Autore: Roberto D’Alimonte

  • Conte, Draghi e il governo di ricostruzione

    Conte, Draghi e il governo di ricostruzione

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 31 Marzo

    In tempi di gravi crisi, come quella che stiamo attraversando, chi governa tende a essere favorito. È un fenomeno naturale. Lo vediamo in tutti i paesi alle prese con la pandemia. La paura spinge a stringersi intorno a chi ha il potere di agire, sia esso capo del governo, presidente di regione o sindaco. Ed é quello che sta succedendo anche in Italia.  Secondo diversi sondaggi l’indice di fiducia del premier Conte è salito oltre il 50% con un incremento molto significativo rispetto alle rilevazioni dei mesi scorsi. Ma quanto potrà durare questo effetto? E cosa succederà dopo quando la crisi sanitaria sarà stata superata e bisognerà affrontare la crisi economica? A queste domande è difficile rispondere ora. L’Italia non è un paese sovrano. Facciamo parte di una unione economica e monetaria. Le decisioni che la UE prenderà nei prossimi giorni per affrontare la crisi condizioneranno la politica interna. Ma comunque è da questa che occorre partire per ragionare su scenari futuri.

    La metafora più utilizzata per descrivere la situazione che stiamo vivendo è quella della guerra. Guerra contro il virus e le sue conseguenze economiche e sociali. In guerra non ci si divide. È una deduzione banale. Occorre unità di intenti e unità di azione. In questo momento a Roma si vede ben poco di tutto ciò. Il governo in carica è un governo che poggia su una maggioranza risicata e dipendente da un partito -il M5s- che fino a poco tempo fa ha dato voce a chi non voleva i vaccini. La popolarità di Conte non basta a compensare questa debolezza strutturale. Per di più il premier è una figura del tutto anomala il cui successo non è di tipo partitico ma personale. Posto che continui ad avere in futuro gli elevati indici di gradimento attuali, resta il fatto che la fiducia in lui non si può convertire in voti. Conte non ha un partito. Ed è così popolare proprio perché non ce l’ha. Per certi aspetti assomiglia a Prodi. Due leader senza partito. Ma Prodi aveva un progetto, l’Ulivo. Conte no. Prodi ha operato in un contesto maggioritario. Conte ha ereditato la proporzionale. È difficile immaginare che la ricostruzione post-bellica possa essere gestita dallo stesso governo che sta gestendo l’emergenza sanitaria con una base di consensi così ristretta in Parlamento e nel paese. E uno dei motivi -lo ripetiamo- è che la fiducia di cui gode Conte non si traduce in un rafforzamento della attuale compagine governativa. Debole è e debole resterà. Popolarità e voti non vanno insieme, come si rileva dagli stessi sondaggi che premiano Conte.

    In queste ore un po’ da tutte le parti viene evocato il nome di Draghi come leader del governo che dovrà affrontare la crisi economica. Ma che può fare Draghi da solo? Ammesso che sia disponibile a guidare il paese in questo momento, Draghi non sarà Dini e non sarà neanche Monti. Dini e Monti sono stati premier di due governi di maggioranza appoggiati da alcuni partiti contro altri rimasti alla opposizione a fare i free riders. Per affrontare quella che si profila come la più grave recessione economica degli ultimi settanta anni serve un governo di unità nazionale. Tutti e quattro i maggiori partiti italiani dovrebbero essere disponibili ad appoggiare questa soluzione. Questa è la prima condizione per vedere nascere un eventuale governo Draghi. Ma non basta. È una condizione necessaria ma non sufficiente. Oltre alla formula occorre la sostanza e cioè il programma. Su quali politiche si potrebbe trovare l’accordo? 

    La risposta non può prescindere dall’intreccio tra politica europea e politica interna. Ma una cosa è certa. Un eventuale governo Draghi non sarà mai un governo contro l’Europa. Qualunque siano le decisioni che l’Unione prenderà nelle prossime settimane l’Italia di Draghi si muoverà dentro la cornice europea tessendo alleanze e creando le condizioni per far fare all’Unione un passo avanti verso una maggiore integrazione. Non il contrario. Draghi è la figura che potrebbe ancorare definitivamente l’Italia all’Europa, con tutto quello che ne seguirebbe sul piano della reputazione e della affidabilità del paese. Lega e Fdi, che hanno fatto dell’Euroscetticismo una componente della loro identità, saranno disposti a rinunciarci proprio nel momento in cui cavalcare l’eventuale risentimento nei confronti dell’Unione potrebbe essere elettoralmente assai redditizio?

    Hic Rhodus, hic salta. Se si trovasse l’accordo per fare il salto questa crisi potrebbe diventare l’occasione non solo per rafforzare l’Unione, ma per cambiare profondamente il nostro paese. Un governo di unità nazionale potrebbe sciogliere finalmente i nodi che da anni frenano l’economia italiana. Potrebbe anche mettere mano alla razionalizzazione delle nostre istituzioni. Non ci vorrà molto tempo per capire se tutto ciò è soltanto una utopia. Molto dipenderà dalla dimensione della crisi. Intanto facciamo sommessamente rilevare che non si può chiedere unità e solidarietà a livello europeo e rifiutare di unirsi a livello nazionale per condividere la responsabilità e i rischi legati alle difficili decisioni che prima o poi dovranno essere prese. 

  • Il 76% degli italiani preferisce il sistema elettorale maggioritario

    Il 76% degli italiani preferisce il sistema elettorale maggioritario

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 6 Febbraio

    Non sono le intenzioni di voto la parte più interessante dell’ultimo sondaggio Winpoll. Da questo punto di vista il quadro non è cambiato significativamente dopo le recenti elezioni regionali. In Emilia Romagna la Lega è stata sconfitta e in Calabria non è andata particolarmente bene, ma a livello nazionale resta attestata intorno al 32%. Quanto agli altri partiti il Pd sembra aver recuperato in termini di voti la scissione di Italia Viva ed è tornato intorno al 22%, a spese del M5s. Il movimento di Grillo continua a perdere consensi, come Forza Italia. Italia Viva non decolla. Fratelli d’Italia invece consolida il trend positivo iniziato diversi mesi fa. Ed è qui che questo sondaggio diventa interessante.

    L’ ‘effetto Meloni’ non ha ancora una spiegazione convincente, ma c’è. Ai soli intervistati intenzionati a votare per i partiti del centro-destra è stato chiesto di indicare chi dovrebbe essere il leader di questo schieramento (Figura 1). La maggioranza (il 52%) indica Salvini, ma fa impressione il 40% che preferisce la Meloni. Visto che la Lega sopravanza di gran lunga Fdi il dato è sorprendente. Da dove viene dunque questo 40% a favore della leadership della Meloni? Dagli elettori di Fdi, come prevedibile, ma non solo. Quello che colpisce di più è il 28% di elettori di Forza Italia e addirittura il 25% di quelli della Lega. Esiste una sola spiegazione razionale di questa ‘anomalia’. Tra coloro intenzionati a votare oggi Forza Italia e Lega è probabile che si nascondano potenziali elettori di Fdi domani. In realtà sappiamo già che la crescita del partito della Meloni dal 4% delle ultime politiche a oltre il 10% delle stime attuali è dovuto al passaggio di voti da Forza Italia e Lega (e qualcosa anche dal M5s). Quello che il dato del sondaggio Winpoll suggerisce è che questo flusso potrebbe continuare in futuro, alimentato dall’appeal della leader di Fdi.

    Fig. 1 – “Chi dovrebbe essere il leader del centrodestra in Italia” (in % solo tra gli elettori del centrodestra). Fonte: Winpoll

    Dinamiche in parte simili a quelle che abbiamo appena descritto all’interno del centro-destra si notano anche tra Pd e M5s. In questo caso la domanda rivolta ai soli elettori del campione intenzionati a votare M5s verteva sul tema del rapporto tra i due partiti (Figura 2). Alleanza strutturale o terza via? Per il 62% degli intervistati il Movimento dovrebbe rimanere indipendente. Solo il 26% vede con favore una confluenza in una coalizione di centrosinistra. Il divario è netto e si riflette anche nella posizione della classe dirigente del Movimento, divisa tra chi vorrebbe consolidare l’alleanza con il Pd già per le prossime regionali e chi invece preferisce mantenere libertà di azione. Il dato non depone a favore del rilancio del Movimento. La verità nuda e cruda è che una parte di quel 33% di elettori che lo avevano votato alle politiche del 2018 hanno già fatto una scelta di campo spostandosi verso Lega e Fdi da una parte e verso il Pd dall’altra. La maggioranza di quelli che sono rimasti vuole tornare al movimento delle origini. Resta quel 26% di elettori cui non dispiace l’alleanza strutturale con il Pd. Sono quelli che un giorno potrebbero trasferirsi direttamente nel partito di Zingaretti. Le prossime elezioni regionali ci diranno se questa ipotesi è fondata o meno.

    Fig. 2 – Il futuro del M5S (in % solo tra gli elettori 5 Stelle). Fonte: Winpoll

    Le leggi elettorali non interessano agli italiani. Sono cose complicate e difficili da spiegare. Ma visto che giace in Parlamento una proposta presentata dai partiti della maggioranza che punta al ritorno al proporzionale abbiamo provato a sondare cosa ne pensano gli elettori. Chiedere se preferissero un sistema proporzionale o un sistema maggioritario è inutile. La stragrande maggioranza non conosce la differenza. È un po’ più comprensibile la scelta tra un sistema in cui sono i cittadini a votare una coalizione pre-elettorale con un candidato-presidente e un sistema in cui si votano i partiti che poi decidono il governo (Figura 3).

    Fig. 3 – Gli italiani e la legge elettorale. Fonte: Winpoll

    Anche con questa formulazione il 35% degli intervistati non ha risposto. Ma tra quelli che invece lo hanno, il 76 % si è dichiarato a favore della prima opzione e solo il 24% ha scelto la seconda. Ammettiamo pure che una diversa formulazione della domanda avrebbe potuto dare un risultato diverso, ma non lo avrebbe cambiato radicalmente. Agli Italiani piace l’idea di avere direttamente una voce in capitolo nella scelta del governo, come avviene a livello comunale e regionale. In ogni caso è un ragionamento inutile. Su questa materia l’opinione del pubblico non conta, né conta l’interesse di lungo periodo del paese.  Il referendum Segni del 1993 è stato un accidente della storia. Quello che conta sono le convenienze contingenti dei partiti e in particolare dei partiti al governo. E il proporzionale oggi va bene a tutti. Gli elettori se ne faranno una ragione.

  • Gli elettori Dem tornano a casa, ma il centrodestra non arretra

    Gli elettori Dem tornano a casa, ma il centrodestra non arretra

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 28 gennaio 2020

              Ha vinto il buon governo. Questa è la notizia importante che arriva dal voto in Emilia Romagna. L’apprezzamento per come ha lavorato la amministrazione uscente è stato più forte della voglia di cambiare. Non era scontato. Di questi tempi il vento non spira a favore di chi governa. Bonaccini ha vinto perché lui e la sua giunta hanno lavorato bene. Un dato rilevato da tutti i sondaggi. E’ questa la base del suo successo, come si vede anche dal fatto che ha preso più voti (51,4%) delle liste che lo appoggiavano (48,2%), al contrario della Borgonzoni. Un successo personale e locale dunque, ma che va ben al di là dei confini della regione. Non c’è dubbio infatti che questo risultato stabilizzi il governo Conte, anche se sul suo futuro a medio temine pesa sempre l’incognita Cinque Stelle.

              Per Il Movimento di Grillo questa elezione (così come quella in Calabria) conferma il trend negativo. E’ vero che a livello locale la sua performance è stata raramente brillante, ma ora siamo davanti a un vero e proprio smottamento del suo elettorato: dal 27,5%   delle politiche, al 12,9% delle europee fino al  4,7% di queste regionali. L’analisi dei flussi evidenzia in maniera netta come molti elettori Cinque Stelle abbiano votato Bonaccini. E questo ha pesato ancora di più del voto disgiunto che pure c’è stato, ma in misura modesta. E qui sta una delle chiavi della vittoria del presidente uscente.

              Il M5s aveva perso in precedenza a favore di Salvini una buona fetta dei suoi elettori orientati a destra, adesso sta perdendo quelli che venivano da sinistra e che stanno tornando a sinistra. E questo è un fenomeno che dovrebbe far riflettere la leadership del Movimento sulla sua strategia a livello nazionale e in particolare sui rapporti con il suo attuale alleato di governo. Tanto più che questo voto evidenzia un netto ritorno ad un assetto bipolare della competizione con due schieramenti competitivi e due partiti leader dei due schieramenti (Pd e Lega). Infatti, i due schieramenti maggiori hanno raccolto complessivamente il 93,7% dei voti, con Pd e Lega insieme al 66,7% (si veda cise.luiss.it). La spinta bipolare non ha danneggiato solo il M5s, ma anche Forza Italia che ha ottenuto un misero 2,6%. Purtroppo, e paradossalmente, questo risultato porterà acqua al mulino del ritorno al proporzionale, nonostante l’evidente preferenza dell’elettorato per un sistema in cui il voto decide chi governa.

              Questo voto conferma un altro fenomeno già sottolineato sulle pagine di questo giornale, ma con una modifica importante. Da anni in Emilia-Romagna, come in quasi tutto il Nord, il voto si differenzia nettamente tra città e centri minori. Pd e centro-sinistra vanno relativamente bene nelle città, mentre Lega e centro-destra dominano nei centri minori. Alle europee dello scorso anno in Emilia-Romagna i partiti del centro-destra avevano ottenuto il 44,7% contro il 38,7% dei loro avversari. Però, nei comuni capoluogo Pd e partiti affini avevano preso il 43,8% contro il 40,3% del centro-destra. Nei centri minori invece il rapporto era stato 36% a 47% a favore del centro-destra.

              La mappa in pagina fa vedere che questa differenza resta nel complesso della regione, ma i numeri  non sono più gli stessi. Il centro-sinistra non solo è lo schieramento più votato a livello regionale, ma è il più votato sia nei comuni capoluogo, 56,2% contro il 39,2% del centro-destra, che nei comuni non capoluogo dove ha ottenuto il 48,8% contro il 46,1%.  Una analisi ancora più dettagliata fa vedere che solo nei micro-comuni (quelli con meno di 4.000 elettori)  Salvini e alleati hanno prevalso con il 55% contro il 40%. Già nei comuni tra i 4000 e gli 8000 elettori il centro-sinistra supera il centro-destra, 47,6% a 47,2%. E’ importante notare che il rovesciamento non è avvenuto perché il centro-destra è andato male (il suo risultato è in linea con quello delle europee) ma perché il centro-sinistra è andato particolarmente bene, prendendo voti di elettori che non lo avevano votato l’anno scorso, soprattutto Cinque Stelle.

              Per il Pd questo voto è una boccata di ossigeno per cui deve ringraziare, come Zingaretti ha già fatto, il movimento delle sardine. Sono i giovani la categoria che ha votato in maniera massiccia per Pd e alleati. E’ lì il futuro, e la sfida sarà come incanalare queste energie dentro un progetto innovativo. Intanto la battaglia si sposta nelle altre regioni in cui si voterà in primavera, tra cui la Toscana- altra roccaforte ‘rossa’ a rischio-  dove le cose avrebbero potuto mettersi male se il risultato in Emilia Romagna fosse stato diverso.

    Fig. 1 Flussi elettorali a Reggio Emilia tra europee 2019 e regionali 2020

    Fig. 2 Flussi elettorali a Rimini tra europee 2019 e regionali 2020

    Fig. 3 Mappa del vincitore per comune, regionali 2020

    Tab. 1 Il voto fra capoluoghi e non capoluoghi in Emilia-Romagna, europee 2019 e regionali 2020

  • Il ritorno del proporzionale

    Il ritorno del proporzionale

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore dell’ 11 Gennaio

    Si torna al passato. I partiti della maggioranza di governo hanno presentato in questi giorni un progetto di legge che reintroduce un sistema elettorale proporzionale. Gli è già stato appiccicato l’etichetta di Germanicum, come se fosse simile a quello in vigore in Germania, ma non è così. Di tedesco ha solo una soglia al 5% e anche questa non è detto che sopravvivrà al passaggio parlamentare. E per di più, per ridurre l’impatto della soglia, è stato previsto un complicato meccanismo per dare ai partiti più piccoli una sorta di diritto di tribuna. Il tedesco con i suoi collegi uninominali è una altra cosa. Brescianellum, dal nome del primo firmatario del progetto, è l’etichetta che gli si addice di più. La pura e semplice verità è che deputati e senatori verranno eletti con una formula proporzionale. La conversione dei voti in seggi verrà fatta a livello nazionale, e non circoscrizionale come in Spagna. I seggi assegnati ai partiti che ne avranno diritto verranno poi distribuiti a livello di circoscrizioni e di collegi plurinominali. Senza voto di preferenza.

    Se questo sistema elettorale verrà approvato finirà per
    certo la stagione del bipolarismo. Bipolarismo imperfetto quanto si vuole, ma
    che ha permesso agli italiani di giudicare prima del voto gli accordi fatti tra
    i partiti e avere voce in capitolo sulla formazione dei governi. Ora si vuole
    tornare a un sistema in cui gli accordi si faranno dopo il voto a totale
    discrezione dei partiti. La riforma di Berlusconi del 2005 aveva già indebolito
    questo assetto e lo stesso era successo con la formazione del governo Monti nel
    2011 e l’avvento del M5s nel 2013. Ma il sistema elettorale oggi in vigore, il Rosatellum,
    lascia aperta la porta ad un possibile ritorno al bipolarismo grazie ai suoi
    collegi uninominali. Con la cancellazione di questi collegi (ed è questo lo
    scopo del Brescianellum) questa porta si chiude. Torniamo così ai tempi della
    Prima Repubblica senza i partiti di allora, gli elettori di allora e la classe
    politica di allora.  

    La responsabilità di questo ritorno al passato è ben
    distribuita. Ma c’è chi è più responsabile di altri. In primis il M5s. Con la
    storia che non è né di destra né di sinistra, né carne né pesce, vuole togliere
    agli italiani la possibilità di scegliere il governo del paese per restituirla
    a quei partiti che era nato per combattere. Preferisce un sistema elettorale che
    lasci le mani libere per schierarsi una volta da una parte e una volta dall’altra
    come ha già fatto. È diventato il partito dei due forni, il capofila della
    numerosa famiglia di Ghino di Tacco. E così si ritrova insieme a tutti quei
    piccoli partiti, da quello di Renzi a quello di Berlusconi, che puntano a un
    sistema proporzionale per valorizzare l’utilità marginale del loro modesto
    pacchetto di voti. Il Pd ha cercato di resistere alla deriva proporzionalista
    ma senza convinzione. Alla fine, dopo l’addio alla vocazione maggioritaria, il
    proporzionale va bene anche lui.

    Paradossalmente a questa deriva ha contribuito moltissimo
    anche la Lega di Salvini. La sua indisponibilità a dar vita a un polo di
    governo capace di rassicurare l’Europa e i mercati ha fornito un alibi potente
    a chi vuole tornare al passato. La conversione di Matteo sulla via di Damasco,
    dopo l’estremismo balneare dell’estate del 2019, non ha convinto gli scettici.
    E allora meglio un sistema che gli neghi un premio in seggi per poter governare
    stabilmente. Perché questo è il punto.

    Il vero obiettivo di questa riforma non è quello di adeguare
    il sistema elettorale alla nuova composizione delle Camere dopo il taglio dei
    parlamentari. Questo è l’alibi, fornito dal Pd al M5s. I veri obiettivi della
    riforma sono due. Il primo è quello di impedire che alle prossime elezioni il
    centro-destra possa trasformare una maggioranza relativa di voti in maggioranza
    assoluta di seggi. Boris Johnson con il 43,6% dei voti ha ottenuto il 56,2% dei
    seggi. Con il Rosatellum la cosa sarebbe possibile, in misura minore, anche per
    Salvini e alleati. Con il Brescianellum no. Solo nel caso di un consistente
    voto disperso il sistema genererebbe una disproporzionalità tale da rendere possibile
    la maggioranza assoluta di seggi. (https://boxmining.com/) Ma è un evento improbabile. Quindi se il
    centro-destra arrivasse, per esempio, al 45% di voti dovrebbe cercare alleati
    fuori dal suo campo per poter governare. Quali? Il M5s, Italia Viva o altri che
    nel frattempo si formeranno grazie alla proporzionale?

    Il secondo obiettivo è quello di condizionare Salvini anche
    nel caso in cui il centro-destra ottenesse la maggioranza assoluta di seggi.
    Con il Rosatellum Salvini e Meloni, pur presentandosi con Forza Italia,
    avrebbero forse potuto farne a meno dopo il voto. Con il Brescianellum non sarà
    così. Senza il premio in seggi che è caratteristico dei sistemi maggioritari o
    di quelli misti è difficile che Lega e Fdi possano arrivare da soli al 50%. E
    quindi dovranno in ogni caso fare i conti con Berlusconi. E questa per molti è
    una garanzia.

    La conclusione di tutta questa vicenda è che per evitare
    il rischio dell’estremismo di destra si finirà per accettare il costo della
    debolezza dei governi e il rischio della instabilità permanente. I veri
    vincitori saranno le lobbies e i piccoli partiti che con il loro 5, 6, 7% avranno
    un grande potere di ricatto. Si moltiplicherà la famiglia dei Ghino di Tacco. Anzi
    si sta già allargando. Tanto più che il diritto di tribuna garantisce una
    rappresentanza anche a chi sta sotto la soglia nazionale. Ma in fondo perché ci
    sorprendiamo?  A chi è mai interessata
    nel nostro paese la stabilità dei governi? Non siamo mica in Germania. E non
    sarà una soglia tedesca (che poi tedesca non è) a farci diventare di colpo
    tedeschi. È cosa nota che a molti la stabilità fa paura, sa di deriva
    autoritaria. Ad altri semplicemente non interessa, come se non contasse niente
    avere governi che abbiano davanti a sé un orizzonte temporale per decidere e
    implementare le loro decisioni. E allora viva il ritorno al passato. Intanto
    godiamoci la “stagnazione felice”.

  • Un proporzionale da prima repubblica

    Un proporzionale da prima repubblica

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 6 Dicembre

    I partiti della attuale maggioranza litigano su tutto, ma non sulla riforma elettorale. Pare che abbiano trovato un accordo su un sistema proporzionale. I dettagli non sono ancora noti, ma spagnolo o italiano, di proporzionale si tratta. E così gli elettori italiani che da anni votano per eleggere direttamente il governo dei comuni e delle regioni verranno definitivamente privati della possibilità di eleggere il governo nazionale. Voteranno per uno dei partiti in campo e saranno i partiti dopo il voto a decidere con chi fare il governo. Insomma torniamo alla Prima Repubblica senza i partiti che c’erano allora. 

    È un imbroglio, ma non è una sorpresa. Sulla carta il Pd si
    è espresso a favore di un sistema maggioritario di lista a due turni, ma lo ha
    fatto con poca convinzione. D’altronde tutti i suoi alleati sono fermamente
    schierati a favore del proporzionale, e in primis i Cinque Stelle. Di Maio lo
    ha detto tante volte. Il Movimento deve essere l’ago della bilancia del
    sistema, cioè il partito dei due forni. Con il suo 15% non può più aspirare a
    essere un attore dominante ma può continuare a essere un partner indispensabile
    per qualunque maggioranza. Per far questo ha bisogno di un sistema
    proporzionale. Con questo sistema potrà allearsi una volta con la Lega e un’altra
    volta con il Pd. Esattamente come è già avvenuto. Naturalmente la condizione è
    che nessun partito o nessuna coalizione arrivi a conquistare la maggioranza
    assoluta dei seggi. 

    Oggi le stime basate sui sondaggi dicono che il
    centro-destra di Salvini non è lontano dalla maggioranza assoluta dei voti. Se
    l’eventuale sistema elettorale proposto dai partiti al governo producesse un
    po’ di disproporzionalità, grazie alle soglie di sbarramento o alla dimensione
    ridotta delle circoscrizioni, forse ce la potrebbe fare. Ma non è detto che si
    arrivi al voto con un centro-destra vicino al 50% e certamente non è detto che
    questo possa accadere in futuro. L’esito ‘normale’ di un sistema proporzionale è
    la dispersione dei voti tra più partiti, nessuno dei quali ha la maggioranza
    assoluta dei seggi. Tra l’altro con un sistema del genere non c’è più bisogno
    di coalizioni pre-elettorali. (Adipex) Berlusconi, Salvini, Meloni si presenteranno
    ognuno per conto proprio, forse con una promessa di fare il governo insieme
    dopo il voto. E già qui si intravedono le altre ragioni della riforma, e che
    non riguardano solo il M5s. Con il proporzionale, e quindi senza il vincolo del
    patto pre-elettorale che il maggioritario comporta, Forza Italia acquista molta
    più libertà di manovra. Se le conviene farà il governo con Lega e Fdi ma
    potrebbe diventare disponibile anche a sostenere altri tipi di governo. E
    questo è un fatto che naturalmente non dispiace a sinistra.

    Insomma, con la riforma che gli attuali partiti di governo
    stanno concependo si riaprono i giochi. In ogni caso, comunque vada, è certo
    che con il proporzionale la vittoria del centro-destra alle prossime elezioni
    verrà limitata. Anche se arrivasse alla maggioranza assoluta, Salvini e Meloni
    dovranno fare i conti con Berlusconi e il suo pacchetto di seggi. E se non
    arrivassero alla maggioranza assoluta? Con chi farebbe il governo Salvini? Di
    nuovo con Di Maio e insieme alla Meloni? La Prima Repubblica è dietro la porta.
    D’altronde a chi mai interessa la stabilità dei governi di questo paese?

  • Lega e FdI: gara per gli stessi elettori. Nessuna alternativa a chi vota M5S

    Lega e FdI: gara per gli stessi elettori. Nessuna alternativa a chi vota M5S

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 3 Dicembre

    Le intenzioni di voto sono lo strumento tradizionale con cui si cerca di stimare la forza relativa dei partiti tra una elezione e l’altra. Sono la materia  prima dei sondaggi. Agli intervistati si chiede semplicemente a quale partito darebbero il voto se ci fossero elezioni oggi. Ma esiste un altro strumento per capire le tendenze elettorali di medio periodo. Si chiama ‘propensione al voto’, PTV nell’acronimo inglese. Quale è la probabilità che un elettore possa votare in futuro un dato partito su una scala da 0 a 10, dove 0 significa ‘per niente probabile’ e 10 significa ‘molto probabile’? Dall’ analisi di queste probabilità si può dedurre l’attrattività relativa dei partiti e quindi il loro bacino elettorale potenziale. È quello che abbiamo fatto utilizzando i dati di un recente sondaggio Winpoll. Per esempio, la probabilità che un elettore del Pd possa votare Lega o Fdi è vicina allo zero (0,5 per l’esattezza). È più probabile invece che voti Italia Viva (4,5). È invece molto alta la probabilità che un elettore della Lega possa votare Fratelli d’Italia e viceversa.

    Questi dati consentono di studiare quanto si sovrappongono gli elettorati dei diversi partiti. Lo si fa con il diagramma di Venn (Figura 1). La dimensione dei cerchi del diagramma corrisponde al numero di intervistati per cui la probabilità di votare un dato partito va da 7 in su. Quindi comprende sia gli elettori che già oggi votano quel partito sia quelli che potrebbero votarlo domani. In altre parole, il cerchio è la somma dei voti attuali e dei voti potenziali. Detto ciò, non è una sorpresa che la Lega di Salvini, che viene mediamente stimata sopra il 30% delle intenzioni di voto, sia caratterizzata dal cerchio più grande. È invece una sorpresa che Fratelli d’Italia, che viene stimata poco sotto il 10%, abbia un cerchio quasi grande quanto quello della Lega. In sintesi, il partito della Meloni è ancora relativamente poco votato ma ha un notevole potenziale di espansione. A spese di chi? Il diagramma dà una risposta chiarissima su questo punto. Si deduce dalla ampia area di sovrapposizione tra il cerchio della Lega e quello di Fratelli d’Italia. Questo vuol dire che ci sono tanti elettori, che oggi votano Salvini e potrebbero continuare a votarlo anche domani, ma che considerano probabile o molto probabile votare domani Fratelli d’Italia invece della Lega.

    Fig. 1 – Grado di sovrapposizione degli elettorati dei principali partiti italiani. Fonte: elaborazione CISE su dati Winpoll, novembre 2019

    In realtà il futuro è già arrivato. Lo dicono i dati sui voti veri. Fratelli d’Italia è in crescita da mesi. Una crescita lenta ma continua. Ha preso il 4,3 alle politiche del 2018, il 6,4 % alle europee di questo anno e il 10,4% alle regionali in Umbria dove nel 2015 aveva ottenuto il 6,2%. La media dei sondaggi della scorsa settimana stima il partito della Meloni al 9,8%.  Addirittura gli ultimi indici di gradimento mettono la Meloni davanti a Salvini. Insomma Salvini ha trovato un concorrente temibile. Oggi gli elettori disponibili a votare l’uno o l’altro di questi due partiti sono praticamente gli stessi. Lo suggerisce anche un altro dato che pubblichiamo qui: come gli elettori si collocano sulla scala sinistra-destra. Non è vero che questa dimensione della politica sia scomparsa. Molti lo vogliono far credere per avere le mani libere. Un elettorato disancorato è un elettorato più disponibile. Ma non è così.  Destra e sinistra hanno ancora un senso per milioni di persone. E gli elettori di Lega e Fratelli d’Italia si riconoscono come elettori di destra (Figura 2). È lì che si collocano con un punteggio rispettivamente di 8 e di 8,5. Gli stessi elettori di Forza Italia si collocano lì vicino. Sono punteggi da destra radicale e non da destra moderata. L’asse della politica italiana su questa dimensione si è spostato. E di questo spostamento verso destra ha beneficiato fino ad oggi soprattutto Salvini che lo ha favorito intercettando domande latenti. Ma non è detto che continui così. La Meloni è in agguato. I due partiti occupano lo stesso spazio politico. Lo ripetiamo: competono per gli stessi elettori. L’Italia ha trovato la sua Marine Le Pen.

    Fig. 2 – Autocollocazione politica. Fonte: elaborazione CISE su dati Winpoll, novembre 2019

    A sinistra il quadro è molto diverso. Dal diagramma di Venn si coglie bene la differenza. A destra c’è un blocco compatto. Gli elettori dei partiti di destra si sovrappongono largamente. Sono disposti a trasferirsi dall’uno all’altro dei partiti della destra. A sinistra non è così. Gli elettori sono più distanti. In particolare, colpisce l’isolamento del M5s. Non solo il suo bacino elettorale si è ridotto drasticamente, ma è come se gli elettori rimasti siano disponibili a votare solo il Movimento o a non votare. Solamente Pd e Italia Viva hanno una quota significativa di elettori che si sovrappongono. E questo conferma che oggi il target realistico per il partito di Renzi è più il Pd che Forza Italia i cui elettori hanno una auto-collocazione nettamente di destra. In sintesi, non solo il voto potenziale dei partiti di sinistra è più limitato, con l’eccezione del Pd, ma lo schieramento non ha la stessa omogeneità del blocco rivale. Certo, tutto scorre di questi tempi. Quelle che sono le auto-collocazioni e le propensioni al voto di oggi possono cambiare. Ma oggi è così.

  • Regionali Emilia-Romagna: Bonaccini è avanti, ma più voti al centrodestra

    Regionali Emilia-Romagna: Bonaccini è avanti, ma più voti al centrodestra

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 17 Novembre

    L’Emilia-Romagna non è l’Umbria. Questa è la sintesi del
    sondaggio Winpoll sulle elezioni regionali che si terranno il 26 Gennaio. Le
    differenze sono molte e non hanno a che fare solo con gli scandali che hanno
    coinvolto il Pd a Perugia e dintorni. Tanto per cominciare la situazione socio-economica
    in Emilia-Romagna è significativamente migliore come dicono tutti gli
    indicatori dal Pil regionale al tasso di disoccupazione. È una delle ragioni
    per cui l‘ 88 % degli intervistati giudica la qualità della vita nella regione
    molto positivamente o abbastanza positivamente. Tra questi ci sono anche l’80%
    degli elettori della Lega e il 90% di quelli del M5S. Questo giudizio è
    condiviso da tutte le categorie professionali, compresi gli operai e i
    disoccupati. Inoltre, sono in tanti a pensare che la qualità della vita negli
    ultimi cinque anni sia rimasta uguale (45%) o migliorata (il 18%). Un giudizio
    condiviso dal 52% degli stessi elettori della Lega.

    La differenza più importante è però una altra e si chiama
    Stefano Bonaccini, il presidente Pd uscente che si ricandida con una coalizione
    di centro-sinistra più liste civiche. Era stato eletto nel 2014 in un clima di scetticismo
    diffuso tanto che solo il 38% degli elettori era andato a votare. Il valore più
    basso di sempre. Adesso, dopo cinque anni di governo ben l’80% degli elettori emiliano-romagnoli
    giudica positivamente l’operato della sua giunta. E, cosa ancora più
    significativa, questo vale anche per il 62% degli elettori della Lega e addirittura
    per il 90% di quelli del M5S. Il giudizio è inoltre largamente positivo, con
    valori sempre superiori al 70%, tra tutte le categorie professionali e in tutte
    le fasce d’età. E non finisce qui. Bonaccini gode della fiducia del 69% degli
    intervistati. Un dato lusinghiero di questi tempi anche perché è condiviso da
    una percentuale rilevante degli elettori dei partiti di opposizione, 38% la
    Lega, il 52% Fratelli d’Italia e il 60% Forza Italia. E lo stesso giudizio
    positivo si riscontra in tutte le categorie professionali e in tutte le fasce
    d’età. L’indice di fiducia è sempre superiore al 60% e sempre largamente
    superiore a quello di Lucia Borgonzoni, la candidata della Lega alla guida
    della coalizione di centro-destra.

    Insomma, non ci sono dubbi che Bonaccini abbia governato bene. Lo riconoscono anche gli elettori dei partiti di opposizione. In tempi normali la sua rielezione sarebbe scontata. Eppure non è proprio così. Gli elettori emiliano-romagnoli hanno a disposizione due voti, uno per il candidato e uno per il partito. Quello che conta per vincere è il voto al candidato. Con un voto più degli altri si vince e si ottiene la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio. Nel sondaggio Winpoll le intenzioni di voto sono state rilevate sulla base di due scenari. Nel primo il M5S si presenta con un suo candidato. Nel secondo appoggia il candidato della coalizione del centro-sinistra più civiche. Nella competizione a tre (primo scenario) Bonaccini ottiene il 50,7% delle intenzioni di voto contro il 42,1% della Borgonzoni e il 6,2% del candidato M5S. Come si vede nel grafico un contributo importante viene dalla sua lista civica, il che testimonia il suo appeal personale. Nella competizione binaria (secondo scenario) Bonaccini sale al 56,2% mentre la sua rivale resta praticamente ferma al 42,9%. A differenza dell’Umbria sembra che in Emilia l’accordo con il M5S potrebbe funzionare. Ma solo una attenta valutazione della situazione locale può indicare la strada più conveniente. Ciò non toglie che ci sono altri dati in questo sondaggio che mostrano che su molte dimensioni oggi l’elettorato del M5S è più vicino a quello del Pd che a quello della Lega.

    In sintesi, a livello di voto al candidato, Bonaccini, con o
    senza l’appoggio del M5S, è davanti alla Borgonzoni. Non si tratta di un
    vantaggio enorme ma nemmeno esiguo. La stima è invece diversa a livello di voto
    alle liste in coalizione. In breve, Bonaccini va bene ma la sua coalizione meno.
    Infatti, secondo la stima Winpoll, la somma dei voti dei partiti della
    coalizione di centro-sinistra fa 44,8% mentre quella delle liste di
    centro-destra fa 47,6%. Per quanto il distacco sia modesto va nella direzione
    opposta a quello che si è visto a livello di candidati. L’effetto-Bonaccini è
    netto. (https://nuttyscientists.com/)

    In ogni elezione regionale giocano fattori locali e fattori
    nazionali. In Emilia-Romagna il fattore locale è il buon governo della giunta
    Bonaccini, oltre alla fiducia personale di cui gode il presidente uscente. Il
    fattore nazionale è il vento che spira a favore del centro-destra. Bonaccini
    può vincere se il primo fattore prevarrà sul secondo. Questi dati sembrano
    indicare che la cosa è possibile, ma mancano più di due mesi al voto. Salvini
    ha capito che nazionalizzare la competizione regionale è la strada da battere
    per cercare di vincere. Bonaccini e il Pd devono fare il contrario.

  • Solo il ballottaggio frena la frammentazione

    Solo il ballottaggio frena la frammentazione

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 13 Novembre

    Quattro elezioni in quattro anni. Questa è la Spagna di oggi. Eppure c’è qualcuno in Italia che vorrebbe importare da noi il sistema elettorale spagnolo. Piace a chi pensa che la frammentazione e i suoi effetti si possano limitare con un proporzionale corretto come quello spagnolo. In Spagna i seggi non vengono assegnati a livello nazionale ma nelle circoscrizioni. Dato che queste sono mediamente piccole, i piccoli partiti fanno fatica a prendere seggi. Infatti, meno sono i seggi da attribuire più difficile è che i piccoli partiti possano raggiungere la percentuale di voti minima per ottenere un seggio, cioè il quoziente elettorale. Quindi in teoria anche i sistemi proporzionali possono essere disproporzionali e favorire la governabilità. In Spagna è stato così per un lungo periodo. Ma non è più così da quando si sono indeboliti i due maggiori partiti del sistema, Socialisti e Popolari. La frammentazione è aumentata e con essa la difficoltà a fare i governi.

    Invece di quattro elezioni in quattro anni gli spagnoli avrebbero potuto risolvere il problema del governo con una sola elezione, con due turni elettorali in due settimane. Basta ricorrere a sistemi elettorali che mettano in condizione gli elettori di esprimere una seconda preferenza, quella appunto che si può usare al secondo turno. Gli elettori di Podemos, di Ciudadanos, di Vox e dei partiti regionalisti avrebbero potuto decidere il governo del paese votando al secondo turno per partiti o candidati ‘meno peggio’. E con un sistema basato sulle liste, e non sui collegi uninominali, avrebbero comunque avuto una adeguata rappresentanza parlamentare.

    Finchè l’esito del voto è affidato all’utilizzo delle sole prime preferenze degli elettori è sempre più difficile che le elezioni diano risultati tali da garantire un minimo di governabilità. Non solo in Spagna. La lezione viene dal caso francese. È vero che la Francia è un regime semipresidenziale, ma la vera differenza tra la Francia e gli altri paesi europei è il sistema a doppio turno che come è noto viene utilizzato sia per l’elezione del presidente che per quella dei deputati. Senza il doppio turno e le seconde preferenze non solo non si sarebbe materializzato il fenomeno Macron ma la Francia sarebbe uno dei paesi più instabili d’Europa.

    Però -dice qualcuno- il proporzionale a un turno funziona in Germania. Dunque, non è vero che sia sinonimo di instabilità. Ma come funziona ora? Una volta, come in Spagna, funzionava in modo tale da garantire una alternanza periodica tra destra e sinistra. Spesso con i Liberali ago della bilancia. Come in Spagna c’erano due grandi partiti, la Spd e la Cdu-Csu, che avevano la possibilità di arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi da soli o con alleati minori. Da qualche tempo non è più così. E le grandi coalizioni sono diventate la norma. Grandi coalizioni fatte da partiti tradizionali. In Germania la cultura della stabilità e del compromesso consente la formazione e la durata di accordi del genere. Ma alla lunga anche in Germania, e certamente in altri paesi europei tra cui l’Italia e la Spagna, soluzioni di questo tipo favoriscono la crescita del populismo. E la competizione diventa una lotta tra i partiti del vecchio ordine politico e quelli nuovi che lo sfidano in nome della discontinuità e della sfiducia nelle vecchie élites. Come Vox in Spagna e l’Afd in Germania.

    A Madrid pare che la soluzione che si prospetta sia quella della coalizione di tutte le forze progressiste e regionaliste. Per la Spagna è un fatto nuovo. Sarebbe il primo governo di coalizione dai tempi della Repubblica. Vedremo come funzionerà. In ogni caso non è escluso che -prima o poi- anche a Madrid si porrà il problema se cambiare o meno il sistema elettorale per rendere le elezioni uno strumento per decidere chi governa e non solo per contare i voti. Da noi il problema è già tornato di attualità. Pare che in questi giorni si stia rimettendo in moto il processo per cambiare il sistema elettorale in vigore, il cosiddetto Rosatellum. Né il proporzionale spagnolo né quello italiano con soglia nazionale sono la strada da seguire. E non va bene nemmeno quello britannico con cui si voterà tra qualche settimana a Londra. È un sistema troppo distorsivo come vedremo la sera del 12 Dicembre.

    Continuiamo a ripeterlo. Un buon sistema elettorale non è la panacea di tutti i mali e non è una priorità per la massa degli elettori. Ma è una condizione necessaria per trovare una soluzione soddisfacente al problema del governo in condizioni di elevata frammentazione. Dopodiché per arrivare al buon governo ci vuole certamente altro. Ma senza stabilità come ci si potrà mai arrivare?

  • Stabilità e rappresentanza, i vantaggi del doppio turno di lista

    Stabilità e rappresentanza, i vantaggi del doppio turno di lista

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del  6 Novembre

    Da tempo siamo convinti che il sistema elettorale più adatto al nostro paese in questa fase storica è il doppio turno di lista. Funziona così. La nuova Camera ha 400 deputati. Con questo sistema sono tutti eletti con una formula proporzionale. I partiti si presentano da soli o in coalizione. Chi vince ottiene un premio tale da garantire 220 seggi su 400. Si vince in due modi. Se un partito o una coalizione ottiene la maggioranza assoluta dei voti gli vengono assegnati 220 seggi e l’elezione si conclude al primo turno che così diventa l’unico. Se nessun partito o nessuna coalizione arriva a questa soglia, le due formazioni con più voti si affrontano in un ballottaggio. Il vincente ottiene 220 seggi. In entrambi i casi i perdenti si dividono 180 seggi. Le coalizioni si possono formare al primo turno o al secondo.

    Naturalmente ci sono altri aspetti del sistema che vanno considerati: la questione delle liste e del voto preferenza, il livello della soglia di sbarramento per ottenere seggi e di quella per contare i voti ai fini del premio. Si possono anche prevedere delle varianti. Per esempio, la soglia per far scattare il secondo turno potrebbe essere più bassa del 50% più uno. Potrebbe essere, come era nell’Italicum, il 40% o essere compresa tra il 40 e il 50. In altre parole, potrebbe essere considerato vincitore anche il partito o la coalizione che arriva prima ma non supera il 50%. Ma tutti questi sono dettagli. Importanti, ma dettagli.

    Nessun sistema è perfetto. I vantaggi del doppio turno di lista sono però significativi. Prima di tutto la certezza che le elezioni siano decisive e cioè che siano gli elettori a decidere il governo del paese. A differenza del doppio turno francese, che si basa sui collegi uninominali, questo sistema ha il vantaggio di rappresentare in maniera adeguata anche i perdenti. É un sistema semplice dal punto di vista di chi va a votare. La posta in gioco è chiara. É un sistema flessibile perché ogni partito può decidere se correre da solo o in coalizione senza essere costretto ad allearsi ‘per forza’ come avviene invece nel caso di sistemi con i collegi uninominali. É un sistema che concilia meglio di altri stabilità e rappresentanza.

    Caliamo adesso questo sistema nell’attuale contesto partitico. Cominciamo dal centro-destra. I tre partiti che lo compongono dovranno decidere se presentarsi uniti in coalizione già al primo turno oppure usare il primo turno come una sorta di primaria. Nel primo caso dovranno mettersi d’accordo subito su chi sarà il candidato alla presidenza del consiglio. Nel secondo caso ogni partito presenterà un suo candidato. Il candidato del partito con più voti diventa il candidato della coalizione al secondo turno. Nel caso di questo schieramento, se i voti sono quelli di oggi, è probabile che la coalizione si formi già al primo turno e che il candidato premier sia Salvini.  In ogni caso -è bene sottolinearlo- ogni partito si presenta con il suo simbolo e ha la possibilità di contare i propri voti e di eleggere i propri rappresentanti.

    Nel centro-sinistra la cosa è più complicata. Ma proprio per questo motivo la flessibilità di questo sistema elettorale può essere utile. Non è necessario che Pd e M5s che si coalizzino già al primo turno e decidano chi debba essere il candidato-premier della coalizione. Ognuno presenterà il proprio e saranno gli elettori a decidere. Quello con più voti diventerà il candidato comune al secondo turno, se il primo turno non produrrà un vincitore.

    Così come stanno le cose oggi a livello elettorale, questo è un sistema che offre a tutti i partiti una chance di partecipare al governo del paese (se vincono da soli o in coalizione) o di essere rappresentati in parlamento (se perdono). Allo stesso tempo grazie al secondo turno e all’uso delle loro seconde preferenze gli elettori hanno la possibilità di eleggere ‘direttamente’ il governo, anche quando le prime preferenze non siano sufficienti a decidere il vincitore.

    Lega e Pd non dovrebbero avere problemi con un sistema di questo tipo. Per il M5s la decisione è più difficile. Sappiamo che molti dentro il Movimento preferiscono un sistema proporzionale con soglia più o meno alta. Con questo sistema continuerebbero a essere il partito indispensabile per fare qualunque maggioranza di governo, il partito dei due forni. Una volta si alleerebbero con la Lega e una altra volta con il Pd. Esattamente come hanno fatto in questi mesi. É questo il ruolo che il Movimento vuole giocare oggi e nel prossimo futuro?  O non sarebbe meglio fare una chiara scelta di campo e competere con il Pd per la guida di uno schieramento progressista alternativo a quello del centro-destra? Il destino della prossima riforma elettorale, condivisa o meno che sia, e soprattutto il funzionamento della nostra democrazia dipende in gran parte dalla risposta che il Movimento darà a questa domanda. 

  • Una buona notizia: almeno per ora la riforma elettorale non si farà

    Una buona notizia: almeno per ora la riforma elettorale non si farà

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del  28 settembre

    La riforma elettorale non si farà. Quanto meno non ora. Il proporzionale può attendere. É una buona notizia per diversi motivi. Negli ultimi 26 anni le regole di voto sono state cambiate sei volte. Quattro riforme elettorali sono state fatte dal Parlamento, due dalla Corte Costituzionale. Un record mondiale. La settima riforma, quella apparentemente rinviata, avrebbe riportato l’Italia ai tempi della Prima Repubblica senza i partiti e la classe politica di allora. Già ora i governi sono poco stabili. Figuriamoci con un sistema elettorale interamente proporzionale.

    L’attuale sistema, il cosiddetto Rosatellum, non è il migliore dei mondi possibili. I seggi proporzionali sono troppi rispetto a quelli maggioritari. I collegi uninominali sono il 37%. Avrebbero dovuto essere il 50% o meglio ancora il 75% come nella legge Mattarella. Ciò nonostante il fatto che siano un terzo fa comunque la differenza perché produce due effetti positivi. Il primo è che i partiti devono dichiarare prima del voto con chi si vogliono alleare per fare il governo. La formazione di coalizioni pre-elettorali è la caratteristica distintiva di tutti i sistemi di voto introdotti nel nostro paese a partire dal 1993. É così a tutti i livelli di governo, dai comuni alle regioni allo Stato.

    Il secondo effetto riguarda la trasformazione dei voti in seggi. Con una percentuale di voti compresa tra il 40 e il 45% si può ottenere la maggioranza assoluta di seggi. É un tasso di disproporzionalità limitato, ma non irrilevante. Se nel Paese esiste un consenso di queste dimensioni a favore di una coalizione saranno gli elettori a scegliere il governo. Se i consensi sono inferiori saranno i partiti dopo il voto a decidere come farlo. Esattamente come è successo con i due governi Conte. Il Rosatellum è un sistema di voto flessibile. Funziona sia come un sistema maggioritario che come un sistema proporzionale. Tutto dipende dal livello di consensi e dalla loro distribuzione territoriale. In sintesi, un tasso di disproporzionalità compreso tra i 5 e i 10 punti percentuali non è elevato ma serve a favorire la creazione di maggioranze in sistemi di partito frammentati. In sua assenza alla disproporzionalità generata dal sistema di voto si sostituirebbe il potere di ricatto di piccoli partiti detentori di piccole quote di seggi necessari per arrivare alla maggioranza assoluta. I Ghino di Tacco di craxiana memoria.

    A questa analisi ne va aggiunta un’altra. A partire dalle elezioni del 2013 il sistema partitico è diventato tripolare grazie al successo clamoroso del M5s. Due volte consecutive il movimento di Grillo è stata la formazione politica più votata, con il 25,6% nel 2013 e con il 32,7% nel 2018. Dopo le ultime elezioni è diventato l’ago della bilancia della politica italiana. E si è visto cosa è successo. Prima ha fatto un governo con la Lega e ora con Pd e Leu. L’introduzione di un sistema di voto interamente proporzionale servirebbe a perpetuare questa dinamica. Anche con una percentuale di voti inferiore a quella del 2013 e del 2018 il Movimento diventerebbe indispensabile per fare qualunque governo. Solo una alleanza Pd-Lega potrebbe evitare questo esito. C’è qualcuno disposto a credere a una operazione del genere? Dunque, il proporzionale conviene al Movimento. Ma perché dovrebbe convenire al Pd? 

    Con la formazione del secondo governo Conte siamo entrati in una nuova fase della politica italiana. Pd e M5s (insieme a Leu) hanno deciso di mettersi insieme. Da tanti punti di vista è un fatto sorprendente che potrebbe rappresentare una vera svolta. I poli intorno a cui si articola la competizione elettorale sono tornati ad essere due, e non più tre.  Non siamo così ingenui da pensare che questo sia ancora un assetto stabile. Il rapporto tra Pd e Movimento è ancora molto fragile. Ci vorrà del tempo per capire se potrà diventare una alleanza strategica. Si vedrà a partire dalle scelte che verranno fatte in tema di politica economica e di alleanze alle regionali dell’anno prossimo. Ma una cosa è certa. L’adozione di un sistema proporzionale non favorirebbe il rafforzamento della alleanza tra i due partiti. E senza questa alleanza come pensa il Pd di poter competere per il governo contro una destra unita?

    In realtà dietro i disegni neo-proporzionalisti coltivati dentro e fuori il Pd si nasconde un altro obiettivo. Non quello di vincere, ma quello di non far vincere la destra, anche a costo di sacrificare la governabilità del paese. Meglio l’instabilità che la vittoria di Salvini. Non sono più i Cinque Stelle il partito anti-sistema. É la Lega di Salvini. E allora davanti al rischio che un partito anti-sistema arrivi al governo del paese diventa legittimo manipolare per l’ennesima volta le regole del voto, come se questa fosse diventata una procedura normale. Il taglio dei parlamentari fornirà l’alibi. Spaventa la leggerezza con cui tanti condividono questa idea senza vederne i rischi. Cambiare, oggi o domani, le regole del gioco non farà altro che indebolire ancora di più la fiducia nelle istituzioni e dividere ulteriormente un paese già spaccato. Non servirà a impedire alla destra di arrivare al governo. Anzi. Ma per adesso la decisione è stata rinviata. Meno male.