Autore: Roberto D’Alimonte

  • Lombardia e Campania, duello per il Senato

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore l’ 8 gennaio 2013

    E’ al Senato che si giocherà la partita decisiva per il governo del paese.  Tanto più ora che si ha la certezza che Pdl e Lega  si presenteranno uniti nelle regioni del Nord. E’ quanto emerge chiaramente dai cinque sondaggi regionali fatti dalla Ipsos per questo giornale. Lo si sapeva, ma senza dati sulle intenzioni di voto nelle regioni chiave era  solo una ipotesi di lavoro che faceva parte di uno schema  per la analisi delle prossime elezioni: vittoria del centrosinistra alla Camera , incertezza al Senato.

                 In Lombardia, Campania e Sicilia l’esito del voto è assolutamente imprevedibile con una sostanziale parità tra la coalizione Pd-Sel e quella guidata da Berlusconi. In Piemonte e Lazio invece il vantaggio dello schieramento di centrosinistra è netto. Manca in questa analisi il  Veneto. Tuttavia, visto il risultato della Lombardia e l’accordo Pdl-Lega, anche questa regione può essere aggiunta alla categoria di quelle contendibili.  Con tutte queste regioni in bilico l’esito della competizione al Senato è del tutto incerto. Il centrosinistra avrà la maggioranza relativa dei seggi ma il raggiungimento della maggioranza assoluta non è affatto scontato. Basterebbe la perdita del premio in Lombardia e in Veneto per mancare l’obiettivo anche vincendo in tutte le altre regioni. compresa la Campania. Lo stesso accadrebbe sia nel caso in cui il centrodestra vincesse in Campania e in Lombardia sia nel caso in cui vincesse in Lombardia e Sicilia. A maggior ragione se a queste regioni si aggiungesse anche il  Veneto. In tutti questi casi si creerebbe di nuovo una situazione simile a quella del 2006  quando l’Unione di Prodi ottenne al Senato solo un seggio in più della Casa delle libertà di Berlusconi. Anzi peggio, perché il vincente della Camera potrebbe non avere neppure una maggioranza risicata al Senato.

                La Campania è la vera sorpresa di questo sondaggio. Di Lombardia e Sicilia  si sapeva. Ma la Campania sembrava una regione sicura per il centrosinistra. Poi però è arrivata sulla scena la formazione arancione sponsorizzata dal sindaco di Napoli De Magistris e guidata da Ingroia e le cose sembrano cambiate.  La stima Ipsos delle intenzioni di voto per gli ‘arancioni’ è al  11,2  %.  Un ottimo risultato che consentirebbe di ottenere seggi anche al Senato, visto che in questa arena la soglia è dell’   8 %.  Si deve alla forza di questa lista la debolezza relativa della coalizione di Bersani.  Il suo  30,5 % non la mette al riparo dalla concorrenza del centrodestra che qui, a differenza per esempio del Lazio, dimostra di raccogliere una quota significativa di consensi, pari al 28,5 %.  Nella lotteria del Senato la Campania pesa molto. Dopo la Lombardia è quella che pesa di più con 29 seggi totali di cui 16 vanno al vincente e 13 ai perdenti che qui saranno relativamente tanti visto il numero di liste in grado di superare la soglia di sbarramento. Così la sinistra massimalista potrebbe  favorire a Napoli la vittoria di Berlusconi e impedire al centrosinistra di governare da solo a Roma.  Anche nel 2006 si andò vicino ad un esito simile in Campania. Il partito marxista-leninista si presentò contro l’Unione.  Prodi vinse, ma per soli 25.000 voti. Chissà se  nel 2013 il voto utile darà una mano a Bersani ?

                A beneficiare della incertezza che regna nelle regioni-chiave potrebbe essere proprio Monti. Da quello che emerge da questi dati l’attuale premier non ha né la possibilità di vincere alla Camera né quella di vincere in alcuna regione al Senato, In queste condizioni, per  poter pesare nella formazione del prossimo governo deve sperare che Berlusconi vinca in alcune delle regioni in bilico. Se questo accadesse i seggi del ‘partito di Monti’  diventerebbero decisivi al Senato  per fare il governo sulla base di una alleanza con la coalizione di centrosinistra. In altre parole Monti deve ‘tifare’ Berlusconi. E’ uno dei paradossi della politica italiana di oggi. Sarà Berlusconi a spianare la strada del governo al professore ?  I dati di questo sondaggio dicono che la cosa è possibile.  Dipende da quello che succederà in Lombardia, Veneto, Campania e Sicilia.

                Quello che invece è impossibile è che Berlusconi possa diventare determinante al Senato . Può solo impedire a Bersani e Vendola di governare da soli.  In questo contesto la sua funzione preterintenzionale è quella di favorire la formazione di un governo sinistra-centro. Solo se la coalizione-lista di Monti al Senato scendesse  dovunque sotto l’ 8 % dei voti  lo scenario cambierebbe. E questo il Cavaliere lo sa. Ed è perciò che considera Monti e il terzopolismo come i suoi avversari più insidiosi. La polemica sui ‘centrino’ e sui ‘leaderini’, nonché la sua riscoperta  dei vantaggi del bipolarismo, sono funzionali al suo tentativo di  ridimensionare la sfida del premier in modo da prenderne il posto come attore determinante al Senato. Da questi dati sembra una sfida impossibile. Monti non ‘sfonda’ ma la sua percentuale di consensi  supera dovunque l’ 8 %. Le intenzioni  di voto alla sua lista  vanno dal  14,2 % della Campania al 16,8 % del Piemonte. Ma il suo bacino elettorale è anche più ampio e si aggira intorno al 25 % dei voti. Tutto è ancora molto fluido ma è difficile immaginare che questo consenso possa evaporare nel corso della campagna elettorale.  Monti potrà non diventare il secondo polo del sistema politico, ma anche come terzo polo potrebbe giocare un ruolo molto rilevante in queste elezioni e dopo.

  • Duello nelle regioni chiave, tutti gli scenari al Senato

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 9 gennaio 2013

    I dati dei sondaggi regionali pubblicati ieri su questo giornale consentono di fare delle stime più accurate sui possibili esiti delle elezioni al Senato. Come è noto, in questo ramo del Parlamento il premio di maggioranza si assegna regione per regione.  Sono 17 le regioni a premio.  Nella tabella in pagina abbiamo ipotizzato sulla base delle attuali intenzioni di voto ( e con una metodologia spiegata nella nota in tabella) che in 13 regioni il risultato sia favorevole alla coalizione di  Bersani che quindi parte con una dotazione di         seggi, corrispondenti ai 13 premi. Inoltre abbiamo stimato che la stessa coalizione ottenga 4 seggi in Trentino Alto Adige (di cui 2 dell’alleata SVP) , 3 nella circoscrizione estero e uno in Molise. In tutto fanno 108 seggi.  Poi ci sono le regioni in bilico.  Sono quattro al momento. Nella tabella in pagina abbiamo fatto diverse simulazioni a seconda dell’esito in ciascuna delle quattro regioni. Con questo tipo di analisi vogliamo rispondere a due domande. A quali condizioni Pd e Sel  potrebbero non raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi al Senato (158) ?   In quali circostanze la lista Monti potrebbe fare maggioranza con il Pd senza Sel ?

    Cominciamo da una ipotesi estrema. Se la coalizione di Bersani vincesse il premio in tutte e quattro le regioni in bilico avrebbe una maggioranza di 179 seggi. Prodi nel 2006 ne ottenne 158 . Berlusconi nel  2008 ne prese 174.  In questi calcoli la Lombardia ha un peso molto rilevante, come abbiamo fatto notare in altre occasioni,  ma potrebbe anche non essere decisiva. .Dopo l’accordo tra Pdl e Lega  questa regione va certamente annoverata tra quelle contendibili. Però  la perdita della sola Lombardia (simulazione B) darebbe comunque a Bersani una maggioranza di 164 seggi.  Ma la perdita della Lombardia insieme a quella di una qualunque altra delle regioni critiche priverebbe la coalizione di centrosinistra della maggioranza assoluta in Senato. Per esempio, senza il premio in Lombardia e Veneto  i seggi sarebbero 155.  Perdendo in tutte e quattro le regioni  sarebbero 135. Eppure nemmeno in questo caso la coalizione di Berlusconi avrebbe la maggioranza relativa dei seggi. Si fermerebbe a 102 contro i 135 di Bersani. E Monti sarebbe comunque  l’attore decisivo, Quindi anche se il centrosinistra perdesse in tutte queste quattro regioni potrebbe comunque contare sulla maggioranza assoluta insieme alla lista Monti.

    E’ possibile che Berlusconi possa diventare l’attore decisivo al Senato ?  In altre parole è possibile che  la sinistra di Bersani e il centro di Monti non riescano a fare maggioranza ?  Questa è la simulazione L.  Se Berlusconi vincesse nelle quattro regioni in bilico e anche in Piemonte, Friuli, Puglia e Calabria il centrosinistra avrebbe 112 seggi, Monti 40 e Berlusconi 126.  Insieme sinistra e centro arriverebbero a 152, sei meno della maggioranza. Né basterebbero gli arancioni di Ingroia.  Ma il punto è un altro. Non è credibile che Berlusconi possa vincere in tutte le regioni della simulazione L.  E questo vuol dire che non è credibile che Berlusconi possa giocare un ruolo decisivo al Senato. Sarà Monti a poter occupare eventualmente questa posizione. A meno che il suo consenso, che è oggi intorno al 15 %,  non scenda sotto la soglia fatale dell’ 8 %. Se questo accadesse i nostri calcoli andrebbero rivisti completamente . Ma per completare il quadro occorre aggiungere che non è affatto escluso che la coalizione Pd-Sel possa vincere in tutte le 17 regioni rendendo così non strettamente indispensabile il sostegno della lista Monti. La Sicilia è forse la più incerta ma anche senza il premio siciliano  Bersani potrebbe governare, sul piano numerico, senza allargare  la sua maggioranza. E lo stesso vale, come già detto, se al posto della Sicilia ci fosse la Lombardia.

    Resta la questione della possibilità di un governo Pd-Monti al posto di un governo Pd-Sel , nel caso in cui un governo Sel-Pd-Monti non riuscisse a funzionare.  Lasciamo da parte le valutazioni politiche su una soluzione del genere e guardiamo solo alla sua praticabilità numerica.  Sulla base delle nostre stime Sel dovrebbe contare su una ventina di senatori.  Monti, se il suo consenso resta a questi livelli, ne avrebbe circa 41.  Come si vede nella tabella sono numerosi i casi in cui togliendo alla coalizione di centrosinistra i 20 seggi di Sel e aggiungendo i 41 di Monti il risultato finale sarebbe comunque superiore a 158.  Solo nel caso in cui la coalizione Pd-Sel perdesse in tutte e quattro le regioni in bilico i seggi della lista Monti non basterebbero a compensare quelli di Sel.   E tutti tre – Pd, Sel e Monti- dovrebbero stare necessariamente insieme.  Ma è una ipotesi remota.

  • I risultati elettorali: bipolarismo addio?

    D’Alimonte, R., Di Virgilio, A., & Maggini, N. (2013). I risultati elettorali: bipolarismo addio? In ITANES (Ed.), Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013 (pp. 17–32). Bologna: Il Mulino.

    Le elezioni che hanno visto il numero più elevato di elettori nella storia repubblicana cambiare voto

    Dovevano finalmente chiudere un ciclo vizioso e segnare un radicale rinnovamento. Non è stato così e le elezioni del febbraio 2013 hanno lasciato tutti con l’amaro in bocca: certamente il Pd, vincitore designato e mancato, ma anche il Pdl, orfano di metà del proprio elettorato 2008. Certamente il nuovo centro montiano, rimasto ben al di sotto delle aspettative, ma anche Rivoluzione civile di Ingroia, rimasta addirittura fuori dal Parlamento. Certamente Lega e Sel, ridotte al ruolo di gregari nelle rispettive coalizioni, ma perfino l’M5S, protagonista di un successo tanto ampio da minacciarne paradossalmente la coesione. Soprattutto, l’ennesimo boccone amaro è stato ingoiato dal paese. Siamo così riusciti nel capolavoro di inventare un gioco in cui tutti perdono? Risponde Itanes, alla luce di quanto è successo qualche mese fa e potrebbe succedere tra qualche mese.

  • I risultati elettorali: bipolarismo addio ?

    D’ALIMONTE, R. D. R. (2013). I risultati elettorali: bipolarismo addio ? In ITANES (Ed.), Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013 (pp. 17–32). Bologna: Il  Mulino.

    Le elezioni che hanno visto il numero più elevato di elettori nella storia repubblicana cambiare voto

    Dovevano finalmente chiudere un ciclo vizioso e segnare un radicale rinnovamento. Non è stato così e le elezioni del febbraio 2013 hanno lasciato tutti con l’amaro in bocca: certamente il Pd, vincitore designato e mancato, ma anche il Pdl, orfano di metà del proprio elettorato 2008. Certamente il nuovo centro montiano, rimasto ben al di sotto delle aspettative, ma anche Rivoluzione civile di Ingroia, rimasta addirittura fuori dal Parlamento. Certamente Lega e Sel, ridotte al ruolo di gregari nelle rispettive coalizioni, ma perfino l’M5S, protagonista di un successo tanto ampio da minacciarne paradossalmente la coesione. Soprattutto, l’ennesimo boccone amaro è stato ingoiato dal paese. Siamo così riusciti nel capolavoro di inventare un gioco in cui tutti perdono? Risponde Itanes, alla luce di quanto è successo qualche mese fa e potrebbe succedere tra qualche mese.

  • The Italian Elections of February 2013: the End of the Second Republic ?

    D’ALIMONTE, R. D. R. (2013). The Italian Elections of February 2013: the End of the Second Republic ? CONTEMPORARY ITALIAN POLITICS, 5, 113–129.

    The recent Italian elections ended in gridlock, contrary to what most observers expected. The left won in the Chamber but not in the Senate. To make things worse, the result in the Senate made it impossible to form a majority coalition between Bersani’s left and Monti’s centre, which many considered the most likely outcome of these elections. This left the Democratic Party, the winner in the Chamber, with the unpalatable option of having to form a cabinet seeking the support of either the Fivestar Movement or Berlusconi. Eventually the latter option prevailed with the formation of the Letta cabinet. There are a number of factors behind this unexpected result. The success of the Five-star Movement is one. Surprisingly it has become the largest party in the country, attracting votes from across the political spectrum and from all sectors of society. The weakness of the Democratic Party coalition is another. It missed the goal of extending its electoral base at a time when the right lost almost eight million votes. Actually, it also lost 3.5 million. Another factor yet is the poor performance of the Monti coalition, which failed to become a competitive actor in spite of the popularity the outgoing prime minister enjoyed until he decided to step into the political arena. Last but not least, a key role has been played by the weird electoral system used for the Senate.

  • Bersani al 36%, Monti è secondo polo

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 30 dicembre 2012

    La coalizione di Monti è la nuova realtà della politica italiana. E’ nata ufficialmente ieri nel convento delle suore di Sion sul Gianicolo, ma tra gli elettori esisteva già come rivelano i dati del sondaggio Sole-Cise di fine anno.  Il 23,3 %  degli intervistati intenzionati a votare dichiara di preferirla rispetto alle altre due coalizioni in lizza, quella guidata da Bersani e formata da Pd e Sel  e quella guidata da Berlusconi e formata da Pdl e Lega Nord. La coalizione di sinistra è sempre prima con il  36,2 % delle intenzioni di voto mentre quella del cavaliere arriva addirittura terza con appena il 21,8 %, superata dalla coalizione di Monti. Il Movimento 5 Stelle è quarto con il 13,8 %.  A questa domanda sul voto alle coalizioni ha risposto il 66, 8% degli intervistati. Una percentuale più alta di quella della domanda sul voto ai partiti che è il 57,1 %. E anche questo è un dato significativo.

                I sondaggi sono strumenti imperfetti e quelli fatti a ridosso delle feste lo sono ancora di più. Inoltre questo sondaggio è stato fatto in parte prima e in parte dopo la conferenza stampa del presidente del consiglio del 23 dicembre in cui ha annunciato la sua disponibilità a entrare in campo come leader di un progetto centrista. Alla fine la curiosità di indagare il potenziale elettorale di una coalizione guidata da Monti ha prevalso sulla prudenza.  Per questo i dati raccolti possono essere presi solo come timidi segnali di una tendenza che solo il tempo, e altri dati,  potranno dire quanto solida sia.  Per ora si può dire che il polo di centro attira una quota significativa dell’elettorato italiano. E’ una grossa novità in tempi di bipolarismo. Durante la Seconda Repubblica nessun terzo polo è mai arrivato a percentuali di voto così elevate. Ma qui si tratta ancora solo di intenzioni.

                La coalizione di Berlusconi testata in questo sondaggio in realtà non esiste ancora. Le trattative con la Lega Nord sono in corso e non si sa come andranno a finire. Ma i nostri dati dicono che nel caso in cui vedesse la luce potrebbe non essere più né il primo e nemmeno il secondo polo della politica italiana. Se questa tendenza si consolidasse nel corso dei prossimi due mesi il terzo polo centrista potrebbe veramente diventare il secondo polo della competizione. E  questo attiverebbe una dinamica totalmente nuova all’interno del centrodestra. La scelta dei moderati non sarebbe più tra Bersani e Berlusconi ma tra Bersani e Monti.

                Questo scenario però precorre i tempi. Ci sono due mesi di campagna elettorale prima del voto e molto può ancora succedere.  Alcune tendenze però sembrano ormai  consolidate.  Il Pd resta saldamente in testa come primo partito del Paese e insieme a Sel  ha la maggioranza relativa dei consensi. Questo lo mette in condizione di ottenere alla Camera la maggioranza assoluta dei seggi.  Semmai sorprende in questo sondaggio vedere che la somma delle intenzioni di voto alle liste di Pd e di Sel è superiore alla percentuale di voti alla coalizione che li vede insieme. Questo è il risultato di due fattori. Ci sono elettori che dichiarano di votare la lista del Pd ma che allo stesso tempo preferiscono la coalizione guidata da Monti. E ci sono elettori che non dichiarano una preferenza per alcun partito ma che sono disponibili a votare per una coalizione. Tra questi sono in maggior numero quelli che scelgono la coalizione di Monti rispetto a quella di Bersani. La stessa cosa avviene a destra anche se in misura minore. A beneficiare di questi flussi è il polo di centro. Prese separatamente le liste centriste valgono relativamente poco, ma messe insieme nel nome di Monti diventano improvvisamente il secondo polo della politica italiana. Ma sarà così anche dopo il ‘patto di Sion’ ?

                L’altro ieri le formazioni di centro che hanno deciso di affidarsi a Monti hanno preso delle decisioni importanti. Hanno scelto di presentarsi come una lista unitaria al Senato, ma come una coalizione di liste apparentate alla Camera.  In realtà al Senato non è stata una scelta ma una necessità imposta dalla legge elettorale. La vera scelta è stata alla Camera. E non è detto che sia una scelta vincente. Perché Monti abbia accettato questa doppia soluzione è un mistero. Perché- come sembra- Italia Futura si sia schierata con Casini a favore della coalizione e contro la lista unitaria è un altro mistero. In questo caso forse la cosa è un po’ meno misteriosa ma comunque difficile da spiegare a chi crede che il ‘progetto Monti’ debba segnare una svolta nella politica italiana.  Infatti presentarsi con la stessa offerta in entrambe le arene della competizione  avrebbe dato un segnale chiaro che la ‘lista Monti’ voleva essere veramente una cosa nuova. Adesso si è introdotto un elemento di forte ambiguità che può costare caro in termini di credibilità.

                Su questo il nostro sondaggio non dice nulla. Qualcosa invece dice la storia elettorale della Seconda Repubblica. Nel 2006 Ds e Margherita fecero una scelta simile a quella fatta da Monti. Ma in questo caso contro il volere di Prodi. Si presentarono insieme come ‘Lista uniti nell’Ulivo’ alla Camera e come liste separate al Senato. Finì che ottennero una percentuale di voti più alta alla Camera che al Senato. Ma soprattutto al Senato persero il premio di maggioranza in Piemonte e con ciò Prodi perse la possibilità di governare con una maggioranza meno risicata. Si sa come è andata a finire. Nelle prossime settimane si vedrà come andrà a finire questa volta.


  • Il compromesso per la governabilità

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 9 novembre 2012

    Prima delle elezioni siciliane il progetto di riforma elettorale su cui i partiti stavano lavorando si basava sulla sostituzione dell’attuale premio di maggioranza con un premio di governabilità in cifra fissa. Dopo mesi di trattative l’accordo era stato raggiunto su un premio del 12,5%. Al partito o alla coalizione con un voto più degli altri veniva dato alla Camera un bonus di 62 seggi. Questo era lo schema. Poi si è bloccato tutto per l’ennesima volta. La proposta di riforma presentata sulle pagine di questo giornale (si veda Il Sole 24 Ore di domenica) tende a superare l’impasse. L’idea di fondo è quella di modificare l’attuale sistema di voto lasciando in piedi un premio tale da garantire la maggioranza assoluta dei seggi al partito o alla coalizione con più voti ma alla condizione che ottengano almeno il 40% dei consensi. In questo caso gli verrebbe assegnato un premio tale da garantire il 54% dei seggi.

     Martedì scorso in Senato questo meccanismo è stato approvato anche se la soglia è stata fissata al 42,5% con il voto contrario di Pd e Idv. È un fatto positivo: rispetto allo schema pre-Sicilia questa soluzione offre ai partiti un’opportunità in più. Oggi è difficile immaginare che ci sia una coalizione in grado di arrivare a “quota 40”, ma quello che vale oggi potrebbe non valere domani. (crossover99.com) In fondo un premio che assicura la maggioranza assoluta dei seggi può spingere partiti affini a coalizzarsi prima del voto. Questo non è un fatto negativo. È invece un elemento di maggiore responsabilizzazione della classe politica. Perché le coalizioni che si fanno dopo il voto dovrebbero essere “migliori” di quelle che si fanno prima? Però affinché questo incentivo funzioni occorre che la soglia non sia troppo alta. Se lo fosse i partiti non sarebbero indotti ad aggregarsi. Anzi. Una soglia alta incoraggerebbe i partiti minori, soprattutto quelli più centrali, a stare fuori da ogni coalizione per giocare dopo il voto un ruolo pivotale contando sul fatto che il premio non venga assegnato.

    Ma la soglia non esaurisce il problema della riforma. Visto che oggi è difficile che questa soglia venga raggiunta è cruciale che sotto la soglia ci sia un meccanismo che comunque garantisca un minimo di governabilità proprio nel caso in cui il premio di maggioranza non venga assegnato. Nella proposta citata questo meccanismo è un premio del 10% da dare al partito che ottiene più voti. Questo elemento non è stato recepito nel testo approvato in commissione al Senato. E molto probabilmente questo è il vero motivo della opposizione del Pd. In breve, nello schema approvato se nessuno raggiungesse la soglia tutti i seggi verrebbero assegnati con una formula proporzionale, quindi senza nessun correttivo. In pratica questo significa il ritorno ad un sistema proporzionale puro.

    Se fosse confermata sarebbe una decisione grave. In questo quadro politico frammentato e volatile l’esito certo sarebbe l’ingovernabilità. Ci auguriamo quindi che il voto dell’altro giorno sia solo un episodio contingente legato a una trattativa complessa. Ci sono partiti che vogliono una soglia più alta e un premio di governabilità più basso. Ma se prevarrà la ragionevolezza un compromesso è possibile. In fondo il Pd, che è il partito che ha più da perdere dalla riforma elettorale, ha fatto un primo passo. Nello schema pre-Sicilia aveva accettato un premio del 12,5%, mentre oggi sarebbe disposto – pare – ad accettare un premio del 10%. Pone però una condizione: che questo premio più basso sia accompagnato dalla possibilità di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi nel caso in cui riuscisse a mettere insieme una coalizione che arrivi a “quota 40”. È una disponibilità da non sottovalutare. La prossima settimana vedremo se gli altri protagonisti della trattativa dimostreranno la stessa volontà di compromesso.

  • L’ombra dell’ingovernabilità

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 30 ottobre 2012

    Non è mai successo nel nostro Paese che in una elezione regionale la partecipazione elettorale sia scesa sotto il 50%. In Sicilia ha votato il 47,4%. Per trovare un valore inferiore dobbiamo far riferimento alle europee in Sardegna nel 2009 quando solo il 40,9% degli elettori è andato alle urne.

    Questo dato rappresenta il record negativo per qualunque regione in qualunque tipo di consultazione. In Sicilia ci si è andati molto vicino. Nelle regionali del 2008 aveva votato il 66,7% ma allora si votava anche per le politiche e le urne erano aperte anche il lunedì. Il confronto più attendibile è quello con le regionali del 2006 quando la partecipazione è stata il 59,2%. Il calo quindi è stato di quasi 12 punti percentuali. In valori assoluti vuol dire una differenza di mezzo milione di elettori.
    Non è mai nemmeno successo che in una elezione regionale il primo partito abbia ottenuto meno del 15% dei voti. Questa è più o meno la percentuale del movimento di Grillo. È una cifra che per il Movimento 5 Stelle rappresenta un notevole successo, ma che da un punto di vista sistemico desta gravi preoccupazioni. Dopo il M5S troviamo un Pd al 13,5% e un Pdl addirittura al 12,9%. Certo, si tratta della Sicilia e di una elezione regionale con liste civiche legate ai candidati. Ma anche tenuto conto di queste attenuanti resta la netta impressione che si sia davanti alla ulteriore frantumazione del sistema dei partiti. E come si governano una regione e un paese in queste condizioni?

     È in questo contesto di accentuata disaffezione dell’elettorato e di crescente frammentazione della rappresentanza che va inquadrato il risultato di queste elezioni. Ha vinto Crocetta. Non era un esito scontato. Gli ultimi sondaggi disponibili davano Musumeci in vantaggio o quanto meno lasciavano presagire una competizione molto più serrata tra i due principali sfidanti. E invece non è stato così. La vittoria di Crocetta è stata netta e rappresenta un successo storico per il centrosinistra. Da quando è stata introdotta l’elezione diretta del presidente non era mai successo che vincesse un candidato di sinistra. Né che il centrodestra non avesse la maggioranza assoluta dei seggi. In Sicilia nessuno oggi ha la maggioranza. Né la destra né la sinistra. È l’effetto del successo di Grillo. La destra l’ha persa per la prima volta dal 1948, ma la sinistra non l’ha conquistata. Né in termini di voti né in termini di seggi. Il premio previsto dal sistema elettorale non è bastato a convertire una minoranza in maggioranza come invece avviene nelle altre regioni italiane. Da domani vedremo come Crocetta riuscirà a governare.

    Il centrosinistra ha vinto con poco più del 30% dei consensi in una regione che è ancora, nonostante Grillo, prevalentemente orientata a destra. Il risultato del Pd non è soddisfacente. Non cresce in una situazione in cui il mercato elettorale diventa più fluido. Lo stesso si può dire della sinistra radicale e dell’Idv. Entrambi non riescono ad arrivare al 5% e quindi restano fuori dalla assemblea regionale. Complessivamente il bacino elettorale della sinistra non si è allargato. Ha funzionato però l’alleanza tra Pd e Udc. E questa è una nota positiva.
    La destra siciliana esce male da queste elezioni. Nella sua sconfitta c’è di tutto. C’è il voto di protesta che si è rivolto sia verso Grillo che verso l’astensionismo. C’è la voglia di cambiamento. C’è forse una minore presa del voto clientelare. Ma ci sono anche le divisioni profonde che separano le sue varie componenti. E questo spiega non solo la vittoria di Crocetta ma anche il pessimo risultato del Pdl. Alle politiche del 2008 il partito di Berlusconi aveva ottenuto addirittura il 46,6% dei voti. Nelle regionali del 2006 aveva il 33,4%. Il 12,9% di oggi è una débâcle, anche se si deve tener conto della scissione di Fini e di quella di Miccichè che si sono presentati con liste diverse. Nel suo complesso però la destra non è sparita. Resta lì, con i suoi Musumeci, Lombardo, Miccichè, Romano ecc. Aspetta un nuovo federatore.

    E cosa dire infine di Grillo e del suo movimento? Il 18% del suo candidato fa impressione. Fino ad oggi a livello regionale aveva ottenuto il suo maggiore successo in Emilia Romagna nel 2010 arrivando al 6% come lista e al 7% come voto al candidato-presidente. Il risultato di Parma per quanto importante era pur sempre un successo cittadino. In Sicilia alle amministrative della scorsa primavera si era presentato in soli tre comuni superiori ai 15mila abitanti ottenendo il 4,2%. Si parla di pochi mesi fa. Oggi è il primo partito nell’isola. Il Sud non è più il buco nero del M5S. È così che si spiegano le stime che lo danno oltre il 15% a livello nazionale. Fino ad oggi erano dati di sondaggio, oggi sono un dato reale.

  • Regole e identità

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 6 ottobre 2012

    Un accordo tra Bersani e Renzi sulle regole delle primarie non c’è ancora. Ma nelle ultime ore si sono fatti progressi. Restano due questioni irrisolte. Il voto al secondo turno e la registrazione. In realtà sono una questione sola. Il nodo vero è la registrazione. Su questo punto c’è confusione. Va da sé che chi vuole votare nelle primarie di un partito debba registrarsi.

    L’anonimato non è ammissibile. Il problema vero sono i tempi e il luogo della registrazione. Se si chiede a un potenziale elettore delle primarie di registrarsi prima del voto, la partecipazione elettorale si abbassa perché il costo dell’andare a votare aumenta. Ma pare che la pre-registrazione non sia una condizione necessaria. Infatti, la proposta di cui si parla in queste ore prevede che ci si possa registrare anche lo stesso giorno del voto. Ma – e qui sta il problema – in un luogo diverso da quello in cui si vota. Anche questa regola aumenta i costo del voto e quindi tende a diminuire la partecipazione. Perché quindi introdurla? A che serve una regola che invece di favorire la mobilitazione dei cittadini tende a scoraggiarla? La risposta dei suoi sostenitori è che essa rappresenta un filtro rispetto alla manipolazione del voto da parte di elettori “indesiderati”.

    Questo argomento si presta a diverse obiezioni. E’ vero che le primarie aperte comportano il rischio di “incursioni “da parte di elettori di altri partiti. Anche negli Usa, che sono la patria delle primarie, il problema esiste da sempre. Ma non si vede perché questo rischio dovrebbe essere minore se la registrazione avviene in un luogo diverso da quello in cui si vota. Gli incursori veri sono gente organizzata che non si ferma davanti a un requisito del genere. Sono gli elettori disorganizzati che si scoraggiano di fronte al fastidio di dover recarsi in due luoghi diversi per poter votare. Per fermare gli incursori – a condizione che possano essere identificati come tali – basterebbero i controlli effettuati al momento del voto. E qui sorge spontanea una domanda: su che base si possono escludere dal voto cittadini che si presentano ai seggi? Chi decide? Con quali criteri? Non sono luoghi diversi di registrazione che possono risolvere il problema. Se si vogliono fare primarie aperte bisogna correre dei rischi. L’importante è che i benefici siano superiori ai rischi.

    In realtà la polemica sui tempi e i luoghi della registrazione nasconde un problema di fondo che il Pd si porta dietro fin dalla sua nascita e che può essere riassunto in una semplicissima domanda: chi ha diritto di votare alle primarie? Coloro che vogliono regole restrittive pensano che questo diritto spetti, se non proprio solo agli iscritti, almeno a chi è “di sinistra”. Coloro che vogliono regole più inclusive pensano invece che spetti a tutti quelli che sono attratti da uno dei candidati del partito indipendentemente dalla propria connotazione ideologica.

    Questa è la differenza tra Bersani e Renzi. Il segretario è il candidato che si identifica con i valori e gli interessi tradizionali del partito mentre il sindaco di Firenze vuole cambiare il suo profilo identitario. Il primo fa appello ai militanti e agli elettori di sinistra per difendere il Pd così com’ è. Il secondo vuole cambiare il Pd facendo appello anche a elettori che sono più di centro che di sinistra. Questi elettori sono più tiepidi, più incerti e meno motivati rispetto a quelli su cui può fare affidamento Bersani. Ma sono anche elettori che possono allargare la base elettorale di un moderno partito riformista. E sono tanti in questo momento storico della vita del nostro Paese. Rendergli più faticoso l’atto di votare può tenerli lontani dalle urne. E’ per questo che regole più o meno restrittive possono fare la differenza. Ma il problema non sono le regole. Dietro la polemica sulle regole si staglia la vera questione irrisolta del Pd, quella della sua identità. Se le primarie serviranno a risolverla saranno utili al Pd e al Paese.

  • Le primarie e i rischi di rottura dei democratici

    di Roberto D’Alimonte

    Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 3 Ottobre 2012

    E se Renzi vincesse le primarie del Pd? Fino a ieri poteva sembrare una domanda retorica. Oggi non più. Anche la candidatura di Vendola potrebbe dargli una mano. Non si può dire con certezza non conoscendo le regole della competizione, ma la presenza del leader di Sel rischia di portar via voti a Bersani e non a Renzi rendendo l’esito del voto ancora più incerto.
    A questo punto non possono esserci dubbi: il sindaco di Firenze è un candidato competitivo e non un semplice outsider. Certo, all’interno del gruppo dirigente del suo partito resta sostanzialmente isolato (a parte qualche timido endorsement), ma non tra i suoi elettori. Il suo messaggio di rinnovamento sta facendo breccia anche lì. I sondaggi lo danno ancora dietro Bersani ma in questa fase non c’è da fidarsi di questi dati. Per quanto metodologicamente raffinati è difficile che i sondaggi riescano a cogliere gli umori del “popolo delle primarie”. In primo luogo perché questo popolo non ha contorni ben definiti. In secondo luogo perché i suoi umori sono anche essi indefiniti, volatili. In realtà si deciderà tutto negli ultimi giorni della campagna elettorale sempreché siano primarie veramente aperte. Perché il vero bacino di Renzi è tra gli elettori “indipendenti” e non solo tra quelli che hanno un legame di appartenenza al Pd.
    Renzi può vincere. Quindi è cosa giusta e saggia chiedersi cosa potrà succedere dopo. Bersani e Bindi – i due massimi dirigenti del partito – hanno già espresso la loro opinione pubblicamente. Renzi sarà il candidato premier del Pd e loro resteranno ai loro posti. Formalmente è una precisazione ineccepibile. Queste primarie non si fanno per rinnovare gli organi del partito. Quelle si faranno il prossimo anno. La conseguenza implicita di tutto ciò è che da una parte ci sarà Renzi e dall’altra il partito, all’interno del quale Renzi conta molto poco. Quindi, se vincesse sarebbe un leader dimezzato. Chi deciderebbe il programma e le alleanze? Per non parlare delle candidature. Formalmente Renzi non avrebbe la possibilità di attuare nemmeno quello che è il suo messaggio più forte e cioè l’esclusione dalle liste di tutti coloro che sono in parlamento da troppo tempo, i D’Alema, Veltroni ecc. Non toccherebbe a lui decidere.
    Questo è vero sulla carta. Ma una cosa sono le regole e una altra cosa è la realtà politica. La verità è che una eventuale vittoria di Renzi avrebbe una portata “rivoluzionaria”. Il suo impatto non potrà essere contenuto dentro uno statuto di partito. Ed è proprio a questo che si riferisce D’Alema quando dice che la vittoria del sindaco di Firenze segnerebbe la fine del centrosinistra. Si badi bene: il riferimento è addirittura al centrosinistra e non solo al Pd. Ma se anche la profezia catastrofica di D’Alema fosse limitata alla fine del solo Pd sarebbe comunque molto preoccupante. Coloro cui sta veramente a cuore il futuro di questo paese non possono restare indifferenti davanti alla prospettiva della dissoluzione del maggiore partito della sinistra italiana.
    Eppure nei corridoi della politica si parla apertamente di una scissione a sinistra del Pd nel caso in cui Renzi vincesse. A quel punto cosa farebbe il sindaco di Firenze? Metterebbe insieme un suo partito? E come si presenterebbe alle elezioni? Con quali alleanze per vincere il premio? Dopo una scissione lacerante sarebbe ancora possibile mettere insieme i cocci a sinistra per impedire alla destra di tornare a vincere? Oppure il “partito di Renzi” correrebbe da solo contro tutti sull’onda del messaggio di un rinnovamento radicale della politica? Bastano queste domande per comprendere che la dissoluzione del Pd aprirebbe scenari completamente nuovi e inesplorati.
    È questo che vuole l’attuale gruppo dirigente del Pd? È questo che vuole Renzi? Se così non è, le due parti devono trovare un accordo. Prima di tutto sulle regole delle primarie. Poi sulla conduzione della campagna. E infine sulla gestione del dopo. In questa ottica la polemica sui possibili infiltrati di destra che possono inquinare il voto è destabilizzante, come lo sono le dichiarazioni di D’Alema. L’una e l’altra servono solo a delegittimare o a scongiurare un’eventuale vittoria di Renzi. E questo porta dritto dritto verso la scomparsa del Pd.
    Da parte di Renzi è sbagliata l’enfasi eccessiva sulla “rottamazione”. Ma è altrettanto sbagliato opporre ai suoi argomenti la minaccia che una sua eventuale vittoria segnerebbe la fine del Pd e del centrosinistra. È un ricatto che serve a scoraggiare il ricambio di uomini e di idee. E invece il confronto dei prossimi mesi deve essere proprio sugli uomini e sulle idee per mettere gli elettori nella condizione di scegliere tra alternative chiare e liberamente discusse. E se questo confronto servirà ad allargare il bacino elettorale del Pd motivando elettori nuovi a votare per uno dei suoi candidati non si vede perché questo esito dovrebbe essere demonizzato. Non si possono fare primarie aperte perché più coinvolgenti e pretendere poi che producano necessariamente il risultato di primarie chiuse. Né si possono fare primarie chiuse facendole passare per primarie aperte. Bersani forse lo ha capito. Altri no.
    In ogni caso una cosa è certa: dopo queste primarie il Pd non sarà più come prima. Chiunque vinca. Certo, non è facile trovare un accordo partendo da posizioni così distanti e nel bel mezzo di una competizione per la leadership. Ma salvare il Pd si può e si deve. Basta volerlo. Prima che sia troppo tardi.