Autore: Roberto D’Alimonte

  • I due turni dell’Italicum: perche Sì

    I due turni dell’Italicum: perche Sì

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 15 settembre 2016

    Esiste una differenza sostanziale tra un giurista e un politologo. Il primo ragiona sulle norme. Il secondo sui dati. E’ questo che spiega in buona parte la diversa valutazione dell’Italicum tra me e Onida. I dati ci dicono che le coalizioni di governo, che per Onida non sono sempre un male, da noi non funzionano. I governi della Prima Repubblica sono durati in media meno di un anno. Quelli della Seconda Repubblica meno di due anni. Per la precisione 628 giorni. Questo è un problema o no?  Se uno pensa che la stabilità dei governi non sia un problema si giustifica la preferenza per sistemi elettorali proporzionali o  comunque per sistemi che non siano ‘decisivi’, cioè majority assuring. Si vota e dopo il voto i partiti trattano sulla formazione del governo. In Spagna è dieci mesi che trattano. Che poi i governi durino poco e non riescano a attuare i loro programmi poco importa. Chi scrive pensa invece che la stabilità sia molto importante, soprattutto di questi tempi. Senza di essa non si può governare efficacemente. Non solo. La stabilità è una condizione necessaria della responsabilità di chi governa. Governi instabili sono governi irresponsabili.

    Ma come favorire la stabilità?  Il sistema elettorale è il meccanismo cruciale, anche se non il solo.  Nessun sistema proporzionale può oggi favorire la formazione di governi stabili nel nostro paese. Basta farsi due conti. Ci vuole un sistema disproporzionale. E già l’uso di questo aggettivo disturba molti in un paese di radicata cultura proporzionalista. In alcuni paesi l’obiettivo è perseguito con i collegi uninominali a un turno o a due turni. C’è chi da noi vorrebbe tornare ai collegi della Mattarella e chi vorrebbe sperimentare quelli a due turni della Francia. Anche Onida cita la Francia. Lo fa ricordando il sistema in vigore per le legislative che prevede un secondo turno semi-aperto e dimentica quello in vigore per le presidenziali che invece è simile al ballottaggio dell’Italicum. Ma il punto è un altro. In un contesto tripolare o multipolare l’uso dei collegi uninominali può portare a una forte sotto-rappresentazione di alcuni partiti, e non solo i più piccoli. Alle ultime elezioni in Gran Bretagna il partito di Farage ha ottenuto un seggio con il 14% dei voti. Alle prossime elezioni legislative francesi è possibile che il Fronte Nazionale ottenga il 30% dei voti e il 5% dei seggi, poco più o poco meno.  Una eventuale quota di seggi proporzionali può non essere sufficiente a risolvere il problema, a meno di non essere tanto grande da compromettere l’effetto maggioritario complessivo del sistema elettorale.

    L’Italicum è diverso. A chi vince vanno 340 seggi. A chi perde 278. Con questo sistema si realizza un punto di equilibrio soddisfacente tra governabilità, favorita da premio di maggioranza e ballottaggio, e rappresentatività assicurata da una sostanziosa quota di seggi destinati ai perdenti e da una soglia bassa (il 3%). Certo, l’Italicum è un sistema perentorio. Chi vince ottiene sempre e comunque la maggioranza dei seggi. E sono gli elettori a decidere. L’Italicum esalta la sovranità popolare.  Questo preoccupa molto i custodi della forma di governo parlamentare. Eppure, fatti i conti, basteranno 25 deputati della maggioranza su 340 a sfiduciare il governo eletto ‘direttamente’ dal popolo, visto che la soglia di maggioranza è 316 e la nostra sarà comunque una democrazia parlamentare anche dopo la riforma costituzionale. L’ “uomo solo al comando” dipenderà dunque da una piccola minoranza di deputati del suo partito.

    Ma al ballottaggio che deciderà il governo del paese potrebbero accedere due liste che hanno ricevuto una bassa percentuale di voti al primo turno. Una delle due al ballottaggio dovrà ottenere il 50% dei voti per vincere. Questo va da sé, ma non basta ai critici dell’Italicum.  La loro preoccupazione è che vadano a votare pochi elettori. Su quale base empirica sia fondata questa preoccupazione non è dato sapere. Visto che a Onida piace la Francia faccio notare che a Parigi a partire dal 1965 in un solo caso alle presidenziali l’affluenza alle urne al secondo turno è stata inferiore al primo. E alle legislative nello stesso periodo ci sono state modeste oscillazioni tra i due turni. Qualche volta si è votato di più al primo, altre volte al secondo. E la Francia non è mai stata un sistema bipartitico.  La cosa si spiega. Gli elettori percepiscono chiaramente che la posta in gioco al secondo turno è elevata e che la scelta che hanno davanti è netta e si comportano di conseguenza. Non si può assumere a priori che in Italia sia diverso.

    Né si può ragionare come se le seconde preferenze espresse dagli elettori che vanno a votare non siano le loro ‘vere’ seconde preferenze. Un ragionamento simile equivale a introdurre un ulteriore e inusuale criterio di democraticità: la soddisfazione che l’elettore ricava dal voto che esprime. E che vuol dire poi che un elettore vota ‘contro’?  Questa è una espressione giornalistica, non un concetto scientifico. I francesi che alle presidenziali del prossimo anno voteranno a favore del candidato repubblicano- qualunque esso sia-  voteranno a suo favore o contro Marine Le Pen?  Le seconde preferenze sono seconde preferenze e basta. E una competizione a due con una elevata posta in gioco e una chiara visibilità tende a favorire l’espressione di una seconda preferenza. Ed è un bene in un sistema democratico che gli elettori si abituino a votare in base a un criterio di “second best”, invece di delegare la scelta ai partiti. La democrazia è compromesso.

    Né è empiricamente fondata la tesi che un ballottaggio a livello nazionale nel nostro paese rischi di ‘rafforzare posizioni tendenzialmente estreme’. I secondi turni, proprio per la loro natura e soprattutto quando non sono aperti, tendono a favorire competizioni di tipo centripeto. La tesi di Onida nasconde sotto sotto il vero timore di chi oggi vuole cancellare il ballottaggio. Si chiama M5s. E questo perché non si è capito che il M5s non è percepito dagli elettori come una forza estremista. Il vero vantaggio competitivo dei cinque stelle è proprio quello di essere un movimento “acchiappatutti”, che pesca a sinistra, a destra e al centro. Ma chi non conosce i dati queste cose non le sa. Il M5s va sconfitto sul suo terreno e non cambiando in corsa le regole del gioco condannando il paese a una perenne instabilità.

  • La democrazia e il peso delle seconde preferenze nel voto

    La democrazia e il peso delle seconde preferenze nel voto

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 4 settembre 2016

    Si moltiplicano di questi tempi i segnali che il ballottaggio sia il vero problema dell’Italicum. Pochi lo dicono apertamente ma molti pensano che con questo meccanismo si consegnerà il governo nazionale al M5s. A questo riguardo è emblematica l’intervista rilasciata il 20 Luglio scorso al direttore de Il Foglio da Giorgio Napolitano. In tema di possibile revisione dell’Italicum il suggerimento delle ex presidente della repubblica è di ‘non puntare a tutti i costi sul ballottaggio che rischia, nel contesto attuale, di lasciare la direzione del Paese a una forza politica di troppo ristretta legittimazione al primo turno’. Naturalmente Napolitano non dice nulla a proposito di chi possa essere la forza politica poco rappresentativa che potrebbe vincere le elezioni al ballottaggio. Ma il vero timore di molti che condividono l’affermazione dell’ex presidente è che quella forza sia il Movimento. Per fermarlo la soluzione ‘perfetta’ è la decapitazione dell’Italicum con l’eliminazione del secondo turno. E questo è certamente vero.

              Qui però non ci interessa l’esegesi delle parole di Napolitano né vogliamo discutere le probabilità di vittoria del M5s alle prossime elezioni e tanto meno la legittimità di una riforma elettorale fatta per impedire la vittoria di una parte. Quello che ci interessa analizzare è l’argomento utilizzato dall’ex presidente per giustificare l’eliminazione del ballottaggio, e cioè il fatto che con l’Italicum, in un contesto tripolare, possa prevalere una forza politica poco rappresentativa. Il risultato sarebbe quindi poco democratico. Con questa affermazione Napolitano fa propria una tesi largamente diffusa, specie tra i giuristi. Nel suo caso fa più impressione perché viene da persona che non è pregiudizialmente contraria alle riforme del premier.

              Nessuno è così ingenuo da pensare che sarà lo stesso Matteo Renzi a farsi promotore di una riforma della sua legge elettorale tale da stravolgerla completamente abolendone l’elemento essenziale che è per l’appunto il ballottaggio. Qualcun altro però potrebbe farlo per lui. E’ la Corte Costituzionale. Il prossimo 4 Ottobre, sollecitata da un ricorso contro l’Italicum, potrebbe approfittare della occasione per far fuori il ballottaggio dichiarandolo incostituzionale proprio sulla base dell’argomento usato da Napolitano. E così – pensano molti – toglierebbe le castagne dal fuoco allo stesso Renzi. Senza il ballottaggio avremmo alla Camera un nuovo sistema elettorale a un turno. Se una lista arriva al 40% dei voti avrebbe il 54% dei seggi. Se nessuno arriva alla soglia del 40% i seggi verrebbero distribuiti in maniera proporzionale. Visto che di questi tempi è estremamente improbabile che qualcuno arrivi al 40% non ci sarebbe nessun vincitore e i governi si farebbero dopo il voto come ai bei tempi della prima repubblica. L’importante è che non si corra il rischio di una vittoria dei cinque stelle. Meglio l’instabilità.

              Non osiamo credere che la Corte possa giudicare incostituzionale il ballottaggio. Ma a quanto pare corrono insistentemente voci che il rischio esista. Ne parla con dovizia di particolari proprio il direttore de Il Foglio nel suo editoriale di un paio di giorni fa. Ma è solo un segnale tra i tanti. E allora occorre essere assolutamente chiari su una questione così delicata. La tesi che il ballottaggio non vada bene in un contesto tripolare come il nostro è totalmente sbagliata. E’ vera invece la tesi contraria. Il ballottaggio è lo strumento più adatto per risolvere efficacemente e democraticamente la questione del governo in un contesto tripolare. Lo è perché mette in campo le seconde preferenze degli elettori e non solo le prime. In un sistema a doppio turno il primo turno è una specie di primaria. Gli elettori sono chiamati a esprimere una preferenza per il partito o il candidato che piace di più. I primi due passano il turno. Al secondo turno gli elettori dei candidati esclusi possono astenersi o possono esprimere un secondo voto che rappresenta una seconda preferenza. Tra i due candidati ammessi al ballottaggio votano per quello piace di più o dispiace di meno. E’ il sistema utilizzato in Francia e nei nostri comuni. E’ un sistema che esalta la democrazia. Sono gli elettori a decidere chi vince. E chi vince al ballottaggio vince con il 50% dei voti più uno.

              E’ vero che al ballottaggio si può arrivare anche con il 30% dei voti, o anche meno, ottenuti al primo turno. Ma è falso affermare che chi vince, vince con il 30%. Per vincere al ballottaggio occorre avere il 50% dei voti. E questo vuol dire che chi vince al secondo turno partendo dal 30% del primo è riuscito a conquistare voti che in prima battuta non aveva. Ed è riuscito ad allargare la sua base di partenza conquistando le seconde preferenze di tanti elettori. E dove sta scritto che le seconde preferenze contano meno delle prime? In base a quale criterio si può dire che una vittoria conquistata con le seconde preferenze è incostituzionale?  Sono domande la cui risposta non è nella pagine di Kelsen sulla quali si sono formati i nostri giuristi, ivi compresi quelli che siedono alla Consulta, ma in quelle di Condorcet e di Arrow che purtroppo fanno parte del bagaglio culturale di pochi nel nostro paese.  Troppi da noi non conoscono i fondamenti logico-matematici della moderna teoria della democrazia. Né quelli empirici. Eppure dei loro giudizi sono piene le pagine dei giornali e quelle dei talk show televisivi. Incrociamo le dita.  La strada per battere i cinque stelle non passa dalla Consulta, ma dalle urne.

  • Meno umori, più contenuti per il referendum

    Meno umori, più contenuti per il referendum

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 31 luglio 2016

    Il prossimo referendum sulla riforma costituzionale è diventato una sfida molto difficile per chi crede che essa faccia gli interessi del Paese. Basta guardare gli schieramenti in campo. Contro la riforma si sono schierate tutte le opposizioni: M5s, Forza Italia, Lega Nord, Fratelli d’Italia, Sinistra Italiana. Anche l’Udc si è dichiarata contraria. A favore della riforma c’è il solo Pd, e nemmeno tutto. Si sa già che D’Alema voterà contro. Non si sa ancora come si comporterà il resto della minoranza, ma i pronostici sono infausti. Quanto all’Udc e ai Verdiniani sulla carta sembrano schierati a favore, ma qualche dubbio sul loro effettivo coinvolgimento resta, visto che il loro futuro politico pende più a destra che a sinistra. Insomma, è evidente lo squilibrio di forze tra il fronte dei favorevoli e quello dei contrari. Se a Ottobre gli elettori votassero sulla base delle loro preferenze partitiche il risultato sarebbe una secca sconfitta dei riformatori. La sola speranza di successo del fronte del SI è quella di convincere chi non è un elettore del Pd che questa riforma rappresenta, pur con tutti i suoi limiti, un cambiamento utile al Paese. E nemmeno questo potrebbe bastare se una parte significativa degli elettori democratici dovesse astenersi o addirittura votare contro.

    Anche i sondaggi confermano la difficoltà della sfida, ma i numeri –per quanto ancora poco affidabili- dicono che la partita è ancora tutta da giocare. In alcuni sondaggi i due schieramenti sono in parità, per altri il NO sarebbe in vantaggio. Tutti registrano una alta percentuale di indecisi. Visto lo squilibrio delle forze in campo, di cui abbiamo detto sopra, questi numeri non sono del tutto negativi per i sostenitori del SI. Sulla carta i NO dovrebbero prevalere largamente sui SI. Se non è così, come pare,  vuol dire che la situazione a livello elettorale è più aperta di quanto accade a livello di schieramenti politici.

    La qualità dell’informazione sarà la carta decisiva. Oggi la conoscenza dei contenuti della riforma è a un livello bassissimo in tutti gli strati della popolazione. Anche tra le persone più istruite. Troppa gente non sa cosa c’è dentro. Legge e sente argomenti pro o contro urlati sulle pagine dei giornali o nei talk show televisivi senza poter effettivamente valutarne la consistenza. Mancano le informazioni basilari. E così i sondaggi di oggi finiscono col registrare umori e non opinioni. In questo clima di ignoranza diffusa i fautori del No hanno buon gioco ad alimentare diffidenza e paure. Taluni di loro fino al punto di parlare della riforma come di un attentato alla democrazia. Per questo una informazione basata sui fatti, e non su astratte speculazioni intellettuali o su polemiche politiche strumentali, è essenziale per mettere gli elettori, soprattutto quelli indecisi, nelle condizioni di farsi una idea e non di esprimere solo un umore. Non sarà facile ma bisogna provarci.

    Il referendum di Ottobre sarà un passaggio delicato per il premier, ma sarà un test ancora più importante per la democrazia italiana. Dopo trenta anni e passa di immobilismo istituzionale gli elettori dovranno decidere se questa riforma rappresenta un passo avanti o un passo indietro sulla strada della razionalizzazione del nostro sistema di governo. Questo è il punto. Non dovranno decidere se questa è una riforma perfetta. Non lo è. Poteva essere fatta meglio. E sarebbe stato meglio che fosse stata approvata in parlamento da una maggioranza più ampia. Renzi ci ha provato e per un tratto di strada ci è riuscito. Forza Italia ha votato gran parte delle modifiche costituzionali che saranno oggetto del referendum, oltre ad avere approvato per intero la riforma elettorale. Oggi il partito di Berlusconi si è schierato con il fronte del NO per ragioni che nulla hanno a che vedere con i contenuti della riforma. Che fiducia si può avere, alla luce di comportamenti del genere, che una nuova e migliore riforma si possa fare dopo aver bocciato questa ?

    E allora meglio una riforma approvata a maggioranza che nessuna riforma. In Francia nel 1958 è andata così. La sinistra ha contrastato la costituzione della V repubblica fino a quando Mitterand è arrivato alla presidenza. E la costituzone del 1958 è ancora in vigore.

    Alla fine non è il metodo che conta. Non dopo trenta e passi anni di tentativi falliti. La nostra carta costituzionale prevede che le modifiche si possano fare a maggioranza. A questo punto contano i contenuti. E su questi cercheremo di fare una opera di informazione puntuale basata sui fatti partendo da una prima e cruciale osservazione non su quello che la riforma fa, ma su quello che non fa. Agli elettori intimoriti e a quelli indecisi va detto chiaramente che la riforma non modifica di una virgola la prima parte della Costituzione. Non modifica di una virgola i poteri del presidente del consiglio. Non modifica di una virgola i poteri del presidente della Repubblica. Non modifica di una virgola i poteri della magistratura. Non modifica di una virgola i poteri della Corte Costituzionale. Quello che la riforma fa è importante ma limitato. Cambia la composizione e il ruolo del Senato. Ridisegna il rapporto tra le regioni e lo Stato. Introduce nuovi meccanismi di democrazia diretta. Modifica la procedura per la scelta del presidente della repubblica.

    Sono queste le questioni su cui occorre fare chiarezza e su cui gli elettori dovranno giudicare i meriti e i limiti della riforma, lasciando da parte le loro simpatie o antipatie nei confronti del presidente del consiglio.

     

     

     

     

     

     

     

     

  • La mappa dei flussi elettorali: alla Appendino i voti della destra, a Sala quelli della sinistra

    La mappa dei flussi elettorali: alla Appendino i voti della destra, a Sala quelli della sinistra

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 21 giugno

    Raramente le elezioni di medio termine sono favorevoli ai governi in carica. E così è stato con queste comunali che per molti aspetti si possono considerare alla stregua di elezioni di medio termine. Esiste un ciclo economico ed esiste un ciclo elettorale.

    I governi all’inizio del loro mandato godono di solito di un buon livello di popolarità. Con l’andare del tempo il livello diminuisce per toccare il minimo a metà del mandato e risalire – ma non sempre – con l’approssimarsi delle elezioni successive. Per Renzi e il suo governo il picco positivo del ciclo ha coinciso con le elezioni europee del 2014. Già i risultati delle regionali dello scorso anno, pur essendo sostanzialmente positivi, avevano lasciato intravedere qualche problema, per esempio la sconfitta in Liguria. Queste comunali evidenziano una forte erosione della popolarità del Pd e del governo. Si tratta pur sempre di elezioni comunali, ma il complesso dei risultati è tale per cui è chiaramente visibile accanto alla influenza dei fattori locali anche l’impatto negativo della declinante popolarità del governo nazionale e del suo leader. C’è poco da fare. Di questi tempi governare logora e lo scopriranno presto anche i vincenti di oggi.

    I dati sono impietosi. Nei comuni sopra i 15.000 abitanti (e anche in quelli più piccoli) il Pd non era andato male al primo turno. Era riuscito a piazzare al ballottaggio un suo candidato in 90 comuni su 121 in cui si è votato domenica scorsa. Ma ha vinto solo in 34 casi. Si può consolare con le vittorie di Milano e di Varese, ma complessivamente si tratta di un risultato molto deludente. Come tasso di successo ha fatto meglio addirittura il centrodestra, che non ha vinto in nessuna delle cinque maggiori città, ma l’ha spuntata in 29 ballottaggi sui 61 in cui era presente. Ma il vero vincitore di questa consultazione è il M5s.

    I casi di Roma e soprattutto di Torino hanno suscitato scalpore, ma il dato più rivelatore è il numero di ballottaggi vinti: 19 su 20. Questo non può essere un caso. E infatti non lo è. Il Movimento di Grillo è riuscito a interpretare la voglia di cambiamento e non solo la rabbia di una larga fetta dell’elettorato italiano che continua a impegnarsi in politica.

    Roma e Torino sono due città completamente diverse. Lo si è ripetuto ad nauseam che a Roma il M5s aveva buon gioco viste le colpe del Pd romano e le condizioni disastrate della città, ma a Torino no. Eppure due casi così diversi hanno generato lo stesso esito. La voglia di cambiamento ha prevalso anche a Torino.

    Ma non c’è solo questo. Nella competizione con il Pd il M5s è avvantaggiato dal fatto, su cui abbiamo insistito più volte, di essere il vero partito della nazione, il partito “pigliatutti”, capace di attrarre consensi in tutti i settori dello spazio politico. Questa sua caratteristica gli consente di essere il destinatario del voto di molti elettori sia di destra che di sinistra che al ballottaggio non hanno propri candidati per cui votare. Sono le seconde preferenze da cui spesso dipende l’esito della contesa al secondo turno. Di questo avevamo parlato qualche settimana fa sulla base dei dati di sondaggio. Ora possiamo parlarne sulla base di dati veri, quelli di sezione, che sono ancora più affidabili.

    Così, calcolando i flussi tra il primo e il secondo turno, si scopre che a Torino il 98% degli elettori del candidato di Area popolare, l’85% degli elettori di Forza Italia, il 71% degli elettori del candidato di Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno votato al ballottaggio l’Appendino e non Fassino. Tra l’altro in pochi si sono astenuti. Il sindaco uscente ha raccolto pochi voti alla sua destra e non ha fatto il pieno dei voti alla sua sinistra . Infatti solo il 47% degli elettori di Airaudo, il candidato della sinistra, lo ha votato mentre il 39% si è astenuto e il 14% ha preferito votare l’Appendino. Sono dati che spiegano inequivocabilmente l’esito della competizione torinese. In sintesi, Fassino ha perso voti di sinistra verso l’astensione e soprattutto non è riuscito a conquistare voti dal centro e dalla destra.

    Il caso di Milano è diverso. E questo deve far riflettere sul come i fattori locali giochino un ruolo importante. Sala ha vinto perché non solo è riuscito a riportare al voto i suoi elettori del primo turno, ma anche perché per lui hanno votato il 91% degli elettori di Rizzo, il candidato della sinistra radicale che al primo turno aveva preso 19.000 voti. La differenza finale tra Sala e Parisi è stata di 17.000 voti. Altro dato interessante a Milano è relativo al comportamento degli elettori del M5s che si sono astenuti in massa. Per la precisione l’88%. In pochissimi hanno votato il candidato del centro-destra e praticamente nessuno, considerando l’errore statistico, ha votato Sala.

    A Bologna invece gli elettori del Movimento sono stati un pochino più generosi nei confronti della candidata del centro-destra. Circa il 45% di loro l’ha votata mentre solo il 10% ha scelto Merola. Ma anche in questo caso molti di loro si sono astenuti al secondo turno. In sintesi, I dati di Milano e di Bologna confermano quanto già rilevato in altre occasioni: è più facile che un leghista voti un grillino che viceversa. Esiste una asimmetria tra gli elettori del centro-destra in generale e quelli del M5s. I leghisti hanno fatto vincere l’Appendino a Torino ma i grillini non hanno fatto vincere Parisi a Milano mentre avrebbero potuto farlo.

    Adesso il confronto si sposta sul referendum di Ottobre sulla riforma costituzionale. Questa sarà la sfida cruciale. Su questo terreno Renzi parte in vantaggio sulla carta. La riforma costituzionale è il cambiamento. Ma va spiegata bene agli Italiani. Il livello di disinfomazione su questo tema è pauroso in tutti gli strati della popolazione. Per questo i fautori del no hanno avuto finora buon gioco ad alimentare il timore che questo sia un cambiamento sì, ma pericoloso. Da qui a Ottobre c’è molto lavoro da fare per Renzi e per il Pd. Nel frattempo riflettiamo sul fatto che oggi 121 comuni hanno un sindaco con una maggioranza in consiglio. Gli elettori hanno scelto chi li governerà per i prossimi 5 anni. Proviamo a immaginare l’elezione del sindaco di Roma con un consiglio comunale eletto oggi con un sistema proporzionale.

  • Il quadro dei duelli nei grandi Comuni

    Il quadro dei duelli nei grandi Comuni

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 19 giugno

    Tra i 121 comuni al voto ci sono 20 capoluoghi di provincia, di cui 6 capoluoghi di regione. Due settimane fa erano 24. Il sindaco è già stato eletto a Cagliari (centro-sinistra), Cosenza (centro-destra), Rimini (centro-sinistra), Salerno (centro-sinistra). In questi 20 comuni si giocano le partite più importanti. Ma merita comunque dare una occhiata panoramica all’intero universo dei 121 comuni.

    Come mostrato dalla Tabella 1, il Pd è il partito, che da solo o con vari alleati, è riuscito ad arrivare primo o secondo, e quindi a guadagnarsi un posto al ballottaggio, nel maggior numero di comuni. Per la precisione sono 90. In 48 casi è arrivato primo e in 42 casi secondo. Dentro questa cifra ci sono anche 17 capoluoghi di provincia (su 20). In questi 17 è arrivato primo 10 volte. In breve Pd e alleati sono esclusi dal secondo turno solo a Napoli, Isernia e Latina. Quanto al tipo di sfide, quelle più numerose vedono di fronte il candidato del centro-sinistra e quello del centro-destra. È così in 45 comuni, circa un terzo del totale. Sono le sfide di una volta, quando la competizione era ancora bipolare. Adesso non lo è più, ma il passato resiste ancora. I casi più interessanti sono Milano e Bologna su tutti, ma anche Trieste, Grosseto, Savona, Varese.

    Sempre restando sul Pd, c’è da aggiungere che negli altri 45 casi in cui va al ballottaggio incontrerà avversari di tutti i tipi. In 15 comuni sono candidati di liste civiche. In 6 affronterà un candidato di una destra senza Forza Italia. Per esempio a Novara. E in 11 comuni lo sfidante sarà il candidato del M5s. Va da sé che questi sono i casi più interessanti. Tre sono comuni capoluogo: Roma, Torino, Carbonia. Per il Pd, e per chi cerca di capire le dinamiche del voto in questa fase convulsa della nostra vita politica, questi 11 comuni, e soprattutto Roma e Torino, ci daranno delle indicazioni preziose sulle seconde preferenze degli elettori italiani.

    Ai ballottaggi si vince riportando a votare i propri elettori – quelli del primo turno – ma cercando anche di convincere a votare per te una parte degli elettori i cui candidati sono rimasti esclusi dal ballottaggio. Queste sono le seconde preferenze. Non sempre determinano l’esito finale del voto, ma tante volte sì. Per un precedente articolo (Si veda Il Sole 24 Ore dell’8 Giugno) avevamo calcolato i flussi tra il primo turno delle comunali del 2011 e il primo turno di quelle odierne. Nei prossimi giorni calcoleremo i flussi tra il primo e il secondo turno. Sarà molto interessante vedere il comportamento degli elettori di Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia in tutti i casi di scontro tra Pd e M5S, e soprattutto a Roma e Torino. Quanti staranno a casa e quanti preferiranno il candidato del M5S a quello del Pd o viceversa? E non meno interessante sarà vedere la decisione di voto di coloro che al primo turno hanno votato i candidati delle varie formazioni della sinistra.

    Nella sostanza saranno i flussi a dirci quanto pesi realmente a livello elettorale la “santa alleanza” di tutti contro il Pd. E questo test riguarderà anche il M5S e i suoi elettori. In fondo, il M5S sarà presente al ballottaggio solo in 20 casi su 121. In alcuni comuni, come Ravenna e Rimini, non si è presentato ma in tanti casi era in corsa ed è stato escluso dal secondo turno. Cosa faranno i suoi elettori? Resteranno a casa in massa? E se non sarà così, chi sceglieranno tra il candidato del Pd e quello del centro-destra? Sono le risposte a queste domande che ci aiuteranno a decifrare le tendenze elettorali anche in vista delle prossime politiche.

    Passando al centro-destra, i suoi partiti si sono presentati in ordine sparso. Roma non è un caso unico. In 15 comuni Lega Nord e Fratelli d’Italia sono riusciti ad arrivare al secondo turno senza l’appoggio di Forza Italia. Ma sono molti di più i comuni – 61, cioè uno sue due – in cui il centro-destra unito è riuscito a piazzare un suo candidato al ballottaggio. Vuol dire che quando lo “schema Milano” prevale sullo “schema Roma” il centro-destra rimane uno schieramento competitivo. I casi di Milano, Trieste, Varese, Savona, Benevento ne sono una prova. Quindi, nonostante tutto il clamore suscitato dalla performance del M5s in queste comunali, non è detto che sia Di Maio a sfidare Renzi tra due anni. Lo “schema Milano” potrebbe cambiare pronostici affrettati. Intanto aspettiamo a vedere cosa succede oggi.

    Tab. 1 – Il quadro riassuntivo delle corse nei ballottaggi.
    121 sfide

  • Convergenza tra bacini elettorali di M5s e Lega Nord

    Convergenza tra bacini elettorali di M5s e Lega Nord

    di Roberto D’Alimonte

    pubblicato su Il Sole 24 Ore del 10 giugno 2016

    Eiste un indicatore che ci può aiutare a capire cosa faranno ai ballottaggi del 19 giugno gli elettori della Lega Nord a Roma e Torino e quelli del M5s a Milano e a Bologna. Come è noto, nelle prime due città i due candidati al ballottaggio sono uno del M5s e l’altro del Pd-centro sinistra. (Xanax) Nelle altre due città si sfidano un candidato del Pd-centrosinistra e uno del centrodestra. L’indicatore di cui parliamo si chiama propensione al voto. Di solito nei sondaggi di opinione ci si limita a chiedere agli intervistati per quale partito hanno intenzione di votare. E ci si ferma lì.

    Nel sondaggio Cise-Sole 24 Ore del maggio scorso invece è stata inclusa questa domanda: «Ognuno dei partiti che abbiamo in Italia vorrebbe avere in futuro il suo voto. A prescindere da come ha votato alle ultime elezioni pensi a una possibilità in generale. Quanto è probabile che lei potrebbe votare per i seguenti partiti in futuro? Mi dica un numero su una scala da 0 a 10, dove 0 significa per niente probabile e 10 significa molto probabile». Va da sé che se un elettore risponde zero questo vuol dire che non voterà mai per quel partito. Al contrario se risponde 10 è certo che quello è il partito per cui voterà. Per noi cinque è il valore che discrimina i partiti che un elettore prende seriamente in considerazione come possibili destinatari del suo voto da quelli per cui difficilmente voterà.

    Con le risposte a questa domanda si possono fare diverse cose interessanti. Per esempio, contando tutti i punteggi superiori a cinque, si può disegnare una mappa del bacino elettorale potenziale di ciascun partito. Si può calcolare cioè quanti sono gli elettori propensi a votare un determinato partito. Nel sondaggio Cise-Sole 24 Ore del dicembre 2015 avevamo fatto vedere come il bacino potenziale del M5s fosse il più ampio di tutti. È ancora così. Oggi come allora la spiegazione sta nel fatto che il M5s è il più trasversale dei partiti italiani. Pesca voti e simpatie in tutto lo spettro politico. Da destra a sinistra passando per il centro. È il vero partito “pigliatutti” del nostro sistema politico oppure per usare un termine più in voga di questi tempi è il vero “partito della nazione”.

    Fig. 1 – La propensione al voto verso il M5s degli altri partiti

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    Fig. 2 – La propensione al voto degli elettori del M5s

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    È questa caratteristica del M5s che spiega perché è possibile che i ballottaggi a Roma e Torino possano favorire i suoi candidati. I dati dell’ultimo sondaggio Cise-Sole 24 Ore sono ricavati da un sondaggio nazionale. Non abbiamo dati specifici sulla propensione al voto riferiti alle città interessate ai ballottaggi, ma questi dati sono sufficienti per cogliere il fenomeno di cui stiamo parlando. Come si vede nei grafici in pagina, il 28,5% degli elettori della Lega Nord è propenso a votare il M5s. Colpisce che questo dato sia più alto della propensione a votare il Movimento da parte degli elettori di Forza Italia e del Pd. Sia chiaro: parliamo di meno di un elettore su tre. Ma in una competizione incerta e serrata questa disponibilità dei leghisti a prendere in considerazione il voto per i candidati del M5s può fare la differenza a Roma, a Torino e negli altri comuni in cui si sfidano centro sinistra e M5s. Tanto più che la stessa disponibilità vale per gli elettori del partito della Meloni.

    Una cosa interessante è che questa propensione è asimmetrica. È vero che anche gli elettori del M5s hanno una propensione più alta a votare Lega Nord che a votare Pd. Per la precisione il 19% indica il partito di Salvini contro il 10% che indica il Pd e il 7,2% Forza Italia. Ma c’è una discreta differenza tra il 28,5% dei leghisti disposti a votare M5s e il 19% dei pentastellati disposti a votare Lega Nord. Alla luce di questa differenza si può ipotizzare che la Raggi a Roma e la Appendino a Torino abbiano qualche chance in più rispetto alla Bergonzoni a Bologna. Ma questi sono dati freddi rilevati diverse settimane prima del voto. Solo domenica 19 sapremo se queste propensioni si trasformeranno in voti effettivi. Resta il fatto che in ogni caso – quelle che Ilvo Diamanti chiama «le affinità elettive» tra gli elettori del Movimento e quelli della Lega Nord – sono un fenomeno reale che oggi ha un peso notevole nello spiegare le dinamiche del voto.

    Per il Pd le affinità elettive sono un problema. A complicare le cose per il partito di Renzi c’è anche il fatto che una quota non irrilevante degli elettori della sinistra italiana nutre simpatie per il M5s. Lo abbiamo visto in passato in diverse città. Quando la scelta è tra un candidato Pd e un candidato M5s molti elettori di sinistra si astengono, ma altri che vanno a votare preferiscono il secondo al primo. E la ragione è proprio in quella natura trasversale del Movimento che gli consente di mischiare la proposta del reddito di cittadinanza con quella della costruzione di nuove carceri. Per ora il mix sembra funzionare. E probabilmente funzionerà fino a quando il vento della protesta anti-establishment continuerà a spirare così forte.

  • Il M5s avanza pescando dal centrosinistra: i flussi elettorali a Milano e Bologna

    Il M5s avanza pescando dal centrosinistra: i flussi elettorali a Milano e Bologna

    di Roberto D’Alimonte, Matteo Cataldi e Aldo Paparo

    A Milano la competizione per la carica di sindaco ha ancora un sapore bipolare. Questo ci hanno detto i risultati del primo turno elettorale nel capoluogo lombardo. Sala è davanti a Parisi di meno di un punto percentuale (appena 5.000 voti) e i due candidati assieme sfiorano l’83%.

    Dai flussi elettorali che il CISE ha stimato tra il primo turno delle elezioni comunali precedenti e il primo turno delle attuali emerge che a Milano, come Fassino a Torino, Sala sia riuscito a raccogliere una quantità di voti significativa in uscita dai candidati di centrodestra: un quinto degli elettori della Moratti del 2011 ha optato per Sala (un elettore milanese su venti) e la stessa scelta è stata compiuta dal 40% degli elettori dell’allora candidato di centro Palmieri. La strategia di “sfondamento al centro” sembra avere dato qualche frutto. Tuttavia ancora più sostanzioso sembra essere il prezzo pagato in termini di insoddisfazione della propria base. Infatti Sala, come del resto Fassino, ha perso più del 50% dei voti della propria coalizione cinque anni prima. A Milano però il prezzo più alto è stato pagato all’astensione: un terzo degli elettori di Pisapia non è infatti tornato alle urne nel 2016, mentre poco meno del 10% ha scelto il candidato del Movimento 5 stelle, Corrado.

    Nel centrodestra buona prova di Parisi che riesce a riportare alle urne quasi due terzi degli elettori della Moratti (63%) e intercetta un quarto dei voti di Palmeri e Calise. Interessante poi rilevare come i voti del candidato del Movimento 5 stelle provengono per oltre la metà da Pisapia e circa un quinto dagli astenuti del 2011.

    Tabella 1 – Milano (sindaco): Destinazioni 2016 degli elettorati 2011 (primo turno)dest

    circolare_milanoTabella 2 – Milano (sindaco): Provenienze 2011 degli elettorati 2016 (primo turno)prov

    Passando a Bologna, Merola conferma poco più della metà dei propri elettori del 2011 (52%), mentre uno su cinque si astiene ed una quota non molto inferiore passa a Bugani del Movimento 5 stelle (12%). La coalizione di centrodestra a Bologna sosteneva la candidatura di Lucia Borgonzoni che però veniva sfidata dal candidato di PdL e Lega del 2011 che si è presentato con una propria lista civica. Bernardini sembra aver mantenuto una quota di voti piuttosto bassa rispetto alle precedenti comunali (13%) mentre poco più di un terzo è rimasto fedele al centrodestra votando la Bergonzoni.

    Nel capoluogo emiliano il tasso di fedeltà maggiore rispetto alle comunali del 2011 è stato quello del Movimento cinque stelle. Bugani, che già aveva corso per la carica di sindaco 5 anni prima, conferma circa sei elettori su dieci che costituiscono circa la metà dei voti ottenuti in questa tornata. Anche qui una metà dei voti del cinque stelle proviene dagli elettori del centrosinistra 2011.

    Tabella 3 – Bologna (sindaco): Destinazioni 2016 degli elettorati 2011 (primo turno)dest

    circolare_bolognaTabella 4 – Bologna (sindaco): Provenienze 2011 degli elettorati 2016 (primo turno)prov

    In conclusione, da una sguardo d’insieme alle analisi di flussi finora svolte, emerge una straordinaria volatilità. A cinque anni di distanza metà dell’elettorato ha cambiato voto. E questo non riguarda solo centrodestra e centrosinistra. Anche il Movimento 5 stelle, pur crescendo, ha perso per strada quote rilevanti del proprio nucleo originario. Persino De Magistris a Napoli, che ha ottenuto 40.000 voti in più di cinque anni fa, ha perso un terzo dei propri elettori. Certo in questi cinque anni molto è cambiato. Ci trovavamo allora in un quadro bipolare. In questo senso appare interessante rilevare come, nonostante l’espansione dell’offerta elettorale, la scelta più frequente di quanti hanno cambiato comportamento sia stata il non voto.

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore dell’8 giugno

  • Partiti e coalizioni la mappa dei ballottaggi

    Partiti e coalizioni la mappa dei ballottaggi

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 7 giugno 2016

    Sono elezioni difficili da decifrare. Come spesso succede quando si vota a livello locale. Le percentuali di voto ai partiti dicono poco o nulla perché sono troppe le liste civiche che falsano il risultato. Inoltre nei 132 comuni superiori ai 15mila abitanti, e dove si è votato con il sistema maggioritario a due turni anche nelle precedenti elezioni, solo in 21 casi il sindaco è già stato eletto. Per gli altri occorre aspettare il 19 giugno. Cinque anni fa negli stessi comuni i vincitori al primo turno erano stati 40. Il fenomeno non è solo legato alla presenza di un terzo polo – il M5s – ma anche alla crescita della frammentazione.

    Restringendo l’analisi ai 24 capoluoghi di provincia i sindaci eletti sono quattro: Cagliari, Rimini, Salerno e Cosenza. Come si può vedere nella tabella, nei primi tre casi ha vinto il candidato del centrosinistra, a Cosenza quello del centrodestra.

    Tabella 1 – Risultati percentuali al maggioritario nei comuni capoluogo

    sintesi capoluoghi

    I risultati definitivi sono troppo pochi per poter trarre delle conclusioni affidabili. Ma i numeri nudi e crudi raccontano solo una parte della storia. Il M5S non ha vinto ancora in nessuno dei 132 comuni, ma è un dato oscurato dall’ottimo risultato della Raggi a Roma e della Appendino a Torino. Bastano questi due casi per dare l’idea di un grande successo del Movimento. Ma il quadro complessivo è più variegato. A Milano, Napoli, Bologna non è andato bene. Nella maggior parte dei 132 comuni superiori la sfida per la vittoria finale rimane una contesa senza un candidato pentastellato. I ballottaggi che vedono in corsa il M5S sono solo 19 (11 con un candidato di centro-sinistra, 3 casi con un candidato di centro-destra, 2 con un candidato di destra, 3 con un candidato di liste civiche). In questo il M5S paga il fatto di correre da solo contro candidati sostenuti da coalizioni formate da più liste. Alla fine dei giochi non saranno molte di più di ora le città governate dal M5S, ma il risultato finale di Roma e Torino sarà determinante. A Roma è molto probabile che la Raggi sia il prossimo sindaco e a Torino l’esito del ballottaggio è incerto. E questi due comuni contano molto di più di Parma e Livorno che fino ad oggi rappresentano i due maggiori successi del M5S.

    Torino merita una riflessione a parte. In fondo i risultati di Milano, Roma e Napoli rispettano più o meno le aspettative. Torino no. Roma è stata una città governata male dove il Pd aveva una montagna da scalare. È una specie di miracolo che Giachetti sia arrivato al ballottaggio. Torino invece è una città governata bene, con un sindaco che gode di un buon livello di popolarità. E nonostante ciò Fassino rischia di non essere riconfermato. Perché? Abbiamo fatto i flussi elettorali tra il primo turno del 2011 e quello di oggi. Nel 2011 Fassino ottenne 255.242 voti, il 56,7% e vinse subito. Adesso ne ha presi 160.023, il 41,8%. Dove sono finiti i 90mila voti che mancano? Una parte, il 14%, è andata verso l’astensione ma il 32% è andato direttamente alla Appendino. Questo è il dato più clamoroso. Solo in parte compensato dal fatto che il 26% degli elettori del candidato del centrodestra nel 2011 hanno votato Fassino nel 2016. In sintesi Fassino ha “sfondato” al centro, ma ha perso di più verso il M5S. Cosa ci sia dietro questo fenomeno è cosa da approfondire.

    Intanto tra due settimane vedremo come si comporteranno al secondo turno gli elettori di sinistra e quelli del centro-destra. Sarà un test interessante. E altrettanto interessante sarà il voto degli elettori del M5S a Bologna dove al ballottaggio si sfidano il candidato del Pd e la candidata della Lega Nord. Per il Pd e il centro-sinistra in generale è presto per fare un bilancio. Bisogna vedere cosa succederà a Milano e soprattutto a Torino e Bologna. Le sconfitte a Roma e Napoli erano attese. Complessivamente i dati non sono del tutto negativi. Il centrosinistra ha già vinto in tre capoluoghi di provincia, tra cui Salerno dove il suo candidato ha ottenuto addirittura il 70% dei voti, e questo è un caso cui andrebbe dedicata maggiore attenzione. In 17 capoluoghi di provincia su 24 è andato oltre il 30%. Ha vinto in moltissimi comuni sotto i 15mila abitanti. Ha collezionato il maggiore numero di ballottaggi: 83 comuni sui 111 in cui ci sarà un secondo turno. Il Pd ha confermato di essere il primo partito nel paese. Quello con un radicamento territoriale più diffuso. Però dimostra anche una fragilità preoccupante in certe aree. Renzi non ama dedicarsi al partito. Preferisce il governo. Ma qualcosa dovrà fare. Da quanto tempo non si riunisce la segreteria? Ha senso che uno dei vice-segretari, per quanto brava, sia anche presidente di una giunta regionale?

    Anche per la valutazione dello stato di salute del centrodestra occorre aspettare i ballottaggi. Al momento il risultato non è esaltante, ma nemmeno disastroso. A Roma e Torino è andato male, ma nella capitale poteva andare meglio se fosse stato unito. Però anche dove era unito le percentuali di voto dei suoi candidati-sindaco sono andate raramente oltre il 30%. Nell’insieme dei 24 comuni capoluogo questo è successo 8 volte. Tuttavia ha vinto a Cosenza ed è andato bene a Milano, Trieste, Pordenone, Varese. Né si può sottovalutare il fatto che i suoi candidati andranno al ballottaggio in 54 comuni su 111. Dentro il centrodestra il vero problema è il declino di Forza Italia. Solo a Milano il partito di Berlusconi ha ottenuto un risultato discreto. In molti capoluoghi è ben sotto il 10%. Anche in questo caso però occorre cautela. La presenza di molte liste civiche rende problematica la lettura di questo dato. Ma la crisi di Forza Italia è evidente. Solo la vittoria di Parisi a Milano potrebbe attenuarne temporaneamente la portata. In ogni caso resterebbe aperto il problema della ricomposizione di questo schieramento. Tanto più che alle prossime politiche in competizione ci saranno le liste e non le coalizioni, se l’Italicum non cambierà.

    In sintesi, siamo di fronte ad un quadro molto frammentato, che presenta luci e ombre per ognuno dei maggiori schieramenti. Non si può dire che questa consultazione abbia un vincitore o riveli una tendenza definita. È una altra fotografia di un paese fluido.

  • L’Europa tra Brexit e Rexit

    L’Europa tra Brexit e Rexit

    di Roberto D’Alimonte

    Publicato sul Sole 24 Ore del 11 maggio 2016

    Il Brexit è un grosso rischio per l’Europa. Ma ce ne è un altro meno noto ma altrettanto pericoloso: il Rexit, cioè la sconfitta di Matteo Renzi al referendum sulla riforma costituzionale il prossimo Ottobre. Molti non credono che il premier si dimetterà veramente in caso di sconfitta. Ma sbagliano. Lo farà. La personalizzazione del referendum è un’altra delle sue scommesse. Si può discutere all’infinito se abbia fatto bene o no a trasformare questa consultazione in un plebiscito.  Ci sono buone ragioni a favore dell’una o dell’altra tesi. Da una parte è difficile negare che la riforma costituzionale sia l’atto più significativo del suo governo. Un suo fallimento si rifletterebbe molto negativamente sulla credibilità del premier sia in Italia che all’estero. Dall’altra parte è inevitabile che la personalizzazione del referendum mobiliterà contro di lui una quota- impossibile da quantificare- di elettori che sono indifferenti o addirittura moderatamente convinti dei meriti della riforma, ma a cui il premier non piace e che sfrutteranno l’occasione per metterlo in difficoltà. Ma la questione veramente rilevante non è questa. Renzi ha fatto la sua scelta. Questo è oggi un fatto. Adesso può vincere o perdere.  Cosa succederà se vince e cosa succederà se perde? Questo è quello che ci deve interessare.

              Nel primo caso il governo è salvo. Continuerà a navigare come ha fatto finora barcamenandosi senza troppi problemi tra Bersani e Verdini.  Qualche mese dopo il referendum ci sarà il congresso del Pd, come ha già annunciato Renzi nella ultima direzione del suo partito. E’ molto probabile che le elezioni si terranno alla scadenza naturale, nel 2018. Dopo la eventuale vittoria di Renzi al referendum questo sarà un parlamento ancora più governabile di prima. La stragrande maggioranza dei suoi membri non sarà ricandidata. Conservare il seggio per un altro anno fa comodo, anche per poter maturare il diritto al vitalizio. Uno strumento questo da non sottovalutare come meccanismo di stabilizzazione degli esecutivi. In questo scenario l’unica incertezza riguarda la partecipazione al voto. Posto che vincere è la questione essenziale. Con quanto Renzi potrebbe vincere farà una qualche differenza sulla sua capacità di leadership. Ma tutto qui.

              Il secondo caso è il Rexit. L’Italia non è un paese normale. In Europa non tutti si sono accorti che l’anno scorso è stata approvata una riforma elettorale maggioritaria valida solo per la Camera lasciando in piedi il sistema proporzionale del Senato. E’ stato fatto anticipando l’esito positivo della riforma costituzionale.  Una volta trasformato il Senato in una camera delle autonomie, che non dà la fiducia al governo, il problema della coesistenza di due sistemi elettorali così diversi sarebbe sparito. La fuga in avanti si spiega con la necessità di tranquillizzare deputati e senatori sulla durata della loro permanenza in parlamento. Mettendo nelle mani di Renzi una riforma elettorale inservibile si sono conquistati una assicurazione sul loro mandato. Così facendo però si è creato un grosso rischio.

              Infatti, se la riforma costituzionale non sarà approvata e il Senato conserverà i suoi attuali poteri, avremmo un sistema elettorale che darà un vincitore alla Camera, mentre al Senato non solo non ci sarebbe alcun vincitore ma ci sarebbero quattro partiti rappresentati – Pd, M5s, Fi e Ln- che non riuscirebbero a fare alcuna maggioranza. In più se si andasse a votare e nessuno arrivasse al 40% dei voti alla Camera, ci sarebbe un secondo turno che si terrebbe dopo che è noto il risultato definitivo- e inconclusivo – del Senato. Insomma, un brutto pasticcio che rende il ricorso alle urne improponibile. E allora dopo il Rexit cosa potrebbe succedere?  Un altro governo Monti?  E quale riforma elettorale si potrebbe fare per rendere congruenti i sistemi di voto di Camera e Senato?   E’ difficile immaginare che l’Italicum della Camera sia esportato al Senato. Molto più realistica è l’ipotesi che sia il sistema proporzionale del Senato ad essere esportato alla Camera. In fondo è quello che vogliono i sostenitori del No al referendum.

  • Nuovo Senato e Italicum, perchè ai grillini conviene il Sì al referendum

    Nuovo Senato e Italicum, perchè ai grillini conviene il Sì al referendum

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 8 maggio 2016

    Continuano a circolare sondaggi molto favorevoli al M5s. Il dato più interessante non è tanto la percentuale delle intenzioni di voto ma quello sull’esito di un eventuale ballottaggio fra Matteo Renzi e Luigi Di Maio. Come è noto, il ballottaggio è previsto dal nuovo sistema elettorale, l’Italicum, nel caso in cui al primo turno nessuna lista prenda il 40% dei voti. Già a Novembre su questo giornale avevamo pubblicato un sondaggio da cui risultava che Di Maio avrebbe potuto battere Renzi. Da allora altri sondaggi hanno indicato la stessa cosa. Sappiamo bene che sondaggi fatti ora a freddo sono poco attendibili, e sappiamo altrettanto bene che i quando i margini sono così risicati -del tipo 51 a 49- il risultato è poco significativo. Ciò premesso, non si può però sottovalutare che questi dati sono indicativi di un fenomeno: la competitività del M5S in uno scontro a due con il Pd. Questa è cosa nota ai leader e ai militanti del M5s. Da qui una conclusione logica: se il M5s intende veramente porsi l’obiettivo di governare questo paese, l’Italicum è lo strumento migliore per farlo. Senza ombra di dubbio è il sistema elettorale che gli dà la migliore possibilità di vincere facendo un governo senza alleanze scomode e improbabili.

    Per il Movimento però esiste un piccolo problema. È vero che l’Italicum è legge dello stato. Per essere precisi, non è ancora operativa perché entrerà in vigore il primo Luglio di quest’anno. Ma questo è un dettaglio. Il problema è che il nuovo sistema elettorale si applica alla Camera ma non al Senato. Anche dopo il primo Luglio il sistema elettorale del Senato sarà quello che ha fabbricato la Consulta con la sua famosa sentenza sul porcellum. Approvare l’Italicum solo per la Camera, lasciando in vigore la legge elettorale proporzionale per il Senato, è stato uno dei compromessi che il governo Renzi è stato obbligato ad accettare. Lo ha fatto assumendo che con a riforma costituzionale il Senato sia trasformato in una camera che non darà la fiducia al governo.

    Italicum e riforma costituzionale quindi sono strettamente associati.  Il prossimo Ottobre si voterà ufficialmente solo sulla riforma costituzionale ma in realtà si voterà anche sull’Italicum. Le due riforme vivranno o moriranno insieme. In altre parole, l’eventuale bocciatura della riforma costituzionale porterà con sé anche la cancellazione dell’Italicum. Ne siamo profondamente convinti. Infatti, se al referendum di Ottobre vincessero i NO, cioè i contrari alla riforma costituzionale, si creerebbe una situazione caotica. Infatti a quel punto avremmo un sistema maggioritario alla camera con un vincitore certo grazie all’Italicum e un sistema proporzionale al senato che non darebbe nessun vincitore. Bocciata la riforma costituzionale, il Senato manterrebbe i poteri attuali, compreso quello di dare e togliere la fiducia ai governi. Si potrebbe andare al voto in queste condizioni? Con quale speranza di fare un governo stabile dopo? E quale governo?

    In questo scenario caotico la cosa più probabile è che si provi a fare una nuova riforma elettorale. Ma quale?  Difficile fare previsioni. Ma ci azzardiamo a dire che qualunque fosse il nuovo sistema elettorale, ammesso che si riesca a farne uno, non sarebbe così favorevole al M5s come l’Italicum attuale. Ma anche nel caso in cui non si facesse una riforma elettorale il M5s si troverebbe in una situazione parlamentare difficile in cui le opzioni a sua disposizione sarebbero due: fare un governo con altri partiti o restare alla finestra. Esattamente come è successo dopo le elezioni politiche del 25 Febbraio 2013.

    Torniamo dunque alla questione essenziale: se il M5s vuole davvero provare a governare questo paese da solo non può rinunciare all’unico sistema elettorale che gli consentirebbe di farlo. Quindi dovrebbe schierarsi a favore della riforma costituzionale e non contro. Solo così salverebbe l’Italicum. Non è l’opinione di chi scrive. E’ la logica dei numeri.

    Per il momento la leadership del Movimento tace sulla questione del referendum sulla riforma costituzionale. Giustamente l’attenzione è tutta concentrata sulle elezioni amministrative. Di referendum si parlerà dopo. Ma saremmo molto sorpresi se la razionalità politica prevalesse sulla ideologia.  La riforma elettorale approvata on line dai pentastellati non è di tipo maggioritario. E’ un sistema proporzionale corretto. Il modello di democrazia del M5s non prevede l’elezione ‘diretta’ del presidente del consiglio. Prevede la centralità del parlamento. In più, il M5s si è opposto accanitamente alla riforma costituzionale. Inoltre il referendum rappresenta una buona occasione per mettere in difficoltà Renzi. Si può rinunciare a tutto ciò solo perché i sondaggi dicono che grazie all’Italicum Di Maio potrebbe battere Renzi?  Non è nelle corde del Movimento rispondere positivamente. Non è immaginabile oggi che il M5s sia capace di cambiare idea e accettare alla luce del sole il nuovo sistema di regole disegnato dalle due riforme, elettorale e costituzionale. Anche se ha solo da beneficiare dalla approvazione della riforma costituzionale voterà contro. Sarà quasi certamente così. Ma una cosa è dire di votare contro e fermarsi lì. Altro conto è annunciare un voto contrario e mobilitarsi attivamente sul campo. Vedremo cosa succederà. Una cosa però è certa: se la riforma non passerà gli sconfitti saranno due e non uno solo. Perderà Renzi e perderà il M5s. Perderà anche l’Italia che si ritroverà in una situazione assolutamente caotica. E nemmeno l’Unione Europea starà tanto bene.