Autore: Aldo Paparo

  • Renzi e il suo governo: la popolarità persa e mai ritrovata

    Renzi e il suo governo: la popolarità persa e mai ritrovata

    di Aldo Paparo

    Il governo Renzi ha fatto appena in tempo a festeggiare i 1000 giorni dal suo insediamento che l’esito negativo del referendum costituzionale ne ha segnato il termine. Nella storia della Repubblica è comunque uno dei governi più longevi. In un arco di tempo così lungo, la sua popolarità presso l’elettorato italiano ha inevitabilmente subito delle oscillazioni. La teoria del ciclo elettorale suggerisce per questa un andamento ciclico, appunto. In pratica, ci si attende che la popolarità di un governo si mantenga o addirittura aumenti nei primi mesi successivi al suo insediamento (la cosiddetta luna di miele), per poi calare costantemente fino a circa la metà della legislatura o poco dopo, per infine risalire con l’approssimarsi delle successive elezioni legislative (Campbell 1960, Miller e Mackie 1973, Tufte 1975; Shugart 1995).

    Tralasciando le diverse argomentazioni teoriche proposte dalla letteratura per spiegare questa regolarità empirica (Stimson 1976, Kirchgässner 1986), ci interessa qui evidenziare come anche nel caso italiano questo andamento ciclico della popolarità dei governi sia stato riscontrato, segnalando in particolare le difficoltà in chiave comparata dei nostri esecutivi a fare segnare le risalite nella seconda metà del ciclo (Bellucci 2006). A conclusione, quindi, a quasi tre anni dal suo insediamento, è quindi interessante verificare quale sia stato l’andamento della popolarità del governo Renzi.

    Sei mesi fa, infatti, in occasione delle rilevanti consultazioni comunali della primavera scorsa, avevamo chiaramente segnalato il momento di grave difficoltà dell’esecutivo, indicando una possibile ripresa della sua popolarità da lì all’autunno come decisiva per le sorti della consultazione referendaria (D’Alimonte e Paparo 2016). Il netto risultato referendario, unito al chiaro carattere politico di questo voto, non lasciano molti dubbi circa il fallimento del tentativo del governo di recuperare consensi nell’ultimo squarcio di legislatura. I dati della serie dell’Osservatorio Politico del Cise ci consentono però di indagare in dettaglio l’andamento temporale di una serie di giudizi dell’elettorato circa il governo e la persona del Primo Ministro. Possiamo così valutare se l’ultimo semestre, in coincidenza con la campagna elettorale per il referendum, abbia segnato un recupero, seppur insufficiente, della popolarità dell’esecutivo, o se invece questa si trovi ancora vicino al minimo, o addirittura in ulteriore calo.

    Cominciamo quindi dall’andamento dei giudizi circa l’operato dell’esecutivo. I sondaggi del nostro Osservatorio rilevano due distinte dimensioni. Una prima domanda chiede una valutazione circa l’azione del governo nel suo complesso, la seconda è specifica sul piano economico. La prima è stata rilevata in tutte e sei le ondate semestrali dalla nascita del Governo Renzi, la seconda solo nelle ultime quattro, a partire dalla primavera 2015. Come mostra la Figura 1, a pochi mesi dal suo insediamento l’esecutivo aveva il gradimento di quasi i due terzi dell’elettorato. Il 64% del campione ne dava un giudizio abbastanza o molto positivo. Era quello il momento della piena luna di miele, quando il Pd di Renzi stava per ottenere lo straordinario risultato delle elezioni europee. Già sei mesi dopo si registrava un drastico calo nei giudizi positivi, scesi al 40% dell’elettorato. Nei due anni successivi questo dato è rimasto sostanzialmente inalterato, facendo registrare solo piccole oscillazioni. Oggi è misurato al 37%, in crescita comunque di 2 punti rispetto al minimo toccato sei mesi fa.

    Guardando all’andamento dei giudizi positivi sull’operato del governo in campo economico, di nuovo osserviamo una sostanziale stabilità negli ultimi due anni. Un terzo circa degli italiani valuta abbastanza o molto positivamente l’esecutivo su questo piano. Anche qui si registra un lievissimo aumento (appena 1 punto) rispetto alla rilevazione della primavera scorsa.

    Fig. 1 – Percentuali dell’elettorato che valutano abbastanza o molto positivamente l’operato del Governo

    operato governo

    Insomma, se miglioramento nella popolarità del governo c’è stata, non pare certo esser stata vigorosa. Più correttamente, possiamo dire che questa abbia arrestato la sua caduta, ma che non se ne apprezzarsi la risalita.

    Per completare il quadro possiamo aggiungere che in questo sondaggio autunnale abbiamo inserito una nuova domanda, relativa all’operato del governo in ambito europeo. Ebbene, su questo piano i giudizi per il governo sono ancora più negativi. Appena il 31% dei rispondenti pensa che l’esecutivo abbia fatto valere (abbastanza o molto) gli interessi italiani nei rapporti con l’UE.

    Passiamo ora alle valutazioni circa la figura di Renzi. In particolare ci riferiamo all’analisi dei quattro tratti fondamentali suggeriti dalla letteratura psicologica come fondamentali per la valutazione dei candidati da parte degli elettori: energia, competenza, empatia e onestà (Funk 1999; Kinder 1986).

    Come possiamo osservare nella Figura 2, nell’autunno del 2013 Renzi aveva il profilo di un leader straordinariamente forte. In pratica, quattro elettori su cinque gli attribuivano ciascuno dei quattro tratti considerati. Solo l’empatia rimaneva al di sotto di quota 80%, con un comunque ragguardevole 77%. Era quello il momento in cui Renzi si accingeva a conquistare la segreteria del Pd da sindaco di Firenze. Abbiamo poi misurato nuovamente il profilo di Renzi nella primavera 2015, quando era a Palazzo Chigi ormai da oltre un anno. Inevitabilmente, il passaggio da giovane rottamatore a uomo dell’establishment imponeva il suo dazio. Il cost of ruling era particolarmente marcato sul piano dell’empatia (-30 punti), esattamente la metà in quanto a energia e competenza, mentre l’onesta era calata di 20 punti. In ogni caso, si trattava di un profilo piuttosto buono per un governante. La metà degli elettori lo considerava empatico e circa i due terzi gli attribuivano energia, competenza e onestà. Sei mesi dopo il quadro non era gran che cambiato, ma si registravano ulteriori cali su tutti e quattro i tratti, particolarmente marcato sull’energia (-7 punti).

    Oggi, quando sono passati ulteriori 12 mesi dell’esperienza di governo da lui guidata, il quadro non sembra essere affatto migliorato. Tutt’altro. Empatia e competenza sono stabili, anzi in lievissimo miglioramento. In pratica lo sono da un anno e mezzo. Due elettori su tre pensano che Renzi sia competente. Uno su due che sia capace di comprendere i problemi della gente. Le note dolenti vengono da energia e, soprattutto, onestà. Quest’ultima cala di ulteriori 6 punti ed è ormai prossima al 50% anch’essa, mentre l’energia è poco più sopra, con il 57%. Così, il Renzi di oggi ha un profilo peggiore dell’allora Presidente del Consiglio Letta nell’autunno 2013: appena poco più energico (3 punti), ma assai meno competente e onesto (14 e 20 punti rispettivamente), ed anche meno empatico (6 punti).

    In pratica, questi dati sul profilo di Renzi confermano quanto già osservato in riferimento alla popolarità del governo. La risalita non c’è stata. Al massimo si può parlare di arresto della caduta.

    Fig. 2 – Percentuali dell’elettorato che attribuiscono i diversi tratti a Renzi[1]

    tratti_renzi

    Certo, è chiaro che molto del giudizio sul governo e su Renzi dipende dall’andamento della situazione economica, ad ogni latitudine la vera cartina di tornasole per la popolarità degli esecutivi (Lewis-Beck 1990). Il perdurare delle ristrettezze derivanti dalla crisi economica, con la ripresa che stenta a farsi sentire in tutte le fasce sociali, sembra avere agganciato il giudizio sul governo all’insoddisfazione dell’elettorato. Anche su questo piano i dati dell’OP del Cise contengono molte preziose indicazioni.

    Quando il governo è entrato in carica, nella primavera del 2014, la valutazione dell’economia nazionale nel corso dell’anno precedente era positiva per appena il 5% dell’elettorato. Al contempo, la fiducia degli italiani nella ripresa era attorno al 30%. Una situazione piuttosto favorevole per un governo che si va ad insediare. Tanto più che nel corso del 2015 la valutazione retrospettiva, quella per cui l’esecutivo guidato da Renzi è responsabile, migliorava, fino a sfiorare il 20% nell’autunno. Ma poi è calata di nuovo nel corso del 2016. Oggi, appena un elettore su 6 è convinto che l’economia sia migliorata nel corso dell’ultimo anno. La valutazione prospettica faceva segnare un calo di 10 punti già nell’autunno 2014, a conclusione della luna di miele, ma poi si era riassestata attorno al 30% per tutto il 2015. Nelle due rilevazioni del 2016, però, quanti credono che la situazione economica nazionale migliorerà nell’anno a venire sono scesi a un rispondente su cinque. Insomma, sembra proprio emergere il quadro di una costante disillusione.

    Nelle ultime quattro rilevazioni abbiamo anche chiesto analoghe valutazioni, retrospettiva e prospettica, per la situazione economica non nazionale ma della propria famiglia. La Fig. 3 mostra che non ci sono state grande oscillazioni nel corso di questi due anni, ma di nuovo si osserva che nel 2016 quanti pensano che le cose miglioreranno sono meno che nel 2015.

    Fig. 3 – Percentuali dell’elettorato che valutano le diverse situazioni economiche in miglioramento (abbastanza o molto)

    valutazioni economia

    I sondaggi della serie dell’OP contengono, però, anche alcune indicazioni incoraggianti se non per il governo nel suo insieme, per lo meno per il suo Primo Ministro. Si tratta in particolare delle evidenze relative ad esperimenti svolti sulle domande circa le valutazioni sull’operato dell’esecutivo. A partire dalla primavera del 2015 abbiamo diviso a metà il campione, chiedendo agli uni come giudicassero l’operato del “Governo”, agli altri quello del “Governo Renzi”[2]. La prima volta che abbiamo inserito questa permutazione nel nostro questionario, avevamo osservato un notevole effetto positivo della menzione del nome del Presidente del Consiglio. Circa l’operato del governo in generale, le valutazioni abbastanza o molto positive passavano dal 32 al 39%. L’effetto era dunque pari a 7 punti, marginalmente significativo statisticamente (p.<0.1). Ancora più forte era l’effetto sull’operato del governo in economia: pari a 9 punti, statisticamente significativo (p<0.05), con il 27% delle valutazioni positive per il “Governo” contro il 36% del “Governo Renzi”.

    Le Figure 4 e 5 mostrano i confronti circa l’operato del governo nel complesso e sull’economia fra i due gruppi sottoposti al diverso trattamento sperimentale nelle diverse rilevazioni. E’ riportata la percentuale che attribuisce un giudizio abbastanza o molto positivo, mentre le barre verticali indicano gli intervalli di confidenza al 95%. Iniziando dalle valutazioni sull’operato dell’esecutivo in generale (Fig. 4), possiamo osservare che l’effetto registrato nelle prima rilevazione era completamente svanito in quelle dell’autunno 2015 e di questa primavera. Nel primo caso il 39% di entrambi i gruppi esprimeva un giudizio positivo. Nel secondo caso i giudizi positivi scendevano al 35%, ma di nuovo senza differenze fra i due gruppi sperimentali. Abbiamo visto sopra come, nella rilevazione di questo autunno, i giudizi positivi in tutto il campione si siano attestati al 37%. Ma per chi ha dovuto giudicare il “Governo” sono in realtà scesi al 31%, mentre il “Governo Renzi” riceve il giudizio positivo del 42% dei rispondenti. L’effetto della menzione del nome di Renzi è quindi pari a oltre 10 punti, statisticamente significativo al livello del 99%.

    Fig. 4 – Effetti della menzione del nome di Renzi sulle valutazioni circa l’operato del governo in generale

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    Analogo andamento si osserva in riferimento alle valutazioni circa l’operato in campo economico dell’esecutivo (Fig. 5). Anche se in questo caso si rileva un certo positivo effetto del nome di Renzi anche nell’autunno 2015 e nella primavera successiva. Si tratta però di scarti di 4-5, assolutamente non significativi statisticamente. Invece, come per l’operato dell’esecutivo in generale, anche in campo economico la rilevazione di questo autunno mostra il ritorno dell’”effetto Renzi” evidenziato nell’indagine di 18 mesi or sono. In questo caso si tratta di 10 punti: anche qui un effetto estremamente significativo dal punto di vista statistico (p<0.01). Il 30% dei rispondenti cui è stato chiesto di valutare l’azione economica del “Governo” ha infatti espresso un giudizio positivo, mentre la quota sale al 40% per chi ha ricevuto la domanda sul “Governo Renzi”.

    Fig. 5 – Effetti della menzione del nome di Renzi sulle valutazioni circa l’operato del governo in campo economico

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    Infine, come accennato sopra, in questa rilevazione abbiamo inserito una domanda aggiuntiva circa l’operato del governo in ambito europeo. Anche su questa abbiamo effettuato la permutazione sperimentale, ed anche in questo caso si evidenzia un effetto positivo statisticamente significativo della menzione del nome di Renzi. In dettaglio, il 28% dei rispondenti pensa che il “Governo” abbia fatto valere i nostri interessi con Bruxelles, percentuale che sale al 36% per il “Governo Renzi”.

    Questi dati relativi agli esperimenti sembrano quindi segnalare come il recente frangente in cui ha rivestito una estrema salienza la questione referendaria, il grande protagonismo del Presidente del Consiglio nella campagna elettorale sembri avere coagulato sulla sua figura più consensi di quelli che l’esecutivo da lui guidato riscuote. Il resto dell’esecutivo sembra essere rimasto un po’ in secondo piano, quasi inoperoso dato quanto poco apparso nell’informazione; e forse per questo poco apprezzato per ciò che ha fatto che non è risultato molto visibile.

    In conclusione, possiamo riassumere le evidenze contenute nella rilevazione autunnale dell’Ossevatorio Politico del Cise dicendo che esse segnalano come la popolarità del governo Renzi e del suo Primo Ministro non siano mai risalite dopo il calo seguito alla luna di miele iniziale. Anzi, si trovano vicini ai propri valori minimi, se non li fanno proprio toccare in questa rilevazione campionaria. In questo senso, il Governo Renzi conferma la scarsa capacità degli esecutivi italiani di recuperare consensi nella seconda metà del ciclo elettorale. Certo, non potremo probabilmente sapere quanto la popolarità sarebbe risalita da qui alla fine naturale della legislatura, lontana ancora 15 mesi, ma lo scarso ottimismo verso il futuro riportato dei nostri intervistati appariva in ogni caso come un cattivo presagio in quest’ottica.

    In ogni caso, i nostri dati segnalano anche la capacità di Renzi di trascinare consensi quando è in gioco personalmente. Consensi che chiaramente si mantengono su livelli insufficienti per avere la maggioranza assoluta dei voti, come era richiesto per vincere il referendum, ma che comunque potrebbero essere sufficienti per garantire il primo posto alle prossime elezioni politiche. Che questo poi basti per governare è tutto un altro discorso…

    Riferimenti bibliografici:

    Bellucci, P. 2006. «All’origine della popolarità del governo in Italia, 1994-2006». Rivista Italiana di Scienza Politica 36(3): 479-504.

    Campbell, A. 1960. «Surge and Decline: A Study of Electoral Change». Public Opinion Quarterly 24 (3): 397–418.

    D’Alimonte, R. e A. Paparo. 2016. «Conclusioni» in V. Emanuele, N. Maggini e A. Paparo (a cura di), Cosa succede in città? Le elezioni comunali 2016, Dossier CISE (8), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali: 179-184.

    Funk, C. L. 1999. «Bringing the candidate into models of candidate evaluation». Journal of Politics 61: 700–720.

    Kinder, D. R. 1986. «Presidential character revisited». Political cognition: 233–55.

    Kirchgässner, G. 1986. «Economic Conditions and the Popularity of West German Parties: A Survey». European Journal of Political Research 14 (4): 421–39.

    Lewis-Beck M. 1990. Economics and elections: The major Western democracies. Ann Arbor, University of Michigan Press.

    Miller, W. L., e Mackie, M. 1973. «The Electoral Cycle and the Asymmetry of Government and Opposition Popularity: An Alternative Model of the Relationship Between Economic Conditions and Political Popularity». Political Studies 21 (3): 263–79.

    Shugart, M. S. 1995. «The Electoral Cycle and Institutional Sources of Divided
    Presidential Government». American Political Science Review 89 (02): 327–43.

    Stimson, J. A. 1976. «Public Support for American Presidents A Cyclical Model». Public Opinion Quarterly 40 (1): 1–21.

    Tufte, E. R. 1975. «Determinants of the Outcomes of Midterm Congressional Elections». American Political Science Review 69 (03): 812–26.


    [1] Questi tratti sono stati misurati rilevando il grado di consenso (abbastanza o molto d’accordo) rispetto alle seguenti affermazioni: 1) “Matteo Renzi è un leader forte”; 2) “E’ preparato”; 3) “Capisce i problemi della gente”; 4) “E’ onesto”.

    [2] Nei diversi sondaggi le due metà si dimostrano bilanciate. Nessuna delle seguenti variabili ha infatti un effetto significativo sulla dicotomia trattamento (“Governo Renzi”)/controllo (“Governo”): genere, età, titolo di studio, interesse per la politica, auto-collocazione ideologica e voto alle politiche 2013. Questo ci consente di potere semplicemente confrontare le medie dei due gruppi. Le uniche eccezioni sono l’auto-collocazione nell’autunno 2015 e primavera 2016, con i rispondenti del gruppo di controllo più di centro e meno di sinistra rispetto al trattamento. Nella seconda dell’ondata citata si ha anche un lieve squilibrio riguardo gli elettori 2013 del centrodestra, maggiormente rappresentati nel gruppo di controllo. Non può però essere questa la ragione dell’assenza di un effetto Renzi positivo, piuttosto del contrario. A meno di non ipotizzare che gli elettori che si collocano a destra siano particolarmente favorevoli all’esecutivo.

  • Il fronte del SI e la questione meridionale

    Il fronte del SI e la questione meridionale

    di Aldo Paparo

    Abbiamo già avuto modo di segnalare come i dati del sondaggio dell’Osservatorio Politico Cise di questo autunno mostrino, nelle intenzioni di voto al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre, un netto vantaggio del NO nelle regioni meridionali.

    In questo articolo cerchiamo di indagare più in profondità questa frattura geografica, concentrandoci sul comportamento differenziato fra nord e sud per alcune rilevanti categorie di elettori (Tab. 1). Tralasciamo quindi le 4 regioni della zona rossa[1], che sono quelle più politicamente connotate, e focalizziamo il confronto fra le due porzioni più volatili (e popolose) del paese: il nord e il sud, appunto.

    Cominciamo da quanti si dichiarano intenzionati a votare il M5s. Si tratta di gruppo molto rilevante, che pesa oltre un quinto del totale del campione. Come abbiamo già visto, nell’Italia intera fra gli elettori pentastellati il NO è in vantaggio di quasi 50 punti, con il 15% intenzionato a votare SI e il 63% per il NO. Osservando il breakdown per zona geopolitica, possiamo notare come il divario a favore del NO nelle regioni settentrionali sia quasi la metà di quello nazionale (27 punti), mentre al sud supera abbondantemente i 50 punti. Al nord un elettore del Movimento su quattro è intenzionato a votare SI, mentre la metà circa è per il NO. Se una quota analoga degli elettori meridionali dell’M5s fosse per il SI, questo basterebbe per ribaltare l’esito della consultazione a favore dell’approvazione della riforma.

    Passiamo poi al gruppo di rispondenti più giovani, quello costituito dagli under 30. Come abbiamo visto, si tratta di una delle classi di età più ostili alla riforma.  In tutta Italia il SI è indietro di 17 punti, con meno di un giovane su 5 intenzionato a votare per confermare la riforma. Ma al nord si osserva una sostanziale parità: il NO è avanti di soli 2 punti. Mentre al sud per ogni giovane intenzionato a votare SI, ce ne sono due e mezzo per il NO, con uno scarto di oltre 25 punti.

    Analoghe indicazioni vengono guardando alle categorie professionali. Abbiamo visto come gli studenti siano divisi a metà fra SI e NO nell’Italia intera. Ma al nord ci sono 20 punti di vantaggio per il SI, mentre al sud la situazione è ribaltata e sono 10 i punti di vantaggio per il NO: uno scarto di 30 punti. Fra le casalinghe il NO è avanti di 8 punti, ma al nord SI e No sono alla pari, mentre al sud il vantaggio del NO è il doppio di quello nazionale. Fra i dipendenti pubblici il margine del NO è di 10 punti, ma di nuovo si registra una parità al nord (con anzi un lieve vantaggio del SI), mentre si ha uno scarto doppio di quello nazionale al sud. Ma lo scarto maggiore fra nord e sud emerge fra gli impiegati del settore privato. Al nord il SI è in vantaggio di 7 punti in questa categoria professionale, mentre al sud si segnala un vantaggio per il NO di 34 punti: lo scarto fra le due aree supera quindi i 40 punti.

    Tab. 1 – Intenzioni di voto al Nord e al Sud per alcune categorie di elettori

    sud

    Il quadro complessivo che emerge da questi dati mostra quindi la grande rilevanza della frattura fra nord e sud nella competizione referendaria. Sembra infatti chiaro come il risiedere al sud influenzi in maniera decisivi gli orientamenti di diverse categorie di elettori a favore del NO.

    Per confermare questo in maniera più rigorosa, e verificare se in effetti i nostri dati indichino un rilevante effetto della zona  geopolitica di residenza, abbiamo effettuato una regressione logistica che ha come variabile dipendente la dicotomia del voto referendario (SI=1). Le variabili indipendenti comprendono tutte le caratteristiche socio-demografiche analizzate in dettaglio nei diversi contributi presentati su questo sito e alcune variabili politiche di particolare rilevanza.

    I risultati di questa analisi sono riportati nella Tabella 2. Come si può osservare, l’ipotesi relativa alla rilevanza della dimensione geografica è pienamente confermata. Infatti, il risiedere sia nella zona rossa che nel nord, rispetto al sud, comporta un effetto significativo a favore del SI. Ovvero, il sud è significativamente più contrario alla riforma anche al netto di tutte le altre variabili inserite nel modello. Sono questi gli unici effetti significativi per variabili socio-demografiche, con l’unica eccezione del maggior favore per il NO di chi ha la licenza media rispetto a chi ha meno di quella. Nemmeno i pensionati, che abbiamo visto essere largamente per il SI, segnalano alcun effetto significativo con qualche altre categoria professionale. Addirittura l’autocollocazione ideologica non risulta avere un effetto significativo autonomo sulla scelta di voto al referendum. Il risiedere al sud, invece, si.

    La nostra analisi mostra poi, altrettanto chiaramente, il carattere politico di questa consultazione. E più che sulla dimensione ideologica, i conflitti rilevanti sono quelli relativi alla dimensione europea e, ancor di più, alla figura di Renzi. Infatti le relative variabili mostrano gli effetti più forti, gli unici significativi al livello del 99,9%.

    Tab. 2 – Modello di spiegazione del voto al referendum, regressione logistica

    regressione

    Il governo sembra avere coscienza di questa situazione di chiaro svantaggio per il SI al sud. In quest’ottica si possono leggere le aperture sulla costruzione del ponte sullo stretto e, più recentemente, le promesse di sgravi fiscali per chi assume in aree svantaggiate del paese. Sotto questo aspetto il nostro sondaggio va preso con una certa cautela. Le rilevazioni, infatti, si sono chiuse il 7 di novembre. I dati potrebbero quindi non incorporare cambiamenti intervenuti negli ultimi giorni in conseguenza degli eventi più recenti. Inoltre occorre precisare come il nostro campione sia rappresentativo della popolazione nazionale, mentre i rispondenti intervistati al sud potrebbero non essere pienamente rappresentativi della popolazione meridionale. In ogni caso, possiamo affermare che questa è la fotografia scattata un paio di settimane fa. Se e quanto il SI possa avere recuperato al sud da allora non possiamo stimarlo. Fra quindici giorni basterà attendere i risultati per vedere come sarà andata a finire. Le nostre analisi indicano che nei giorni che restano la campagna per il SI farebbe bene a concentrarsi sul voto meridionale.


    [1] Emilia-Romagna, Marche, Toscana, Umbria.

  • La polarizzazione del voto referendario sull’asse destra-sinistra

    La polarizzazione del voto referendario sull’asse destra-sinistra

    di Aldo Paparo

    Abbiamo già pubblicato numerosi dati del sondaggio CISE-OP relativi al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. La nostra indagine ne contiene ancora alcuni che possono essere utile alla comprensione dell’importante voto che ci attende ormai fra poco più di due settimane.

    A cominciare da quelli relativi all’incrocio fra autocollocazione ideologica dei rispondenti e intenzione di voto al referendum, che presentiamo qui. Come si può vedere dalla Tabella, il SI è in testa nei bacini della sinistra (+9 punti sul NO) e del centro (+7). Al contrario, il NO è largamente in testa fra coloro che si dichiarano di destra e quanti rifiutano di collocarsi sulla dimensione ideologica. I margini di vantaggio sono praticamente doppi di quelli osservati nelle categorie in prevalenza favorevoli al SI.

    Se consideriamo come nel nostro campione i rispondenti di centro, sinistra e destra sono tre frazioni pressoché identiche per numerosità, e due volte più pesanti dei non collocati, alla luce di questi dati il vantaggio del NO è presto spiegato. Lo svantaggio fra elettori di sinistra e centro è più che colmato dal solo scarto fra gli elettori di destra. Il NO allunga poi grazie ai non collocati.

    Un ulteriore elemento che emerge dalla Tabella merita di essere sottolineato. Possiamo osservare come, non sorprendentemente per una consultazione dal chiaro carattere politico, i non collocati sono coloro che si dimostrano meno schierati. Al netto del vantaggio del No, quasi due su tre non fanno parte nè del fronte del SI nè di quello avverso. All’estremo opposto si collocano gli elettori di sinistra. Fra questi tre su quattro dichiarano l’intenzione di votare SI o NO. Fra gli elettori di centro e di destra, invece, poco meno dei due terzi dichiara una intenzione di voto.

    Tab. 1 – Intenzioni di voto al referendum per autocollocazione ideologica

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    In buona sostanza, questi dati mostrano che il Presidente del Consiglio aveva probabilmente ragione a dire che la partita il SI se la gioca andando a prendere voti a destra. In effetti è in quella fetta di elettorato che si annidano le più forti contrarietà alla riforma. D’altro canto, questi stessi dati segnalano come la strategia di conquista di voti a destra non si mostri particolarmente proficua. Certo, un elettore di destra su cinque si dichiara intenzionato a votare SI, ma è ancora troppo poco.

    A ben guardare, la nostra analisi mostra invece come vi sia un terzo degli elettori sia di sinistra che di centro intenzionati a votare contro la riforma. Con tutta probabilità è ormai troppo tardi per fare cambiare loro idea, ma forse una impostazione meno divisiva della campagna per il SI avrebbe potuto contenere queste spinte presso elettorati i cui principali partiti hanno approvato la riforma, e aumentare così le possibilità che questa venisse confermata al referendum.

  • Il Pd che ancora riesce a vincere: i flussi fra primo e secondo turno a Milano e Bologna

    Il Pd che ancora riesce a vincere: i flussi fra primo e secondo turno a Milano e Bologna

    di Aldo Paparo e Matteo Cataldi

    Come abbiamo mostrato altrove, queste elezioni comunali sono state avare di soddisfazione per il Pd. Particolarmente i ballottaggi. Ci sono però alcuni contesti in cui il centrosinistra è riuscito a mantenere l’amministrazione cittadina nonostante il clima generale piuttosto sfavorevole. In questo ambito, le città più importanti sono certamente Milano e Bologna, entrambe conquistate in ballottaggi dal sapore bipolare contro il centrodestra (e quindi con gli elettori del M5s nel ruolo di terzo incomodo).

    Attraverso l’analisi dei flussi elettorali possiamo indagare i comportamenti tenuti al secondo turno dai diversi elettorati (e del Movimento in particolare), e comprendere quindi con maggiore precisione come si siano venuti determinando questi esiti certo non difficili da prevedere fino ad un paio di settimane fa, ma tutt’altro che scontati alla luce di quanto accaduto altrove, a cominciare da Torino.

    Iniziando dal più popoloso dei due casi analizzati, la capitale del Nord, Milano, la Tabella 1 mostra con chiarezza come il successo di Sala sia soprattutto il frutto di una significativa rimobilitazione di astenuti del primo turno (6%)

    Parisi ha riportato a votare una porzione maggiore dei propri elettori al primo turno (92%), e fa segnare un ingresso diretto da Sala, ma troppo poco arriva dal M5s per potere ribaltare il risultato alla luce delle scelte di astenuti ed elettorati minori che hanno preferito Sala.

    Particolarmente interessante è infatti verificare il comportamento al secondo turno degli elettori del M5s. Contrariamente a quanto avvenuto per gli elettori di centrodestra quando il ballottaggio vedeva di fronte Pd e M5s (che hanno votato e l’hanno fatto per il Movimento), almeno nel caso milanese gli elettori del M5s sono stati poco interessati alla scelta fra Sala e Parisi. Infatti, 9 su 10 si sono astenuti. La piccola porzione che ha votato sembra avere preferito Parisi in ragione di 3 a 1 su Sala, come peraltro anticipato dal candidato del Movimento a Milano, Corrado.

    Tab. 1 – Milano: Destinazioni al secondo turno  degli elettorati del primo turno.

    Tab1

    Così, Parisi pesca poco al di fuori del proprio bacino del primo turno: l’unico ingresso rilevante è proprio quello dal rivale, che pesa il 7% del suo elettorato al secondo turno. Sala invece ottiene oltre un quinto dei propri voti da elettori che non lo avevano scelto al primo turno: la metà di questi si erano astenuti.

    Tab. 2 – Milano: Provenienze al primo turno degli elettorati del secondo turno.

    Tab.2

    La Figura 1 consente di avere una rappresentazione immediata dei diversi bacini elettorali e dei loro comportamenti. Si vede chiaramente come decisivi per il successo di Sala siano le bande arancioni in ingresso dal non voto del primo turno e dalla sinistra, in una elezione che altrimenti sarebbe stata perduta per via dei passaggi diretti verso Parisi.

    Fig. 1 – Milano: Matrice dei flussi fra primo e secondo turno.

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    Venendo al secondo caso considerato, Bologna, l’analisi dei flussi mostra un quadro pericolosamente vicino a quello di Torino, piuttosto che a quello di Milano. Qui infatti le seconde preferenze del terzo incomodo, in questo caso il M5s, hanno decisamente penalizzato il centrosinistra a favore dal suo avversario. Infatti oltre la metà degli elettori di Bugani (M5s) hanno votato e hanno scelto la Borgonzoni su Merola in ragione di 4 a 1. Ciò appare particolarmente interessante alla luce della analisi sul primo turno, che mostravano come il grosso dell’elettorato di Bugani provenisse dal centrosinistra di cinque anni fa. Di fronte alla scelta fra centrodestra e centrosinistra sembrano oggi avere preferito il primo.

    Ancora più netto il risultato fra gli elettori di Bernardini (candidato ufficicale del centrodestra nel 2011 e in corsa nel 2016 con una civica di area centrista). Questi hanno votato tutti e preferito la Bergonzoni in misura di 7 a 1.

    Merola si salva grazie al buon tasso di fedeltà dei propri elettori del primo turno (90%, con nessun passaggio diretto alla rivale), e la preferenza accordatagli dal non marginale insieme degli elettori di candidati minori al primo turno. Ma soprattutto, ciò che a consentito a Merola di riuscire a vincere pur in quadro simile a quello che portato alla sconfitta Fassino a Torino, è stata la maggiore forza relativa del centrosinistra nel capoluogo emiliano, ovvero il più ampio margine di vantaggio su cui poteva contare al primo turno.

    La Borgonzoni ha invece mantenuto tutti i suoi elettori e fatto segnare anche una lieve ma significativa rimobilitazione dal non voto.

    Tab. 3 – Bologna: Destinazioni al secondo turno  degli elettorati del primo turno.

    TAB3

    La Tabella 4, che mostra la composizione percentuale in termini di bacini al primo turno degli elettorati del secondo turno, mostra come Merola sia stato comunque più capace di Fassino ma anche di Sala di pescare al di fuori dei propri voti del primo turno. Infatti, oltre un quarto dei suoi voti sono nuovi: quasi tutti in entrata dai candidati minori.

    La Bergonzoni invece ottiene il 44% dei propri voti non da suoi elettori del primo turno. Quelli in ingresso dal bacino di Bernardini sono poco più numerosi di quelli di Bugani: rispettivamente, poco meno di un quarto dell’elettorato totale della Bergonzoni al secondo turno, contro poco meno di un quinto.

    Tab. 4 – Bologna: Provenienze al primo turno degli elettorati del secondo turno.

    TAB4

    La Figura 2 riassume tutte le scelte degli elettori fra primo e secondo turno. Consente di visualizzare come la Bergonzoni abbia fatto il pieno negli elettorati di Bernardini e Bugani, mentre per Merola decisivo è stato il consenso degli elettori di altri candidati al primo turno.

    Fig. 2 – Bologna: Matrice dei flussi fra primo e secondo turno.

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    In conclusione, l’elemento più interessante emerso nei flussi nei due casi considerati riguarda gli elettori del M5s. Nella scelta al ballottaggio fra candidati di centrosinistra e centrodestra, sembrano avere preferito questi ultimi. In misura molto minore, però, di quanto non abbiano fatto gli elettori del centrodestra di fronte alla scelta fra centrosinistra e M5s (vedi Torino). In realtà, sia a Bologna che a Milano, la porzione più grande di elettori del Movimento del primo turno ha deciso di astenersi; ed anche fra quanti hanno votato, il centrosinistra ha raccolto un 20/25% dei voti, molto di più che non a Torino.
    Riferimenti bibliografici

    Cataldi, Matteo, Emanuele, Vincenzo, e Paparo, Aldo. [2012]. Elettori in movimento nelle Comunali 2011 a Milano, Torino e Napoli. Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, 67, 5–43.

    Goodman, L. A. [1953], Ecological regression and behavior of individual, «American Sociological Review», 18, pp. 663-664.

    Mannheimer, R. (a cura di) (1993), Quale mobilità elettorale? Tendenze e modelli. La discussione metodologica sui flussi elettorali, Milano, Franco Angeli.


    Nota metodologica: le analisi dei flussi elettorali qui mostrate sono state ottenute applicando il modello di Goodman corretto dall’algoritmo Ras ai risultati elettorali delle 1.248 sezioni del comune di Milano e delle 445 sezioni del comune di Bologna. Il valore dell’indice VR è pari a 3,8 nel primo caso e 1,6 nel secondo.

  • La mutazione genetica porta all’estinzione? I flussi elettorali fra primo e secondo turno a Torino

    La mutazione genetica porta all’estinzione? I flussi elettorali fra primo e secondo turno a Torino

    di Aldo Paparo e Matteo Cataldi

    La Appendino sarà quindi il nuovo sindaco di Torino. L’incumbent di centrosinistra, Fassino, è stato nettamente sconfitto, di quasi dieci punti, nonostante ne avesse più di dieci di vantaggio al primo turno.

    Chiaramente il M5s è stato premiato dalle seconde preferenze degli elettori di centrodestra, ma attraverso l’analisi dei flussi elettorali fra primo e secondo turno possiamo comprendere con esattezza come si sia determinato questo sorprendente risultato.

    In particolare, nella Tabella 1 possiamo apprezzare come entrambi i candidati in lizza al ballottaggio abbiano riportato pressoché tutti i propri elettori del primo turno. La Appendino fa segnare una lieve rimbolitazione di astenuti del primo turno. Ma a fare la differenza favore della candidata sostenuta dal M5s sono state le scelte di quanti avevano votato al primo turno candidati non giunti al ballottaggio. Di quelli di centrodestra in particolare.

    Infatti sia quanti avevano scelto il candidato centrista Rosso, sia quanti avevano votato il forzista Napoli, che quanti avevano preferito l’alfiere di Lega e Fdi (Morano) sono andati a votare, e hanno massicciamente preferito la Appendino. Per la precisone, 98% a 0 quelli di centro, 85% a 3 quelli di centrodestra, e 71% a 16 quelli di destra.

    Fassino vince solo nel più ridotto bacino degli elettori di Ariaudo (sinistra) del primo turno, peraltro con un margine più ridotto: 3 a 1. Questi elettori sono infatti quelli che più di tutti si sono astenuti.

    Tab. 1 – Torino (sindaco): Destinazioni al secondo turno  degli elettorati del primo turno.
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    Ciò significa che (come mostrato dalla Tabella 2) la Appendino ottiene poco meno di 6 voti del secondo turno su 10 da elettori che già l’avevano votata al primo, mentre i tre quarti del rimanente 40% proviene dal centrodestra, in quote pressoché identiche fra i tre candidati di tale area politica. Fassino invece è rintanato all’interno del proprio bacino elettorale del primo turno.

    Tab. 2 – Torino (sindaco): Provenienze al primo turno degli elettorati del secondo turno.
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    La Figura 1 mostra chiaramente come la banda arancione fra Fassino primo turno e ballottaggio sia più larga di quella gialla fra Appendino primo turno e ballottaggio, ma non vi siano altre apprezzabili bande rosse, mentre la Appendino raccolga rilevanti ingressi da diverse direzioni. Insomma, la strategia di penetrazione al centro perseguita dal Pd di Renzi, che pure sembrava avere pagato qualche dividendo al primo turno (seppur a fronte di un più alto dazio in termini di cessioni dello zoccolo duro di sinistra), si dimostra fallimentare al secondo turno. Almeno nel caso torinese. Gli elettori di centrodestra, infatti, hanno massicciamente scelto la Appendino, costringendo Fassino alla sconfitta.

    Fig. 1 – Torino (sindaco): Matrice dei flussi fra primo e secondo turno.

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    Riferimenti bibliografici

    Cataldi, Matteo, Emanuele, Vincenzo, e Paparo, Aldo. [2012]. Elettori in movimento nelle Comunali 2011 a Milano, Torino e Napoli. Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, 67, 5–43.

    Corbetta, P.G., A. Parisi e H.M.A. Schadee [1988], Elezioni in Italia: struttura e tipologia delle consultazioni politiche, Bologna, Il Mulino.

    De Sio, L. [2008], Elettori in movimento. Nuove tecniche di inferenze ecologica per lo studio dei flussi elettorali, Firenze, Edizioni Polistampa.


    Nota metodologica: le analisi dei flussi elettorali qui mostrate sono state ottenute applicando il modello di Goodman corretto dall’algoritmo Ras ai risultati elettorali delle 919 sezioni del comune di Torino. Il valore dell’indice VR è pari a 2,9. 

  • I risultati complessivi del primo turno

    I risultati complessivi del primo turno

    di Aldo Paparo

    Lo scorso 5 giugno oltre 9 milioni di elettori italiani sono stati chiamati alle urne per le elezioni comunali in comuni superiori ai 15.000 abitanti[1]. In queste città la competizione elettorale, certo basata nei diversi casi su elementi specifici locali, aveva un sapore “politico”. Innanzitutto per la partecipazione dei partiti nazionali (cosa che per via della lista unica a sostegno dei candidati sindaco è assai meno frequente nei comuni inferiori). E poi per la presenza di un sistema elettorale molto simile a quello recentemente approvato per la Camera dei Deputati. Come nell’Italicum, infatti, nei comuni chi vince conquista la maggioranza dell’assemblea legislativa, e si procede ad un ballottaggio se nessuno vince già al primo turno. La principale differenza riguarda la soglia minima di voti per vincere già al primo turno: la maggioranza assoluta alle comunali, il 40% per l’Italicum. In questo senso, importanti indicazioni circa le seconde preferenze degli elettori dei vari partiti, e quindi come potrebbero comportarsi in un eventuale ballottaggio nazionale per il governo del paese, potranno venire dai risultati delle contese al secondo turno. In attesa di questo, però, qui ci concentriamo sull’altro aspetto di interesse nazionale: i risultati complessivi di partiti e coalizioni in questo importante insieme di comuni.

    Prima di entrare nel dettaglio di come siano andate le cose in queste comunali, è opportuno inquadrare bene l’insieme di riferimento, per poi potere correttamente interpretare i risultati che si sono riscontrati.  Importante sottolineare come questi non siano un campione rappresentativo dei comuni italiani, e come quindi i risultati osservati non possano essere immediatamente considerati come una stima della percentuale che i diversi partiti otterrebbero se si votasse oggi. Allo stesso modo, però, possono contenere interessanti indicazioni circa lo stato di salute elettorale dei diversi partiti, se correttamente interpretati.

    Innanzitutto, come è evidente, questo insieme non contiene nessun centro con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti. Per cui sono inevitabilmente penalizzati quei partiti che vanno meglio in tali contesti, mentre al contrario sono sovrarappresentati i partiti più urbani. In questo senso, il partito relativamente più forte nei piccoli comuni, e quindi maggiormente penalizzato nel nostro aggregato, è la Lega Nord. (Emanuele 2013a; Emanuele 2013b). Si consideri peraltro che oltre il 40% degli elettori italiani risiede in comuni inferiori ai 15.000 abitanti, per cui si tratta evidentemente di una porzione importante dell’elettorato. Inoltre, nell’insieme considerato sono particolarmente pesanti i grandi centri urbani, in cui è relativamente più forte il Pd.

    Occorre poi sottolineare come, anche da un punto di vista geografico, l’insieme dei comuni di riferimento non sia rappresentativo dell’Italia tutta. Infatti, dei 132 comuni considerati, oltre la metà (73) si trovano nelle regioni meridionali, che hanno meno del 40% dei comuni italiani nel complesso. Anche guardando non al numero di comuni, ma agli elettori, il Sud pesa il 46% circa dell’elettorato italiano, ma quasi il 60% di quello dei 132 comuni superiori considerati. Quindi, i partiti relativamente più forti nelle regioni meridionali ottengono in questo insieme risultati migliori che non nell’Italia tutta, mentre il contrario vale per i partiti particolarmente forti al nord. Questo è una questione relativamente importante per i due principali partiti italiani: M5s e Pd, i cui risultati elettorali al Sud sono stati in rispettivamente superiori ed inferiori a quelli nazionali sia alle politiche 2013 che alle europee 2014 (De Sio and Cataldi 2014; Maggini 2014a). Ancora più rilevante appare questo elemento nell’analisi delle due principali forze di centrodestra: la Lega e Forza Italia. Il partito di Berlusconi si è andato sempre più meridionalizzando dalla sua nascita nel 1994 (Paparo 2012; Maggini 2014b). Al contrario, la Lega non è ancora riuscita a penetrare nel Sud. Così, sia nel 2013 che nel 2014 il Carroccio valeva al Sud fra i 4 e i 5 punti meno che nel paese, mentre il partito del Cavaliere andava 4-5 punti meglio al Sud che nell’Italia intera.

    La Tabella 1 mostra i risultati complessivi registrati nelle più recenti consultazioni nell’insieme di questi 132 comuni. Possiamo osservare come in il M5s vi abbia raccolto risultati sostanzialmente in linea con quelli del paese nel suo complesso sia alle politiche che alle europee, mentre il Pd abbia fatto registrare in entrambi i casi un risultato leggermente migliore di quello nazionale (crescita di 5-6 punti percentuali). Anche i partiti alla sinistra del Pd sono più forti in questi comuni che non nel resto del paese: circa un 20% in più sia alle politiche che alle europee. Guardando a centrodestra, sia il Pdl nel 2013 che Fi nel 2014 sono in questi comuni leggermente meno votati che nel complesso del paese, mentre la Lega ottiene nelle due occasioni risultati inferiori del 40-45% rispetto a quelli nazionali. A destra, solo Fdi è sovrarappresentato nei 132: circa un 10% in più del risultato nazionale in entrambe le consultazioni considerate. Riassumendo, possiamo dire che i comuni considerati rappresentano un insieme neutro per il M5s, favorevole al centrosinistra (e alla sinistra in particolare), e sfavorevole al centrodestra (e alla Lega in particolare). Come peraltro mostrato chiaramente dalla porzione inferiore della Tabella 1: Bersani ha vinto oltre 4 punti e mezzo su Berlusconi nel 2013 (invece che meno di mezzo), con una crescita di due punti per la sua coalizione e una simmetrica flessione del centrodestra.  Il M5s è invece perfettamente in linea con il risultato nazionale.

    Adesso che abbiamo inquadrato l’insieme di riferimento, possiamo discuterne i risultati osservati nei primo turno di queste elezioni comunali. Iniziando dalla Tabella 1, che riporta il risultato complessivo nei comuni considerati, possiamo notare come il Pd sia ancora il primo partito, anche se con il 18,8% è in calo di quasi 4 punti rispetto alle precedenti comunali negli stessi comuni[2]. Naturalmente la flessione è ancora più rilevante se il confronto è fatto con le politiche o le europee, ma sarebbe un confronto falsato dalla presenza, nelle comunali, di candidati civici, e liste civiche di area che sgonfiano i risultati dei partiti. Però, il confronto con le precedenti elezioni omologhe, le comunali, è del tutto appropriato e il dato incontrovertibile. Certo, è parzialmente compensato dall’avanzata delle liste minori a sostegno di candidati targati Pd, che crescono di oltre 3 punti, ma anche al netto di questo la flessione rimane.

    In ogni caso, quando si svolsero le precedenti comunali, ci si trovava ancora quasi dappertutto in una situazione bipolare e pochi voti erano raccolti dal M5s[3]. In questo senso, un certo calo per i due principali partiti era inevitabile. Ben più pesante è il calo di Fi. Certo cinque anni fa c’era ancora il Pdl, ma l’arretramento comunali su comunali è superiore ai 10 punti. Anche considerando le liste minori a sostegno, il quadro non migliora. Anzi, sono anch’esse in calo, di circa un punto. Il marchio Forza Italia si è fermato al 7,2% del totale dei voti validi proporzionali dei 132 comuni (anche includendo le liste civiche Forza “Comune” nelle diverse città chiaramente riconducibili a Fi per via del simbolo). In pratica, partito di Berlusconi si è salvato solo a Milano (dove ha preso il 20%, oltre un quarto dei suoi voti totali).  Anche considerando la sottorapresentazione di Fi nei 132 comuni, il dato fatto registrare proietta la lista al di sotto dell’8% nazionale.

    Il M5s si è fermato al secondo posto nell’aggregato complessivo dei 132 comuni considerati, con il 17,4%. Ha più che triplicato in valore assoluto i voti delle comunali precedenti. Fa registrare un calo rispetto alle politiche identico a quello del Pd (-30%), mentre è molto più modesto del Pd rispetto alle europee (-22% contro -56%). Occorre in ogni caso sottolineare come i cali che si osservano siano dovuto alla non costante presenza del simbolo M5s alle comunali (manca in 25 comuni su 132) rispetto a politiche ed europee. Non possiamo sapere quanti voti avrebbero raccolto targati Movimento in questi comuni, ma è comunque un elemento da evidenziare. Inoltre, è opportuno sottolineare immediatamente il dato dei candidati del Movimento al maggioritario. Come si può osservare nella parte inferiore della Tabella 1, hanno ottenuto il 18,4% del più alto totale dei voti validi in tale arena. Come sempre, vi sono più voti al maggioritario che al proporzionale per via dei voti espressi al solo sindaco. La novità sta nel fatto che i candidati vadano meglio del simbolo. Certo la nuova scheda può aver favorito questo, ma in ogni caso è una ulteriore riprova della solidità elettorale raggiunta dal M5s.

    Guardando agli altri partiti, la Lega è cresciuta di 1 punto percentuale, aumentando i propri voti di oltre 40.000 unità. Il 5,2% fatto segnare, che somma anche i voti ottenuti dalle liste “Noi con Salvini”, non è certo particolarmente lusinghiero. Se però si considera come la Lega sia strutturalmente sfavorita in questo insieme di comuni, il quadro migliora decisamente. Applicando uno swing analogo a quello registrato nei 132 comuni rispetto all’Italia nelle politiche e nelle europee, la proiezione nazionale della Lega si aggira intorno al 9% (al di sopra quindi di Forza Italia), in elezioni in cui i partiti nazionali raccolgono meno di quanto non facciano alle politiche, e nonostante la Lega non fosse presente in molti comuni (55 sui 132). Molto buono anche il risultato di Fdi, che passa dall’1,3% delle precedenti comunali, al 4,6% in queste. Risulta in crescita sia rispetto alle politiche (2,2%), che alle europee (4,0%). Anche scontando il risultato puntuale registrato nei 132 comuni con uno swing analogo a quello delle due precedenti elezioni nazionali, la stima nazionale per il partito guidato da Giorgia Meloni è qualche punto percentuale superiore al 4%. Occorre però evidenziare come oltre il 55% dei voti complessivi raccolti dalle liste di Fdi provenga da Roma, dove la leader era in campo in prima persona. D’altro canto, però, occorre rilevare come il simbolo di Fdi fosse presente solo il 72 dei 132 comuni. Molto buono appare anche il risultato delle liste di sinistra alternative al Pd, che in totale hanno raccolto oltre il 10% dei voti (10,1). Un’analisi più attenta suggerisce però maggiore prudenza. Innanzitutto, l’immediato confronto con i risultati ottenuti dalle stesse liste (quelle di sinistra alternative al Pd, a prescindere, evidentemente, dai nomi) nelle precedenti comunali segnala come il 10,1% sia un arretramento di due punti e mezzo, pari a un -20%. Inoltre, il 30% dei 510.000 voti proporzionali raccolti dalle liste di sinistra provengono dalla coalizione di De Magistris a Napoli. Cinque anni fa, solo il 10% dei voti di sinistra erano a Napoli. Infine, occorre tenere a mente come sia alle politiche che alle europee, le liste di sinistra siano andate meglio nei 132 che on in Italia. Applicando uno swing per correggere ciò, la stima nazionale per l’universo alla sinistra del Pd si aggira intorno all’8%, che però qui include tutte le liste minori senza i simboli dei partiti ma a sostegno dei candidati di sinistra (contrariamente a quanto avviene con Pd, Fi, Lega, Ncd e Fdi). Molto magro, infine, il risultato del Ncd. Spesso sotto le insegne civiche “Città” Popolare, ha raccolto appena il 2% dei voti. Certo era presente in soli 62 comuni, ma il calo è davvero notevole: ha sostanzialmente dimezzato i voti della sola Udc alle precedenti comunali.

    Guardando alla parte inferiore della tabella possiamo analizzare i risultati al maggioritario. Possiamo vedere come i candidati sostenuti dal Pd, a prescindere dalla specifica coalizione a sostegno, hanno ottenuto la maggioranza relativa dei voti, raccogliendo poco meno di un terzo dei voti totali (32,2%). Si tratta di un calo di circa 8 punti rispetto al bipolare scenario delle precedenti comunali, e di addirittura 10 punti rispetto al risultato del partito di Renzi alle europee in questi 132 comuni. Però, è in leggera crescita rispetto alla coalizione di Bersani delle politiche, e soprattutto è di gran lunga il miglior risultato, con oltre 10 punti di vantaggio sui candidati sostenuti da Forza Italia e quasi 14 su quelli targati M5s. Questo dimostra chiaramente come il Pd sia l’attore maggiormente in grado di coagulare attorno a sé coalizioni grandi. Non a caso, è nettamente il più presente ai ballottaggi (D’Alimonte 2016). D’altronde però, alle comunali, come alle prossime politiche, un terzo dei voti basta per accedere con certezza al ballottaggio. Per vincere le elezioni è poi necessario essere competitivi per le seconde preferenze di quanti non arrivano al ballottaggio.

    Come accennato, dunque, al secondo posto per maggior numero di voti maggioritari raccolti ci sono i candidati appoggiati, di nuovo a prescindere dai particolari alleati, da Forza Italia. Hanno raccolto il 21,4%, con un calo di oltre 10 punti rispetto alle comunali precedenti. Occorre poi sottolineare nuovamente come, in ogni caso, questi dati siano influenzati dal numero di comuni in cui i candidati dei diversi schieramenti erano assenti. Mentre alle comunali precedenti centrodestra e centrosinistra erano presenti dappertutto, quest’anno è così per la coalizione del Pd, mentre il centrodestra manca in 16 comuni su 132.

    Candidati del M5s hanno raccolto, come detto sopra, il 18,4% dei voti maggioritari, nei soli 107 comuni in cui presenti. Si tratta ovviamente di una vera esplosione rispetto alle comunali precedenti, quando ancora però il M5s era agli albori. Occorre però evidenziare come, al di là degli ottimi risultati di Roma e Torino, i candidati targati Movimento, pur ottenendo percentuali anche lusinghiere, siano spesso costretti ad accontentarsi delle posizioni di rincalzo, che non valgono il ballottaggio.

    Candidati di sinistra alternativi al Pd e di destra alternativi a Fi ottengono risultati curiosamente simili, entrambi poco al di sopra dell’8%. Alcune considerazioni analoghe possono essere articolate. In entrambi i casi si registra una sostanziale avanzata rispetto a cinque anni fa. Per entrambi, poi, il risultato è trascinato da un candidato in particolare: il risultato della Meloni a Roma vale il 60% di tutta la destra, mentre quello di De Magistris a Napoli il 37% della sinistra. Infine, in entrambi i casi, però, l’ambizione di potere essere competitivi contro l’ingombrante vicino di area politica è stata frustrata dai risultati di queste comunali. Vi sono poi alcune fondamentali differenze. Lega e/o Fdi hanno spesso corso insieme a Forza Italia, non così invece i partiti di sinistra. Per i primi, il tentativo di smarcarsi da Berlusconi va certamente rivisto, e in questo senso il risultato di Roma è emblematico, ma la dimostrazione di salute delle liste è innegabile, specie se confrontata con quella di Fi.

    Ben diverso il quadro per la sinistra. Cinque anni fa era l’epoca della foto di Vasto e del centrosinistra compatto che vinceva ovunque. Solo Napoli fu una nota stonata. Quest’anno la situazione era completamente diversa. A guidare il Pd non c’è più Bersani, ma Renzi, il Pd ha perso pezzi alla propria sinistra, e nei contesti locali le alleanze si fanno con Verdini. Candidati di sinistra alternativi al Pd erano presenti praticamente ovunque. Eppure De Magistris passa dal pesare il 39% cinque anni fa al 37% di oggi: come se nel frattempo non fosse nata una sinistra nazionale alternativa al Pd e a Renzi che presenta i propri candidati ovunque, da Fassina, ad Ariaudo, da Rizzo, a Bernardini. Certo, De Magistris ha fatto meglio di cinque anni fa, e quindi il risultato della sinistra, che pesa sempre due volte e mezzo circa un numero maggiore è necessariamente in crescita: di circa 3 punti. Ma, tutto sommato, probabilmente, un po’ poco.

    Pressoché nullo il centro: candidati sostenuti da Area Popolare, contro sia il Pd che Fi hanno raccolto appena il 2,2% dei voti. Il calo è impressionante, specie se a confronto con le precedenti comunali e le politiche 2013, quando il Terzo Polo segnava discreti successi. Oggi è ridotto al ruolo di comparsa, schiacciato fra la strategia centrista del Pd, l’esplosione dell’offerta nel centrodestra, e l’avanzata del M5s.

    Un ultimo elemento merita di essere evidenziato: quasi mezzo milione di voti, l’8,9%, è andato a candidati civici, non sostenuti da alcun partito, né riconducibili ad alcun partito sotto mentite spoglie. Alle comunali il successo delle candidature civiche nasce con la riforma Ciaffi stessa, ma comunque è una crescita di quasi tre punti rispetto alle precedenti comunali, nonostante la prorompente crescita del partito che ha nel mettere i cittadini dentro le istituzioni la propria ragione sociale – il M5s.

    Tab. 1– I risultati complessivi nei comuni superiori.
    ita

    Possiamo adesso vedere il risultato disaggregato per zona geopolitica (Tabb. 2-4). Il Pd è primo partito sia nella Zona Rossa (30,5%) che al Nord (25%), come già alle comunali precedenti, anche se perde in entrambi i casi circa il 10% del proprio risultato. Perde molto di più al Sud, dove passa dal 18,1% al 13,7%, e cede il primato al M5s, che ha raccolto il 19% dei voti, contro il 5% di cinque anni fa. Nella Zona Rossa, però, il Movimento cresce poco: meno di 3 punti, passando dal 7,6% al 10,5%. Qui è addirittura terza forza, superato anche dalla Lega Nord, che raggiunge il 10,6% dei voti. Non era così cinque anni fa, quando pure la Lega avanzò molto al sud del Po, ma si era fermata al 7,2%. In pratica, oggi il risultato della Lega al Nord equivale a quello della Zona Rossa (sempre tenendo presente che non sono considerati i comuni più piccoli). Per il Carroccio, però, è ancora rimandata la penetrazione al Sud. Le liste Noi con Salvini hanno raccolto appena l’1,4% dei voti meridionali, con una crescita di appena lo 0,3% rispetto alle europee. Forza Italia si salva a Nord, dove trascinata dal risultato di Milano, si attesta all’11,7% ed e avanti alla Lega; ma si ferma attorno al 5% sia nella Zona Rossa (dove è quindi doppiata dal Carroccio) che al Sud (dove è superata da Fdi).

    Guardando ai risultati delle coalizioni al maggioritario, il centrosinistra è ovunque l’opzione più votata, anche se con risultati assai differenziati. Superiore al 40% nella Zona Rossa, il 37,1% al Nord, e meno del 30% al Sud. I cali, invece, sono piuttosto omogenei: compresi fra i 6 e gli 8 punti. Nei primi due casi al secondo posto troviamo i candidati sostenuti da Forza Italia, con il 28,5% e il 25,3% rispettivamente, che significa un calo di appena il 15% del risultato del centrodestra 2011. Al Sud, invece, il secondo posto è conquistato dai candidati del M5s, che raccolgono il 20,5% dei voti maggioritari, mentre il centrodestra (che dimezza i propri voti fermandosi al 17,3%) paga le più frequenti spaccature con la destra (i cui candidati raccolgono l’11,1%, contro lo 0,2% di cinque anni fa). La sinistra fa registrare ovunque una crescita di due-tre punti al maggioritario, ma le liste sono ovunque in flessione, per cui il dato del maggioritario è solo il frutto della crescita del numero dei candidati alternativi al Pd presenti oggi rispetto a cinque anni fa.

    Tab. 2– I risultati nei 41 comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti del Nord.
    nord

    Tab. 3– I risultati nei 18 comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti della Zona Rossa.
    zonarossa

    Tab. 4– I risultati nei 73 con popolazione superiore ai 15.000 abitanti superiori del Sud.
    sud

    Veniamo infine all’analisi per classe demografica di popolosità dei comuni. Abbiamo costruito tre insiemi, quello dei comuni (superiori ai 15.000 abitanti) più piccolo, con popolazione fino alle 49.999 unità; quello dei comuni medi, con popolazione compresa fra 50.000 e 249.999 abitanti e infine i comuni con almeno ai 250.000 abitanti. Cominciamo dai comuni più piccoli (Tab. 5), che sono quelli numericamente più numerosi: 102 su 132, oltre i tre quarti, anche se pesano un quarto degli elettori totali. Balza immediatamente agli occhi come il risultato più alto sia fatto registrare dalle liste a sostegno di candidati minori e civici: oltre un voto su sei, il 17,1%: quasi il doppio delle precedenti comunali. Al secondo posto con il 15,7% le liste non partitiche a sostegno di candidati di centrosinistra, oltre sei punti in più di cinque anni fa. Solo terzo il Pd, che si ferma al 14,8%, in calo di oltre due punti dalle precedenti comunali. Al quarto posto le liste “minori” a sostegno di candidati appoggiati anche da Forza Italia, che valgono il 13%. Insomma, nei comuni più piccoli si assiste ad un vero e proprio sparpaglio, con i partiti nazionali relegati al ruolo di comparse. Il M5s arriva a fatica in doppia cifra (10,7%), comunque in crescita di quasi 8 punti dal 2011 – e ancora meglio fanno i candidati al maggioritario. Forza Italia perde 8 punti e mezzo e si ferma al 5,5%. La Lega e Fdi si attestano al 4,7% e 1,9%, in crescita di un punto e un punto e mezzo rispettivamente. Sostanzialmente invariato il risultato delle liste della sinistra radicale, perdono i due terzi dei voti (4 punti) le altre liste di sinistra (Psi, Idv e Verdi). Altri 4 punti (e di nuovo di due terzi dei voti) li perde Area Popolare nel confronto col l’Udc 2011. Guardando infine ai poli, la sinistra è in lieve flessione, il centrosinistra perde quattro punti, cinque il centro, e sette e mezzo il centrodestra, a tutto vantaggio del M5s (+9 punti) e candidati civici o minori (+6 punti e mezzo).

    Tab. 5– I risultati nei 102 comuni con popolazione fra 15.000 e 49.999 unità.
    piccoli

    Venendo ai 25 comuni della classe demografica centrale (Tab. 6), che valgono il 20% degli elettori totali dei 132 comuni, osserviamo innanzitutto una conferma della generale frantumazione del voto in queste elezioni amministrative, anche se a livelli assoluti più contenuti rispetto ai comuni più piccoli. Il Pd perde due punti, ma è pur sempre primo con il 17,1%, mentre le liste minori a sostengo dei suoi candidati avanzano di sei punti (17,7%). Forza Italia perde oltre 11 punti, e si ferma al 7%, con le liste minori in linea al 12,7%. Il M5s avanza di 5 punti, supera Forza Italia e raggiunge l’8%. Le liste civiche o minori si fermano qui poco al di sotto del 12%, comunque quasi raddoppiando il proprio consenso di cinque anni fa. La Lega e Fdi sono entrambi in crescita, di un punto il Carroccio (6,1%), mentre il partito della Meloni era pressoché inesistente in questi comuni cinque anni fa e sfiora oggi il 3%. Comunque l’area di destra al maggioritario vale appena il 5%, quindi il centrodestra è stato unito nella maggioranza di questi comuni: infatti fanno segnare un buon 27,2%, che rappresenta pur sempre un calo di 7 punti dalle comunali precedenti. La coalizione più votata è ancora quella del centrosinistra a guida Pd, che, seppur in calo di 4 punti e mezzo, ha raccolto il 37,4% dei voti maggioritari. Interessante rilevare come qui sia particolarmente marcata la distanza fra risultato ai proporzionale e al maggioritario del M5s: oltre un punto e mezzo, che vale una crescita del 20% a favore dell’arena dei candidati sindaco.

    Tab. 6– I risultati nei 25 comuni con popolazione fra 50.000 e 249.999 unità.
    medi

    Nella Tabella 7 sono infine riportati i risultati registrati nell’aggregato costituito dai 5 comuni più popolosi: Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna. Da soli contano per oltre la metà dei 132 comuni qui analizzati. In questi comuni la competizione è assai più simile a quella che si avrebbe in caso di elezioni politiche. Le liste a sostegno di candidati minori raccolgono appena il 3%, e i principali partiti di centrodestra e centrosinistra sono capaci di veicolare sui propri simboli la maggior parte dei voti delle rispettive aree.  Il M5s è il primo partito di questo aggregato, con un quarto dei voti, e una crescita che è esponenziale rispetto alle precedenti comunali, ma che si evidenzia anche nel confronto con le politiche e le europee. Fra tutti gli insiemi qui riportati, questo è l’unico in cui il M5s è presente in ognuno dei suoi casi, e fa segnare dei segni positivi rispetto a tutti i possibili confronti. Certo, su un insieme costituito da 5 casi le specificità locali possono avere una maggiore influenza, ma il dato merita di essere sottolineato. Al secondo posto si attesta il Pd, con il 21,6%, in calo di circa 6 punti rispetto alle comunali precedenti (e con le liste minori a sostegno sostanzialmente in linea). Le coalizioni targate Pd mantengono comunque il primato nell’arena maggioritaria, con il 30,8% dei voti, anche se in calo di 12 punti dal 2011. Il centrodestra è qui solo il terzo polo maggioritario, dietro anche al M5s: certo la spaccatura di Roma gioca un ruolo decisivo in questo dato, e sommando i risultati di centrodestra (Fi) e destra (Lega e/o Fdi), l’area moderata sarebbe più vicina al risultato del centrosinistra che a quello del M5s, ma tant’è. La lista Fi perde oltre 13 punti e si ferma all’8,3% dei voti. I suoi rivali di area politica sono invece tutti e due in crescita: la Lega di un punto, si ferma al 5%, mentre Fdi triplica i propri voti e si attesta al 6,6% L’area di destra alternativa a Fi è in doppia cifra al maggioritario (10,9%), mentre non esisteva cinque anni fa quando il centrodestra era sempre stato unito. In doppia cifra anche la sinistra alternativa al Pd (10,5%), che raddoppia i propri voti maggioritari. Ma questo dipende dall’offerta: cinque anni fa la sinistra era praticamente solo De Magistris a Napoli, altrove era nel centrosinistra col Pd. Oggi invece si è presentata dappertutto. In realtà, se guardiamo al risultato delle liste si registra una lieve flessione. Svuotato il centro, che ha perso 200 dei suoi 240.000 voti di cinque anni fa.

    Tab. 7– I risultati nei comuni con almeno 250.000 abitanti.
    grandi

    Riassumendo i risultati qui presentati, possiamo evidenziare come il Pd si sia confermato ancora il partito più votato al proporzionale, così come i suoi candidati sono stati i più votati al maggioritario. In entrambi i casi si segnala però una rilevante flessione rispetto alle comunali precedenti, che si erano però svolte in epoca di bipolarismo. Il M5s è secondo partito, anche per via del fatto che non si è presentato in un quinto circa dei comuni superiori considerati. Il centrodestra targato Forza Italia è però ancora, con i propri candidati, il secondo polo. Questo è vero, oltre nell’aggregato complessivo, sia nel Nord che nella Zona Rossa. Al Sud il quadro è diverso. Il M5s è il qui primo partito e i suoi candidati sono i secondi più votati. Guardando alla sfida interna al centrodestra, Forza Italia si conferma il primo partito, grazie però soprattutto allo non rappresentatività dell’insieme dei 132 comuni, ed è comunque in calo drastico anche rispetto alle europee, viene doppiata dalla Lega nella Zona Rossa e superata da Fdi al Sud. La sinistra alternativa al Pd ha raccolto solo una porzione marginale dei voti in uscita dal centrosinistra “governativo”. Il centro è pressoché scomparso, mentre si segnala la continua crescita delle candidature civiche.

    Riferimenti bibliografici

    De Sio, Lorenzo, and Matteo Cataldi. 2014. “Tanto Tuonò Che Piovve: Il Risultato Delle Elezioni.” In Terremoto Elettorale. Le Elezioni Politiche Del 2013, 97–128. Bologna: Il Mulino.

    Emanuele, Vincenzo. 2013a. “Il Voto Ai Partiti Nei Comuni: La Lega È Rintanata Nei Piccoli Centri, Nelle Grandi Città Vince Il Pd.” De Sio, L., Cataldi, M., and De Lucia, F.[2013], Le Elezioni Politiche. /cise/wp-content/uploads/2013/05/DCISE4_83-88.pdf.

    ———. 2013b. “Il Voto Alle Coalizioni Nei Comuni: Sotto I 50.000 Abitanti Berlusconi È Davanti, Bersani Vince Grazie Alle Città.” De Sio, L. Cataldi, M. E De Lucia, F.[2013], Le Elezioni Politiche. /cise/wp-content/uploads/2013/05/DCISE4_77-82.pdf.

    Maggini, Nicola. 2014a. “I Risultati Elettorali: Il Pd Dalla Vocazione All’affermazione Maggioritaria.” In Le Elezioni Europee 2014, edited by Lorenzo De Sio, Vincenzo Emanuele, and Nicola Maggini, 115–24. Dossier CISE 6. Roma: Centro Italiano di Studi Elettorali. /cise/download/CISE006_2014_6_tablet.pdf#page=115.

    ———. 2014b. “Il Rendimento Del Pd E Del Pdl Nei Comuni Superiori.” In Le Elezioni Comunali 2013, edited by Aldo Paparo and Matteo Cataldi. Vol. 5. Dossier CISE. Roma: Centro Italiano di Studi Elettorali.

    Paparo, Aldo. 2012. “Il Risultato Finale Nei 157 Comuni Superiori Al Voto.” In Le Elezioni Comunali 2012, edited by Lorenzo De Sio and Aldo Paparo. Vol. 1. Dossier CISE. /cise/wp-content/uploads/2012/07/DCISE1_142-143.pdf.


    NOTA: Nella parte superiore di ciascuna tabella sono presentati i risultati al proporzionale.
    Altri sinistra è formato da Idv, Verdi, Psi e liste minore alleate di queste.
    Altri centro è formato da Fli, Sc, Api, Adc, Dc, Udeur e liste minore alleate di queste o di Udc o Ncd.
    Altri centrodestra è formato da Gs (e le sue componenti Fsud, Io Sud e Noi Sud), Mpa e liste minori alleate loro o di Fi (o Pdl).
    Altri destra è formato da La destra e liste minori alleate con essa o con Fdi o Lega.

    Nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari (per le comunali).
    Sinistra è la somma dei risultati ottenuti da candidati (comunali) o partiti (politiche ed europee) di sinistra ma non in coalizione con il Pd.
    Il Centro-sinistra somma candidati (comunali) del Pd o le coalizioni (politiche ed europee) con il Pd.
    Il Centro è formato da candidati (comunali) o coalizioni (politiche ed europee) sostenuti o contenenti almeno uno fra Udc, Ncd, Fli, Sc, Dc, Adc, Api, Uderur.
    Il Centro-destra somma candidati (comunali) sostenuti da Fi (o Pdl)  o coalizioni (politiche ed europee) contenenti Fi (o Pdl).
    La Destra è la somma di candidati (comunali) sostenuti da  Lega, Fdi o La Destra o coalizioni (politiche ed europee) contenenti almeno uno di questi.

    Criteri per l’assegnazione di un candidati a un polo:
    se un candidato è sostenuto dal Pd o dal Pdl (o Fi) è attribuito al centro-sinistra e al centro-destra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno.
    Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico.
    Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico.
    Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo Pd e Pdl che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).


    [1] Per opportunità della comparazione, le nostre analisi si concentrano sui comuni che superiori ai 15.000 abitanti lo erano anche in occasione delle precedenti elezioni comunali. Si tratta di 132 unità. Non sono quindi considerati 6 comuni siciliani con popolazione fra 10 e 15.000 unità, e 11 comuni superiori ai 15.000 in queste elezioni, ma inferiori in occasione delle precedenti elezioni comunali.

    [2] Interessante rilevare come tale primato derivi esclusivamente dalla non presenza del M5s in alcuni comuni. Infatti, considerando solo l’insieme dei 107 comuni in cui il M5s era presente, è questo il primo partito con il 19,9% contro il 19,1% del Pd. Escludendo anche i casi in cui è il Pd a non essere presente, e concentrandosi sui 103 comuni in cui entrambi i principali partiti avevano presentato il proprio simbolo, il M5s è primo con il 20,1% contro il 19,3% del Pd.

    [3] Nella maggioranza dei comuni (103 casi su 132) le precedenti consultazioni comunali si sono svolte nel 2011. Non così, ad esempio, a Roma dove si tennero nel 2013 e il M5s fu già protagonista.

  • L’avanzata prorompente di un nuovo leader? L’analisi dei flussi a Napoli

    L’avanzata prorompente di un nuovo leader? L’analisi dei flussi a Napoli

    di Aldo Paparo e Matteo Cataldi 

    Cinque anni fa le elezioni comunali a Napoli videro numerose sorprese. Al primo turno la più grande riguardò il candidato del Pd, Morcone, che non riuscì ad entrare al ballottaggio. Venne scavalcato da De Magistris, che poi al ballottaggio riuscì a rimontare un distacco molto notevole dall’alfiere del centrodestra, Lettieri, conquistando a sorpresa il mandato da sindaco.

    Cinque anni dopo, il sindaco uscente raddoppia in pratica il proprio risultato del primo turno, e va al ballottaggio in testa contro lo stesso rivale di allora, Lettieri, ancora candidato dal centrodestra, ma molto in calo rispetto al 2011. Di nuovo fuori dal ballottaggio il centrosinistra targato Pd: un risultato davvero poco lusinghiero per una forza che ha amministrato la città per i primi venti anni della Seconda Repubblica.

    Ma come si è determinato questo risultato? Da dove nasce l’avanzata di De Magistris? Per rispondere a queste domande possiamo guardare alle tabelle sotto riportate che mostrano i flussi elettorali fra comunali 2011 e 2016. Iniziando dalla Tabella 1, che mostra le destinazioni al 2016 dei bacini 2011, De Magistris è il candidato che ha mantenuto la quota più alta dei suoi elettori del primo turno di cinque anni fa – anche se uno su tre lo ha abbandonato. Dopodichè, è anche quello che pesca di più nei bacini altrui: un quarto dei voti dei candidati di centrosinistra e centro di allora, anche un 7% di quelli di Lettieri 2011 e degli astenuti.

    Anche il M5s pesca un po’ da tutti, ma in misura assai inferiore: meno di uno su dieci degli elettori di De Magistris, Pasquino (centro) e candidati minori; uno su 20 degli elettori dei due ex grandi poli. La Valente conferma meno di un terzo dei voti di Morcone, cede non solo verso De Magistris un quarto dei voti della sua area, ma vi è anche un flusso significativo verso Lettieri (10%). Questi mantiene appena il 30% dei suoi voti 2011, mentre il 44% ha disertato le urne. Si tratta di una percentuale davvero molto alta. D’altronde questo bacino elettorale aveva mostrato già nel secondo turno del 2011 di non essere molto fedeli alle urne.

    Tabella 1 – Napoli (sindaco): Destinazioni 2016 degli elettorati 2011 (primo turno)

    dest

    Ciò significa appena la metà dei voti di De Magistris proviene (Tab.2) dal bacino dei suoi voti del primo turno di cinque anni fa, mentre fette rilevanti provengono da tutti gli altri bacini.

    Tabella 2 – Napoli (sindaco): Provenienze 2011 degli elettorati 2016 (primo turno)

    prov

    La configurazione complessiva dei movimenti di elettori può infine visualizzata sinteticamente in una rappresentazione grafica innovativa (sotto forma di mappe circolari, frequentemente usate in genetica per la rappresentazione del genoma) in cui i flussi di voto sotto forma di vere e proprie “correnti” che vanno da un partito all’altro tra due diverse elezioni.

    Il diagramma non è facile alla lettura, ma una volta compreso il meccanismo è in verità piuttosto immediato.

    circos-napoli

     

    Il diagramma permette di osservare chiaramente che:

    1. Il flusso di gran lunga più grande (bianco quasi trasparente) è dal “non voto” 2011 al “non voto” 2016;
    2. Il grande flusso (anch’esso bianco quasi trasparente) che va da Lettieri 2011 alla astensione (Non Voto) 2016;
    3. Il frazionamento dell’elettorato di centrosinistra, che si divide fra Valente, Lettieri e non voto;
    4. Infine, i molti flussi verdi in entrata da tutte le direzioni verso De Magistris 2016.
    Riferimenti bibliografici

    Cataldi, Matteo, Emanuele, Vincenzo, e Paparo, Aldo. [2012]. Elettori in movimento nelle Comunali 2011 a Milano, Torino e Napoli. Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, 67, 5–43.

    Corbetta, P.G., e H.M.A. Schadee [1984], Metodi e modelli di analisi dei dati elettorali, Bologna, Il Mulino.

    Corbetta, P.G., A. Parisi e H.M.A. Schadee [1988], Elezioni in Italia: struttura e tipologia delle consultazioni politiche, Bologna, Il Mulino.

    De Sio, L. [2008], Elettori in movimento. Nuove tecniche di inferenze ecologica per lo studio dei flussi elettorali, Firenze, Edizioni Polistampa.

    De Sio, L. [2009], Oltre il modello di Goodman. La stima dei flussi elettorali in base a dati aggregati, «Polena», vol. 6, 1, pp. 9-35.

    De Sio, L. [2011] I flussi di voto nel ballottaggio di Napoli: De Magistris prende voti a tutti, anche a Lettieri, /cise/2011/05/30/i-flussi-di-voto-nel-ballottaggio-di-napoli-de-magistris-prende-voti-a-tutti-anche-a-lettieri/.

    Emanuele, V. [2011] Napoli, De Magistris trionfa in tutte le zone, Lettieri paga l’astensione nelle periferie, /cise/2011/05/31/napoli-de-magistris-trionfa-in-tutte-le-zone-lettieri-paga-l%E2%80%99astensione-nelle-periferie/.

    Emanuele, V. [2011] Napoli verso il ballottaggio, il voto nelle municipalità, /cise/2011/05/29/napoli-verso-il-ballottaggio-il-voto-nelle-municipalita/.

  • Regionali 2015: le sette regioni sono rappresentative dell’Italia intera?

    Regionali 2015: le sette regioni sono rappresentative dell’Italia intera?

    di Aldo Paparo

    Queste elezioni regionali hanno coinvolto in tutto sette regioni, dunque circa un terzo delle venti totali. Due di queste si trovano nel nord del paese, ben 3 sono della Zona Rossa (sulla quattro che in tutto la costituiscono); infine due sono le regioni meridionali. Sono stati complessivamente coinvolti per le regionali – tralasciando quindi gli elettori chiamati alle urne solo per le comunali fuori da queste regioni – quasi 19 milioni di elettori.

    Naturalmente è molto forte la tentazione di ricavare dai risultati delle sette regioni interessate risultati “nazionali” per i diversi partiti, sfruttando così queste regionali per scattare una fotografia dei rapporti di forza nazionali fra partiti e coalizioni. Per potere procedere in questa direzione è necessario verificare in che misura i recenti risultati elettorali fatti registrare nel complesso delle sette regioni siano in linea con il risultato nazionale. E’ esattamente quanto facciamo in qui.

    Se ad esempio scoprissimo che alle europee dell’anno scorso il Pd di Renzi ha preso nelle 7 regioni il 25%, mentre sappiamo che nell’Italia intera era sopra il 40%, avremmo certamente delle difficoltà a ricavare dall’aggregato delle sette regioni un dato odierno minimamente attendibile. Lo stesso problema si avrebbe se verificassimo, sempre in ipotesi, che in queste sette regioni Bersani aveva raccolto il 40% dei voti. Da questi esempi si dovrebbe evincere l’opportunità della verifica che conduciamo qui.

    Confrontiamo quindi il risultato delle politiche 2013 (tab. 1) e delle europee 2014 (tab. 2) nei due insiemi di riferimento: il primo costituito dalle sette regioni al voto nel 2015 – come se fossero un’unica circoscrizione elettorale, sommando i diversi risultati regionali e calcolando poi le relative percentuali, il secondo formato dall’Italia intera. Come possiamo osservare, l’aggregato delle sette regioni presenta risultati straordinariamente vicini a quelli nazionali per tutti i partiti.

    Alle politiche il M5s era al 25,7 nelle 7 regioni, contro il 25,6 delle venti regioni. Seguiva il Pd con il 25,1% nelle regioni al voto nel 2015, contro il 25,4% nazionale. Il Pdl aveva il 22,6% nelle sette regioni, un punto in più del risultato nazionale. Alle europee il Pd è al 40,8% nel paese, mentre raccoglie il 41,5% nell’aggregato delle sette regioni. Secondo partito è il M5s, con il 21,5% nelle sette regioni contro il 21,2% nazionale. Completando il quadro dei partiti maggiori, Forza Italia è attorno al 17% in entrambi gli insiemi di riferimento.

    Anche l’Udc, che nel 2013 sembra assai sovrarappresentata nelle sette regioni (113%), è in realtà sostanzialmente stabile nei due insiemi. La differenza fra i due risultati è infatti di appena un quinto di punto, che però pesa oltre il 10% del magro risultato di allora dell’Udc. Peraltro questa lieve sovrarappresentazione del partito di Casini è esattamente bilanciata dal risultato degli alleati, Sc e Fli. Così il totale della coalizione Monti è identico nelle sette e nelle venti regioni, a ulteriore conferma della comparabilità dei due insiemi. Inoltre la lista di Ncd e Udc alle europee ottiene sostanzialmente lo stesso risultato nei due aggregati.

    Da questi dati emerge chiaramente come il “collegio” delle regioni chiamate al voto in queste europee sia stato un campione estremamente rappresentativo delle più recenti manifestazioni nazionali dell’elettorato, uno e due anni or sono). Abbiamo quindi una indicazione che è possibile guardare ai risultati complessivi delle regionali nelle sette regioni per stimare la forza nazionale dei partiti, a meno che non si ipotizzi che negli ultimi dodici mesi siano intervenuti dei fenomeni che hanno  investito diversamente le sette regioni e le altre tredici.

    Tab. 1 – Rappresentatività del risultato elettorale delle politiche 2013 nell’aggregato delle sette regioni rispetto al risultato nazionale

    Tab. 2 – Rappresentatività del risultato elettorale delle europee 2014 nell’aggregato delle sette regioni rispetto al risultato nazionale

    L’unica discrepanza di una certa rilevanza si ha nel centro-destra, dove Fi (o il Pdl nel 2013) è in entrambe le occasioni un po’ sovrarappresentata nelle 7 regioni, mentre per la Lega avviene il contrario. Naturalmente la ragione di questo va rinvenuta nella sbilanciata composizione delle sette regioni fra nord e resto del paese rispetto all’Italia. E’ comunque un elemento di cui tenere conto.

    Ciò vuol dire infatti che il risultato puntuale che osserveremo nel complesso delle sette regioni per la Lega sarà con ogni probabilità leggermente inferiore al risultato che essa conseguirebbe se si votasse in tutte e venti le regioni. Al contrario, invece, Fi dovrebbe essere nell’Italia intera un po’ al di sotto del risultato che farà segnare nelle sette regioni. Ma per il resto si osserva una sovrapponibilità quasi incredibile fra le due zone (Italia e 7 regioni), che ci permette di commentare il risultato delle sette regioni in salsa nazionale con una certa confidenza.

  • Sette sistemi per sette regioni: le caratteristiche dei sistemi elettorali

    di Aldo Paparo

    In questo articolo descriviamo in dettaglio le caratteristiche dei sistemi elettorali con cui si vota nelle sette regioni chiamate alle urne in questa tornata. Come abbiamo già visto, ciascuna regione adotta un sistema diverso dalle altre, anche se tutti poggiano su una base in qualche misura comune.

    Per prima cosa, tutti i sistemi elettorali prevedono l’elezione diretta del Presidente della regione, ma in Toscana è possibile che ciò non accada in un turno unico. Se infatti nessun candidato otterrà il 40% dei voti nell’arena maggioritaria si procederà al ballottaggio. Nelle altre sei regioni, invece, il candidato più votato sarà immediatamente eletto Presidente (e consigliere).

    Inoltre, guardando a come eleggono il Consiglio, sono tutti sistemi elettorali misti, anche se con rilevanti differenze. In particolare, in Liguria e nelle Marche il sistema non è majority assuring. Nel primo caso, infatti, non è mai stata approvata una legge elettorale regionale e si vota ancora con la legge Tatarella. Come però questa è residuata per effetto di sentenze della Corte Costituzionale: in particolare è stata dichiarata illegittima la possibilità che scattino i seggi aggiuntivi per garantire in ogni caso la maggioranza in Consiglio al vincitore, anche quando il premio del listino regionale non dovesse essere sufficiente[1]. Quindi il Presidente eletto ottiene sì un premio, pari a 6 seggi sui 30 totali del Consiglio; ma se la sua coalizione ne ha raccolti meno di 9 sui 24 distribuiti proporzionalmente, non potrà contare su una maggioranza autonoma[2].

    Si legge che occorrerebbe il 35% dei voti per ottenere un numero di seggi sufficienti a governare da soli in virtù del premio, ma in realtà è piuttosto complicato calcolare con precisione questa soglia. Per come funziona il sistema elettorale, infatti, potrebbe essere anche più bassa di diversi punti se ci fosse una quota consistente di voti dispersi su liste che non arrivano al 3-4%. Ad ogni modo, il sistema elettorale ligure è certamente un unicum all’interno dei sette sistemi regionali. Infatti appartiene ai sistemi misti del tipo maggioritario a membro misto, secondo la tipologia di Chiaramonte (2005), mentre tutti gli altri sono sistemi misti del tipo proporzionale con premio di maggioranza, anche se con premi assai diversi diversi fra loro per entità e meccanismi.

    Cominciamo dalle Marche, l’altra regione che non garantisce al vincitore una maggioranza in Consiglio: qui il premio è infatti eventuale. Se la coalizione del candidato vincitore ha raccolto meno del 34% dei voti, infatti, la distribuzione dei seggi avviene con un sistema proporzionale puro. Il premio è inoltre variabile. Se il vincitore è stato votato fra il 34 e il 37%, il premio è appena superiore al 53% dei seggi: 16 su 30. Se invece il risultato del Presidente eletto è compreso fra il 37 e il 40% il premio è pari a 17 seggi (57%). Il premio è del 60% (18 seggi) se il vincitore ha ottenuto almeno il 40%.

    Variabili – ma non eventuali – sono anche i premi di maggioranza in Puglia, Toscana e Veneto. In Toscana ci sono due possibilità: il 60% dei seggi (24 su 40) se il candidato vincitore ha raccolto almeno il 45% dei voti; il 57,5% (23 seggi) se invece non ottiene il 45% (compreso quindi il caso di eventuale ballottaggio). In Puglia e Veneto ci sono tre possibili entità dei premio in Consiglio. In Puglia la coalizione del candidato vincente ottiene il 58% dei seggi (29 su 50) se ha raccolto almeno il 40%, un seggio in meno (il 56%) se invece il suo risultato è stato compreso fra il 35 e il 40%, e il 54% dei seggi (27) se si è fermata al di sotto del 35%. In Veneto le maggioranze in Consiglio garantite al vincitore sono simili alla Puglia, ma un po’ più generose: i seggi rimangono 28 anche al di sotto del 35%, mentre al di sopra del 50% salgono a 30 (ovvero il 60% dei seggi totali, escluso, come sempre, quello del Presidente eletto).

    Una ulteriore variabile, cui abbiamo accennato ma che è opportuno esaminare in dettaglio, concerne i totali di voti sui quali si calcolano le quote in base alle quali si stabilisce l’entità del premio. Infatti in Toscana si guarda ai voti del candidato vincitore in percentuale dei voti maggioritari, mentre in Puglia e Veneto si guarda alla percentuale della coalizione collegata al vincitore in base ai voti proporzionali. Nelle Marche, infine, si fa riferimento al risultato del candidato; questo però, come detto, coincide con quello che la coalizione utilizza al proporzionale.

    In Campania e Umbria, infine, il premio di maggioranza attribuito in Consiglio alla coalizione del Presidente eletto è fisso: in entrambi i casi pari al 60% dei seggi. Inoltre, in entrambe queste regioni è stabilito che in ogni caso la coalizione vincente non possa ottenere più del 65% dei seggi, con il 35% riservato alle opposizioni.

    Prima di passare ai meccanismi dell’arena proporzionale, un’ultima notazione preliminare. In Umbria e nelle Marche è stato abolito il voto disgiunto. Non è più quindi possibile votare un candidato Presidente ed una lista che non lo sostenga. In queste regioni, inoltre, le due arene – quella proporzionale e quella maggioritaria – sono fatte coincidere meccanicamente. Infatti, non solo il voto espresso solo per una lista al proporzionale vale anche al maggioritario per il candidato che essa sostiene, ma anche il voto espresso solo per un candidato al maggioritario vale anche al proporzionale per la coalizione che lo sostiene. E’ lo stesso meccanismo che abbiamo già presentato in riferimento alle elezioni comunali in TrentinoAlto Adige e Valle d’Aosta, per effetto del quale i risultati dei candidati e delle relative coalizioni sono fatti coincidere. Anche in Veneto, dove però permane la possibilità di votare in maniera disgiunta fra le due arene, si ha l’estensione del voto espresso per il solo Presidente alla coalizione che lo sostiene.

    Veniamo adesso alle caratteristiche relative al funzionamento dell’arena proporzionale. Innanzitutto le regioni si differenziano per il numero delle circoscrizioni: si va dalla circoscrizione unica regionale in Umbria alle 13 circoscrizioni della Toscana, mentre le altre cinque regioni hanno circoscrizioni coincidenti con le province. Per effetto anche della dimensione variabile dei consigli abbiamo quindi una magnitudo media delle circoscrizioni generalmente compresa fra i 6 e i 7 seggi, che però ha punte minime di 3 in Toscana, e massime di 10 in Campania, fino ai 20 dell’Umbria.

    L’elemento su cui i legislatori regionali hanno maggiormente trovato modo di dare realizzazione alla propria fantasia è certamente quello delle formule elettorali e, più in generale, della ripartizione dei seggi al proporzionale. L’unica regione in cui non vi è nessun ruolo per le coalizioni è la Liguria. Qui, infatti, partecipano alla assegnazione dei seggi le liste (sopra soglia). Inoltre è l’unica regione in cui la distribuzione è circoscrizionale e non regionale, anche se il recupero dei resti è su base regionale per cui quello che conta davvero è il risultato regionale ottenuto da ciascuna lista. Sintetizzando, in ciascuna provincia si calcolano dei quozienti Hagenbach-Bischoff e si assegnano i seggi interi; si sommano poi, per ciascuna lista, i resti delle diverse province, che concorrono per i seggi rimanenti in base all’Hare a livello regionale. Per cui, anche al netto delle alte soglie implicite circoscrizionali, con poco più del 4% scatta certamente il primo seggio in Consiglio, ma potrebbe anche bastare il 3%.

    Nelle altre regioni, invece, la prima distribuzione è fra le coalizioni, e su base regionale. In Veneto, Toscana, Marche e Campania questa avviene attraverso il D’Hondt; in Umbria di usa invece l’Hagenbach-Bischoff. I seggi spettanti alle diverse coalizioni sono ripartiti fra i partiti che le compongono sempre su base regionale: in Toscana a tale fine si usa il D’Hondt ; nelle altre regioni considerate, invece, l’Hagenbach-Bischoff.

    Caso a parte è la Puglia. Qui l’assegnazione decisiva avviene su base regionale alla luce del vincitore del maggioritario, proprio come nelle altre regioni – ad eccezione della Liguria. La particolarità risiede nel fatto che prima di procedere alle relative operazioni, si ha una prima assegnazione di seggi, 23 sui 50 complessivi, su base circoscrizionale. Questa è identica al disposto della Tatarella, appena descritto con riferimento alla Liguria: Hagenbach-Bischoff circoscrizionale e recupero regionale dei resti con Hare. Dopodiché si procede all’assegnazione dei rimanenti 27 seggi, per coalizione e su base regionale. Si tiene quindi conto di chi ha vinto, di quanti seggi gli spettino in tutto di premio in base a quanti voti ha preso, di quanti ne abbia già presi nei primi 23, e gliene si assegna la differenza. Si ha quindi un D’Hondt regionale fra i perdenti per aggiudicarsi quei seggi fra i 27 non assegnati alla coalizione vincente. I 27 seggi così ripartiti fra le coalizioni sono poi suddivisi fra i partiti che le compongono attraverso un D’Hondt regionale, come in Toscana.

    Un ulteriore elemento interessante è rappresentato dalla necessità di calare, in tutte le regioni a parte la Liguria e l’Umbria, il risultato determinato a livello regionale nelle singole circoscrizioni, con la possibilità o meno di slittamenti di seggi. In Puglia si usa la graduatoria dei resti della precedente distribuzione provinciale (quella dei 23 seggi), usando i resti non ancora utilizzati ed eventualmente ricominciando il giro. In Campania, Marche e Veneto si calcolano dei quozienti Hagenbach-Bischoff circoscrizionali per cui si dividono i risultati circoscrizionali delle liste, con più alti resti. In Toscana si usano invece dei quozienti naturali sia per il passaggio dal livello regionale alle province e che poi per il passaggio dalla provincia di Firenze alle circoscrizioni sub-provinciali.

    Fermo restando che il risultato regionale non è mai calato interamente, perché in tutte le regioni il candidato Presidente secondo classificato entra in Consiglio prendendosi uno dei seggi regionali delle sue liste (tranne che in Veneto dove gli viene assegnato un seggio a parte), occorre precisare alcune particolarità della legge toscana. Qui infatti per ogni coalizione o lista perdente cui spetti almeno un seggio, il primo va al candidato alla presidenza, per cui diminuiscono più sensibilmente che altrove i seggi da calare. Inoltre, i partiti possono presentare, oltre alle liste circoscrizionali, anche una lista regionale, di massimo tre nomi. Questo listino è bloccato e i suoi componenti sono, nell’ordine di presentazione, i primi eletti per il partito che li candida. Quindi vengono calati nelle circoscrizioni solo i seggi ancora da attribuirsi ai partiti dopo l’elezione di questi candidati “regionali” e dei candidati sconfitti.

    Quanto agli slittamenti di seggi, nelle Marche, in Campania e in Veneto  sono espressamente vietati: si vanno ad assegnare i seggi mancanti alle liste fino al completamento dei seggi spettanti alle circoscrizioni. Ciò significa che una lista può ottenere il seggio dove è più debole. In Puglia solo i primi 23 seggi sono ripartiti fra le province in base alla relativa popolazione: non è prevista una norma che eviti gli slittamenti da una circoscrizione all’altra, anzi sono piuttosto probabili; tuttavia è impossibile che una provincia abbia alla fine meno seggi di quelli che le spettavano sui 23, per via della successiva ripartizione degli ulteriori 27 seggi.

    In Toscana, come abbiamo visto, il quadro è doppiamente più complicato per la presenza del listino regionale e di circoscrizioni sub-provinciali, che implicano un passaggio in più. In ogni caso, non è mai stabilito un totale di seggi spettante a ciascuna circoscrizione, per cui non è proprio possibile parlare di slittamenti. L’unica norma prevista a tutela della rappresentanza dei diversi territori è che non possa non scattare nessun seggio in una circoscrizione[3].

    Anche sulle soglie di sbarramento le diverse normative regionali si differenziano sensibilmente. Le uniche due a presentare clausole identiche sono il Veneto e le Marche. Qui la soglia è per le coalizioni: devono avere almeno il 5% dei voti proporzionali oppure avere al proprio interno una lista del 3% per essere tali, altrimenti si rompono e le liste corrono separatamente, ciascuna con i propri voti. Altre due regioni hanno una clausola per le coalizioni: Toscana e Puglia. Nel primo caso per essere tale occorre avere almeno il 10% dei voti ed almeno una lista del 3% all’interno. In Puglia, invece, la soglia è dell’8%, a prescindere da come sia composto fra le liste costituenti la coalizione.

    Vi sono poi le soglie per le liste, presenti in cinque regioni, ad eccezione di Marche e Veneto. La più bassa è in Umbria, pari al 2,5%. In Liguria e Campania la soglia è del 3%, ma può essere aggirata se si è collegati ad un candidato del 5% e del 10% rispettivamente. In Toscana e Puglia, infine, le soglie sono differenziate a seconda che la lista corra da sola o all’interno di una coalizione (che abbia fatto le relative soglie). In entrambi i casi le liste coalizzate hanno uno sconto: dall’8% al 4% in Puglia, dal 5% al 3% in Toscana.

    Ulteriore differenziazione si ha sul totale di calcolo delle soglie di sbarramento appena elencate. In Puglia le soglie sono tutte calcolate come percentuali dei voti al maggioritario, sia quelle per le liste che per le coalizioni. Al contrario, in Toscana tutte le soglie si calcolano come percentuali sui voti proporzionali. Nelle Marche, in Veneto e in Umbria i totali dei presidenti e delle coalizioni coincidono, per via del meccanismo della doppia estensione dei voti incompleti fra le due arene; non però quello per le liste, che è inferiore in misura dei voti al solo Presidente. Le soglie del 5% per le coalizioni sono calcolate sul totale maggioriario/coalizionale; quelle del 2,5 o del 3%, per le liste, sui voti validi alle liste. Infine in Liguria e Campania la clausola del 3% è sui voti alle liste; mentre nelle norme di aggiramento della soglia per le liste collegate ad un candidato che abbia ottenuto una certa percentuale, questa è naturalmente calcolata sui voti maggioritari.

    Un ultimo piano di analisi concerne la presenza di voto di preferenza e norme a tutela della rappresentanza di genere. In tutte le regioni gli elettori avranno a disposizione la preferenza per i candidati consiglieri. In tre di queste (Toscana, Umbria e Campania) gli elettori disporranno di due preferenze da potersi esprimere per candidati della stessa lista ma di genere diverso. Nelle altre quattro regioni, invece, si ha una sola preferenza. Ricordiamo inoltre che in Toscana oltre alle liste circoscrizionali ciascun partito può presentare anche una lista regionale contenente fino a tre candidati bloccati, i quali saranno eletti nei primi seggi assegnati al partito. Quindi le preferenze possono contare solo parzialmente, o anche assai poco – a seconda delle scelte dei partiti di presentare o meno questi listini bloccati.

    Solo in Liguria non è prevista alcuna tutela per la rappresentanza femminile. Abbiamo infatti già detto come, ancora in attesa dell’approvazione della legge elettorale regionale, si voti con la Tatarella, come però attualmente in vigore a seguito di sentenze della Consulta. Nello specifico, la legge del 1995 prevedeva che le liste non potessero avere più dei due terzi dei candidati dello stesso genere, ma una sentenza della Corte Costituzionale dello stesso 1995 ha dichiarato tale norma illegittima[4]. La composizione delle liste è quindi libera, e in effetti ve ne sono più di una senza neppure una donna su tre o quattro candidati nelle province minori, o con due donne su tredici candidati a Genova.

    In tutte le altre regioni, al contrario, le liste devono rispettare delle proporzioni numeriche definite nei rapporti fra candidati dei due generi. Nelle Marche ed in Campania le proporzioni sono quelle della legge Tatarella, in Umbria e  in Puglia nessuno dei due generi può avere più del 60% dei candidati, mentre in Toscana e Veneto le liste devono essere alternate fra i due generi – e quindi i due sono rappresentati, nei limiti del possibile, in misura uguale nelle liste. Nel caso toscano questa disposizione si applica sia alle liste circoscrizionali sia alle eventuali listini regionali.

    E’ possibile stilare una vera e propria classifica: la Toscana è quindi la regione più sensibile alle pari opportunità, prevedendo sia la doppia preferenza di genere che l’alternanza di genere nelle liste. Seguono molto vicine l’Umbria e poi la Campania, dove le liste possono essere un poco meno equilibrate. Nella corsa alla tutela della rappresentanza di genere sono più staccati, non avendo la doppia preferenza di genere, Veneto, Marche e Puglia; assai vicini fra loro. Sono separati infatti solo da piccole differenze relativamente alle quote nelle liste. Maglia nera, e staccata dal gruppo, la Liguria che, come detto, non ha alcuna norma in merito.

     

    Riferimenti bibliografici:

    Chiaramonte, Alessandro. 2005. Tra Maggioritario E Proporzionale. L’universo Dei Sistemi Elettorali Misti. Bologna: Il Mulino.

     


    [1] Infatti il d.l. 138 del 2011, per contenere i costi della finanza pubblica, ha introdotto precisi criteri che agganciano il numero dei consiglieri regionali alla popolazione delle regioni, poi recepiti dagli Statuti regionali. La fissazione in Statuto del numero dei seggi rende inapplicabile la norma della legge Tatarella relativa ai seggi aggiuntivi. Cfr. sentenza Corte Costituzionale n. 188 del 2011 sul caso pugliese.
    [2] La legge prevede che il premio si dimezzi, da 6 a 3 seggi, se la coalizione del candidato vincente ha già ottenuto 15 dei seggi sui 24 proporzionali. Nel caso, gli altri 3 seggi sono distribuiti proporzionalmente alle minoranze nel collegio unico regionale e quindi, di rimando, nelle relative liste circoscrizionali. Appare francamente impossibile che questa evenienza si verifichi in queste elezioni, ma è comunque opportuno ricordare questo particolare della Tatarella ancora in vigore in Liguria.
    [3] Se ciò accade risulta eletto il candidato con più preferenze della lista sopra soglia più votata nella circoscrizione, e il seggio si toglie al candidato della stessa lista eletto in corrispondenza del resto più basso, entro la provincia se possibile e purché non fosse a sua volta l’unico seggio di quella circoscrizione.

    [4] Cfr. sentenza n. 422 del 1995.

  • Ballottaggi in Trentino-Alto Adige: il Pd vince solo a Bolzano

    di Aldo Paparo

    Si sono svolti ieri i ballottaggi in quattro comuni degli otto con almeno 15.000 abitanti al voto nella tornata amministrativa ordinaria della regione autonoma del Trentino-Alto Adige in questo maggio 2015. Di questi solo uno, Rovereto, è nella provincia di Trento, e quindi il secondo turno serviva non solo per la scelta del sindaco, ma anche per determinare la composizione del Consiglio comunale. Nei comuni altoatesini (Bolzano, Laives e Merano), invece, i seggi in Consiglio sono assegnati con un proporzionale puro sulla base del risultato del primo turno.

    Forse anche per questa minore decisività del secondo turno nella provincia di Bolzano, qui gli elettori hanno votato assai meno che al primo turno (tab. 1). Si registra infatti un generalizzato crollo dell’affluenza: compreso fra i 15 e i 17 punti percentuali nei tre casi interessati. In tutti e tre i casi, inoltre, oltre la metà degli elettori ha disertato le urne al ballottaggio: la partecipazione si attesta infatti su livelli compresi fra il 40 e il 49%. Sempre in linea con la posta in palio al secondo turno come fattore determinante dell’affluenza possiamo interpretare il dato di Rovereto (tab. 2). Ballottaggio più rilevante e maggiore partecipazione: il 56%, con un calo assai più contenuto rispetto al primo turno (circa sei punti e mezzo).

    Quanto ai risultati, a Bolzano ha vinto l’uscente di centro-sinistra, Spagnolli, largamente in testa dopo il primo turno. Ma si tratta dell’unico successo per candidati sostenuti dal Pd. Gli altri tre sono infatti stati tutti sconfitti. Per mano di candidati appoggiati da tre coalizioni piuttosto diverse. A Merano a vincere è stato il candidato sostenuto dai Verdi del Sudtirolo. A Laives a trionfare è stato il candidato unitario del centrodestra (Lega, Forza Italia e Fdi); mentre a Rovereto il nuovo sindaco è il “civico” Valduga, sostenuto dai Verdi ma anche da fuoriusciti dell’Upt e da liste variamente riconducibili all’ex Pdl, ma non dalla Lega.

    Vediamo adesso in dettaglio l’esito di questi quattro ballottaggi, cominciando dal caso più rilevante, l’unico capoluogo di provincia coinvolto: Bolzano. Come già accennato, l’incumbent di centro-sinistra, Spagnolli, si è conquistato un terzo mandato da primo cittadino. Per la prima volta ha avuto bisogno del secondo turno, ma la sua riconferma non è stata davvero in discussione. Aveva quasi trenta punti di vantaggio sullo sfidante di centro-destra, Alessandro Urzì (sostenuto da Fi, Alto Adige nel cuore e Unitalia) dopo il primo turno; il divario di è dimezzato al secondo turno, ma è rimasto di tutta sicurezza. Spagnolli ha raccolto, nonostante il calo dell’affluenza, sostanzialmente gli stessi voti del primo turno: valevoli quasi il 58%. Urzì ha fatto invece segnare una notevole avanzata al ballottaggio: ha più che raddoppiato i propri voti in valore assoluto, raccogliendone più dei suoi e di quelli dei candidati sostenuti dalla Lega e Casapound al primo turno. E’ opportuno sottolineare come la coalizione a sostegno di Spagnolli non dispoga della maggioranza dei seggi in Consiglio e questi dovrà realisticamente cercare un accordo post-elettorale con la sinistra ecologista, dopo avere rifiutato accordi fra i due turni.

    A Laives, invece, il sindaco uscente del centro-sinistra (Liliana Di Fede, segretaria provinciale del Pd) è stato sconfitto. Si tratta della corsa più serrata: il margine è stato di poco superiore ai 200 voti, un distacco che comunque vale quasi tre punti e mezzo. Il nuovo sindaco è dunque Christian Bianchi, di Fdi, che si è preso così la rivincita per la sconfitta patita cinque anni or sono. Allora la Di Fede trionfò con oltre il 60% al ballottaggio, dopo avere chiuso in testa al primo turno con circa quattro punti di margine. Stavolta la situazione fra i due dopo il primo turno era la stessa, ma l’esito, come detto, opposto. Bianchi si trova comunque in una situazione di oggettiva difficoltà: la sua coalizione può contare infatti su appena un terzo dei seggi del Consiglio comunale. All’orizzonte si profila una clamorosa alleanza con la Svp, che pure ha nella Lega un naturale avversario. Dopo avere fatto parte della giunta Di Fede, il partito regionale sembra infatti averle oggi voltato le spalle. O per lo meno lo hanno fatto i suoi elettori, altrimenti appare inspiegabile la vittoria di Bianchi. In ogni caso anche questo accordo non sarà sufficiente: ci sarà bisogno di recuperare almeno un altro voto in Consiglio per formare una coalizione vincente. Si profila insomma una legislatura assai difficile per neo-sindaco di centro-destra.

    A Merano il candidato del Svp, Gruber, è stato sconfitto nonostante fosse in testa, seppur di misura, dopo il primo turno, e abbia sottoscritto un accordo programmatico per il governo della città con il Pd e alcune liste civiche fra primo e secondo turno[1] . Nel complesso le liste di questa alleanza avevano raccolto oltre il 55% dei voti al primo turno e si proponevano come una chiara opzione di governo. Eppure, o forse anche per questo, oltre il 60% degli elettori ha scelto al secondo turno il suo rivale, Paul Rösch. Questi può contare sui soli – pochi – seggi dei Verdi del Sudtirolo nella difficoltosa ricerca di una maggioranza che lo sostenga in Consiglio. L’accordo andrà inevitabilmente trovato proprio con Gruber e i suoi colleghi consiglieri del Svp, inserendo probabilmente qualche esponente di lingua italiana, del Pd o di qualche civica.

    Tab. 1 – Risultati elettorali del secondo turno nei comuni superiori ai 15.000 abitanti nella provincia di Bolzano

    Come detto, il caso di Rovereto è unico nel panorama dei ballottaggi qui presentati dal momento che esso determina anche l’assegnazione del premio di maggioranza in Consiglio per la coalizione che sostiene il sindaco eletto. Nella tabella 2 riportiamo quindi anche il risultato del primo turno, oltre che naturalmente l’esito del secondo, proprio per potere mostrare la composizione del nuovo Consiglio comunale in termini di seggi alle diverse liste determinatasi.

    A cinque anni dal ballottaggio che vide suo padre sconfitto per appena 300 voti nella sua corsa alla rielezione, Francesco Valduga restaura l’onore di famiglia sconfiggendo Miorandi, che è quindi il secondo incumbent di centro-sinistra a vedere frustrate le proprie aspirazioni ad un nuovo mandato. Stavolta il risultato è netto: per Valduga junior ci sono 2.500 voti in più: il distacco fra i candidati  misurabile in quindici punti. Al termine del primo turno Valduga poteva contare su un margine di circa 500 voti. Entrambi i candidati crescono in valore assoluto: il sindaco uscente di circa 500 unità, il neoeletto di cinque volte tanto. Questi è stato quindi nettamente preferito fra gli elettori degli altri due candidati, sostenuti da M5s e Lega.

    Difficile connotare il colore politico della nuova amministrazione. La questione appare molto simile a quella della non lontana Pergine Valsugana. Certo, al neo-sindaco si può applicare l’etichetta di civico, ma nella sua coalizione si nasconde una disomogenea accozzagli di pezzi dei partiti più disparati. La sua lista personale ha da sola oltre un terzo dei seggi e il premio gli consente di potere fare a meno del voto di due delle quattro liste minori della coalizione per approvare una delibera, ma comunque non è autosufficiente. Guardiamo a queste liste minori per cercare di comprendere come possiamo definire la nuova maggioranza. L’unica lista riconoscibile chiaramente è quella dei Verdi nazionali. La lista più votata, la sola con tre seggi, è Rovereto al centro che si propone come una lista civica, anche se tra i tre eletti figura un ex consigliere Pdl. La lista dei Popolari per Rovereto raggruppa quegli esponenti locali dell’Upt contrari alla scelta del partito di sostenere Miorandi (tra cui anche l’ex sindaco della città Maffei, eletto consigliere). Infine la lista meno votata, Rovereto libera, riunisce molte figure locali di Forza Italia ma anche un ex candidato alle politiche per La destra, eletto in Consiglio. Ecco, trovare una definizione sintetica per questa alleanza di governo che mette insieme personalità civiche, ambientalisti, democristiani, berlusconiani e neofascisti non appare compito semplice. In ogni caso la componente civica appare predominante, mentre all’interno della porzione partitica è davvero difficile stimare le quote fra centro, destra e sinistra, anche se probabilmente il baricentro si trova leggermente spostato a destra.

    Tab. 2 – Risultati elettorali delle elezioni 2015 a Rovereto, primo e secondo turno 

    Cercando di tirare le somme di questi ballottaggi, il messaggio più chiaro è la non brillante condizione del centro-sinistra e del Pd in particolare. Certo, per perdere al ballottaggio bisogna pur sempre essere fra i due più votati, e le coalizioni del Pd si dimostrano le più brave a farlo. Il secondo partito più grande a livello nazionale, il M5s, non ne ha centrato neanche uno, ad esempio. Eppure tre sconfitte su quattro comuni maggiori ad una settimana dalle regionali, per quanto collocati all’estrema periferia del paese, non possono certo essere che un segnale preoccupante per le prospettive del Pd nelle imminenti consultazioni. Anche alla luce del fatto che due di queste vedono sconfitti sindaci uscenti.

    Si conferma poi un altro dato, questo assai preoccupante per il centrodestra tradizionale, quello berluconiano. Anche quando suoi esponenti fanno pienamente parte della coalizione vincente, lo fanno sotto mentite spoglie: il simbolo Forza Italia non è infatti presente nella coalizione vincente a Rovereto, esattamente come a Pergine. E quando invece è presente non si vince: l’onorevole sconfitta di Bolzano è il migliore dei risultati raccolti. Invece la Lega suggella la propria crescita diventando il partito di maggioranza nella coalizione di governo a Laives; dove Fi, una volta di più, non aveva il simbolo sulla scheda: si era infatti presentata in una lista unitaria con Fdi e Alto Adige nel cuore.

    Più in generale emerge un’ennesima conferma dello sfaldamento del nostro sistema partitico, che pochi anni fa era in grado di dispiegare in ogni parte d’Italia una competizione fra centro-destra e centro-sinistra del tutto analoga a quella nazionale, seppur con confini variabili per le coalizioni. Ma non una è una questione di due o tre poli. L’immagine di oggi è più un quella di un liberi tutti, al di fuori di qualsiasi schema partitico – per non parlare di una linea.

    Da un alto l’affievolirsi della leadership di Berlusconi fa inevitabilmente riemergere le differenze fra le molte anime del centro-destra. Anime che la prospettiva di vincere aveva messo insieme e l’esercizio congiunto del potere, specie a livello locale, teneva insieme. Oggi invece ciascuna personalità locale corre a titolo personale, cercando accordi in ogni direzione. Sull’altro versante anche il Pd di Renzi, che, in provincia come a Roma, si allarga assorbendo personalità provenienti un po’ da tutte le esperienze, ha un effetto dirompente sugli equilibri politici locali. Ecco quindi il moltiplicarsi delle coalizioni “civiche”, dentro le quali convergono personalità locali senza più (o al momento) una bandiera partitica da sventolare, ma con il proprio prestigio e consenso personale da mettere in campo. Questi si alleano secondo dinamiche a macchia di leopardo uniche nei diversi contesti, senza che sia possibile rinvenire una precisa base di prossimità ideologica fra le storie personali che corrono insieme. In un sistema politico caratterizzato da una così elevata frammentazione e generalizzata sfiducia nei confronti dei partiti, ecco che queste coalizioni possono anche vincere, specialmente a livello comunale.


    [1] Le altre liste contraenti questo accordo politico sono Alleanza per Merano con Zaccaria Sindaco e la Civica per Merano – Balzarini Sindaco.