi della Europa Occidentale che appartengono alla Unione Europea sono 15 (oltre l’Italia), compresi i piccolissimi Lussemburgo e Malta. In 7 la seconda camera non esiste. Vale a dire, in Finlandia, Danimarca, Svezia, Grecia, Lussemburgo e Malta il Parlamento è monocamerale. Negli altri 8 paesi  solo in Spagna la seconda camera è in gran parte elettiva. Questi sono i banalissimi dati da cui qualunque persona di buon senso dovrebbe partire per giudicare la proposta di riforma del Senato approvata l’altro ieri dal consiglio dei ministri . E invece no. L’idea di un senato non eletto direttamente dai cittadini suscita scandalo. Si arriva a parlare di svolta autoritaria. Lo stesso presidente del Senato è sceso in campo a difesa di una elezione diretta dei senatori che nel resto dell’ Europa occidentale esiste in un unico caso.

                In realtà la proposta di Renzi rappresenta una soluzione moderata. Solo alla luce dell’immobilismo degli ultimi trenta anni  può apparire come una riforma rivoluzionaria.  Se il presidente del consiglio avesse voluto innovare radicalmente avrebbe dovuto puntare non solo al superamento del bicameralismo paritario ma alla abolizione stessa del Senato. Ma non è così. Anche se c’è chi parla di abolizione del Senato il fatto è che la riforma verte sulla trasformazione dell’attuale Senato. Avremo sempre un parlamento bicamerale ma con una Camera dei deputati sovraordinata all’altra.  Nel nostro contesto si tratta comunque di un grande passo avanti. L’Italia non sarà come la Svezia, ma piuttosto come la Germania.

                In Germania i membri del Bundesrat sono nominati dai governi dei lander. Ogni lander ha un numero di rappresentanti proporzionale alla popolazione. Solo il Bundestag dà la fiducia al governo. Il Bundesrat però ha un potere di veto (assoluto o sospensivo) sulle materie legislative che toccano le prerogative dei Lander, soprattutto in materia finanziaria. Inoltre per l’approvazione delle riforme costituzionali serve la maggioranza dei due terzi dei suoi membri.

                Rispetto a questo modello la proposta di Renzi presenta analogie e differenze. Nel nuovo Senato non ci saranno solo i rappresentanti delle regioni ma anche quelli dei comuni , nonché 21 senatori nominati dal capo dello Stato. Come nel caso del Bundesrat il nuovo Senato non darà la fiducia al Governo. Quanto alle sue competenze saranno molto rilevanti in tema di riforme costituzionali. In questo ambito i suoi poteri saranno uguali a quelli della Camera dei deputati. Non è cosa da poco. Sulle altre materie, soprattutto su quelle di interesse delle autonomie territoriali, potrà fare proposte ma l’ultima parola spetterà alla Camera che in certi casi potrà far valere la sua volontà solo con la maggioranza assoluta.

                Negli altri tre grandi paesi dell’Europa Occidentale l’elezione diretta esiste solo in Spagna. Ma nemmeno in questo paese si può parlare di una camera alta con poteri rilevanti nonostante il fatto che la maggioranza dei suoi membri siano eletti dai cittadini.

    E lo stesso vale anche per Gran Bretagna e Francia. Così come per Paesi Bassi, Belgio, Irlanda, Austria. Per trovare una camera alta con poteri simili al nostro attuale Senato bisogna andare negli USA o in Giappone. Il modello europeo è quello del monocameralismo o del bicameralismo asimmetrico.

                In sintesi, la riforma in discussione da noi non si discosta dalla realtà degli altri paesi europei, grandi e piccoli. Né si tratta di una proposta blindata il pragmatismo di Renzi  è tale per cui una volta fissati i punti non negoziabili sul resto è plausibile che il Parlamento possa intervenire con modifiche mirate sia sulla composizione che sulle competenze del nuovo Senato. Alla fine del percorso quello che conta è che la nuova assemblea abbia le quattro caratteristiche più volte ripetute da Renzi : (1) non sia eletto direttamente dai cittadini; (2) i suoi membri non percepiscano  nessuna indennità;  (3) non dia la fiducia al governo (che dovrà ottenerla dunque solo dalla Camera); (4) non abbia voce in capitolo sul bilancio dello Stato. Tutte cose assolutamente ragionevoli e lungamente attese. Tanto ragionevoli e tanto attese che forse questa volta vedranno la luce nonostante l’accanito conservatorismo provinciale di molti parlamentari e di altrettanti intellettuali. Ma non sarà facile visti i numeri. Per questo il ricorso alle urne, anche con il sistema elettorale della Consulta, è una opzione da mettere sul tavolo per non finire nella palude.

  • Alternanza dei sessi in lista compromesso ragionevole

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 9 marzo 2014

    Sulla presenza delle donne in Parlamento l’Italia ha fatto negli ultimi anni notevoli progressi. Nel primo Parlamento della Seconda Repubblica deputate e senatrici erano complessivamente  meno del 13% del totale degli eletti. Nelle elezioni del 2008 la percentuale è salita al 20%. Il balzo significativo è stato fatto alle ultime elezioni, quelle del 2013. Tra Camera e Senato oggi le donne sono circa il 31%.  Questa è una media che nasconde percentuali molto diverse tra partito e partito. Nel caso del Pd e del M5s la percentuale è il 38, mentre è del 19% nell’area che faceva capo al defunto Pdl.

    In prospettiva comparata il 31% italiano non è molto ma nemmeno tanto poco. In nessun paese europeo è stata raggiunta la parità.  Nemmeno in Svezia.  La situazione italiana è migliore di quella della Francia e della Gran Bretagna, ma peggiore di quella dell’Olanda e della Spagna. Nel resto del mondo il quadro è molto variabile. Negli Usa le donne nella Camera dei rappresentanti  sono solo il 18% del totale. La media a livello mondiale è del 21%.  Questa percentuale sale al 22% tenendo conto solo di quei paesi in cui ci sono quote previste dalla Costituzione, dalle leggi elettorali o dagli statuti dei partiti. Solo in Rwanda le donne superano il 50% degli eletti.

    Le attuali norme dell’Italicum non favoriscono la rappresentanza femminile. Sono tre.  A livello di  ciascuna circoscrizione-regione, i partiti sono tenuti a  presentare liste che comprendono il 50% di candidati di ciascun sesso. A livello dei singoli collegi i candidati appartenenti allo stesso sesso non possono essere più dei due terzi rispetto ai seggi da assegnare. In lista non possono essere elencati consecutivamente più di due candidati dello stesso sesso. Con queste regole un congruo numero di donne può arrivare in Parlamento solo se i partiti cui appartengono decidono di candidarle al primo o al secondo posto della lista. Infatti, dato che saranno pochi i collegi in cui un partito potrà vincere tre seggi è chiaro che candidare due uomini nei primi due posti  vuol dire escludere automaticamente la terza candidata donna.

    E’ comprensibile quindi che alla Camera siano stati presentati diversi emendamenti tendenti a rendere più vincolante la formazione delle liste e più facile l’elezione di deputate e senatrici. Queste modifiche sono di due tipi. Nel primo caso si vorrebbe obbligare i partiti a mettere al primo posto in lista, a livello regionale,  il 50% di uomini e il 50% di donne. Questa è una soluzione radicale che farebbe dell’Italia un caso unico al mondo. Naturalmente esistono soluzioni intermedie ma negoziare su percentuali di sicuri eletti non è semplice.

    L’altra soluzione è forse più fattibile. Prevede  l’alternanza in lista tra uomini e donne. Anche questo emendamento è osteggiato da Forza Italia. Ma qui Berlusconi e Verdini sbagliano. Accettare l’alternanza uomo-donna lascerebbe comunque ai partiti una ampia libertà nella formazione delle liste. Infatti, per come funzionerà l’Italicum,  una donna collocata al secondo posto  può sperare di essere eletta solo se in quel collegio il suo partito conquisterà un secondo seggio. Quanti saranno i collegi in cui ciò si verificherà ?  Dipenderà naturalmente dal risultato elettorale ma anche dal come verranno disegnati i collegi. Questa ultima decisione non è ancora stata presa. Ma è plausibile ipotizzare che potrebbero essere un numero sufficiente per garantire  una congrua rappresentanza femminile senza vincolare troppo rigidamente  le scelte dei partiti. Per questo motivo l’alternanza tra i sessi è un compromesso ragionevole.

    Resta una ultima osservazione da fare. Sono pochissimi i paesi europei che prevedono quote di genere fissate per legge. Nella stragrande maggioranza dei paesi, compresi quelli scandinavi, la promozione della rappresentanza femminile passa per un sistema di quote fissate volontariamente dai partiti. In Italia alcuni partiti lo prevedono già. Altri no.

  • Italicum dimezzato, rischio governabilità

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 5 marzo 2014

    Alla fine l’ha spuntata chi non vuole che la riforma elettorale si faccia ora. Questo è il senso di quanto sta succedendo in queste ore in parlamento. Il nuovo sistema elettorale – l’Italicum- verrebbe approvato solo per le elezioni della Camera. In attesa che si faccia la riforma costituzionale per il superamento del bicameralismo paritario resterebbe in vigore per l’ elezione dei senatori il sistema di voto uscito dalla sentenza della Consulta. Proprio un bel pasticcio. In questo modo, se si dovesse tornare a votare prima che la riforma del Senato fosse fatta voteremmo con l’Italicum – che è un sistema maggioritario -per la Camera e con un sistema proporzionale per il  Senato. Anzi, alla Camera ci sarebbe anche il ballottaggio. E al Senato naturalmente no.

                Il bello è che questa soluzione è stata proposta da coloro che si oppongono alla approvazione dell’Italicum per entrambi i rami del parlamento in nome della governabilità. Infatti l’argomento utilizzato per mettere i bastoni tra le ruote a Renzi  è che un sistema elettorale a due turni potrebbe produrre maggioranze diverse tra Camera e Senato. Quindi meglio lasciare l’Italicum alla Camera e il  proporzionale della Consulta al Senato. Come se questa soluzione non presentasse esattamente lo stesso rischio di ingovernabilità. Anzi, mentre nel primo caso il rischio è potenziale, nel caso è certo. Infatti è vero che sulla carta l’Italicum potrebbe produrre due diverse maggioranze, ma le probabilità di questo esito non sono elevate. Mentre votando con l’Italicum ci sarebbe un vincitore certo alla Camera e certamente nessun vincitore al Senato. Cioè si riprodurrebbe esattamente la stessa situazione creatasi con le elezioni dello scorso Febbraio.

                E’ così evidente la debolezza di questo argomento che non ci vuol molto a capire che la vera ragione di questa manovra parlamentare è quella di non dare a Renzi un sistema elettorale con cui puntare alle elezioni anticipate a suo piacimento.  Renzi ha promesso ai parlamentari di durare fino al 2018. I parlamentari vogliono essere sicuri che mantenga la promessa. Tutto qui. Per loro questa  è ovviamente  una promessa che vale. Ma quanto vale? Qualche giorno fa abbiamo scritto che vale fino a quando non ci sarà una nuova legge elettorale. Fino ad allora avranno una arma potente per frenare l’esuberanza del premier perché con l’attuale sistema di voto non può ricorrere alle urne per cercare quella legittimazione popolare che gli serve per fare quello che veramente vuole. Infatti tornare a votare con il sistema della Consulta vuol dire non risolvere nulla.  Ma adesso sappiamo che non potrà tornare a votare nemmeno con la ‘sua’ legge elettorale perché sarà approvata solo a metà. Quindi è inutilizzabile. Fare una nuova legge elettorale solo per la Camera significa non fare la riforma elettorale. Nuove elezioni diventeranno possibili solo con la riforma del Senato. Quando?  Chi può dirlo?

                E allora perché Renzi ha accettato questo compromesso?   Risposta difficile. Forse ha capito di non avere i voti per far passare la riforma. Di fronte all’ eventualità di uno scacco ha preferito incassare l’approvazione di un Italicum dimezzato per poter dire che comunque una riforma – per quanto parziale- è stata fatta. Meglio metà riforma che nessuna riforma. E’ una spiegazione  coerente con il pragmatismo dell’uomo. Una altra possibile spiegazione è che in fondo a lui avere o non avere un sistema elettorale pronto all’uso interessa poco. La sfida vera è quella di fare le riforme, di realizzare il cambiamento che la gente si aspetta. L’aver rassicurato i parlamentari, rinunciando alla pistola del nuovo sistema elettorale, forse gli consentirà di lavorare meglio con loro. Sono due spiegazioni plausibili e non mutualmente esclusive. Intanto nell’attesa di vedere se la seconda sarà quella buona ci teniamo il pasticcio dell’Italicum dimezzato

  • Pigliaru vince con il porcellum versione regionale

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 19 febbraio 2014

    Renzi è più fortunato di Veltroni. Cinque anni fa nello stesso giorno in cui Renzi ha ricevuto l’incarico per la formazione del nuovo governo. Veltroni si è dimesso da segretario del Pd dopo la sconfitta di Soru nelle elezioni regionali in Sardegna. Quelle dimissioni affossarono, l’dea del Nuovo Pd a vocazione maggioritaria. La storia della sinistra prese una altra strada che l’ ha portata alla drammatica sconfitta del 2013.  Per una strana coincidenza il cammino del Nuovo Pd riprende dall’isola dove si era interrotto 5 anni fa.

                Sarà una strada in salita. Francesco Pigliaru ha vinto ma il suo Pd che pure è risultato il maggior partito dell’isola ha preso solo il 22,1% dei voti, pari a 150.492 elettori. Nelle  regionali perse da Soru nel 2009 ne aveva ottenuti il 24,7% , mentre il Pd di Veltroni nelle politiche del 2008 era arrivato al 36,2%. Ha vinto per la debolezza degli avversari, quelli presenti e quelli assenti. Ha contato l’assenteismo con un calo di ben 15 punti percentuali rispetto alle precedenti regionali. Solo il  52% degli elettori si è recato alle urne. In Basilicata qualche mese erano stati  meno, il 48%.  E’ un segnale chiaro del clima di sfiducia e di distacco. Questa volta non compensato dalla presenza di un partito di protesta come il M5s che qui ha disertato le urne.

                L’analisi dei flussi elettorali ci dirà su chi ha pesato di più l’astensionismo. Il sospetto è che anche questa volta abbia colpito di più il centrodestra. Fi, che è il secondo partito ha ottenuto il 18,5% pari a 126.327 elettori. Ne aveva il doppio nel 2009.  Insieme Pd e Fi hanno preso circa la metà dei voti che avevano nelle regionali precedenti e il 35% in meno rispetto alle politiche dell’anno scorso. Da soli non hanno la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio. Questo descrive bene lo stato di debolezza dei grandi partiti e la condizione di fragilità del sistema politico.  Dopo Pd e Fi non ci sono che liste minuscole, la più grande delle quali ha preso il 7,6% dei voti.  Addirittura 21 liste hanno ottenuto meno del 3%. La stessa frammentazione si riscontra a livello di seggi. Sono 18 le liste con seggi. Di queste 9 hanno preso meno del 3% dei voti. Una lista ha avuto un seggio con lo 0,7%.  Forse una soglia di sbarramento anche per i partiti coalizzati non sarebbe stata una cattiva idea. Ma la via italiana alla governabilità passa per lasciar spazio alla frammentazione nei consigli, ma costringendo i tanti partiti dentro maxi- coalizioni. La coalizione di Pigliaru ne comprende 11, quella di Cappellacci 7. Tutti hanno ottenuto almeno un seggio.

                Con una frammentazione del genere se la forma di governo regionale fosse di tipo parlamentare la Sardegna sarebbe ingovernabile. Invece gli elettori sardi hanno avuto la possibilità di votare direttamente il presidente della giunta. In questa competizione che è di tipo maggioritario la frammentazione si è ridotta drasticamente. I candidati dei due partiti maggiori si sono aggiudicati l’ 82,2% dei voti e Pigliaru con il suo 42,4% si è aggiudicato un premio di maggioranza che ha consentito alla sua coalizione di arrivare al  60% dei seggi, 36 su 60. Sarebbero stati il 55% se non avesse superato il 40% dei voti.  Così elezione diretta e premio consentono a chi vota di scegliere chi governa e a chi governa di avere la maggioranza per poterlo fare.  Il prezzo da pagare è la personalizzazione della politica che supplisce alla assenza di grandi partiti.

                Ma le regole non possono fare miracoli. Pigliaru si trova a governare con una coalizione, che per quanto formatasi prima del voto e quindi legittimata dalle urne, è pur sempre una coalizione con ben 11 liste. A suo vantaggio gioca la forza che gli deriva dalla elezione diretta. Tanto più che nel suo caso non gli sono bastati i voti delle liste per vincere. Le sue liste hanno raccolto infatti 289.573 voti contro i 299.349 mila di Cappellacci. Sono stati gli elettori che hanno votato lui , ma non per una delle sue liste, a garantirgli il successo. La differenza tra i voti a lui e quelli alle sue liste è positiva (24.000 in più)  mentre per Cappellaci è negativa (7.000 in meno).  Alla fine la persona ha fatto la differenza, ma non sarebbe successo senza un sistema elettorale che è una versione regionale del porcellum nazionale bocciato dalla Consulta. In Sardegna un candidato che prende il 25% dei voti può arrivare, grazie al premio, al 55% dei seggi. Trenta punti di premio sono tanti. Sono costituzionali?  Oppure il sistema viola il principio dell’uguaglianza del voto in uscita?  Intanto è grazie al premio che Pigliaru riuscirà a governare. A livello nazionale, quando l’Italicum verrà approvato, sarà la stessa cosa. Ma lì non c’è l’elezione diretta. E questo fa una bella differenza.

     

  • Il nodo dei seggi tra partiti e territorio

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 12 febbraio 2014

    Una volta erano questioni riservate agli addetti ai lavori. A furia di parlare di sistemi elettorali anche i comuni mortali hanno scoperto il fascino di formule esoteriche come gli algoritmi, cioè le procedure,  con cui i seggi assegnati ai partiti a livello nazionale vengono redistribuiti alle circoscrizioni e ai collegi sul territorio. Però quello che pochi sanno è che questa operazione, che sulla carta sembra una cosa semplice, è invece dannatamente complessa sul piano tecnico e molto delicata sul piano politico.

    Il problema non si pone per tutti i sistemi elettorali. Ci sono sistemi  infatti, come quello spagnolo o quello francese, in cui i seggi vengono assegnati ‘in basso’, cioè a dire direttamente nei collegi plurinominali (lo spagnolo) o uninominali (il francese). In questo caso è la formula elettorale utilizzata a determinare chi viene eletto. Non c’è bisogno di altri passaggi. Ci sono però anche sistemi elettorali che funzionano ‘ in alto’. Sono quelli, come l’Italicum o quello tedesco, in cui i seggi tra i partiti vengono distribuiti sulla base di una formula proporzionale applicata a livello nazionale.  Una volta fatta questa operazione, i seggi ottenuti da tutti i  partiti vanno trasferiti alle circoscrizioni e ai  collegi in cui gli elettori hanno votato. Per esempio, immaginiamo che  Forza Italia abbia diritto a 100 seggi. In quali regioni e in quali collegi plurinominali verranno eletti  i  100 candidati ?  E’ qui che nascono i problemi.

    Con l’Italicum i seggi vengono assegnati prima alle regioni e poi ai collegi all’interno di  ciascuna regione. Ogni regione ha un certo numero di seggi in base alla popolazione residente. Questi seggi vengono poi distribuiti tra un certo numero di collegi. In ciascun collegio  verranno eletti tra i 3 e i 6 deputati. Una volta trasferiti i seggi di tutti i partiti dall’alto in basso, perché tutto funzioni bene bisognerebbe che il risultato finale soddisfacesse due condizioni: che ogni regione e ogni collegio avessero il numero di seggi che gli spettano e che ogni partito riuscisse a eleggere i suoi rappresentanti dove questi hanno preso più voti. Sono due criteri distributivi ugualmente importanti.  Il problema è che non esiste un algoritmo facilmente utilizzabile capace di soddisfarli entrambi. In altre parole, è una sorta di quadratura del cerchio.

    La domanda cruciale quindi è questa: facciamo in modo che ogni regione e ogni collegio abbia i seggi cui ha diritto o facciamo in modo che i partiti  abbiano i seggi dove hanno preso più voti?  Nel primo caso privilegiamo la rappresentanza territoriale, nel secondo la rappresentanza politica.  Naturalmente non si tratta di sacrificare completamente un obiettivo a spese dell’altro.  Ci sono soluzioni intermedie, ma il problema politico resta perché non è indifferente che si massimizzi l’uno o l’altro obiettivo. Non ci va di mezzo solo la sovra o sotto-rappresentazione dei territori ma anche le possibilità di successo dei candidati oltre al rispetto della volontà degli elettori.

    La quadratura del cerchio è un problema tecnico, che va sotto il nome di allocazione biproporzionale,  ma è soprattutto un problema politico. Chiariamo meglio il punto. Se si sceglie di massimizzare il primo obiettivo, il risultato sarà che ci saranno partiti, soprattutto i piccoli, che non riusciranno a prevedere dove scatteranno i loro seggi. Per esempio  può succedere  che possa essere eletto un candidato minore del Nuovo centro destra con meno voti del segretario Alfano perché il seggio del Ncd ‘deve’ scattare in quella regione e in quel collegio indipendentemente dalla graduatoria dei voti presi dai candidati del Ncd. In altre parole, se il nostro misterioso algoritmo  è calibrato in modo da privilegiare il criterio della rappresentanza territoriale  il seggio del Ncd deve scattare laddove occorre assegnare un seggio a quella regione e a quel collegio perché quella regione e quel collegio devono avere x numero di seggi. Né uno di più né uno di meno. E il fatto che in quella regione e in quel collegio il candidato del Ncd abbia avuto pochi voti non è cosa che interessa l’algoritmo, ma solo Alfano. In questo modo l’elezione dei candidati dei piccoli partiti diventa una sorta di roulette. L’unico modo per sperare di vincere è puntare su più caselle. Fuor di metafora, questo vuol dire potersi candidare in più collegi.

    Il problema è diverso –  e si chiama slittamento – se il nostro misterioso algoritmo è calibrato per fare in modo che i partiti prendano i seggi dove i loro candidati hanno più voti.  Questo aiuterebbe i piccoli partiti, ma al costo di avere regioni e collegi con più o meno  seggi rispetto a quelli che dovrebbero avere. In questo caso vedremmo seggi che slittano di qua e di là. Ora qualche slittamento potrebbe anche essere accettabile. Ma a complicare il tutto c’è anche il vincolo costituzionale per cui al Senato i seggi tra le regioni non possono slittare.

    Insomma non se ne esce. Quanto meno non se esce bene.  Si può solo cercare  di trovare un algoritmo, traducibile in un testo legislativo,  che minimizzi il problema  combinando in maniera equilibrata i due criteri di rappresentanza.  Ma per far questo occorre da una parte la tecnica e dall’altra la volontà politica.

  • Ecco come funzionano i collegi dell’Italicum

    di Roberto D’Alimonte e Aldo Paparo

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 9 febbraio 2014

    Le simulazioni non servono a prevedere come andranno le prossime elezioni. Servono invece a capire come funzionano i sistemi elettorali. In questo caso l’Italicum. Prima di vedere i risultati della simulazione fatta dal Cise, è bene spiegare come è stata realizzata.

    Partendo dai 475 collegi uninominali della Camera previsti dalla legge Mattarella il Cise ha ritagliato 148 collegi plurinominali. I collegi veri molto probabilmente saranno disegnati dal ministero dell’Interno visto che si parla di una delega al governo allo scopo. I collegi del Cise sono stati creati tenendo conto di alcuni vincoli. Hanno tutti tra 3 e 6 seggi, ma molti sono di 4. Sono contigui territorialmente e non superano i confini regionali. Il numero di abitanti è stato calcolato sulla base del censimento 2011 e si colloca mediamente intorno ai 400mila. Per la loro definizione non è stato utilizzato nessun criterio politico, storico o socio-economico. Il punto di partenza per l’analisi è rappresentato dall’esito delle elezioni dello scorso febbraio ricalcolato sui 148 collegi-Cise. Le percentuali di voto che i partiti e le coalizioni hanno ottenuto allora sono stati poi modificati sulla base della media dei sondaggi delle ultime due settimane (si veda la tabella). In gergo, il tasso di variazione tra il dato di febbraio e quello di oggi è denominato “swing”. Questo swing è stato applicato collegio per collegio. Questo modo di procedere, partendo dal risultato di febbraio, non altera la geografia elettorale. In altre parole restano costanti le aree di forza relativa dei vari partiti. I seggi sono stati assegnati ai partiti e alle coalizioni di centrosinistra e di centrodestra tenendo conto delle attuali regole dell’Italicum. Solo i partiti coalizzati con una percentuale di voti uguale o superiore al 4,5% sono stati ammessi alla distribuzione dei seggi. Alla Lega è stata applicata la clausola prevista per i partiti regionali. La composizione delle coalizioni è una ipotesi di chi scrive.

    Alla luce delle recenti dichiarazioni di Casini i voti dell’Udc sono stati sommati a quelli del Ncd. Se l’Udc si presentasse da sola non otterrebbe seggi. In base alla media dei sondaggi più recenti nessuna coalizione arriverebbe al 37% dei voti, che è la soglia prevista dall’Italicum per far scattare il premio di maggioranza. Quindi si andrebbe al ballottaggio tra centrosinistra e centrodestra. Nel nostro esercizio abbiamo simulato la vittoria dell’uno e dell’altro. In entrambi i casi il vincente ottiene 327 seggi cui sono da aggiungere quelli del Trentino Alto Adige, della Valle d’Aosta e della circoscrizione estero in cui si vota con regole diverse. L’utilità di questa simulazione non sta nello stimare i seggi assegnati ai partiti ma nel far vedere come funzionano questi collegi plurinominali con questo sistema elettorale. Nel caso di vittoria del centrosinistra tutti i partiti perdenti, compresa quindi Forza Italia, eleggono al massimo un solo deputato per collegio. In 31 casi Forza Italia non ne ha alcuno. In questo scenario per chi non prende il premio i 148 collegi sono in pratica collegi uninominali. Quanto al Pd in 109 casi elegge i primi due nomi della lista, in 5 casi ne elegge 1 e in 2 casi ne elegge 4. Nell’ipotesi di vittoria del centrodestra invece il Pd ottiene solo un seggio in 118 collegi, due seggi in 27 e resta senza in 3 collegi. Forza Italia invece elegge 2 deputati per collegio in 70 casi e un solo deputato in 78. (allproshadeconcepts.com) In nessun collegio resta senza seggi. Nella maggior parte dei casi, con questi dati, il secondo seggio scatta nei collegi del Sud.

    Uno degli effetti peculiari di questo sistema elettorale è che non sempre il seggio va a chi ha preso più voti. Questo è un problema per i piccoli partiti. Data la complessa procedura di assegnazione dei seggi dal livello nazionale a quello locale succede che, in caso di vittoria del centrosinistra, in 17 collegi l’unico seggio del centrodestra venga conquistato dalla lista Ncd+Udc che pure in quei collegi è il partito della coalizione con meno voti. Ma quel che è più problematico è che i piccoli partiti non possono sapere in anticipo in quali collegi otterranno i seggi che gli spettano in base alla loro percentuale di voti nazionale. E questa è la vera ragione dietro alla richiesta di candidature plurime. Solo presentandosi in più collegi si può infatti ridurre il rischio di non essere eletto per aver scelto il collegio sbagliato.


     

  • Per Obama una “rete” di sicurezza. La postfazione di D’Alimonte al libro di Lucchini e Matarazzo

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 31 gennaio 2014

    Quando la rete è entrata nelle nostre vite non c’è voluto molto per chiedersi  se e come  avrebbe trasformato il modo di far politica nelle nostre democrazie. Sul se ci sono sempre stati pochi dubbi. L’incertezza verteva sul come. Adesso abbiamo una risposta. Non ancora definitiva, ma il trend è chiaro. Le due campagne presidenziali di Obama,   soprattutto quella del 2012, rappresentano da questo punto di vista uno spartiacque. E’ quello che emerge chiaramente dalla lettura di questo bel libro.  Nell’era di internet la politica è destinata a cambiare profondamente. E ancora una volta il cambiamento viene dagli USA.  Un giorno forse scopriremo che  le elezioni presidenziali del 2012 rappresentano  mutatis mutandis un punto di svolta come lo furono quelle del 1960 tra Kennedy e Nixon. Allora fu la televisione a fare la differenza.  Kennedy sarebbe diventato presidente senza la sua abilità nello sfruttare meglio di Nixon le potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione di massa?   Nel 2012 la differenza l’ha fatta la rete. Obama ha vinto perché ha conquistato gli stati in bilico, i battleground states. E lo ha fatto anche perché ha usato il web in maniera di gran lunga più efficace rispetto al suo avversario.

    Ciò non vuol dire che la rete abbia sostituito la TV come capacità di influenzare l’opinione pubblica e il comportamento di voto. Lo dimostra, tra l’altro,  Il primo confronto televisivo tra Obama e Romney in cui la cattiva performance del presidente uscente ne ha messo a rischio per un momento la rielezione. Ma la rete oggi è diventata uno strumento che non può essere ignorato da nessun candidato o partito perché può fare la differenza tra vincere e perdere. Questo è certamente vero negli USA.  Ma dopo le elezioni dello scorso Febbraio e la straordinaria performance del Movimento Cinque Stelle comincia ad essere  vero anche da noi, anche se l’uso della rete da parte di Obama e di Grillo è stato molto diverso.

    Ma non basta parlare genericamente di web politics. Uno dei meriti di questo volume è quello di spiegare nei dettagli come la rete sia stata scientificamente utilizzata  sia per acquisire finanziamenti che per catturare consensi. Questa è la vera novità. Obama non è stato il primo a sfruttare elettoralmente internet. Prima di lui lo aveva fatto Howard Dean nel 2004 con la sua Democracy for America. Ma Obama ha fatto la vera differenza . Già nelle presidenziali del 2008 si era visto come la rete  potesse essere uno strumento straordinario di raccolta di fondi, così come lo era  già stata, ma in misura assai minore, per Dean. Quattro anni dopo non solo ha accresciuto la sua efficacia in questo ambito,  ma ha acquisito anche un ruolo molto importante nella raccolta di voti diventando il perno di una macchina elettorale mai vista prima nella politica americana.  Facebook, con i suoi 160 milioni di utenti che rappresentano quasi tutto l’elettorato attivo americano, oltre a cellulari, smart phone e tablet, posseduti dal 90% degli elettori registrati, sono diventati i nuovi protagonisti della politica USA. Soprattutto in mano al partito di Obama,  visto che ne hanno fatto uso il 37% degli elettori democratici contro il 25% tra quelli repubblicani.

    Le vecchie organizzazioni di partito fanno fatica a mobilitare i vecchi elettori e non riescono affatto a mobilitare i nuovi. La gente non vota perché non si sente coinvolta. La rete invece coinvolge. Attraverso i social networks gli elettori, soprattutto quelli più giovani,  possono sentirsi partecipi di un processo in cui non sono attori passivi. Possono interagire con i candidati e con altri elettori. Ma perché questo avvenga l’organizzazione non può essere lasciata al caso. Il sapiente uso della rete e dei social media è il frutto di un meticoloso lavoro di raccolta di dati. Usando i profili dei 34 milioni di fan del presidente Obama e incrociando questi dati con informazioni provenienti da una molteplicità di altre fonti è stato creato un enorme database che nelle mani di uno  sconosciuto guru informatico di nome Jerry Bird  è diventato il cervello della campagna elettorale di Obama. In  questo modo si è potuto specializzare i messaggi calibrandoli in base alle caratteristiche personali dei destinatari. L’idea di fondo è  semplice : è più facile coinvolgere gli elettori se ne si conoscono le preferenze, le preoccupazioni, le priorità, le sensibilità.

    Ma la campagna di Obama non si è limitata all’uso della rete come canale di comunicazione. Ha fatto un ulteriore passo avanti, ancora più innovativo. Come scrivono Lucchini e Matarazzo  “ i social media hanno funzionato da ponte verso il territorio” e quindi da canale di mobilitazione dal basso. In altre parole hanno preso il posto delle vecchie organizzazioni locali di partito e così facendo hanno contribuito a colmare  il gap tra candidati e elettori. La campagna di Obama è stata anche una campagna porta a porta . Un porta a porta digitale, però.  Queste elezioni hanno dimostrato che il porta a porta funziona ancora – anzi può essere l’arma vincente-  ma diventa veramente efficace in mano a volontari o organizzazioni di partito che conoscono chi c’è dietro la porta. Fuor di metafora, la mobilitazione dal basso raggiunge il suo scopo di acquisire finanziamenti e voti  se  chi ne è protagonista  conosce il profilo di coloro che si vuole mobilitare. Questo è uno dei segreti della campagna di Obama: la combinazione di tecnologia digitale, social media e contatto diretto. Nuovo e vecchio modo di far politica mescolati insieme. La rete non sostituisce il militante che va casa per casa, ma lo aiuta e ne rafforza il ruolo.

    E’ così che internet diventa  “una chiave per affrontare la crisi tra opinione pubblica e élites che attraversa tutte le democrazie d’Occidente”. Negli USA con Obama e la sua eccezionale organizzazione il processo ha fatto un significativo balzo in avanti. In Europa siamo ancora agli inizi. Ma prima o poi ci arriveremo.

  • Con il premio l’elettore sceglie chi governerà

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 28 gennaio 2014

    A Sartori il nome Italicum non piace. Il fatto non sorprende. Non avendolo inventato lui non poteva che essere così. Neanche a me piace più di tanto. Per quelli della mia generazione ricorda fatti tragici. Però tra tutti gli epiteti latineggianti con cui – unico paese al mondo- parliamo dei nostri sistemi elettorali è certamente il più azzeccato. Infatti  a partire dal 1993 tutti i sistemi elettorali adottati nei comuni, nelle province e nelle regioni sono varianti dell’Italicum. Questo tipo di sistema proporzionale con premio di maggioranza costituisce uno degli elementi di un peculiare modello di governo che si è progressivamente affermato da noi negli ultimi 20 anni e che non trova riscontro in altri paesi. Per l’appunto un modello italiano di governo. L’Italicum è l’ultimo tassello.

                Ma la vera questione in ballo non è il nome. A Sartori non piace il modello. Secondo lui è  ‘scorretto, scorrettissimo, trasformare con un premio una minoranza in una maggioranza’ . A prima vista sembra che il Sartori sostenitore dei collegi uninominali a due turni del modello francese sia diventato un proporzionalista convinto. Ma forse non è così, anche se non lo possiamo dire con certezza. Nel passato ha anche sostenuto la bontà del sistema elettorale tedesco che, nonostante i suoi collegi uninominali, è un  proporzionale. Eppure, cercando di interpretare il suo pensiero, si intuisce che il problema per lui non è la trasformazione di una minoranza di voti in maggioranza di seggi , ma il fatto che questo avvenga con un premio. E’ questo il vero bersaglio polemico. Come se il premio fosse ‘ un regalo che Renzi e Berlusconi fanno a se stessi’. Sono parole sue.

                Tutti i sistemi maggioritari contengono un premio. Tanto per fare esempi già fatti numerose volte, nel 2005 Tony Blair ha vinto il suo terzo mandato con il 35% dei voti. Con questa percentuale il Partito laburista ha ottenuto il 55% dei seggi. Nel 2012 Francois Hollande ha preso al primo turno delle legislative il 29% dei voti (come Bersani a Febbraio 2013 alla Camera) e al secondo turno questa percentuale si è trasformata nel 53 % dei seggi. E si potrebbe continuare con molti altri esempi di disproporzionalità. Anche certi sistemi etichettati come proporzionali contengono un premio. Lo spagnolo per esempio. Con le sue piccole circoscrizioni sono i grandi partiti ad essere sovrarappresentati a spese dei piccoli. Anche la Cdu-Csu di Angela Merkel alle ultime elezioni ha ottenuto un premio in seggi grazie al fatto che i Liberali e l’Alternativa per la Germania si sono avvicinati alla soglia del 5 %, ma non l’ hanno superata. Sembra di intuire nel ragionamento di Sartori che quello che distingue questo tipo di premio è il fatto che in tutti questi casi la distorsione tra voti e seggi si produce ‘naturalmente’.  Prendo questo avverbio a prestito da lui. Nell’ Italicum invece la distorsione, cioè l’effetto maggioritario,  sarebbe ‘innaturale’. Ci sarebbero dunque premi naturali e premi innaturali.

                Ma perché il premio dell’ Italicum dovrebbe essere innaturale?   Partiamo dal funzionamento di questo sistema. Al partito o alla coalizione che ottiene un voto più degli altri viene dato un premio del 18 % dei seggi a condizione che abbia raggiunto almeno il 35% dei voti.  Il 18% è il premio massimo, che consente a chi vince con il 35% di avere il 53% dei seggi. Se però una lista vince con il 40% dei voti  il premio diventa il 15% e se vince con il 45% dei voti diventa il 10%. E così via. Il premio infatti può assicurare al massimo il 55% dei seggi. Se nessuno arriva al 35% dei voti le due liste più votate si sfidano in un ballottaggio in cui chi vince prende il 53% dei seggi.

                Che cosa c’è di innaturale in tutto ciò?  Perché  sarebbe naturale il premio ottenuto da Blair e da Hollande e questo no?  Con il premio dell’Italicum già al primo turno gli elettori sanno che il loro voto può dare la maggioranza assoluta a un partito o a una coalizione e quindi sanno che sono loro a decidere il governo del Paese. A maggior ragione questo è vero nel caso di secondo turno visto che gli sfidanti sono solo due. Il vero vantaggio dei sistemi maggioritari di collegio, rispetto all’Italicum che è un sistema maggioritario di lista, è che ogni partito o ogni coalizione presenta agli elettori un candidato e su quello si gioca la partita, in uno o due turni. Nel caso invece dell’Italicum il candidato unico è sostituito da una lista di candidati. E questo pone il problema se la lista debba essere aperta (con il voto di preferenza) o bloccata. Questione molto controversa, come si vede in queste ore. Con il collegio uninominale il problema non esiste. E’ per questo che chi scrive pensa che  il miglior sistema elettorale per il nostro paese in questo frangente storico sia il maggioritario di collegio con ballottaggio. Con questo sistema si potrebbero perseguire gli stessi obiettivi dell’Italicum senza il problema del voto di lista.  Ma questo modello in questo momento appartiene al libro dei sogni. Con chi lo si approva visto che Berlusconi e Grillo sono contrari?  Qui sta la differenza tra chi guarda alla realtà  e chi insegue chimere.