Autore: Roberto D’Alimonte

  • Renzi come Blair: vince perché il popolo del Pd è stanco di perdere

    di Roberto D’Alimonte          

     La democrazia è come il sesso. Non si insegna a scuola. Milioni di uomini e di donne sono lasciati soli a apprendere quali sono le sue regole. Certo, ci sono i partiti. Ma nemmeno loro hanno interesse o la capacità di svolgere questo compito. Quando va bene parlano della costituzione e dei suoi valori. Ma una cosa sono i valori su cui si fonda un regime democratico e una altra cosa è il suo funzionamento. E così la democrazia si impara per strada nelle discussioni tra gli amici, dalla lettura dei giornali, dalla TV, da internet e soprattutto dall’esito delle elezioni. Elezione dopo elezione, sconfitta dopo sconfitta la gente arriva a capire che per vincere occorre rispettare certe regole. Primo, devi andare a votare anche quando il tuo candidato preferito non è in campo. Secondo, devi avere più voti degli altri e se questi voti non ce li hai devi andare a cercarli anche a costo di qualche compromesso. Sembrano regole banali ma non lo sono affatto. Questo è quello che hanno capito milioni di elettori di sinistra la sera delle ultime elezioni, il 25 Febbraio 2013. Quella sera è morto il vecchio Pd. E si è spianata la strada della segreteria per Matteo Renzi.

    E’ un film già visto. Le regole della democrazia non valgono solo in Italia. Mutatis mutandis, in Gran Bretagna è successa la stessa cosa tra il 1979 e il 1997. Il vecchio Labour è arrivato al capolinea il 9 Aprile 1992 quando non riuscì a vincere nemmeno dopo l’uscita di scena della Thatcher. Era la quarta sconfitta consecutiva. Finalmente i suoi militanti e elettori hanno fatto i conti con la realtà. Hanno capito che erano una minoranza che per tornare a vincere doveva allargare i suoi confini rinnovandosi. Questo è stato il ruolo di Blair. Detta così sembra facile ma non lo è stato per niente. Ci sono voluti quasi venti anni per apprendere la lezione.

    Nel corso degli ultimi venti anni la sinistra italiana ha vinto solo una volta, nel 1996, e solo perché la destra era divisa. Nel 2001 e nel 2008 ha perso nettamente. Nel 2006 e nel 2013 non ha vinto. Nel frattempo ha continuato a perdere voti. Alle ultime elezioni la coalizione di Bersani si è fermata al 29 %, meno di Veltroni e addirittura di Occhetto (Tabella). Questa è la realtà nuda e cruda. Eppure ci sono voluti 20 anni per capire che la sinistra, così come si è organizzata dal 1989 a oggi, non ha i voti per vincere, se la destra non le dà una mano.

    Per più di due decenni dentro il Pd ci si è cullati nella illusione che si potesse vincere senza cambiare, o cambiando il minimo indispensabile. Questa illusione è stata violentemente cancellata dal disastro del 25 Febbraio. La sera di quel Lunedì milioni di persone sono rimaste con il fiato sospeso e le dita incrociate mentre assistevano increduli alla rimonta di Berlusconi nello spoglio dei voti alla Camera. Alla fine il Cavaliere non ce l’ha fatta a superare Bersani. Ma solo per 125.0000 voti. Quella che doveva essere per la sinistra una vittoria netta si è ridotta a un misero vantaggio dello 0,4 % dei voti. La stessa cosa era successa sette anni prima con Prodi.

    Quel restare incollati alla TV per ore a vedere quel piccolo margine assottigliarsi sempre di più è stata una dura lezione sul funzionamento della democrazia. Non sarà dimenticata facilmente. Il Pd di Bersani non è riuscito a sconfiggere nemmeno un Berlusconi dimezzato. Dal 2008 il Cavaliere ha continuato a perdere pezzi e alla fine gli è rimasta vicina solo una Lega allo sbando. E nemmeno in questo contesto così favorevole la vecchia sinistra è riuscita a vincere. E’ stato un trauma. Per di più aggravato dalle vicende successive.

    E’ allora che, prima inconsciamente e poi sempre più consapevolmente, Il popolo di sinistra ha finalmente deciso di voler vincere e che per farlo doveva accettare Renzi. Entrambe le cose non sono scontate. La voglia di vincere non è un assioma. Ci sono ancora tanti elettori di sinistra che pur di non vincere con Renzi preferiscono perdere. E ce ne sono altri che ancora pensano di poter vincere senza Renzi. Ma la maggioranza oggi è arrivata alla conclusione, per convinzione o per rassegnazione, che Renzi sia la carta da giocare alle prossime elezioni. Ed è vero. Tutti i dati dicono inequivocabilmente che Renzi è l’unico candidato del Pd che può allargare i confini della sinistra andando a prendersi i voti sia tra gli incerti e i delusi sia tra coloro che a Febbraio hanno votato Grillo o Berlusconi. E’ l’unico. Perfino i vecchi militanti del PCI lo hanno capito. Per questo affollano le feste del partito per andare a sentire quello che una volta era il marziano e oggi sembra essere diventato il salvatore.

    Solo così si può spiegare quello che fino a pochi mesi fa era assolutamente impensabile: Renzi segretario del Pd. Il nuovo Pd. Quanto nuovo si vedrà. Intanto, a pensarci bene, la cosa è così straordinaria che fa sorridere. Improvvisamente, invece di dover conquistare il partito dall’esterno con il rischio di spaccarlo, Renzi ne diventerà probabilmente il segretario, e non solo il candidato-premier, dall’interno con il consenso di buona parte dell’apparato. Che poi riesca a fare la rivoluzione che ha annunciato e di cui l’Italia ha bisogno è tutto da vedere. Molti ci credono. La voglia di novità, di voltar pagina è tanta. Da tempo è così. Prima Berlusconi e più di recente Grillo ne sono stati i beneficiari. Adesso tocca a Renzi. Molti sono pronti a dargli una chance. Questo è il bello della democrazia. I leader si provano. Se non funzionano si cambiano.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore dell’8 settembre

  • Il doppio turno di coalizione non assicura la maggioranza

    di Roberto D’Alimonte

    Recentemente Gianfranco Pasquino ha rivendicato i meriti di una sua vecchia proposta di riforma elettorale presentata negli anni 80. Il ‘modello Pasquino’ prevede una camera di 500 deputati. Al primo turno vengono assegnati 400 seggi con sistema proporzionale in circoscrizioni elettorali relativamente piccole. I restanti 100 seggi vengono assegnati in un secondo turno. Settantacinque vanno al partito o alla coalizione con più voti, a condizione che ne ottenga almeno il 40 %, mentre 25 seggi vengono assegnati a chi arriva secondo. Al secondo turno possono partecipare tutti i partiti o le coalizioni che presentano un programma di governo e indicano in maniera vincolante un candidato primo ministro e un candidato vice-primo ministro.

    Se questo fosse stato il sistema elettorale in vigore per le ultime elezioni politiche quale sarebbe stato il risultato alla Camera? Ci saremmo trovati nelle stesse condizioni in cui ci troviamo ora a causa del pasticcio del Senato. In altre parole senza maggioranza chiara. Ipotizzando una camera di 500 deputati, e ammesso che o la coalizione di destra o quella di sinistra avessero ottenuto il 40 % dei voti al secondo turno (ipotesi ardita), sia l’una che l’altra avrebbero avuto circa 200 seggi complessivi, cioè il 40 %. Solo se ci fosse stata una elevata percentuale di voti dispersi e quindi si fosse prodotta una fortissima distorsione nella distribuzione dei seggi al primo turno la coalizione più forte avrebbe potuto superare la soglia del 40 % dei seggi totali, ma senza riuscire ad arrivare al 50 %.

    Se invece si fosse utilizzato il doppio turno di lista proposto su questo giornale le elezioni di Febbraio avrebbero prodotto con certezza un governo con una maggioranza assoluta di seggi. Questa è la differenza, che a Pasquino sfugge, tra il suo doppio turno e il doppio turno di lista. Nel ‘modello Pasquino’ non è affatto detto che i 75 seggi di premio assegnati a chi ottiene più voti al secondo turno siano sufficienti a creare una maggioranza. Nel contesto attuale il suo premio è in realtà un premietto annegato in un proporzionale che genera ingovernabilità. Tra l’altro, se nessuna forza politica raggiungesse il 40 % dei voti al secondo turno i 75 seggi di premio verrebbero distribuiti proporzionalmente. Un esito ancora più probabile data la previsione di un secondo turno aperto praticamente a tutti e non solo ai due partiti o coalizioni con più voti al primo turno. Poi ci sono i paradossi. Se già al primo turno dovesse emergere una coalizione con la maggioranza assoluta di seggi, questa maggioranza diventerebbe al secondo turno una super maggioranza. Peggio ancora. Potrebbe anche accadere che un partito o una coalizione che ottiene la maggioranza dei seggi al primo turno ottenga meno voti di una altra coalizione al secondo turno.

    Il doppio turno di lista non ha questi difetti. E’ un sistema semplice. Soprattutto è un sistema ‘majority assuring’. Assicura sempre e comunque una maggioranza. Può essere applicato secondo due diverse modalità. Nel primo caso se un partito o una coalizione arriva al 40 % dei voti ( o qualcosa di più) ottiene un premio che la porta al 55 % dei seggi. In questo caso non c’è secondo turno. Se invece nessuno arriva al 40 % i primi due partiti o coalizioni vanno al ballottaggio. Nel secondo caso si va al ballottaggio tra i primi due se al primo turno nessuno arriva al 50 % dei voti. Con questo sistema un vincitore c’è sempre e la sera delle elezioni si sa chi fa il governo. E il vincitore sarebbe legittimato dal fatto di aver ricevuto o il 40 % dei voti o addirittura il 50 %.

    In breve, non basta parlare di doppio turno di coalizione. Ci sono doppi turni e doppi turni. Non si possono confrontare mele e pere. Quella di Pasquino è una mela, il doppio di turno di lista è una pera. Inoltre quando si propongono certe riforme elettorali occorre tener ben conto dei contesti. Non si possono mettere sul tappeto modelli diversi come se fossero intercambiabili. Non esistono sistemi buoni per tutti i contesti e tutte le stagioni. In questo momento storico, tra i sistemi elettorali con qualche possibilità di essere approvati, il doppio turno di lista è quello più adatto per conciliare rappresentanza e governabilità. Naturalmente ci sono problemi. Uno è che per essere efficace dovrebbe essere abbinato ad una riforma del Senato che semmai vedrà la luce non sarà certamente in tempi brevi. E finché questo non avverrà correremo sempre il rischio di maggioranze diverse nelle due camere. Il secondo problema è che il doppio turno di lista, essendo un sistema che dà sempre un vincitore, potrebbe non essere gradito a chi invece preferisce che un vincitore non ci sia.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del primo settembre

  • Le sorti del Cavaliere ipotecano la riforma elettorale

    di Roberto D’Alimonte

    Prima o poi il Senato voterà sulla decadenza di Berlusconi da senatore. A essere precisi il Cavaliere potrebbe evitare il voto dimettendosi. Ma oggi non sembra proprio essere questa la sua intenzione. Sulla carta non dovrebbero esserci dubbi sull’esito del voto, visto che a favore della decadenza esiste una netta maggioranza. A quel punto Berlusconi darà seguito alla sua minaccia di far cadere il governo? (www.tgigreek.com)

    Non è certo, ma è altamente probabile, anche se è una mossa che potrebbe non giovargli affatto. Se questo accadrà si aprirà una crisi di governo dagli esiti imprevedibili.
    Il capo dello Stato ha ribadito più volte di ritenere la riforma elettorale una priorità. Ma che possibilità esistono di approvare un nuovo sistema di voto in uno scenario così confuso? Ragioniamo su due possibili ipotesi. La prima è che, nonostante tutto, il governo non cada e che Pd e Pdl cerchino un accordo su una riforma “ponte” che vada incontro alle preoccupazioni del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale. Ma quale riforma può venir fuori da un accordo in punta di possibili elezioni anticipate? Dipenderà dai sondaggi. Ma non solo. Conteranno anche le idiosincrasie dei due maggiori partiti. La tenace avversione del Pdl nei confronti del collegio uninominale elimina dal novero delle opzioni possibili sia la resurrezione della legge Mattarella sia l’introduzione del doppio turno francese. In campo restano i sistemi proporzionali con o senza premio di maggioranza e prima di tutto la correzione del cosiddetto Porcellum.

    Come è noto da tempo, i problemi dell’attuale sistema di voto sono due: un premio che può risultare eccessivo perché viene assegnato indipendentemente dai voti presi dal primo arrivato e le liste bloccate. La soluzione al secondo problema è semplice e si chiama voto di preferenza. Berlusconi non lo ama, ma potrebbe accettarlo se la riforma complessiva fosse di suo gradimento. La correzione del premio è invece molto più complicata. E qui conteranno i sondaggi. Come abbiamo scritto anche recentemente (Sole 24 Ore dell’11 Agosto) il premio di maggioranza andrebbe assegnato con il doppio turno se nessuno ottiene al primo turno almeno il 40% dei voti. È un meccanismo semplice e efficace. Ma è anche un modo per far sì che il voto dia sempre e comunque una maggioranza di seggi a un partito o una coalizione. Lo stesso meccanismo dovrebbe essere previsto per il Senato sostituendo i 17 premi regionali con un unico premio nazionale. Dopodiché si dovrà incrociare le dita sperando che i due corpi elettorali diversi non producano risultati diversi tra le due Camere.

    È difficile che una destra con un leader dimezzato accetti una riforma del genere. A parte la sua storica idiosincrasia per il doppio turno, se i sondaggi la daranno per sicura perdente non vorrà un sistema elettorale che produrrà un sicuro vincente. È più probabile invece che punti ad una soluzione per cui se nessuno arriva al 40% dei voti il premio non viene assegnato oppure viene assegnato un premietto che non garantisce la maggioranza assoluta dei seggi. Questa riforma risolverebbe il problema della incostituzionalità del Porcellum, ma ne creerebbe un altro. Se il sistema politico rimane tripolare, con un M5S come terzo polo, è impossibile che qualcuno arrivi anche solo al 40% dei voti (per non parlare del 45%). E allora cosa succede? Si tornerebbe alla situazione attuale. Con una differenza. Avremmo un sistema elettorale “costituzionalizzato”, ma un sistema politico comunque ingovernabile.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 25 agosto

  • L’intreccio inaspettato fra governo e corsa al voto

    di Roberto D’Alimonte

    E se fosse Berlusconi il miglior alleato di Letta? Potrebbe apparire una affermazione azzardata. A giorni alterni sembra che l’attuale governo sia moribondo e che un altro esecutivo o le elezioni anticipate siano alle porte. Invece la sentenza della Cassazione, che dal prossimo 15 ottobre forse confinerà Berlusconi agli arresti domiciliari o ai servizi sociali, potrebbe paradossalmente averlo rafforzato. Per un motivo banale che è ancora più valido dopo le recenti parole del presidente. Dal 15 Ottobre 2013 al 15 Ottobre 2014 Berlusconi non potrà fare campagna elettorale. Questa impossibilità è cosa diversa sia dalla interdizione dai pubblici uffici di cui non si sa ancora la durata che dalla incandidabilità sancita dalla legge Severino. Alla luce di questo dato di fatto, per quale ragione il Cavaliere dovrebbe preferire le elezioni anticipate? E’ vero il contrario. Deve sperare invece che il governo Letta duri fino al 15 Ottobre del 2014 .

    Certo, siamo un paese con poche certezze e può anche darsi che tra qualche giorno si scopra che un condannato in via definitiva affidato ai servizi sociali o confinato in casa, possa apparire in televisione come un cittadino normale. Se così fosse il ragionamento di cui sopra salterebbe. Ma se così non è la domanda da farsi è banale: in caso di elezioni anticipate, e con un Berlusconi che non può far campagna in video, che chance avrebbe la coalizione di destra? Chi ne sarebbe il candidato-premier ? A parte la figlia Marina, oggi non c’è nessuno che possa farlo con una credibile possibilità di vittoria. Le successioni vincenti non si inventano lì per lì. Al momento pare che la figlia non lo voglia fare. Su questo c’è stata nei giorni scorsi una smentita categorica che sembra non lasciare spazio a dubbi. Ma su una questione del genere possono sempre esserci ripensamenti dell’ultima ora. In ogni caso anche se Marina cambiasse idea e decidesse di scendere in campo, come suo padre 20 anni fa, avrebbe bisogno di tempo.

    L’ipotesi di un Berlusconi che succede a un Berlusconi è credibile. Chi pensa che l’Italia sia allergica alle dinastie politiche modello-USA si sbaglia di grosso. Finché vivrà, Silvio Berlusconi sarà sempre il gran burattinaio della destra italiana. Qualcuno tra i suoi ha provato alla fine del 2012 a conquistare un po’ di autonomia, ma la straordinaria performance elettorale del Cavaliere a Febbraio ha convinto anche i più riottosi che la destra italiana è lui e solo lui. Chi non ha accettato questa realtà se ne è andato. Gli altri accetterebbero la figlia Marina come l’ erede naturale, se cambierà idea. E così l’accetteranno quei 7 -8 milioni di elettori che rappresentano il nocciolo duro del berlusconismo. Sono elettori ‘suoi’, che lo hanno seguito sempre e che non avranno difficoltà a seguire la figlia. Ma non bastano. Sono troppo pochi. Per vincere ce ne vogliono parecchi altri. E per questo ci vuole tempo. Ancora più tempo se alla fine la figlia restasse indisponibile e lui incandidabile. Solo un ingenuo può pensare che Berlusconi non si renda conto di tutto ciò. Certo, potrebbe contare sul moto di simpatia che la sua vicenda umana suscita in una parte dell’elettorato. Ma non basterebbe di certo per vincere. E lui lo sa. E qui entra in ballo Letta.

    Anche se è vero che oggi a Berlusconi serve un Letta che sopravviva, non è detto che gli serva un Letta che governi. Non ci si prepara a una campagna elettorale, che prima o poi verrà e che sarà l’ennesima “drammatica” sfida, andando d’amore e d’accordo con i futuri avversari. Quello che sta avvenendo sull’Imu e dintorni potrebbe essere solo l’inizio. Letta deve sopravvivere ma senza governare. O governando il minimo necessario. Possibilmente dovrebbe andare avanti offrendo alla destra ripetute occasioni per rimarcare le differenze tra “noi e loro”. Questo è uno scenario.
    Ma ce n’è anche un altro. Se Berlusconi si rendesse conto che deve passare la mano. Che la successione non è più evitabile perché tra interdizione, arresti domiciliari-servizi sociali e incandidabilità non potrà più guidare la destra alle elezioni. E se a questo aggiungiamo una eventuale decisione irrevocabile della figlia di non scendere in campo, allora avrà bisogno di ancora più tempo per preparare la successione e trovare un nuovo assetto stabile dentro il partito. Intanto eviterebbe diversi rischi in un momento per lui molto delicato: una riforma elettorale sfavorevole, la candidatura di Renzi e l’accusa di danneggiare il paese nel momento in cui lo spread è in calo e l’economia forse sta per ripartire. Meglio allora che l’attuale governo sopravviva senza troppi lacci e lacciuoli. Per Letta e per l’Italia questo è certamente lo scenario migliore. Non ci vorrà molto a capire da che parte soffierà il vento. In autunno si dovrà decidere su legge di stabilità (e quindi Imu) e riforma elettorale. Queste sono le due cartine di tornasole da cui si capiranno le vere intenzioni di Berlusconi e degli altri attori in partita.

    Nel frattempo Letta dovrà guardarsi soprattutto dalle tentazioni che serpeggiano nel suo partito di fronte alla prospettiva di una prolungata coesistenza con il Pdl. I veri pericoli per lui vengono da lì. Ma il Pd deve stare molto attento a non fare errori. Con o senza Marina, Berlusconi non può essere sottovalutato. Mai. Nemmeno agli arresti domiciliari. Primo, non è detto che la figlia non ci ripensi. Secondo, non è escluso che riesca a pescare dal cappello un altro candidato attraente. E così ancora una volta potrebbe riservare alla sinistra italiana l’ennesima amara sorpresa elettorale dopo quelle del 1994, del 2006 e del 2013. Come minimo, eventuali elezioni anticipate potrebbero lasciare tutto come ora: un Grillo all’opposizione e la necessità di una nuova grande coalizione. Un altro bel pasticcio. E allora lunga vita al governo Letta, in attesa di una nuova legge elettorale e magari di qualche altra riforma come, per esempio, il superamento del bicameralismo paritario che aspettiamo invano da decenni. E poi si torni a votare possibilmente con due squadre rinnovate, da una parte e dall’altra.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 18 agosto

  • La riforma elettorale ‘ponte’: Il doppio turno di lista

    di Roberto D’Alimonte

    Il sì unanime all’interno della conferenza dei capigruppo alla calendarizzazione della riforma elettorale alla Camera non deve ingannare. E’ un segnale. Ma il cammino verso una riforma resta lungo e complicato. Le divisioni tra i partiti e dentro i partiti restano profonde. Il resto lo fanno l’incertezza sugli scenari futuri e soprattutto il ‘fattore Berlusconi’. Dal 15 Ottobre di questo anno al 15 Ottobre del 2014 il Cavaliere potrebbe essere agli arresti domiciliari e quindi- si presume- sarà impossibilitato a fare campagna elettorale a modo suo. E’ credibile che, in queste condizioni, voglia una riforma elettorale che potrebbe avvicinare la data delle elezioni? E’ credibile inoltre che sia disposto a sostituire un sistema elettorale che, così come è, gli può garantire comunque un ruolo determinante con un altro che dovrebbe invece favorire la governabilità con il rischio di una sua emarginazione? Certo, se tra qualche mese avesse risolto il problema della successione alla guida della coalizione e i sondaggi fossero favorevoli, allora cambiando le convenienze cambierebbero anche le preferenze. Ma a quel punto bisognerà vedere cosa deciderà il Pd. Per ora però facciamo finta che questi dubbi siano irrilevanti. In fondo c’è il Presidente Napolitano che preme. E questo fattore non va certo sottovalutato.

    Tra le riforme possibili la più discussa in questo momento è quella già tentata senza successo alla fine della scorsa legislatura: una soglia del 40% di voti per far scattare il premio di maggioranza e la sostituzione delle liste bloccate con il voto di preferenza. Non è una cattiva proposta, ma ha un problema. Cosa succede se nessuna lista o nessuna coalizione arriva al 40 % dei voti? Da quello che si sente dire la risposta è preoccupante: i seggi verrebbero assegnati con formula proporzionale, tutt’ al più con un premietto di consolazione per chi arriva primo. Il risultato di una riforma del genere è che le elezioni non sarebbero decisive e i governi si farebbero dopo il voto. Esattamente come è accaduto dopo le elezioni dello scorso Febbraio.

    Questo non sarebbe un problema se l’Italia fosse la Germania. A Berlino i governi si fanno normalmente dopo il voto e sono frutto di accordi post-elettorali tra i partiti. E così sarà dopo le prossime elezioni di Settembre. Ma noi non siamo la Germania. Siamo un paese molto più frammentato e diviso e per di più afflitto da una cultura politica che non privilegia responsabilità e stabilità. Per questo sarebbe meglio che il prossimo sistema elettorale fosse decisivo, cioè che mettesse gli elettori, e non i partiti, in condizione di scegliere chi governa. In breve, la sera delle elezioni si deve sapere chi ha vinto. Questo fa un sistema elettorale decisivo.

    Per ottenere questo risultato occorre un sistema di voto disproporzionale, vale a dire un sistema che dia a chi vince più seggi dei voti che ha ottenuto. Così funzionano, per esempio, Francia e Gran Bretagna. Visto che il sistema in vigore, il vituperato porcellum, viene considerato potenzialmente troppo disproporzionale, la soluzione più efficace per combinare decisività e disproporzionalità è quella di assegnare il premio di maggioranza al secondo turno se nessun partito o coalizione arriva al 40 % dei voti al primo turno. In alternativa, il ballottaggio potrebbe scattare se nessuno arriva al 50 % dei voti al primo turno.

    Per fare le cose bene la riforma dovrebbe contenere anche altre modifiche. Per esempio il superamento del bicameralismo paritario in modo che sia solo la Camera a dare la fiducia. In questo modo si eviterebbe il rischio di risultati diversi nei due rami del parlamento. Un rischio che resterebbe anche introducendo al Senato un unico premio a livello nazionale al posto dei 17 premi regionali. Ma si tratta di modifica costituzionale e quindi almeno per ora non si farà. Invece si può e si deve abolire la possibilità che partitini e liste fasulle che restano sotto le soglie di sbarramento possano comunque apportare i loro voti alla coalizione cui appartengono per la assegnazione del premio.

    Il doppio turno di lista di cui stiamo parlando qui non risolverebbe certo tutti i nostri problemi, ma servirebbe quanto meno a favorire un minimo di governabilità. In aggiunta darebbe al vincente una legittimità che il sistema attuale non può dare dato che, nell’attuale contesto così frammentato, il cosidetto porcellum potrebbe produrre un eccesso di disproporzionalità, come è successo alle ultime elezioni. Con il doppio turno di lista invece, anche nella ipotesi di vittoria al primo turno con il 40 %, il premio sarebbe limitato ( il 40% dei voti diventerebbe il 54 % dei seggi). Mentre nella ipotesi che il premio scatti solo al raggiungimento del 50 % dei voti al primo turno il vincente al ballottaggio avrebbe comunque la maggioranza più uno dei consensi. Inoltre un sistema del genere introdurrebbe di fatto una specie di elezione diretta del primo ministro senza bisogno di riformare la costituzione. Il modello di governo resterebbe parlamentare, conservando così la flessibilità di questo tipo di regime politico. Senza contare che su questo sistema di voto si potrebbe facilmente innestare la riforma dei poteri del primo ministro e il rafforzamento del ruolo dell’esecutivo.

    Quanto alle liste bloccate, vista la loro demonizzazione universale, la soluzione più semplice è quella di reintrodurre il voto di preferenza. Con una importante differenza rispetto al passato. Invece di utilizzare circoscrizioni molto ampie, sarebbe opportuno dividere il territorio nazionale in circoscrizioni più piccole. Sarebbe più facile per gli elettori conoscere i candidati e si ridurrebbe di molto il costo delle campagne elettorali. Certo, anche piccole circoscrizioni non funzionerebbero come i collegi uninominali maggioritari. Ma i collegi, dopo essere stati introdotti ‘per caso’ nel 1993, sono stati purtroppo eliminati nel 2005 e difficilmente ritorneranno oggi. Con buona pace di chi pensa che sia ancora possibile la resurrezione della ‘legge Mattarella’.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore dell’11 Agosto

  • Centrodestra e centrosinistra perdono quasi 11 milioni di voti

    di Roberto D’Alimonte e Nicola Maggini

    pubblicato su Il Sole 24 Ore del 28 febbraio 2013

        Uno dei dati più rilevanti che emerge dalle elezioni politiche del 2013 è stato senza dubbio l’arretramento elettorale delle due coalizioni di centrosinistra e di centrodestra rispetto alle precedenti elezioni del 2008. Le due principali coalizioni, infatti, hanno perso complessivamente quasi 11 milioni di voti. In particolare il centrodestra ha perso poco più di 7 milioni di voti, ossia il 42% dei suoi consensi del 2008, mentre il centrosinistra ha perso più di tre milioni e mezzo di voti, vale a dire il 27% dei suoi consensi nel 2008. In altre parole quasi la metà degli elettori del centrodestra ha deciso di non rivotare più per lo schieramento di Berlusconi, mentre il centrosinistra è stato abbandonato da un quarto circa dei suoi elettori. Si tratta quindi di un’emorragia elettorale che ha riguardato entrambe le coalizioni, anche se è il centrodestra lo schieramento che ha registrato le perdite maggiori, passando dal 46,8% del 2008 al 29,2% del 2013. (https://thereader.com/) Inoltre nel 2008 le due coalizioni considerate insieme rappresentavano ben l’84,4% dei voti validi, mentre nel 2013 rappresentano “solo” il 58,7%. Tutto ciò è indubbiamente un indicatore di come il nostro sistema partitico sia entrato in una fase di destrutturazione con un aumento della volatilità elettorale.

       Il centrodestra perde voti in tutte le regioni, ma in particolare in Liguria (-51%), Sicilia (-49%), Sardegna e Trentino Alto-Adige (-48%), Marche (-46%), Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia (-45%). Al di sotto della media nazionale sono invece le perdite registrate nella maggior parte delle regioni meridionali e in Umbria. In maniera simile, il calo del centrosinistra avviene in tutte le regioni del paese (con l’eccezione del Trentino-Alto Adige). Le perdite maggiori, al di sopra della media nazionale, si registrano nelle regioni meridionali, e in particolare in Molise (-40%), dove sicuramente si è scontato il fatto che Di Pietro non fa più parte della coalizione, in Abruzzo (-38%), in Sicilia (-34%), in Sardegna, Puglia, Campania e Calabria (-31%) e, infine, in Liguria (-32%) e nelle Marche (-36%). Attorno alla media o al di sotto di essa sono invece le perdite registrate nella maggior parte delle regioni della ex zona rossa e del Nord.

        Questa emorragia di voti delle due principali coalizioni politiche del Paese si verifica in concomitanza con alcuni fenomeni che ne possono essere una possibile causa. In primo luogo la partecipazione elettorale è diminuita di circa cinque punti percentuali, pari a poco più di due milioni e seicentomila votanti in meno, ossia più del calo fisiologico della partecipazione dovuto all’avvicendamento generazionale (stimabile attorno a 2 punti percentuali di flessione). Pertanto è ipotizzabile che una parte dei voti dati nel 2008 alle due principali coalizioni sia finito nell’astensione. Inoltre alle recenti elezioni politiche si è registrato il boom elettorale del Movimento 5 Stelle, che alla Camera ha ottenuto poco più di 8 milioni e mezzo di voti divenendo il primo partito con una percentuale pari al 25,6%. Sicuramente molti voti in uscita dalle coalizioni di centrosinistra e di centrodestra sono stati intercettati da Grillo, il quale mostra una capacità di raccogliere consensi che è abbastanza omogenea a livello nazionale, registrando dei picchi in Sicilia (33,5%), nelle Marche e in Liguria (32,1%). A tal proposito è da sottolineare come la Liguria e la Sicilia siano anche le regioni dove il centrodestra perde più voti rispetto al 2008 (praticamente la metà) e allo stesso tempo sono due regioni dove il centrosinistra (sempre rispetto al 2008) subisce delle perdite superiori alla media nazionale. Inoltre, per quel che riguarda il centrosinistra, è da notare il fatto come la perdita minore si registri in Lombardia (-18%), una regione dove il Movimento 5 Stelle raccoglie il 19,6%, ossia la percentuale peggiore ottenuta dal movimento di Grillo escludendo il Trentino Alto-Adige (dove prende il 14,6%). L’unica regione della ex zona rossa dove le perdite per il centrosinistra sono superiori alla media nazionale, come abbiamo visto in precedenza, sono le Marche. E le Marche sono anche una delle regioni dove il Movimento 5 Stelle ottiene una delle sue migliori percentuali elettorali.

        Infine, la coalizione di Monti, rispetto al solo Udc del 2008, ha aumentato in tutte le regioni i propri voti in termini assoluti, con l’eccezione della Sicilia dove ha perso circa 50.000 voti rispetto all’Udc del 2008 (-19%). Ed è proprio la Sicilia la regione dove al Senato la lista Monti è andata peggio in termini percentuali, prendendo il 5,9% e quindi nessun eletto. A livello nazionale la coalizione centrista guidata da Monti ha ottenuto circa tre milioni e mezzo di voti, mentre l’Udc da solo nel 2008 aveva ottenuto poco più di due milioni di voti. Nel confronto diacronico il dato più importante che emerge è che la coalizione di Monti ha una distribuzione territoriale molto differente rispetto all’Udc nel 2008. Le regioni in cui cresce di più sono infatti il Trentino-Alto Adige (+229%), la Lombardia (+164%), la Liguria (+145%), il Piemonte (+119%), l’Emilia-Romagna (+108%), il Veneto (+104%) e il Friuli-Venezia Giulia (+102%): la crescita maggiore si registra cioè nelle regioni settentrionali. A tal proposito è significativo il fatto che le regioni dove al Senato la lista Monti non raggiunge la soglia dell’8% siano tutte regioni centro-meridionali: Lazio, Sardegna, Abruzzo, Calabria e, come detto in precedenza, Sicilia.

         In conclusione, queste elezioni hanno segnato un evidente arretramento elettorale per le due coalizioni principali di centrosinistra e di centrodestra, incapaci di trattenere un quota significativa dei propri elettori. Questa accresciuta volatilità elettorale può essere spiegata da un lato con la crescente disaffezione nei confronti della politica e con il conseguente significativo aumento dell’astensione e dall’altro con la differente dinamica competitiva: non più bipolare come nel 2008, ma quadripolare. In particolare, un nuovo attore politico, ossia il Movimento 5 Stelle, ha dimostrato di essere altamente competitivo, risultando appetibile in termini elettorali per molti elettori che nel 2008 avevano votato per il centrodestra o per il centrosinistra.

    Tab.1

  • I flussi elettorali a Torino e Palermo

    di Roberto D’Alimonte e Lorenzo De Sio

    Pubblicato su Il Sole 24 ore del 27 febbraio.

    Grillo è il primo partito alla Camera. Come evidenziato in un altro articolo, la distribuzione geografica del successo del Movimento 5 Stelle mostra coordinate inedite. A conferma di un tratto fondamentale di queste elezioni, ci troviamo di fronte a un vero e proprio cambio di paradigma, che mette in crisi allineamenti territoriali consolidati. E a questo punto emerge il dubbio che non solo gli allineamenti territoriali, ma anche quelli politici e sociali siano in fase di cambiamento. Da dove viene quindi il consenso di Grillo? Quali sono i ceti sociali che lo hanno premiato? Quali le loro scelte politiche?

    E’ evidente che rispondere a queste domande richiede riflessioni e analisi meditate; che riguardano non solo il cambiamento delle scelte degli italiani, ma anche la crisi di fiducia nell’intero sistema della politica. Quello che tuttavia possiamo fare in prima battuta è di rispondere a una domanda semplice: da quali partiti provengono i voti al Movimento 5 Stelle? Quali hanno patito di più la concorrenza di Grillo?

    Per iniziare a rispondere a questa domanda abbiamo effettuato alcune analisi di flussi, rispettivamente per le città di Torino e Palermo. Piemonte e Sicilia (con il Veneto) sono le tre grandi regioni italiane dove Grillo è il primo partito in quasi tutte le province. Tuttavia al tempo stesso si tratta di due casi estremamente diversi tra loro, e perciò stimolanti: Torino città industriale e postindustriale, con una forte tradizione politica di sinistra; Palermo città dalla realtà sociale complessa, e tradizionalmente dominata dal centrodestra. Le due tabelle presentate riportano le matrici di flusso delle due città, calcolate su dati di sezione utilizzando il modello di Goodman. Ogni colonna si riferisce all’elettorato 2008 di un singolo partito: i valori sulle varie righe esprimono quanti elettori di quel partito si sono spostati, nel 2013, sui vari partiti o coalizioni presenti (per brevità abbiamo aggregato i partiti della stessa coalizione 2013). Ovviamente ci concentriamo sulla riga del Movimento 5 Stelle.

    Tab. 1 – Flussi elettorali a Torino: destinazioni 2013 degli elettorati 2008 dei vari partiti.

    Iniziamo da Torino. In questo caso il dato fondamentale è che Grillo ha colpito in modo particolarmente duro la sinistra. Sia per la Sinistra Arcobaleno che per l’Idv i tassi di passaggio verso Grillo sono molto alti: degli elettori 2008 circa il 42% per Sa, addirittura circa il 60% per l’Idv (ma con un sensibile margine di errore) sarebbe passato a Grillo nel 2013. Ma a colpire è anche il dato del Pd: viene stimato circa un 14% di elettori che si spostano verso Grillo. Un dato che, date le dimensioni notevoli del Pd, appare determinante per il successo dell’M5S a Torino. In questo senso appare un netto contrasto con il centrodestra. Qui a soffrire Grillo è principalmente la Lega (perdendo circa un quinto propri elettori), ma anche il Pdl, che gli avrebbe ceduto un decimo del suo elettorato 2008. Di conseguenza il quadro di Torino è quello di un consenso a Grillo che proviene in misura sensibilmente maggiore dal centrosinistra (il 50% circa), e che ha penalizzato il centrodestra in misura inferiore.

    Tab. 2 – Flussi elettorali a Palermo: destinazioni 2013 degli elettorati 2008 dei vari partiti.

    Il caso di Palermo appare invece decisamente diverso. Se si eccettua infatti l’elettorato della Sinistra Arcobaleno (ma, di nuovo, le stime per i partiti più piccoli sono spesso instabili), la penetrazione di Grillo è straordinariamente trasversale: sono tutti i partiti a perdere verso il movimento del comico genovese in modo assolutamente simmetrico, con percentuali di elettorato stabilmente comprese tra il 23 e il 30%.

    Due situazioni, quindi, divergenti. A testimonianza del punto di forza attuale dell’M5S, ovvero la capacità di raccogliere istanze e punti di vista estremamente eterogenei. A Torino (forse anche in relazione alle vicende della Tav) si vede apparire la matrice originaria, partecipativa e bottom-up, del movimento, che fiorisce in un contesto postindustriale caratterizzato da una tradizione di partecipazione politica. Non a caso le prime affermazioni di Grillo alle amministrative dell’anno scorso si erano verificate al Centro e al Nord, in contesti di alta tradizione civica. Viceversa a Palermo sembra manifestarsi la componente top-down del successo del grillismo, ovvero l’appello personale del leader (spesso con toni fortemente populisti), che fa leva in modo completamente trasversale sulla protesta anti-establishment (ottenendo consensi anche a destra), in contesti caratterizzati da forte disagio sociale e spesso privi di una specifica tradizione partecipativa. Si tratta delle due componenti fondamentali che hanno dato origine al successo di Grillo; e che finora hanno convissuto, seppur con alcune tensioni, senza danneggiare il movimento. E’ però indubbio che l’ingresso in Parlamento di una folta delegazione del Movimento 5 Stelle, con la necessità di affrontare sfide politiche complesse, potrebbe rapidamente portare a una maturazione di questa contraddizione. Di certo si tratta di un quadro da analizzare con lenti diverse da quelle del passato.


    NOTA: Le stime sono state ottenute mediante il modello di Goodman su dati di sezione. I valori relativi ai piccoli partiti hanno un maggior livello di incertezza.

  • Sul voto l’incognita della tenuta di Monti

    di Roberto D’Alimonte

    pubblicato su Il Sole 24 ore del 22 Febbraio

    Il prossimo governo del paese dipenderà dal voto del Senato. Questo è vero sia che alla Camera vinca Berlusconi sia che vinca Bersani, come sembra molto probabile viste le tendenze che avevamo sotto gli occhi fino a qualche giorno fa. In questo ramo del parlamento può succedere di tutto. Nel 2006 la Casa delle Libertà di Berlusconi arrivò prima in 7 regioni su 17 e questo bastò per dare al Cavaliere 155 seggi contro i 154 dell’Unione di Prodi. Andò così perché la Cdl vinse in molte regioni ‘pesanti’: Lombardia, Piemonte, Veneto, Lazio. Puglia e Sicilia (oltre a Friuli-VG). Prodi si salvò grazie alla Campania dove arrivò primo con il 49,6 % dei voti contro il 49,1 % del centrodestra. Senza quello 0,5 % di elettori campani la storia del paese avrebbe preso una altra piega.

    Nel 2013 se Berlusconi vincesse nelle stesse 7 regioni otterrebbe 124 seggi, vale a dire 31 in meno. E questo indipendentemente dalla sua percentuale di voti. Questo dato da solo ci dice quanto sia cambiata la situazione oggi rispetto al 2006. La differenza la fanno Grillo e Monti. Nel 2006 la competizione era bipolare, oggi invece è quadripolare. Sono quattro infatti le formazioni capaci di prendere più dell’ 8 % dei voti al Senato e quindi di ottenere seggi. Questo vuol dire che chi perde il premio in una regione perde molti più seggi di quanto accadeva nel 2006 perché non incassa tutti quelli destinati ai perdenti ma li deve dividere con altri due pretendenti. Quindi, per vincere oggi bisogna arrivare primi in molte più regioni. Anzi, bisogna vincere praticamente in tutte le regioni. Solo così si può ottenere una maggioranza consistente.

    Ciò premesso, gli esiti possibili della lotteria del Senato sono tre. Il primo è che Bersani e Vendola ottengano la maggioranza assoluta dei seggi come fece Berlusconi nel 2008 quando riuscì a eleggere 174 senatori. E’ difficile che accada questa volta ma non impossibile. In ogni caso c’è maggioranza e maggioranza. Anche quella di Prodi lo era. Immaginiamo ora che il centrosinistra vinca in tutte le 17 regioni. In questo caso arriverebbe a 178 seggi. Un bel risultato. Però Lombardia, Veneto e Sicilia vengono considerate unanimemente regioni in bilico. Basta che Bersani perda la Lombardia e scenderebbe a 162, solo 4 seggi sopra la soglia di maggioranza. Una perdita di 16 seggi in una regione sola sono tanti e illustrano bene il ragionamento fatto sopra. Perdere il premio in regioni pesanti, e la Lombardia è la più pesante di tutte, vuol dire passare dal paradiso all’inferno. Ma la Lombardia da sola non basta. Infatti anche se il centrosinistra vincesse qui ma Berlusconi prevalesse in Veneto e Grillo (o lo stesso Berlusconi) in Sicilia la coalizione di centrosinistra si fermerebbe comunque a 159 seggi. Decisamente pochi per una navigazione tranquilla. Né a Bersani basterebbe vincere in Sicilia per avere una maggioranza assoluta, anche se risicata, se perdesse in Lombardia e Veneto. Insomma la possibilità che Bersani e Vendola riescano a fare maggioranza da soli esiste ma è fragile.

    Tab. 1 – La distribuzione dei seggi a Palazzo Madama in base ai diversi possibili risultati del voto.

    L’esito più probabile di queste elezioni è che il centrosinistra abbia bisogno di Monti per fare il governo. Questo risultato può scaturire da diversi mix di regioni vinte e perse. Nella tabella in pagina abbiamo fatto alcune ipotesi ma naturalmente se ne possono fare altre. Le ultime due simulazioni fanno vedere cosa succederebbe nel caso in cui il centrosinistra perdesse tutte e tre le regioni in bilico: avrebbe 143 seggi, ma con i 33 della lista Monti la eventuale coalizione di governo potrebbe contare su una maggioranza di 176 seggi. Come si vede, abbiamo anche ipotizzato che Grillo, e non Berlusconi, possa vincere il premio di maggioranza in Sicilia ma non cambierebbe nulla per il centrosinistra. Per Bersani la vittoria in queste regioni è molto importante ma, posto che non sia lui a vincere, è indifferente chi sia il vincitore.

    Quello che invece non è indifferente per Bersani è la tenuta di Monti. Nella tabella abbiamo ipotizzato che la lista del premier scenda sotto l’ 8 % in alcune regioni. Il suo totale scenderebbe da 33 a 27 seggi. Una perdita di 6 seggi riduce la maggioranza dell’eventuale futuro governo con Bersani ma non la compromette. Se però dovesse accadere che Monti non superi la soglia dell’ 8 % in altre regioni pesanti, le cose cambierebbero. Per esempio, se alle regioni indicate nella tabella aggiungessimo la Lombardia la lista di Monti scenderebbe a 22 seggi rendendo più difficili eventuali maggioranze post-elettorali con Bersani e aprendo la strada al terzo possibile esito di queste elezioni.

    Se Berlusconi dovesse vincere nelle regioni incerte e ribaltare i pronostici in altre in cui attualmente è dato per perdente, e se allo stesso tempo il risultato della lista Monti fosse al di sotto delle attese, la somma dei seggi di Vendola, Bersani e Monti potrebbe non fare 158. In questo caso gli unici governi possibili sarebbero o la grande coalizione (senza Grillo) o un governo con Grillo. Non c’è bisogno di soffermarsi sul rischio di instabilità di un esito del genere. Fortunatamente è lo scenario meno probabile di tutti.

    In questi ultimi giorni che ci separano dal voto nulla è veramente sicuro tranne una cosa: Berlusconi non può ottenere la maggioranza assoluta dei seggi al Senato. Questa è una delle poche certezze assolute di queste elezioni. Perché questo accada basta che il centrosinistra vinca- e così sarà- in Toscana, Emilia, Marche, Umbria e Basilicata. E questo porta a una domanda finale. E se Berlusconi vincesse alla Camera come potrebbe fare un governo visto che al Senato non potrà avere la maggioranza assoluta dei seggi? Con chi si potrebbe alleare? E con quali prospettive per il Paese?

  • How Berlusconi could yet pull off the unimaginable

    How Berlusconi could yet pull off the unimaginable

    di Roberto D’Alimonte

    Articolo pubblicato sul Financial Times il 14 febbraio 2013

    Can Silvio Berlusconi do it? A few weeks ago the prospect that  Italy’s  former prime minister  would stage a comeback was laughable.  Now, with less than two weeks to go before polling day, it may be the media magnate  and playboy former premier  who has the last  laugh.  The last  opinion polls published  before an official blackout period point to a closer race than many expected: the gap between Pier Luigi Bersani’s  left-of-centre coalition  and Mr Berlusconi’s  right­ of-centre alliance  has  narrowed  to 5-6 percentage  points. In most western  countries,  such a lead in the last  stretch  of a campaign would be considered  safe.

    Not in Italy. To start  with, there  are lingering  doubts  that  the polls are a proper reflection  of public opinion. For many  people, voting for Mr Berlusconi  is a guilty  secret  not to be shared  with a pesky pollster. There  are ways to correct  for this bias but there  is no way to know if they  really  work.

    The real uncertainty, however, is Mr Berlusconi  himself. The man is stili  by far the best campaigner around.  He is not a statesman – he is a showman.  The media is his natural habitat  (and the source of much  of his wealth). In spite of everything – the scandals,  judicial indictments, poor performance  in office – Sm voters are stili  willing to vote for him and his illusory promises  of tax  paybacks  and  job creation.  Combined with his allies’ supporters, they could be enough  for a victory. Were this  to happen,  all the credibility  Mario Monti’s technocratic government  has painfully  won for Italy in the past 14 months  would disappear  instantly.

    As Europe slowly sorts  out its financial  crisis,  this  would be a very serious  setback.

    But the magic and  tricks  of the consummate  performer are  unlikely to work as they  used to. Many are comparing  this  campaign  to that  of 2006, when Romano Prodi wasted a lead of 6 percentage  points and ended up winning  in the lower house with a margin  of 0.1 per cent. Today the picture  is different. Then it was a two-way race. Now there  are four competitors:  running alongside  the two main ones are Mr Monti and Beppe Grillo, an anti-establishment comedian.

    It is true  that  Mr Berlusconi  has been able to win back some of his lost supporters  since his return  to the scene after  he was forced to resign in  November 2011 in the midst of a dramatic  financial  crisis. But the easy gains  are over; in a crowded field the extra,  decisive votes are more elusive.

    For this  reason  it is likely – though  by no means  certain  – that Mr Bersani and  his allies  will win one vote more than  anybody  else in the lower house, which is all it takes to win a majority  of the seats.

    The senate  is a different story. Here  the majoritarian bonus is assigned  region by region, creating  a sort  of US-style electoral  college, where each region has a certain weight. To gain a solid majority,  it is necessary  to win the bonus in most of these  regions and  particularly in the big ones. Lombardy, in the north, is crucial.  It is a combination of Ohio and California.  Like Ohio, it is up for grabs  by either  coalition but  it carries  a weighting  similar  to that  of California. If Mr Bersani  loses here, it is highly  unlikely  he can win an absolute  majority.  This scenario will open the door for Mr Monti’s participation in the next government. The paradox is that  this  will happen only if Mr Berlusconi  wins Lombardy,  since Mr Monti himself cannot.

    A Bersani-Monti cabinet  is the most likely outcome. Yet one cannot entirely  discard  the most disturbing possibility of all. Mr Berlusconi’s chance of increasing  his share  of the vote are limited – but Mr Bersani’s chances  of decreasing  his are  not. If polls do not lie, the present  leads should  be safe. But, as I have said, polls may lie to some extent.  What matters  more now, however, is that in recent  weeks the  trend  for Mr Bersani  has been downwards.

    A lacklustre campaign,  Mr Berlusconi’s  bravado and  the derivatives  scandal  surrounding Monte dei Paschi  di Siena, the Tuscan  bank,  have all contributed to this  trend.  Mr Grillo has been the main  beneficiary.  His Five Star Movement will be the surprise success of this election  but it will not change  the outcome. If the slide of Mr Bersani’s  coalition  continues, what  was unimaginable  just a few weeks ago could become possible: a victory  by default  for Mr Berlusconi in the lower house.

    Even so, Mr Berlusconi will not win in the senate.  Electoral arithmetic makes  this a fact, not a guess. The outcome then would be a house-senate  split. The government needs a confidence vote in both. Where would Mr Berlusconi  find the extra  seats  he would need?

    For Italy – and Europe – the answer  to that  question  is no laughing  matter.  The reappearance of Mr Berlusconi  is bad enough.  The prospect of Italy plunging  once more into  chronic instability is worse.

  • Con un’affluenza alta Berlusconi può cercare la rimonta alla Camera

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 ore del 3 febbraio 2013

    La rimonta di Berlusconi è l’incognita di questa campagna elettorale. ll ricordo corre naturalmente al 2006. Anche allora i sondaggi davano l’Unione di Prodi in vantaggio di molti punti sulla Casa delle libertà di Berlusconi. E poi a urne chiuse si scoprì che il Cavaliere aveva preso più voti di Prodi al Senato e aveva perso alla Camera per una inezia. E’ possibile che si possa ripetere un exploit del genere ?  A distanza di tre settimane dal voto non è possibile rispondere con assoluta certezza a questa domanda . Si può solo far parlare i numeri per capire a quali condizioni la rimonta si potrebbe concretizzare. Naturalmente ci riferiamo alla Camera perché è qui che, con un voto più di Bersani, Berlusconi potrebbe ribaltare gli attuali pronostici e ‘vincere’. Come si sa il Senato è una altra storia.

                I primi dati da cui partire sono quelli delle intenzioni di voto alle due coalizioni che si  contendono la vittoria. La media degli ultimi sondaggi dà Bersani al 35 % e Berlusconi al 28 %. Grillo e Monti sono molti punti indietro e comunque il loro peso non è determinante ai fini del nostro calcolo. Il secondo dato è quello della partecipazione al voto. Le percentuali indicate sopra risultano da un tasso di risposte degli intervistati mediamente intorno al 65 %.  Nelle ultime settimane questo dato è cresciuto notevolmente in tutti i sondaggi. Vuol dire che la platea degli indecisi si sta progressivamente restringendo. Nelle politiche del 2008 ha votato l’ 80,5 % degli elettori. Il 19,5 % sono rimasti a casa e continueranno a farlo. Questo tasso di astensionismo non è recuperabile.

                Passiamo dalle percentuali ai numeri reali. Gli elettori in Italia (escludiamo i residenti all’estero) che possono votare il 24-25 Febbraio sono 47.154.000 (nel 2008 erano 47.041.000). Circa il 65 % di loro risponde oggi alla domanda sul voto. Questo è lo scenario-base. Tradotto in numeri significa 30.650.000 elettori. Con una affluenza alle urne pari all’ 80 % (come nel 2008) i votanti in questa consultazione sarebbero 37.723.000. La differenza tra queste due cifre, cioè tra gli elettori di oggi e quelli di domani, è 7.073.000, Questa è la stima della platea degli indecisi. E’ certamente una stima per eccesso. Infatti sarebbe un vero miracolo se l’80 % degli elettori andasse questa volta a votare.

                Sulla base di questa stima il 35 % assegnato dai sondaggi a Bersani corrisponde a 10.728.000 elettori; il 28 % di Berlusconi  a 8.582.000. Quindi tra i due schieramenti la differenza attuale è di 2.146.000 voti. Quanti dei 7.073.000 indecisi dovrebbe conquistare Berlusconi per colmare la distanza che lo separa da Bersani ?  Se nessuno votasse per il leader del Pd ne basterebbe il 30 %. Se invece il 20 % di loro lo facesse, la percentuale necessaria per la rimonta salirebbe al 50 %. E se il 25 Febbraio, come è più probabile, la percentuale dei votanti non fosse l’ 80 % ma il 75 % o il 70 % ?  Nel primo caso gli indecisi non sarebbero più 7.073.000, ma 4.715.000. Nel secondo caso sarebbero 2.358.000.  Dato il divario attuale tra Bersani e Berlusconi, nel primo scenario il Cavaliere dovrebbe conquistarne il 46 %, posto che nessuno di loro voti Bersani, e il 66 % se il 20 % di loro lo facesse. Nel secondo caso (70 % di votanti) Berlusconi potrebbe superare Bersani solo conquistando il 91 % dei consensi degli indecisi.

                Quali conclusioni ipotetiche si possono trarre da questo ragionamento ?  L’affluenza alle urne è un elemento decisivo per capire chi vincerà. Più alta sarà, maggiori sono le possibilità di una rimonta di Berlusconi. Se andrà a votare solo il 70 % degli elettori  il Cavaliere non può vincere. Ma dei tre scenari il secondo ( 75 % di votanti) è quello più realistico. Con 4.715.000 elettori ancora in ballo la partita non può definirsi chiusa. Si sa che gli indecisi sono per lo più elettori moderati. Ciò premesso, è comunque molto difficile che Berlusconi riesca a conquistarne tanti da ribaltare i pronostici. Intanto deve riuscire a convincerli a votare. Poi deve succedere che pochi votino Bersani. E qui Renzi potrebbe fare la differenza. Questa volta poi, a differenza del 2006, la sfida non è a due. Ci sono altre formazioni che competono con il Pdl per il voto degli indecisi. Per tante ragioni la sfida del 2013 è molto più ardua per il Cavaliere di quella del 2006.

                Ma per completare il ragionamento non si possono trascurare altri due fattori.  Primo, gli attuali sondaggi potrebbero non darci una fotografia del tutto corretta sulla distribuzione delle intenzioni di voto. Se la distanza tra le due coalizioni maggiori fosse oggi più piccola anche i nostri calcoli andrebbero rivisti. Secondo, tutto quello che abbiamo scritto si basa sulla assunzione che le scelte di voto fotografate dai sondaggi oggi non cambino domani. Vale a dire che i 10.728.000 elettori che dicono oggi di votare la coalizione di Bersani lo facciano veramente. E’ molto probabile che sia così, ma non è certo. Così come non è certo che una parte degli attuali elettori di Monti e di Grillo non spostino il loro voto su Berlusconi. Il quadro è ancora molto fluido. Inoltre potrebbe esserci un fatto nuovo, la ‘sorpresa di Febbraio’, capace di provocare flussi dell’ultima ora. E anche in questo caso salterebbero le nostre stime. Tutto sommato, però, lo schema di un centrosinistra che vince alla Camera e rischia al Senato resta ancora valido. Eppure……

    I diversi scenari per una rimonta di Berlusconi
    La situazione ad oggi

    Intenzioni di voto, media sondaggi recenti (65% di rispondenti)

     

    %

    N.  (migliaia )

    Coalizione Bersani

    35%

    10.728

    Coalizione Berlusconi

    28%

    8.582

    differenza  Bersani-Berlusconi

    7%

    2.146

    Scenari alternativi
    affluenza alle urne

    70%

    75%

    80%

    Elettori indecisi, migliaia

    2.358

    4.715

    7.073

    % indecisi che Berlusconi deve conquistare se Bersani ne prende 0

    91%

    46%

    30%

    % indecisi che Berlusconi deve conquistare se Bersani ne prende il 10%

    Berlusconi non può vincere

    56%

    40%

    % indecisi che Berlusconi deve conquistare se Bersani ne prende il 20%

    Berlusconi non può vincere

    66%

    50%

    % indecisi che Berlusconi deve conquistare se Bersani ne prende il 30%

    Berlusconi non può vincere

    Berlusconi non può vincere

    60%

    Fonte: Centro Italiano Studi Elettorali (cise.luiss.it/cise)