Autore: Roberto D’Alimonte

  • Quel ballottaggio «incostituzionale» che salva la Francia

    Quel ballottaggio «incostituzionale» che salva la Francia

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 9 maggio

    I francesi hanno eletto un presidente della Repubblica incostituzionale. È proprio così secondo la nostra Consulta. Emmanuel Macron è stato eletto con il 24,01% dei voti espressi. Ricalcolando questa percentuale sugli elettori fa il 18,2%.

    In realtà non è andata così. Questi sono ovviamente i dati del primo turno. Al ballottaggio Macron ha ottenuto il 66,1%. Ma per la nostra Corte costituzionale il secondo turno non conta. Conta solo il primo. Il secondo turno è semplicemente la prosecuzione del primo, non una altra elezione. È al primo turno, lì in quel momento, che gli elettori esprimono le loro “vere” preferenze, quelle che servono per poter affermare che il vincitore ha un consenso costituzionalmente legittimo. Macron questo consenso non ce l’ha. Il sistema elettorale francese viola il principio della uguaglianza del voto.

    Va da sé che la Consulta nella sua sentenza 35/2017 non è stata chiamata a valutare la costituzionalità di un sistema per l’elezione del presidente della Repubblica, bensì un sistema di voto per la Camera dei deputati. La differenza è ovviamente rilevante. Da una parte si tratta di eleggere una carica monocratica, dall’altra una assemblea rappresentativa. Ma quello che a noi interessa contestare, alla luce della esperienza francese, sono i principi che la Consulta ha malamente utilizzato per dichiarare incostituzionale il famigerato Italicum. E primo fra tutti il principio dell’uguaglianza del voto.

    La tesi della Corte è che il secondo voto – quello del ballottaggio – trasforma «artificialmente una lista che vanta un consenso limitato, ed in ipotesi anche esiguo, in maggioranza assoluta». Mutatis mutandis, cioè sostituendo il termine candidato-presidente a quello di lista, è esattamente quello che è avvenuto a Parigi. Macron ha ottenuto al primo turno un consenso limitato, anzi esiguo. Solo un elettore su quattro, tra quanti sono andati a votare, lo ha scelto. Sulla base del ragionamento della nostra Consulta è stato il sistema elettorale grazie al ballottaggio a trasformare artificialmente questo consenso limitato in una maggioranza, violando così il principio di uguaglianza del voto. Operazione del tutto artificiale secondo la Corte perché «prevedendo il ballottaggio una competizione risolutiva tra due sole liste prefigura stringenti condizioni che rendono inevitabile la conquista della maggioranza assoluta dei voti validamente espressi». Secondo la nostra Corte quindi questa restrizione che ha consentito ai francesi di eleggere il loro presidente con il 66% dei voti è irragionevole.

    L’elezione di Macron non è il risultato di un voto in cui è stato scelto da milioni di francesi, ma di un artificio. La maggioranza che lo ha eletto non è la maggioranza del secondo turno ma sempre e soltanto la esigua minoranza del primo. Macron non è stato eletto dai 20.753.798 elettori che lo hanno votato al secondo turno, ma dagli 8.656.346 che lo hanno votato al primo. Secondo la nostra Corte è il loro voto a contare, non quello degli elettori che al secondo turno lo hanno votato pur non avendolo votato al primo ovvero il voto di chi lo ha votato al secondo turno dopo essersi astenuto al primo. Per arrivare a questa conclusione la Corte ha di fatto introdotto una interpretazione estensiva dell’articolo 48 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza del voto.

    Nella sostanza la Corte ha applicato il principio di uguaglianza non solo al voto in entrata ma anche a quello in uscita. È così che arriva ad affermare che il ballottaggio dell’Italicum comporta una «valutazione del peso del voto in uscita fortemente diseguale». Per questo l’elezione di Macron è incostituzionale, come l’assegnazione di una maggioranza di seggi alla lista che con l’Italicum avesse conquistato la maggioranza dei voti al secondo turno. E in base allo stesso principio è incostituzionale anche l’elezione dei dei nostri sindaci, pure loro scelti con il ballottaggio. Ma in questo caso la Corte, con un ragionamento ad hoc, salva il sistema elettorale dei comuni sopra i 15mila abitanti sentenziando che la valutazione della disuguaglianza del voto in uscita non si applica al livello sub-nazionale ma solo a quello nazionale.

    Purtroppo la Consulta, introducendo il principio della uguaglianza del voto in uscita, ha aperto un vaso di Pandora da cui emergeranno infinite contraddizioni che alimenteranno confusione e discredito per le istituzioni. L’uguaglianza del voto in entrata è un principio sacrosanto e chiaro: una persona-un voto. L’uguaglianza del voto in uscita non lo è. È un concetto confuso che serve solo a perpetuare l’intervento delle corti in materia elettorale da una parte, e alimentare il pregiudizio nei confronti di sistemi di voto maggioritari dall’altra. Non ci vuol molto a comprendere come questo giudizio sia frutto di un pregiudizio proporzionalistico. Non ci sorprende, anche se ci indigna, che si possa sentenziare in questo modo senza conoscere la moderna teoria della democrazia e i meccanismi che regolano l’aggregazione delle preferenze individuali in una scelta collettiva.

    Al secondo turno delle presidenziali francesi Macron ha preso oltre 12 milioni di voti in più di quanti ne ha presi al primo. Sono quegli elettori che dopo aver espresso una prima preferenza per il candidato a loro più gradito al primo turno (fosse questo Fillon, Mélenchon, Hamon, etc.), nel momento del ballottaggio hanno espresso una seconda preferenza per Macron. Grazie a queste seconde preferenze Macron ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti e per questo si può affermare senza ombra di dubbio che rappresenta la scelta complessivamente più vicina alle preferenze dei cittadini francesi. In termini tecnici si può dire che è il candidato mediano. Nemmeno in Gran Bretagna si potrà dire la stessa cosa dopo le elezioni di Giugno, chiunque venga eletto premier. Questo è il vantaggio del doppio turno.

    L’Italicum era appunto congegnato per mettere in campo le seconde preferenze degli elettori. Proprio il ballottaggio avrebbe legittimato la lista vincitrice meglio ancora di una vittoria ottenuta al primo turno con il 40% dei voti. E avrebbe consentito una significativa rappresentanza delle liste perdenti. Infatti al vincitore sarebbero andati 340 seggi e ai perdenti 278: un giusto equilibrio tra governabilità e rappresentatività. Il 18 giugno, secondo turno delle legislative, vedremo cosa succederà in Francia. In particolare sarà interessante vedere quanti seggi prenderanno il Front National e il Partito socialista. Sarà una altra occasione per tornare a parlare di sistemi elettorali maggioritari, di Consulta e di Italicum. Intanto constatiamo con grande amarezza che oggi i francesi hanno un presidente, che durerà in carica cinque anni, e noi una palude, da cui non sappiamo quando e come usciremo.

  • L’arma in più per l’Eliseo sono gli elettori potenziali

    L’arma in più per l’Eliseo sono gli elettori potenziali

    0505Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 5 maggio

    Macron o Le Pen? Saranno gli elettori di Fillon, Mélenchon, Hamon e di tutti gli altri candidati esclusi dal ballottaggio a decidere la sfida. A loro si unirà una quota di francesi che non hanno votato al primo turno ma lo faranno al secondo. Infatti  la Francia è quello strano paese – dal punto di vista di alcuni critici nostrani del ballottaggio – in cui a partire dal 1974 sono andati a votare  più elettori al secondo turno che al primo (Tabella 1). In sintesi, la sfida tra Macron e Le Pen verrà decisa da due fattori: l’affluenza alle urne e le seconde preferenze degli elettori dei candidati esclusi dal ballottaggio di Domenica prossima.

    Tab. 1 – Affluenza nelle presidenziali francesi al primo e al secondo turno, 1974-2012venn1Questi due fattori sono in qualche modo collegati. È naturale che una parte degli elettori di Fillon, Mélenchon, ecc. non vada a votare al secondo turno. È certo però che una altra parte di loro lo farà e voterà uno dei due candidati in lizza. Chi? Il sondaggio realizzato dal CISE in Francia tra il 31 marzo e il 10 aprile ci fornisce alcune indicazioni preziose grazie alla stima della propensione al voto per i diversi partiti. L’acronimo inglese di questo indicatore è PTV. Si calcola in base alle risposte a questa domanda: ‘ In Francia ci sono diversi partiti e ognuno vorrebbe ottenere il suo voto. Quale è la probabilità che un giorno potrebbe votare per candidati dei seguenti partiti?  Indichi la sua opinione su una scala da 0 a 10, dove 0 significa per nulla probabile e 10 estremamente probabile’.

    Utilizzando questo indicatore si possono fare due cose: 1) calcolare l’elettorato potenziale di ciascun partito; 2) stimare quanto gli elettori dei diversi partiti si sovrappongono tra di loro. Il tutto può essere descritto con un diagramma riportato in pagina. La dimensione dei cerchi è una stima della ampiezza dell’elettorato potenziale di ciascun partito. La loro sovrapposizione è una stima del numero di elettori che si dichiarano propensi a votare indifferentemente o quasi per due o più partiti. Non si tratta di una stima del voto ma di una stima della propensione al voto e quindi di una stima del bacino potenziale di ciascun partito, vale a dire della sua attrattività.

    Il diagramma ci dice molte cose. 1) Il partito della Le Pen e quello di Macron hanno il potenziale elettorale maggiore, e non a caso sono i due candidati più votati al primo turno.  2) Gli elettorati del Front National e quelli del Partito Socialista sono i più distanti tra loro. 3) Il movimento di Macron beneficia di una maggiore sovrapponibilità del suo elettorato con quello degli altri partiti/candidati indicati; in altre parole complessivamente un numero maggiore di elettori degli altri candidati è più propenso a votare Macron rispetto alla Le Pen. Questa è una indicazione importante di quali siano le seconde preferenze degli elettori dei candidati esclusi dal ballottaggio.

    In sintesi, il bacino elettorale cui può attingere Macron al secondo turno è più ampio di quello della Le Pen. Da qui discende il suo vantaggio sulla rivale. Ciò nonostante fa impressione notare la sovrapposizione di una fetta importante dell’elettorato potenziale di Fillon e di Mélenchon con quello della Le Pen. La conventio ad exludendum in chiave di ‘fronte repubblicano’ non fa più presa come una volta su molti elettori francesi classificati una volta come di destra o di sinistra. Le Pen, grazie a immigrazione e Europa, ha rimescolato le carte della politica francese. Per questo al ballottaggio andrà decisamente meglio del padre, pur avendo poche o nulle possibilità di vincere come dicono tutti i sondaggi di questi ultimi giorni.

    Fig. 1 – Diagramma di Venn degli elettorati potenziali dei principali partiti francesi (PTV>6)venn2Queste osservazioni sono confermate dalla analisi dei flussi fatta in base alle intenzioni di voto registrate nel sondaggio CISE. In questo caso i coefficienti dei flussi del sondaggio sono stati applicati ai risultati reali del primo turno. (tomadamswc.com) Il risultato è mostrato nella Tabella 2. Questa stima vede Macron battere la Le Pen con il 57,8% dei voti, contro il 42,2%. Si tratta di un risultato in linea con quello indicato dai più recenti sondaggi. Macron si avvantaggia soprattutto del suo netto successo tra gli elettori di sinistra, quelli che hanno votato Mélenchon e Hamon. La Le Pen tende a ottenere invece la maggior parte dei voti di Fillon, ma non in misura sufficiente a colmare il divario.

    Tab. 2 – Risultato generato dall’applicazione dei coefficienti di flusso stimati nel sondaggio CISE al risultato reale del primo turnovenn3

    Tutto lascia credere che la prossima Domenica assisteremo alla vittoria di Macron. Ma vale la pena di fare una ulteriore prova della attendibilità di questa affermazione simulando le condizioni alle quali il pronostico si potrebbe ribaltare. In altre parole, cosa dovrebbe succedere perché possa vincere la Le Pen ? La Tabella 3 riassume la risposta. Come si vede, potrebbe vincere per esempio se si realizzassero queste condizioni: 1) che  il suo margine presso gli elettori di Fillon salga; 2) che quello di Macron fra gli elettori di Mélenchon scenda; 3) che la rimobilitazione a suo favore tra gli astenuti del primo turno sia pari a quella di Macron; 4) che gli elettori di Dupont-Aignan votino in massa per lei. Insomma si tratta di una serie di condizioni molto stringenti che difficilmente si verificheranno tutte insieme, anche in tempi segnati da Trump e Brexit.

    Tab. 3 – Risultato generato dall’applicazione di coefficienti di flusso alternativi, ipotizzati per fare vincere la Le Penvenn4


    NOTA: Chi volesse divertirsi a simulare condizioni diverse lo può fare andando sul simulatore online del CISE

  • Il ritorno di Renzi e le carte di Gentiloni in vista delle elezioni

    Il ritorno di Renzi e le carte di Gentiloni in vista delle elezioni

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 3 maggio

    Mutatis mutandis, con queste primarie del Pd, siamo tornati a dicembre 2013. Anche allora Matteo Renzi stravinse. Anche allora a Palazzo Chigi c’era un governo espressione del Pd, con Enrico Letta presidente del Consiglio. Anche allora incombeva all’orizzonte un delicato turno elettorale, le europee previste a maggio 2014. Anche allora una sentenza improvvida della Corte costituzionale aveva trasformato un sistema elettorale maggioritario in una proporzionale confusa. Anche allora il neo-eletto segretario del Pd si poneva la domanda se aspettare la scadenza naturale della legislatura, o almeno lo svolgimento delle europee, prima di puntare a Palazzo Chigi.

    Forse la domanda non se l’è mai posta, ma il problema della convivenza tra segretario e premier dello stesso partito era nei fatti. Come ora. Sappiamo come è andata a finire. Che lo avesse pianificato o meno fin dall’inizio o no, a febbraio 2014 Matteo Renzi ha sostituito Enrico Letta nella carica di presidente del Consiglio mantenendo la leadership del partito.

    Qualcuno dice che la storia non si ripete. Ma non è sempre così. Certo, non si ripete esattamente nelle stesse forme. In più è vero che l’esito di una storia simile non è detto che sia lo stesso. In questo caso qualunque previsione sarebbe azzardata. Ma le analogie tra il dicembre del 2013 e oggi sono impressionanti. Renzi è di fronte allo stesso dilemma di allora. Gentiloni non è Letta, ma si trova nella stessa condizione di dover gestire una mediazione difficile tra l’Europa che vuole certe cose e un segretario del suo partito – candidato premier – che ne vuole altre per evitare il rischio che le elezioni ormai vicine segnino una sconfitta per lui e per il partito.

    Rispetto a Letta però Gentiloni ha due carte a suo favore. La prima è la fiducia di Renzi. Non sarebbe presidente del Consiglio se così non fosse. È stato l’ex premier a indicarlo e nonostante certe incomprensioni, dovute ai diversi ruoli e alle pressioni di Bruxelles, pare di capire che i rapporti tra i due siano rimasti buoni.

    In questo la personalità di Gentiloni ha avuto e continua ad avere un peso notevole. L’altra carta è l’impossibilità per Renzi di arrivare a Palazzo Chigi prima del prossimo voto. Nell’inverno del 2014 non era così. C’era una remora a farlo, ma è stata superata. Oggi è impensabile il ritorno al governo di Renzi prima del voto. Anche se si andasse alle urne in autunno, Gentiloni resterebbe al suo posto.

    Detto ciò, resta il problema della convivenza con elezioni in vista. Il problema è aggravato dallo spettro di una legge di stabilità che potrebbe destabilizzare le residue speranze del Pd di conseguire un buon risultato alle prossime elezioni. Solo il ricorso alle urne in autunno, prima quindi della approvazione della manovra, potrebbe disinnescare questo problema. Anche nel 2014 circolava l’ipotesi di elezioni politiche anticipate con l’abbinamento di europee e legislative. Per ragioni in parte simili. La prospettiva che il Pd, con Letta al governo, potesse essere fortemente penalizzato nel voto europeo rappresentava un forte incentivo, dal punto di vista di Renzi, per non aspettare la scadenza naturale della legislatura e mettere in atto il ricambio subito.

    Più o meno il quadro è lo stesso oggi. Ma, nonostante il fatto che la voce continui a circolare, è difficile credere a una prospettiva del genere. Senza una legge elettorale efficace le prossime elezioni saranno un disastro dal punto di vista della governabilità. Fare un governo dopo il voto sarà un incubo. Ammesso che ci si riesca, senza tornare a votare di nuovo in tempi brevi, come si farà a confezionare una legge di stabilità che rassicuri l’Europa e i mercati? Tra domani e la fine dell’estate si dovrebbe approvare un nuovo sistema elettorale veramente maggioritario, ma non ci sono le condizioni politiche per farlo. Come nel dicembre 2013 il neo-rieletto segretario del Pd ci proverà. Allora trovò la sponda di Berlusconi. Questa volta magari l’accordo lo farà con il M5s. La recente apertura di Di Maio alimenta l’illusione. Noi crediamo invece, augurandoci di sbagliare, che una vera riforma non si farà e che quindi si andrà a votare con i proporzionali della Consulta. Il risultato sarà l’ingovernabilità. Con questo scenario è difficile credere che il presidente della Repubblica accetti di sciogliere le Camere in autunno. Non accetterà il rischio del caos rispetto alla prospettiva che sia l’attuale governo a mettere in sicurezza i conti. Come ai tempi di Monti, il Pd dovrà “sacrificarsi” per il bene del Paese.

    Matteo Renzi può attendere. Questa volta a differenza del 2014, e nonostante la sua trionfale rielezione, non potrà andare a Palazzo Chigi prima del voto e non potrà ottenere le elezioni anticipate per andarci dopo il voto e prima della legge di stabilità. Non è una condizione che gli si addice. Ma in fondo è stato lui a cacciarsi in questo angolo. Quanto lunga sarà questa attesa, e come si concluderà, è tutto da vedere.

  • Armonizzazione e governabilità, nuova sfida in salita

    Armonizzazione e governabilità, nuova sfida in salita

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 29 aprile 2017

    Una nuova normativa elettorale per il Senato e per la Camera. E’ questo il messaggio lanciato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel recente incontro al Quirinale con il presidente del Senato, Pietro Grasso, e la presidente della Camera, Laura Boldrini. Messaggio opportuno, ma che non contiene alcuna indicazione sull’obiettivo che la nuova normativa dovrebbe perseguire. Si tratta di un appello a favore della armonizzazione dei due sistemi elettorali disegnati dalle due sentenze della Consulta? Oppure vuole essere un richiamo alla necessità di trovare un sistema di voto che garantisca un minimo di governabilità senza sacrificare eccessivamente la rappresentanza?  Va da sé che l’ideale sarebbe realizzare entrambi gli obiettivi. Nella realtà esiste il rischio concreto che non se ne realizzi nessuno. Ben venga dunque il monito del presidente.

              Dei due obiettivi indicati il secondo è il più difficile da raggiungere perché richiede che la nuova normativa configuri una nuova legge elettorale disproporzionale.

    Dopo la bocciatura del ballottaggio e i limiti imposti dalla Consulta alla dimensione del premio di maggioranza la governabilità potrebbe –forse- essere perseguita con un sistema di voto basato unicamente o prevalentemente sui collegi uninominali a un turno o-meglio ancora- a due turni. Ma dove sono i voti in Parlamento per una riforma del genere?  Quali sono i partiti a favore ?  Non il M5s e certamente non Forza Italia. Per non parlare delle formazioni minori. Una altra strada potrebbe essere quella di creare un effetto disproporzionale applicando una formula proporzionale in circoscrizioni di piccole dimensioni, il cosiddetto modello spagnolo.  Ma anche questa soluzione troverebbe l’opposizione di molti degli attuali partiti, e soprattutto di quelli più piccoli.

              Apparentemente l’armonizzazione sembra essere un obiettivo più facilmente raggiungibile. Ma non è così. E in ogni caso è una illusione pensare che armonizzando i due sistemi elettorali si faccia alcun passo avanti verso la governabilità. Ma cosa vuol dire armonizzare?  Bisogna distinguere tra tre diversi tipi di modifiche. Quelle finte sulle quali per ora sorvoliamo. (https://7ziphelp.com) Quelle non controverse e quelle conflittuali. Delle prime abbiamo già parlato sulle pagine di questo giornale subito dopo la sentenza della Consulta. Sono tre: l’eliminazione del sorteggio per i candidati plurieletti, l’introduzione al Senato dei criteri presenti alla Camera sulla rappresentanza di genere, la divisione delle regioni più grandi in più circoscrizioni per facilitare la raccolta delle preferenze al Senato.  Le modifiche conflittuali sono: l’estensione del premio di maggioranza al Senato; il premio alla coalizione, e non solo alla lista, alla Camera; l’abolizione dei capilista bloccati; la riduzione delle soglie di sbarramento al Senato. Una vera armonizzazione dovrebbe comprende tutti questi elementi o la maggioranza di essi. In più dovrebbe prevedere anche il voto ai diciottenni al Senato.

              Mettiamo da parte questa ultima riforma per cui occorre una legge costituzionale che avrebbe dovuto essere approvata molti anni fa. Mancano sia il tempo che la volontà per approvarla. Beneficerebbe il M5s. Le altre modifiche, e soprattutto quelle non controverse, si potrebbero fare e alcune di esse si dovrebbero fare. Ma è difficile che si facciano, nonostante l’appello del capo dello stato. Le difficoltà sono di due tipi: politiche e procedurali. Sulle questioni controverse gli interessi dei diversi partiti sono diametralmente opposti. Tanto per fare un esempio. Perché il M5s dovrebbe essere d’accordo sul premio alla coalizione, visto che vuole presentarsi da solo?  Perché i partiti più grandi dovrebbero ridurre le soglie al Senato per fare un piacere ai partiti più piccoli?  E così via.

              Sulle modifiche non controverse invece pesa come un macigno il voto segreto alla Camera. Introdurre un testo di legge che preveda, per esempio l’eliminazione del sorteggio, vuol dire esporsi al rischio di emendamenti per abbassare le soglie al Senato. C’è qualcuno disposto a credere che la disciplina di partito o di gruppo garantisca la loro bocciatura?  Ci vorrebbero un decreto legge e il voto di fiducia. Ma se la sentirebbe Mattarella di avallare una soluzione del genere?  Forse nel caso in cui tutti fossero d’accordo sulle modifiche da introdurre.

              Questa è la situazione con cui bisogna fare i conti.  E nemmeno il presidente si può sottrarre a questa realtà. Ci auguriamo di sbagliarci. Speriamo che l’appello del presidente produca qualche effetto. Ma il pessimismo della ragione ci porta a dubitare che gli eventuali effetti possano comunque garantire al paese governi stabili e responsabili.  L’armonizzazione non basta.

  • Francesi sempre più da convincere su immigrati ed Europa

    Francesi sempre più da convincere su immigrati ed Europa

    (Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 21 Aprile)

    In molti Paesi le elezioni sono diventate una roulette. Negli Usa Donald Trump ha vinto per 77mila voti, meno dello 0,1% dei votanti. In Francia domenica succederà la stessa cosa. Il passaggio al secondo turno sarà deciso da un numero esiguo di elettori. Al momento la situazione è incertissima. A dar credito ai sondaggi di questi ultimi giorni può succedere di tutto. Solo il candidato del partito socialista, Hamon, sembra tagliato fuori dal ballottaggio. La maggior parte dei sondaggi dà ancora davanti Le Pen e Macron, entrambi sopra il 20 per cento.

    Ma sia Fillon che Mélenchon hanno ancora possibilità concrete di arrivare primo o secondo e quindi guadagnarsi il passaggio al secondo turno. In queste condizioni non si può fare alcuna previsione attendibile. Come dicevamo: può succedere di tutto. La cosa che si può fare però è esplorare i dati. Non quelli delle intenzioni di voto che sono i più labili, ma quelli sulle preferenze degli elettori sui temi più rilevanti della campagna elettorale.

    Questo per cercare di capire due cose da cui in ultima analisi dipenderà l’esito del voto: quali sono le questioni più salienti della politica francese e chi tra i candidati maggiori è più in sintonia con gli elettori su queste questioni, tanto da essere considerato più credibile per affrontarle.
    È quello che il Cise ha fatto con un sondaggio ad hoc effettuato tra la fine di marzo e i primi di aprile.

    I dati raccolti spiegano molto dell’incertezza che domina la politica francese oggi. Una volta c’era la dimensione sinistra-destra a strutturare gli atteggiamenti dei francesi nei confronti dei partiti e a orientare il loro voto. Adesso non è più così. L’immigrazione da una parte e l’Europa dall’altra hanno cambiato lo spazio della politica in Francia, e non solo lì. Sono temi trasversali. Eppure destra e sinistra non sono scomparse. Ci sono questioni importanti per i francesi che sono ancora classificabili come di sinistra e di destra. Questo spazio politico a più dimensioni è una sfida complicata da gestire per tutti ed è la ragione principale della volatilità del voto e della imprevedibilità dell’esito elettorale.

    Prendiamo il caso della Le Pen. I nostri dati dicono che i temi su cui i francesi sono maggiormente d’accordo sono la limitazione dell’immigrazione (79%) – tema solitamente di destra – e la difesa della legislazione attuale sull’aborto (81%), tema di sinistra. Il primo ha un livello di priorità elevato per un maggior numero di elettori (63%) contro il 53%. Ma non è questa differenza a colpirci. Quanto il fatto che da una parte il 67% dei sostenitori del radicale di sinistra Mélenchon è favorevole a limitare l’immigrazione e dall’altra il 75% dei sostenitori della Le Pen non vogliono cambiare la legge sull’aborto e addirittura l’84% vorrebbero legalizzare l’eutanasia (altro tema di sinistra). L’unico ad avere una posizione ideologicamente “coerente” è Hamon, che forse non a caso è il candidato meno competitivo.

    Tab. 1 – I temi della politica francese: livello di consenso e livello di priorità

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    Di questi tempi è l’abilità a combinare in maniera credibile posizioni ideologicamente differenziate il fattore decisivo per vincere le elezioni in Francia, come altrove. Su questo la Le Pen ha un netto vantaggio competitivo sui suoi rivali. Non solo il tema dell’immigrazione domina l’agenda politica, ma su questo tema la sua credibilità è di gran lunga superiore a quella degli altri candidati.

    Il 50% dei francesi la giudica credibile contro il 12% che pensa la stessa cosa di Fillon, che pure su questa dimensione si colloca al secondo posto, ma con un distacco di ben 38 punti. Per non parlare di Macron che su questa questione è credibile solo per il 7% dei francesi. Per lui questo dato rappresenta un problema in generale, vista la salienza complessiva del tema, ma anche perché il 70% di coloro che dicono di volerlo votare vogliono ridurre il numero dei rifugiati. Forse è anche questo il motivo per cui in molti sondaggi il sostegno a Macron viene valutato come più incerto, più qualitativamente labile, rispetto a quello per la Le Pen e Fillon.

    Nel quadro delineato dai nostri dati l’Europa occupa una posizione particolare. La grande maggioranza dei francesi vuole restare nell’Ue e non vuole uscire dall’euro. Le percentuali sono su entrambe le questioni sopra il 60. Il tema però ha una priorità inferiore rispetto a quello dell’immigrazione. Questo è un vantaggio per la Le Pen, ma non basta a compensare il fatto che, a fronte dei 77% dei suoi elettori che vorrebbero uscire dall’Ue, c’è il 62% dei francesi che vogliono restarci.

    Contrariamente a quanto molti pensano, proprio l’Europa (insieme ai temi eticamente sensibili) potrebbe essere la questione decisiva al ballottaggio per impedire la vittoria della Le Pen, chiunque sia il suo sfidante. Macron, che su questo tema ha una buona credibilità, lo ha capito. Il suo problema è che deve avvicinarsi maggiormente alle posizioni dei francesi (e anche dei suoi elettori) sulla questione dell’immigrazione. Un problema che hanno anche altri leader di partiti moderati europei.

    Tab. 2 – La credibilità dei candidati sui singoli temi

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    Domenica si vedrà quali candidati avranno messo insieme il pacchetto di politiche più convincente per passare al secondo turno. E il 7 maggio si saprà il nome del prossimo presidente francese. Oggi la sola cosa certa che si può dire è che se Marine Le Pen andrà al ballottaggio l’esito non sarà quello che ha visto soccombere il padre contro Chirac nelle presidenziali del 2002. Allora finì 82% a 18% a favore di Chirac.

    La Francia è cambiata. La versione francese della conventio ad excludendum non funziona più come in passato. Chi vuole vincere il 7 maggio dovrà farlo convincendo i francesi di essere il candidato più credibile per affrontare i problemi che li preoccupano maggiormente e non solo presentandosi come il candidato “contro”. Le rendite di posizione non ci sono più. Neanche a Parigi.

     


    NOTA METODOLOGICA: Il sondaggio è stato realizzato da Demetra S.p.a. nel periodo dal 31/3/2017 al 10/4/2017 con metodo CAWI (online). Il campione è composto da 1.208 casi ed è rappresentativo della popolazione elettorale francese per genere, classe di età, titolo di studio e zona geografica di residenza. Le analisi riportate sono ponderate con un peso che include anche il ricordo del voto al primo turno delle elezioni presidenziali 2012. Il margine di errore con livello di confidenza del 95% per un campione probabilistico di analoga numerosità e in riferimento alla popolazione francese sarebbe di +/- 2,82 punti percentuali.

     

  • Se le urne assicurano l’ingovernabilità

    Se le urne assicurano l’ingovernabilità

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 24 febbraio 2017

    In un quadro politico che dopo la scissione del Pd diventa di giorno in giorno sempre più confuso una sola cosa è certa: le prossime elezioni ci faranno fare un salto indietro nel tempo. Dopo il voto si aprirà una fase di trattative estenuanti tra i partiti, il cui esito non è affatto scontato. E’ un copione che in parte abbiamo già visto dopo le elezioni politiche del 2013. Allora la ‘non-vittoria’ del Pd al Senato e la impossibilità di formare un governo Pd-Scelta civica portò all’accordo iniziale con Forza Italia e successivamente a quello con il Ncd. Dopo le prossime elezioni sarà peggio. La scissione in atto dentro il Pd rende ancora più incerta la prospettiva che una coalizione Pd-Forza Italia-Ncd possa arrivare alla maggioranza dei seggi. Soprattutto alla Camera. E a quel punto che si fa? Se si votasse a Settembre ci sarà da approvare la legge di bilancio in tempi stretti, con i mercati in fibrillazione davanti allo scenario di un sistema partitico polarizzato e paralizzato. Il presidente Mattarella è persona di grande esperienza, ma cosa potrà fare in una situazione in cui per certe soluzioni non ci saranno i numeri e per altre ci saranno i veti.
    E’ realistica una coalizione che vada da Forza Italia a pezzi della sinistra passando per il Pd? Ma c’è di più. Dopo la scissione del Pd è molto probabile che il primo partito nel paese sia il M5s, come è già successo alla Camera nel 2013. Allora c’erano le coalizioni che neutralizzarono la portata politica di quell’evento. Non sarà così questa volta. E non c’è dubbio che questo elemento peserà. Non si sa ancora come, visto che dipenderà anche dai seggi che prenderanno la Lega Nord e Fratelli d’Italia, ma condizionerà in ogni caso il quadro politico. Non sarà semplice giustificare davanti all’opinione pubblica l’esclusione dal governo del partito più votato. E questo indipendentemente dalla tendenza all’isolazionismo del movimento di Grillo.
    Insomma, sarà molto difficile fare un governo dopo le prossime elezioni. E sarà in ogni caso difficile farlo in tempi brevi. Chi pensa che tra oggi e la data del voto le prospettive possano cambiare grazie a una riforma elettorale di stampo maggioritario si illude. Non ci sono le condizioni in parlamento. Solo se il M5s cambiasse idea sui collegi uninominali si riaprirebbe la partita. Ma è un colpo di scena del tutto irrealistico. Né servirà l’armonizzazione dei due sistemi elettorali di Camera e Senato a migliorare le cose. Siamo dentro il proporzionale e lì resteremo, anche con la armonizzazione.
    Le prossime elezioni saranno la sagra della rappresentatività e il funerale della governabilità. E allora c’è da riflettere seriamente se non valga la pena, nell’interesse del paese, che sia questo governo a far approvare una legge di bilancio il cui valore potrebbe essere di venti miliardi e passa. Ci rendiamo perfettamente conto che nemmeno questa è una strada facile. Ancora meno oggi con la diaspora dei democratici. E’ dura per gli attuali sostenitori del governo Gentiloni assumersi la responsabilità di decisioni impopolari prima di affrontare il giudizio degli elettori. Il Pd in particolare potrebbe perdere qualche punto percentuale in termini di voti, ma in tempi di proporzionale non farebbe una gran differenza. Per il paese però potrebbe essere il male minore. Ma se proprio non si volesse votare l’anno prossimo, allora il voto a Giugno e non a Settembre sarebbe una soluzione preferibile. Ci sarebbe più tempo per mettere insieme un governo in grado di prendere decisioni difficili. Forse.

  • Primarie Pd, una conta in due tempi. Ecco regole e variabili

    Primarie Pd, una conta in due tempi. Ecco regole e variabili

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 14 febbraio

    Con la convocazione dell’assemblea nazionale e le dimissioni di Matteo Renzi si riapre la partita della leadership dentro il Pd. Una partita che si giocherà in due tempi, regolati da uno statuto complicato che pare non verrà cambiato, come qualcuno invece vorrebbe. La chiave saranno le primarie. Ma il primo tempo è dedicato alla scelta dei candidati che vi parteciperanno.

    Questa è questione che riguarda esclusivamente gli iscritti del Pd. Chiunque raccolga il sostegno del 10% dell’attuale assemblea nazionale del partito o le firme di 1.500 iscritti potrà presentare la sua candidatura a segretario. Nelle prossime settimane si riuniranno i circoli del partito e gli iscritti voteranno. Tutti i candidati che avranno raccolto il 15% dei voti a livello nazionale saranno ammessi alle primarie. In ogni caso verranno ammessi tre candidati, a condizione che abbiano preso almeno il 5% dei voti. Per essere ancora più chiari: se due candidati raccogliessero singolarmente il 15% dei voti e il terzo più votato ne avesse il 5%, tutti e tre farebbero le primarie.

    Se quattro candidati avessero raccolto ciascuno il 15% tutti e quattro sarebbero ammessi. Nel 2013, i candidati ammessi alle primarie furono tre: Renzi, Pippo Civati e Gianni Cuperlo. Renzi ottenne il 45%, Cuperlo il 39% e Civati il 9 per cento. Il voto nei circoli è il momento della conta. Ogni candidato avrà una o più liste che lo sosterranno. In teoria Renzi potrebbe presentarsi da solo, con una sua lista e basta. Il 15% dei voti degli iscritti è largamente alla sua portata. Ma non lo farà. La sua candidatura sarà sostenuta da più liste con l’obiettivo di essere lui il candidato più votato anche dentro il partito, come è già successo nel 2013. È in questo tempo della partita che le fazioni del Pd si conteranno. E così si saprà quanto effettivamente valgono tra gli iscritti i vari Andrea Orlando, Dario Franceschini, Maurizio Martina, Roberto Speranza, Enrico Rossi, Michele Emiliano ecc. Sarà una radiografia interessante.

    Il secondo tempo è rappresentato dalle primarie. Qui entrano in gioco gli elettori. Infatti, si tratta di primarie aperte cui possono partecipare tutti i cittadini italiani, i cittadini di paesi membri della Unione europea e residenti in Italia e i cittadini di altri paesi muniti di permesso di soggiorno. Basta dichiararsi sostenitori del Pd e versare una quota modesta a copertura delle spese organizzative. Con le primarie si eleggono il segretario e i mille membri dell’assemblea nazionale. La distribuzione dei seggi dell’assemblea viene fatta con sistema proporzionale sulla base di collegi plurinominali (4-9 seggi) sub-regionali. Una cosa importante di cui tener conto è che i seggi spettanti alle regioni sono parametrati non solo sulla popolazione, ma anche sui voti ottenuti dal partito nelle più recenti elezioni per la Camera dei deputati. Gli esiti possibili del voto sono due. Se uno dei candidati-segretario riesce a ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in assemblea con la sua lista o coalizione di liste è proclamato eletto senza passaggi ulteriori. Non è quindi una elezione diretta vera e propria.

    Si badi bene: è la maggioranza dei seggi in assemblea che garantisce l’elezione e non i voti raccolti, anche se il sistema proporzionale con cui vengono eletti i delegati stabilisce un rapporto stretto tra voti e seggi. Nel 2013 in questa fase Renzi ottenne il 68% dei voti (e 657 delegati), Cuperlo il 18% (194), Civati il 14 % (149). Gli elettori furono circa 2,8 milioni. Se invece nessun candidato conquista la maggioranza assoluta si gioca un tempo supplementare. In questo caso la scelta del segretario viene fatta dalla assemblea attraverso un ballottaggio tra i due candidati più forti.

    Questa assemblea non è più quella eletta con le primarie ma comprende, oltre i mille eletti con le primarie, 21 segretari regionali, trecento rappresentanti eletti nelle primarie regionali, cento rappresentanti eletti dai parlamentari nazionali ed europei del partito, 44 rappresentanti provenienti dalla circoscrizione estero e un numero variabile di rappresentanti delle candidature minori non ammesse alle primarie. Se non ci saranno modifiche regolamentari, si tratterà di una specie di convention all’americana, con delegati e superdelegati, dove riuscire a vincere il ballottaggio richiederà accordi trasversali e probabilmente costosi. Finora non è mai successo che un segretario del Pd sia stato eletto dalla assemblea. La partita si è sempre chiusa nei tempi regolari. Ma è chiaro che per fermare Renzi, i suoi avversari dovranno impedirgli di ottenere alle primarie la maggioranza assoluta dei seggi. In questo modo la sfida si sposterebbe dentro l’assemblea, su un terreno scivoloso per lui, e non si potrebbero escludere del tutto delle sorprese. Ma con o senza sorprese, un segretario eletto in assemblea non è la stessa cosa di un segretario scelto direttamente dai cittadini con le primarie. Renzi deve vincere il giorno delle primarie. Questa è la sua nuova sfida. E deve vincere portando a votare un numero importante di elettori. I sondaggi che circolano in questi giorni dicono che i probabili sfidanti di Renzi, e cioè Speranza, Emiliano e Rossi, non solo non sono competitivi singolarmente presi, ma non dovrebbero nemmeno riuscire a impedirgli di arrivare alla soglia del 50% alle primarie. Ma la partita è appena iniziata.

    Fig. 1 – I principali organi del PD e i percorsi per la loro selezione (clicca per ingrandire)

    PD

     

  • Premio di coalizione senza appeal se la soglia del 40% è un miraggio

    Premio di coalizione senza appeal se la soglia del 40% è un miraggio

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 5 febbraio 2017

    Tra le possibili modifiche della legge elettorale della Camera il premio alla coalizione è quella più discussa in questo momento. Ricordiamo al lettore che attualmente la lista che arriva prima con almeno il 40% dei voti incassa un premio di maggioranza che la porta automaticamente al 54% dei seggi. Molti avrebbero preferito che la Consulta avesse bocciato anche questo elemento dell’Italicum, oltre al ballottaggio. E invece no. La decisione della Corte è importante perché da ora in poi non si potrà più sostenere (o almeno così speriamo) che un sistema disproporzionale – cioè un sistema che trasforma una minoranza relativa del 40% dei voti in una maggioranza del 54% dei seggi- sia incostituzionale. Con buona pace degli Zagrebelski, Besostri ecc.
    Questa è una buona notizia per chi crede che, nelle condizioni in cui siamo, l’unica speranza di dare un minimo di governabilità a questo paese poggi sulla presenza nel sistema di voto di meccanismi maggioritari. Uno di questi è proprio il premio, anche se questo premio non garantisce una maggioranza. Si tratta di un premio che viene dato ad una lista e non ad una coalizione di liste, come era nel famigerato porcellum. Ma questa differenza su cui tanto si discute oggi conta qualcosa o no nell’attuale contesto della politica italiana? A cosa e a chi può servire l’introduzione del premio alla coalizione?
    Se ragioniamo dal punto di vista dell’interesse del paese questa modifica andrebbe fatta se favorisse effettivamente una maggiore governabilità. Tradotto in termini concreti il premio alla coalizione va bene se serve a creare coalizioni pre-elettorali che possano arrivare al 40% dei voti e quindi vincere il premio e governare. Come è successo tra il 1994 e il 2008. Mettiamo da parte il fatto che oggi non si vedono in giro coalizioni fattibili che possano raggiungere questa soglia. Il punto cruciale è un altro. Se l’obiettivo della riforma è la governabilità, allora il premio dovrebbe essere introdotto anche al Senato. Alla Camera abbiamo un premio senza coalizione. Al Senato una coalizione senza premio. Sarebbe ragionevole dunque introdurre la coalizione alla Camera e il premio al Senato. Ma questa ultima operazione solleva un problema giuridico e crea un potenziale rischio politico.
    Molti costituzionalisti sostengono che un premio nazionale al Senato è incostituzionale, mentre i premi regionali sono stati bocciati dalla Consulta e dal buon senso. Il rischio politico è che in due camere con corpi elettorali diversi il premio possa essere vinto da forze politiche diverse. Il che – a dire il vero- potrebbe succedere anche se gli elettori fossero gli stessi. Un bel pasticcio in un sistema bicamerale paritario. E allora se il premio non viene introdotto al Senato perché introdurre la coalizione alla Camera? Se la motivazione è la governabilità, è ragionevole che ci sia un premio anche al Senato. Ma se lì non si può o non si vuole fare, la coalizione alla Camera non risolve il problema.
    Ragionando dal punto di vista dei partiti a prima vista sembra che il premio alla coalizione serva soprattutto al centro-destra. Senza coalizione, fare una lista unica mettendo insieme Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia è operazione molto complicata e forse impossibile. Con il premio alla coalizione è molto più facile per i tre partiti presentarsi insieme davanti agli elettori. Ma Berlusconi lo vuole veramente? Se la possibilità di arrivare al 40% fosse realistica, magari sì. Ma senza questa prospettiva, perché legarsi le mani prima del voto? Inoltre, non è semplice per il cavaliere accettare di non essere lui il leader della coalizione di centro-destra. Sarebbe la prima volta dal 1994. E a sua volta Salvini potrebbe accettare di non essere lui il candidato premier per far posto a qualcuno scelto da Berlusconi? Insomma solo la possibilità di vittoria potrebbe facilitare il compromesso per uscire dall’impasse dei veti incrociati.
    Quanto a Renzi, anche per lui la questione sta più o meno negli stessi termini. Se la possibilità di arrivare al 40% con una qualunque coalizione è irrealistica, perché complicarsi la vita facendo una coalizione prima del voto. Si presenta da solo, dice di voler governare da solo, punta al 40%, se ci arriva bene, se non ci arriva gli alleati li decide dopo. In fondo, se gli elettori non gli danno i voti per governare da solo, sarà chiaro a tutti che nonostante la sua volontà di non fare accordi li dovrà fare per forza per dare un governo al paese. Quindi, che ci sia o meno il premio alla coalizione non fa molta differenza. E’ un falso problema. Anche se ci fosse, Renzi potrebbe comunque presentarsi da solo.
    Ai tempi dell’Ulivo e dei Poli il collegio uninominale della Mattarella e il premio di maggioranza della Calderoli incentivavano veramente la formazione di coalizioni pre-elettorali perché la possibilità di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi era concreta. Senza questa prospettiva le coalizioni pre-elettorali perdono appeal. Possono servire soltanto a creare l’illusione della vittoria. Ma se poi la vittoria non arriva le alleanze fatte prima del voto diventano ingombranti dopo il voto, quando per fare un governo occorrerà mettere insieme partiti che si sono presentati in schieramenti contrapposti.
    Sarà interessante vedere a quale conclusione arriveranno Pd e Fi dopo aver soppesato dal loro punto di vista i pro e i contro di questa modifica. La nostra conclusione è che non è questa la riforma di cui ha bisogno il paese. Ci vuol ben altro.

  • Nuove regole di voto, governabilità più lontana

    Nuove regole di voto, governabilità più lontana

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 27 gennaio 2017

    Dopo la decisione della Consulta sull’Italicum le residue speranze di un esito maggioritario alle prossime elezioni sono legate a due meccanismi che sono sopravvissuti miracolosamente ai due interventi della Corte (Gennaio 2014 e Gennaio 2017). Uno è il premio di maggioranza alla Camera. L’altro sono le soglie di sbarramento al Senato. C’è chi pensa che questi meccanismi possano produrre un esito maggioritario, cioè che possano trasformare una maggioranza relativa di voti in una maggioranza assoluta di seggi nelle due camere. Se così fosse il problema della governabilità del paese sarebbe risolto. Il voto deciderebbe chi governa. E noi – incalliti disproporzionalisti- ne saremmo ben felici. Ma non sarà così.

    Per testare il nostro pessimismo abbiamo fatto qualche simulazione che proponiamo qui con tutte le precauzioni del caso. E qui il lettore ci dovrà scusare se entriamo in dettagli tecnici piuttosto noiosi, ma ce l’impone il dovere della trasparenza. Le nostre simulazioni combinano i dati reali delle elezioni del 2013 con i dati virtuali delle intenzioni di voto rilevati nell’ultimo sondaggio CISE-Sole24Ore di fine Novembre. La base di calcolo è il comune. Nel sondaggio di Novembre agli intervistati sono stati chiesti sia l’intenzione di voto a Novembre 2016 che il voto espresso nel 2013. Con questi dati il CISE ha calcolato una matrice di flussi tra il voto 2013 e l’intenzione di voto a Novembre 2016 . Questi flussi sono stati stimati separatamente per il Nord, l’ex zona rossa e il Centro-sud per tener conto delle differenze nel comportamento di voto. Con questi coefficienti di flusso per zona si sono trasformati i voti reali nei comuni nel 2013 nelle intenzioni di voto negli stessi comuni a Novembre 2016 moltiplicando in ogni comune i voti ottenuti da ciascun partito nel 2013 per i coefficienti di zona stimati. A questo punto si sono trasformati i voti in seggi usando le formule previste dalla legge elettorale.

    Per la Camera le stime sono più semplici rispetto al Senato. Se un partito arriva al 40% dei voti ottiene automaticamente il 54% dei seggi. Questo è certamente un esito maggioritario. Ma c’è oggi un partito capace di una simile performance? Un partito, o meglio una lista, non una coalizione. Alla Camera infatti le coalizioni non sono ammesse. Rebus sic stantibus, l’esito delle elezioni alla Camera sarà proporzionale, con gli effetti che si vedono nelle due simulazioni in pagina. La prima fatta con la procedura descritta sopra, che probabilmente sottostima Ncd e Fdi e sovrastima i partiti maggiori.

    Tab. 1 – Simulazione Camera con risultati dei partiti stimati secondo la procedura CISE

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    La seconda usando la media degli ultimi sondaggi[1]. Il risultato è lo stesso: nessuna maggioranza plausibile. Nemmeno una maggioranza Pd, Forza Italia, Ncd. Ma il punto non è tanto questo. Alla fine una maggioranza risicata potrebbe anche venir fuori. Il punto è che in ogni caso la governabilità è a rischio. E in ogni caso, se si potrà fare un governo, dovrà tenere insieme necessariamente Renzi e Berlusconi.

    Tab. 2 – Simulazione Camera con i risultati dei partiti ricavati dalla media dei sondaggi

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    Al Senato la situazione è più complessa e il risultato delle nostre simulazioni è diverso, ma non troppo. Qui gli effetti maggioritari sono affidati non al premio di maggioranza che non c’è, ma al fatto che ci sia una quota elevata di voti dispersi a causa delle soglie di sbarramento. Come è noto, al Senato le liste singole devono arrivare all’ 8% dei voti per avere seggi. Le liste in coalizione invece godono di uno sconto: gli basta il 3% dei voti a condizione che la coalizione di cui fanno parte arrivi al 20%. Il tutto calcolato a livello regionale. Con queste soglie alcuni partiti potrebbero prendere voti ma non prendere seggi. Sarebbero voti dispersi. Più sono i voti dispersi, più sono i seggi aggiuntivi che vanno ai partiti più grandi e quindi più forte è l’effetto maggioritario del sistema. L’ipotesi è che questo meccanismo possa produrre una maggioranza assoluta di seggi a favore del partito o della coalizione più votati.

    Abbiamo controllato questa ipotesi facendo due simulazioni con la procedura CISE. In una tutti i partiti si presentano da soli. Non sarà così. Ma l’abbiamo fatto perché questo è lo scenario in cui il voto disperso è maggiore, cioè è il caso più favorevole ai sostenitori dell’esito maggioritario.

    Tab. 3 – Simulazione Senato con risultati dei partiti stimati secondo la procedura CISE e nell’ipotesi che ciascuno corra da solo (CLICCA PER INGRANDIRE)

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    Nell’altra simulazione abbiamo ipotizzato che il Pd faccia una coalizione con il Ncd e la Lega con Fdi. In entrambi i casi una maggioranza c’è. E in entrambi i casi la maggioranza deve comprendere Forza Italia.

    Tab. 4 – Simulazione Senato con risultati dei partiti stimati secondo la procedura CISE e nell’ipotesi che Pd e Ncd formino una coalizione, così come Lega e Fdi (CLICCA PER INGRANDIRE)

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    Ma per Berlusconi, che grazie al fallimento della riforma costituzionale, è tornato ad essere un attore indispensabile non sono comunque tutte rose e fiori. Il Cavaliere ha davanti a sé un dilemma difficile da risolvere, come abbiamo già scritto ieri. Se alle prossime elezioni si presenta da solo per avere le mani libere dopo il voto, rischia di apparire come un perdente e quindi di prendere meno voti di quelli stimati qui. Se entra in coalizione con la Lega Nord e Fdi compromette la sua immagine di leader moderato e rende molto più difficile fare il governo con Renzi dopo il voto.

    Questo esempio per dire che alle prossime elezioni entreranno in gioco molte variabili che possono cambiare le stime presentate qui. Ma questo esercizio non è inutile. I voti ai partiti possono essere diversi da quelli stimati qui o in altre sedi. Ma i partiti sono questi e le regole di voto sono queste (a meno che non vengano modificate). Con questi partiti e queste regole si possono anche utilizzare percentuali di voto diverse (in un range plausibile), ma la conclusione è comunque la stessa: sarà difficile dare stabilità al governo nazionale, come invece è stato fatto con le riforme degli anni novanta a livello di comuni e di regioni. Ci si è provato, ma è andata male.


    [1] Per calcolare le medie riportate sono stati utilizzati i dati dei 4 sondaggi pubblicati negli ultimi sette giorni: quello svolto da EMG per La7 del 23 gennaio, quello di Winpoll per Huffington Post del 22 gennaio, quello di SWG del 19 gennaio e quello di Technè per Matrix del 17 gennaio.

  • Mattarellum, maggioranza da costruire dopo il voto

    Mattarellum, maggioranza da costruire dopo il voto

    di Roberto D’Alimonte e Matteo Cataldi

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 30 dicembre

    La settimana scorsa  abbiamo pubblicato su questo giornale (si veda il Sole del 22 dicembre) una simulazione del risultato delle elezioni politiche del 2013 se si fosse votato allora con il Mattarellum e tenendo conto della offerta politica e delle percentuali di voto di quelle elezioni. Il risultato era che il centro-destra avrebbe conquistato la maggioranza relativa dei collegi uninominali (212), davanti al centro-sinistra (188), con il M5s fermo a quota 74. Dal 2013 il quadro è cambiato, anche se non del tutto. Pd e M5s sono ancora i due maggiori partiti del sistema. Anzi, secondo tutti i sondaggi il loro predominio si è ulteriormente rafforzato. Qualcuno pensava che il Movimento di Grillo si sarebbe dissolto o comunque fortemente indebolito dopo quell’incredibile exploit del 2013, ma non è stato così. A quanto pare, nemmeno il ‘fattore Raggi’ sembra averlo danneggiato gravemente.  I cambiamenti più significativi sono al centro e a destra. La coalizione di Monti si è dissolta e Scelta Civica esiste solo sulla carta. A destra Forza Italia e Lega Nord si sono divise. Né si sa se si rimetteranno insieme. Dipenderà dalla futura legge elettorale. In ogni caso il centro-destra nel suo complesso è più debole di allora. A sinistra non c’è più la Sel di Vendola, ma non si sa ancora con cosa verrà sostituita.

    In questo quadro quale impatto potrebbe avere l’uso di un sistema elettorale basato sui collegi uninominali come quelli della legge Mattarella? Con i dati di sezione del voto referendario si sarebbe potuto fare una simulazione più interessante e più aggiornata. Ma questi dati non sono disponibili. Nel nostro paese a livello di sezione elettorale sono disponibili solo i dati delle elezioni politiche perché interessano la Camera e il Senato. Nonostante ciò, è possibile fare una stima utilizzando una procedura sofisticata, ma non priva di limiti, messa a punto dal CISE.

    La simulazione che proponiamo qui combina i dati reali delle elezioni del 2013 con i dati virtuali delle intenzioni di voto rilevati nell’ultimo sondaggio CISE-Sole24Ore del mese scorso. Prima di tutto, abbiamo ricostruito i voti ottenuti nel 2013 dalle coalizioni e dal M5s, come se si fosse votato nei 475 collegi della Mattarella. Questo si è potuto fare grazie ai dati di sezione. Poi, visto che nel nostro sondaggio agli intervistati è stato chiesto sia l’intenzione di voto oggi (Novembre) che il voto espresso nel 2013, si è utilizzato questo dato per calcolare una matrice di flussi. Tali flussi tra il voto 2013 e l’intenzione di voto a Novembre 2016 sono stati stimati separatamente per il Nord, l’ex zona rossa e il Centro-sud. Questi coefficienti di flusso per zona consentono di trasformare i voti nei collegi nel 2013 nelle intenzioni di voto negli stessi collegi nel 2016.

    Basta moltiplicare in ciascun collegio i voti di ciascun partito del 2013 per i coefficienti di zona stimati e ottenere così i voti 2016. Per esempio, nel collegio di Abano il Pd nel 2013 prese 17.379 voti. I flussi calcolati per il nord ci dicono che il 66% rivoterebbe il Pd, il 9% voterebbe il M5s, il 18% si asterrebbe, con il resto diviso su altri partiti. Ciò significa che la nostra simulazione ipotizza che di quei 17mila elettori, 11mila e 400 voterebbero Pd, 3mila si asterrebbero, 1500 sceglierebbero il M5s. Sommando infine i risultati dei partiti che nei collegi si presentano in coalizione con candidati comuni, si stima i voti dei candidati di ciascuna coalizione/lista e quindi il vincente in ciascun collegio. Da qui si arriva al risultato complessivo nella parte maggioritaria.

    Per stimare la distribuzione dei 155 seggi proporzionali non si fa altro che sommare i voti stimati in tutti i collegi per i partiti e assegnarli proporzionalmente a chi ha superato la soglia del 4%. In questo modo abbiamo una mappa più aggiornata, rispetto a quella pubblicata la scorsa settimana, del possibile risultato elettorale con la legge Mattarella. Nella simulazione si è ipotizzata questa offerta politica: una coalizione di centrosinistra formata da Pd e Ncd-Udc, una coalizione di centrodestra formata da Fi, Lega e Fdi, il M5s che corre da solo, e una coalizione di sinistra formata da una lista unitaria di Sel e Si.

    Quali sono le analogie e quali le differenze tra la mappa di oggi e quella della scorsa settimana che riproduciamo qui per comodità del lettore ?  L’analogia più rilevante è la assenza di una maggioranza di governo. Il sistema elettorale non è decisivo nemmeno con questi dati.  La maggioranza va costruita dopo il voto. E non è facile. Le differenze più importanti riguardano il M5s e il centro-destra. Nella mappa del 2013 la coalizione di Berlusconi risultava la più forte in termini di seggi maggioritari e di seggi totali. Come si vede nelle due mappe in pagina, prevaleva nettamente nei collegi del Nord e in molti collegi del Sud, grazie alla sua competitività sia nei confronti del Pd che del M5s. Tre anni dopo le cose sono nettamente cambiate. Da una parte il declino di Berlusconi e le divisioni del centro-destra, dall’altra la crescita elettorale del M5s nelle regioni meridionali penalizzano gravemente la competitività del centro-destra sia al Nord che al Sud. Con i voti stimati di oggi riuscirebbe ad ottenere solo 30 seggi maggioritari e 69 seggi totali. Così funzionano i collegi: cambiamenti anche modesti nelle percentuali di voto tra i partiti si possono trasformare in forti variazioni di seggi.  Non è un caso che Berlusconi non li voglia, come ha ripetuto per l’ennesima volta in questi giorni. E’ meno chiaro perché non li voglia il M5s. Ma questa è una altra storia.

    Figura 1 – Mappa dei vincenti nei 475 collegi uninominali del Mattarellum, per classi di scarti tra vincente e secondo arrivato in ciascun collegio. Dati elezioni Camera 2013.

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    Tabella 1 – Simulazione del Mattarellum con i dati delle politiche 2013

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    Figura 2 – Mappa dei vincenti nei 475 collegi uninominali del Matarellum stimati con la procedura CISE per il 2016 e suddivisi per classi di scarti tra vincente e secondo arrivato in ciascun collegio.

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    Tabella 2 – Simulazione con il Mattarellum del risultato 2016 stimato con la procedura CISE

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