Illusioni tattiche e risultati contraddittori

Traduzione di un articolo in inglese originariamente e pubblicato su The American Interest.
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Bruce E. Cain è il Professore Charles Louis Ducommun di Scienze Umane presso il dipartimento di Scienze Politiche alla Stanford University. Inoltre, è il direttore Spence e Cleone Eccles Family del Bill Lane Centro per l’Ovest Americano e Senior Fellow presso il Woods Institute for the Environment, il SIEPR, e il Precourt Institute for Energy. Da alcuni anni è partner del CISE per studi comparati in ambiti quali le conseguenze dello sviluppo tecnologico sul processo democratico e la competizione politica.

Traduzione di Elisabetta Mannoni.

Vaticinare un mandato politico sulla base dei risultati delle elezioni negli Stati Uniti può essere problematico, perché la competizione elettorale si svolge di diversi livelli di governo. Diventa essenzialmente un test di Rorschach per gli esperti[1], specialmente quando gli spostamenti di seggi al Congresso avvengono in direzioni opposte (Cuccurullo e Paparo 2018). Per avere un quadro che sia coerente con i modelli spaziali di competizione politica, i democratici alla Camera dovrebbero spostarsi un po’ più a destra e i repubblicani al Senato un po’ più a sinistra. Perché? Perché i democratici hanno vinto la Camera ottenendo seggi che erano prima dei repubblicani, mentre i repubblicani hanno fatto cadere dei seggi al Senato occupati dagli incumbent democratici. Partendo dal presupposto che entrambi i partiti vogliano mantenere le loro maggioranze nelle rispettive Camere, questo dovrebbe porre le basi per compromessi bipartisan alla Camera e al Senato, su varie questioni di reciproco vantaggio. Potrebbe anche succedere, ma i risparmi di famiglia non ce li scommetterei.

La spaccatura netta nel risultato elettorale del 2018 ha minato alcune ipotesi chiave che entrambe le parti avevano fatto in merito a queste elezioni. I democratici avevano ideato una buona strategia, ma hanno mancato il bersaglio su alcune scelte tattiche. Come nel 2006, quando alla guida della Commissione Democratica per le Campagne al Congresso (DCCC) c’era Rahm Emmanuel, hanno selezionato per lo più candidati con i profili giusti per i loro collegi e mantenuto con rigore una comunicazione basata sull’assistenza sanitaria e sui posti di lavoro, rivolta agli indipendenti e ai repubblicani moderati.

Quello in cui hanno sbagliato sono stati i precedenti due anni di tempo ed energia sprecati nel tentativo di convincere la Corte ad adottare un nuovo criterio interpretativo sul gerrymandering. Guidati dal Presidente Obama e da Eric Holder, una cospicua fazione di democratici si era convinta che le elezioni congressuali fossero così truccate contro di loro che il partito avrebbe dovuto vincere con un ampio margine di voti anche solo per ottenere uno stretto margine di seggi (Tucker 2018). Solo una riforma che ridefinisse i collegi elettorali, pensavano, poteva risolvere questo problema. Alla fine, i democratici hanno ottenuto un avanzamento storico in termini di seggi ottenendo il 52% dei voti, decisamente all’interno del range normale registrato negli ultimi decenni.

A dire il vero, a partire dal censimento del 2010 i repubblicani hanno tenuto le redini del gioco nella maggior parte dei processi legislativi relativi alla ridefinizione dei collegi, e li hanno utilizzati a loro vantaggio. Ma i presunti muri che avrebbero costruito in questo senso non si sono rivelati poi così alti – quantomeno non così alti da fermare l’ondata anti-Trump emersa nelle periferie delle grandi città. I democratici sono stati in grado di assicurarsi,  fino ad oggi, almeno 232 seggi, un’avanzata più grande rispetto a quella del 2006. Inoltre, avendo strappato 7 governatori, entreranno nel prossimo ciclo di riorganizzazione dei collegi con una maggiore protezione politica contro il gerrymandering a loro sfavorevole. Gli svantaggi politici si risolvono più facilmente con strategie politiche intelligenti che con costose dispute legali.

Tuttavia, non è difficile comprendere la diffusa ossessione dei democratici rispetto alla questione dell’imparzialità del processo elettorale. In aggiunta alla questione dei collegi e del gerrymandering che li svantaggia alla Camera, il criterio di (mal)ripartizione dei seggi al Senato previsto dalla Costituzione favorisce gli Stati rurali (Tucker 2018), in cui i messaggi del Presidente Trump hanno maggiore risonanza. Inoltre i democratici hanno perso due elezioni presidenziali in questo secolo, nonostante avessero vinto il voto popolare in entrambi i casi (Tucker 2018). Se a questo aggiungiamo anche gli sforzi fatti dai repubblicani nel tentativo di istituire vari tipi di restrizioni all’esercizio del diritto di voto, che troppo spesso sembrano mirate agli elettori non bianchi, diventa facile capire perché i democratici avvertano che il gioco sia stato truccato a loro svantaggio. Le democrazie dovrebbero dare al gruppo più numeroso potere su quello meno numeroso, non viceversa.

Detto questo, la soluzione migliore affinché i democratici riescano ad ottenere il potere politico non è fatta di vittorie tattiche e riforme elettorali, anche se queste cose meriterebbero di essere messe in atto per altre valide ragioni. Piuttosto, quello di cui i democratici hanno bisogno è espandere la loro gittata politica per riconquistare il consenso di alcuni elettori delle zone rurali che si sentono abbandonati ed alienati. È chiaro dalle vittorie in Arizona, Texas, New Mexico, Oklahoma e Colorado che i processi di urbanizzazione e gentrificazione della zona occidentale non costiera del paese andranno a favore dei democratici nel lungo termine, ma i democratici devono anche trovare il modo di condividere la prosperità dell’economia tecnologica e affrontare dei problemi cruciali al di fuori delle loro bolle urbane (dipendenze, scarse prospettive di lavoro, obesità) se vogliono ridurre il vantaggio che i repubblicani hanno oggi in quel tipo di Stati.

D’altro canto, i repubblicani rischiano di seguire il percorso di Pete Wilson e dei repubblicani californiani negli anni ‘90. Pete Wilson ha cavalcato le paure dell’immigrazione e l’ostilità alla politica dell’Affirmative action per vincere nel 1994[2], ma così facendo ha indirizzato il Partito Repubblicano verso una spirale discendente dalla quale si deve ancora riprendere. Architettare regole di voto che escludano cittadini idonei per minori infrazioni di carattere burocratico o basarsi unicamente sull’appello di Trump rivolto agli elettori rurali e meno istruiti per i prossimi due anni, anziché dedicarsi a politiche di sviluppo e ad una linea di partito che possa riconquistare gli elettori della classe media, sembra l’avvio di una nuova spirale negativa. Ciò non solo costerebbe loro quote crescenti di voto nel corso tempo, ma potrebbe anche significare cedere  ai democratici la loro supremazia nella raccolta di contributi elettorali per il futuro più prossimo. Questa dinamica per cui cercano di mantenere il potere senza di fatto riuscire a vincere il voto popolare, come è successo nelle ultime due presidenziali vinte, è qualcosa che non può durare ancora a lungo. I repubblicani devono riconquistare i cittadini istruiti della classe media che vivono nelle zone suburbane e tenerli nella loro coalizione.

Senza dubbio gli operatori politici repubblicani sono rimasti sorpresi tanto quanto tutti noi del poco peso che i tagli alle tasse hanno avuto per alcuni blocchi sociali cruciali nella basa repubblicana. In parte è stata colpa del presidente Trump, che ha preferito fare appelli nativisti e preoccuparsi di Kavanaugh alle sue manifestazioni piuttosto che veicolare messaggi che avrebbero contribuito a garantire il consenso dei collegi delle periferie (Cain 2018). A parte i tagli alle tasse e l’allentamento alle regolamentazioni, i repubblicani hanno anche bisogno di affrontare in modo più efficace e persuasivo di quanto abbiano fatto finora questioni come sicurezza scolastica, cambiamento climatico, infrastrutture in decadimento e assistenza sanitaria, se vogliono il voto di elettori istruiti. Hanno anche bisogno di indirizzare un messaggio diverso alle donne, e di farlo in fretta, perché nei prossimi anni il ricambio generazionale sostanzialmente demolirà il fascino delle politiche dello ‘Stand by your man[3].

Infine, vorrei dare qualche consiglio ad entrambi i partiti in merito alla riorganizzazione dei collegi. Da persona che ha disegnato collegi a vari livelli di governo: un disegno dei collegi di parte avvantaggia un partito se gli consente di espandere o almeno mantenere la sua coalizione. Altrimenti gli si ritorce contro. Un progetto di organizzazione di parte funziona distribuendo gli elettori del partito fra i vari seggi in modo più efficiente, cioè spostando i voti in eccesso di un collegi già conquistato in un altro collegio che si spera di conquistare. Tuttavia, se la marea cambia a tuo svantaggio, i collegi ‘efficientati’ cedendo propri elettori in eccesso diventano più soggetti ad ondate ostili. Un partito che anticipi un’ondata ostile verterebbe in una migliore condizione se mettesse in atto una strategia bipartisan che metta al riparo tutti i politici in carica. Promuovere politiche che espandano la coalizione sociale del partito verso nuovi bacini di elettori rende più efficace il gerrymandering. Per dirla come la direbbe Yoda: se il gerrymandering applicare tu devi, le tue scelte politiche prima sistema, e il tuo bonus tattico raccogli poi.

Riferimenti bibliografici

Cain, Bruce E. (2018), ‘Un Presidente “Me-First” all’epoca del “#MeToo”‘. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/03/un-presidente-me-first-allepoca-del-metoo/

Cuccurrullo, Davide e Aldo Paparo (2018) ‘Elezioni di midterm: Trump perde la Camera ma avanza al Senato’. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/14/elezioni-di-midterm-trump-perde-la-camera-ma-avanza-al-senato/

Tucker, Joshua A. (2018), ‘Intervista con Joshua A. Tucker (NYU) sulle elezioni americane di midterm’. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/15/intervista-con-il-professor-tucker-della-nyu-sulle-elezioni-di-midterm/


[1] Test psicologico in cui il soggetto, descrivendo cosa vede in immagini intenzionalmente ambigue e quindi prive di un contenuto univoco, proietta la propria personalità rivelandone i tratti.

[2] L’Affermative Action è un insieme di leggi, politiche, linee guida e pratiche amministrative tese a porre fine e correggere gli effetti di una specifica forma di discriminazione, che include programmi imposti dal governo a privati, approvati dal governo e volontari. I programmi sono costituiti da azioni positive e si concentrano sull’accesso all’istruzione e all’occupazione, garantendo una considerazione speciale ai gruppi storicamente esclusi, in particolare alle minoranze razziali o alle donne.

[3] Letteralmente, ‘stai accanto al tuo uomo’. Si intendono politiche volte a tutelare il ruolo tradizionale della donna, piuttosto che a favorirne il pieno inserimento e l’effettiva parità nel mondo del lavoro.

Bruce E. Cain è il Professore Charles Louis Ducommun di Scienze Umane presso il dipartimento di Scienze Politiche alla Stanford University. Inoltre, è il direttore Spence e Cleone Eccles Family del Bill Lane Centro per l'Ovest Americano e Senior Fellow presso il Woods Institute for the Environment, il SIEPR, e il Precourt Institute for Energy. Ha conseguito un BA al Bowdoin College (1970), un B Phil alla Oxford University (1972) come Rhodes Scholar, e un PhD alla Harvard University (1976). Ha insegnato a Caltech (1976-89) e UC Berkeley (1989-2012) prima di andare a Stanford. Il professor Cain è stato direttore dell'Istituto di studi governativi all'Università di Berkeley dal 1990 al 2007 e direttore esecutivo del Centro Studi della UC Washington dal 2005-2012. È stato eletto all'American Academy of Arts and Sciences nel 2000 e ha vinto premi per la sua ricerca (Richard F. Fenno Prize, 1988), insegnamento (Caltech 1988 e UC Berkeley 2003) e servizio pubblico (Zale Award per Outstanding Achievement in Policy Research and Public Service, 2000). Le sue aree di competenza includono la regolamentazione politica, la teoria della democrazia, la rappresentanza e la politica a livello statale. Alcune delle pubblicazioni più recenti del professor Cain includono "Redistricting Commissions: A Better Political Buffer?" nel The Yale Law Journal, volume 121, 2012; "Congressional Staff and the Revolving Door: The Impact of Regulatory Change", con Lee Drutman, Election Law Journal, 13: 1, marzo 2014; "Community of Interest Methodology and Public Testimony", con Karin MacDonald, U.C Irvine Law Review, 3.609, 2013; e "Democracy More or Less: America's Political Reform Quandary", Cambridge University Press, 2014. Attualmente sta lavorando a processi normativi a livello statale e al coinvolgimento delle parti interessate nei settori dell'acqua, dell'energia e dell'ambiente. Da alcuni anni è partner del CISE per studi comparati in ambiti quali le conseguenze dello sviluppo tecnologico sul processo democratico e la competizione politica.