Autore: Roberto D’Alimonte

  • Con il Mattarellum i risultati del 2013 avrebbero visto il centrodestra avanti

    Con il Mattarellum i risultati del 2013 avrebbero visto il centrodestra avanti

    di Roberto D’Alimonte e Aldo Paparo

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 22 Dicembre 2016

    Con il ritorno di interesse per i collegi uninominali molti si chiedono cosa succederebbe oggi se si andasse alle urne con un sistema elettorale come quello della legge Mattarella con cui si è votato tra il 1994 e il 2001. Va da sé che una risposta solida a questa domanda non si può dare. Si possono fare delle stime per farsi una idea di come quel sistema elettorale potrebbe funzionare in un contesto profondamente cambiato. Allora c’erano due schieramenti che si contendevano la vittoria e lo schema della competizione era bipolare. Oggi gli schieramenti sono tre. Oltre al centro-sinistra e al centro-destra occorre tener conto anche del M5s che – secondo i sondaggi attuali – sfiora il 30% dei voti. La stima più semplice è quella che usa il voto delle politiche del 2013 ricalcolato sui collegi della Camera della legge Mattarella. In quelle elezioni gli attori principali alla Camera erano la coalizione di Bersani (Pd e Sel), la coalizione di Berlusconi (Pdl, Lega Nord e Fdi), il M5s e la coalizione di Monti.

    Ogni stima si basa su semplificazioni. Nel nostro caso la prima semplificazione è ipotizzare che con i collegi uninominali l’offerta politica sarebbe stata la stessa. E non è vero. Il sistema elettorale modifica l’offerta perché ogni sistema contiene determinati incentivi che spingono i partiti a fare certe scelte invece di altre per massimizzare il proprio interesse. La seconda semplificazione è ipotizzare che anche il voto degli elettori sarebbe stato lo stesso. E anche questo non è vero. Anche gli elettori tendono a esprimere scelte diverse in presenza di una offerta politica diversa. Per esempio, votare per un candidato in un collegio non è la stessa cosa che votare una lista di partito in una circoscrizione. Questi sono i limiti di tutte le simulazioni. Detto ciò, resta l’interesse a farsi questa domanda: quanti seggi avrebbero preso quegli attori (coalizioni e M5s) con quelle percentuali di voto se si fosse votato nei 475 collegi uninominali della Camera?

    Con le semplificazioni fatte la risposta non è complicata. Basta avere a disposizione la mappa dei collegi e i dati delle oltre 60mila sezioni elettorali in cui si è votato nel 2013. Proiettando sui collegi i voti ottenuti nelle sezioni da coalizioni e M5s si può vedere collegio per collegio chi avrebbe conquistato il seggio. E’ quello che ha fatto il CISE. La tabella in pagina riporta il risultato complessivo sia per quanto riguarda i 475 seggi maggioritari sia per i 155 seggi proporzionali. Dal calcolo è stato eliminato lo scorporo che in ogni caso non avrebbe cambiato le cose. Il risultato è questo : il centro-destra sarebbe risultato lo schieramento di maggioranza relativa con 259 seggi totali, di cui 212 nei collegi e 47 nella parte proporzionale. Al secondo posto si sarebbe piazzata la coalizione di Bersani con 234 seggi, di cui 188 maggioritari e 46 proporzionali. Al M5s sarebbe andati 121 seggi, di cui 74 maggioritari e 47 proporzionali. La coalizione di Monti non avrebbe vinto nessun seggio uninominale. Il partito di Monti-Scelta civica- avrebbe preso solo 15 seggi proporzionali.

    Tab. 1 – Simulazione dei risultati elettorali delle politiche 2013 con il Mattarellum

    simulazione tabella

    Sono tre le osservazioni da fare. Primo, questi dati confermano che il collegio uninominale non fa male a Berlusconi. Il cavaliere ha maturato l’avversione a questo strumento sulla base di un dato vero, ma parziale. Nelle elezioni del 1996 e del 2001 aveva preso meno voti nei collegi con i suoi candidati che nella parte proporzionale con le liste di partito (D’Alimonte e Bartolini 1997, Bartolini e D’Alimonte 2002) . Da qui la riforma fatta nel 2005 con la legge Calderoli che ha sostituito i collegi con il premio di maggioranza calcolato su liste di partito. Quello che nessuno ha mai detto al cavaliere è che la distribuzione territoriale dei suoi voti è migliore di quella del centro-sinistra. In altre parole con meno voti del centro-sinistra prende più seggi. Se non avesse fatto la riforma del 2005 avrebbe vinto le elezioni del 2006.

    Secondo, nel 2013 l’Italia era divisa in tre parti, come si vede bene dalla mappa delle vittorie nei collegi. Al Nord prevaleva il centro-destra, nella ex zona rossa vinceva il centro-sinistra mentre il Centro-sud era più competitivo, con il M5s in grado di vincere un buon numero di collegi contro le due principali coalizioni, soprattutto nelle isole. Questa tripartizione vale anche oggi? Per quanto riguarda la forza del M5s nel Centro-sud senza dubbio. Anzi, come vedremo in una prossima simulazione, in questa area il Movimento di Grillo si è ulteriormente rafforzato fino al punto di diventare la forza predominante. Nella ex zona rossa, come si è visto anche con il recente voto referendario, nulla o quasi è cambiato. Per quanto riguarda il Nord molto dipende dalla ricomposizione o meno del centro-destra e dalla sua futura configurazione.

    Fig. 1 – Mappa dei vincenti nei 475 collegi uninominali del Mattarellum

    prof

    La terza osservazione è la più rilevante. In un contesto tripolare un sistema misto come quello della legge Mattarella non può assicurare la maggioranza assoluta dei seggi a nessun competitore. Soprattutto nel caso in cui il tripolarismo sia non solo politico ma anche geografico. Con il predominio di ciascuno dei tre poli in una certa area geografica è difficile per qualsiasi sistema maggioritario produrre una disproporzionalità sufficiente per trasformare la minoranza maggiore di voti in maggioranza assoluta di seggi. Certo, se uno dei tre poli si indebolisse il risultato cambierebbe. Ma nell’Italia di oggi non è così. Almeno per ora. Quindi, quale governo si potrebbe fare con un esito elettorale come quello simulato qui?

    Riferimenti bibliografici:

    D’Alimonte R. e S. Bartolini (1997), Come perdere una maggioranza: la competizione nei collegi uninominali, in D’Alimonte R. e S. Bartolini (a cura di), Maggioritario per caso, Bologna, Il Mulino, pp. 237-283.

    Bartolini, S. e D’Alimonte, R. (2002), La maggioranza ritrovata. La competizione nei collegi uninominali, in D’Alimonte, R. e S. Bartolini, (a cura di), Maggioritario finalmente? La transizione elettorale 1994- 2001, Bologna, Il Mulino, pp. 199-248.

     

  • Verso un ‘Nazareno proporzionale’ sulla legge elettorale

    Verso un ‘Nazareno proporzionale’ sulla legge elettorale

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 13 dicembre 2016

    La matassa è ingarbugliata. Il governo Gentiloni è nato con l’obiettivo esplicito di fare una nuova legge elettorale. Ma non è affatto chiaro quale sarà il suo ruolo. Il premier parla di ‘accompagnare’ i partiti. Ma cosa vuole dire ‘accompagnare’?  Il governo farà o no una proposta o lascerà che nasca in Parlamento ? E in questo caso chi prenderà l’iniziativa e quando?  Renzi tace. Eppure se sono i partiti a doversene occupare, e non il governo, il ruolo di guida in questo processo tocca a lui come segretario del partito di maggioranza relativa. Di sicuro si può dire che se nessuno si muove non c’è verso che su una materia così delicata si faccia alcun progresso. La tentazione è forse quella di aspettare la Corte.

              Nel 2014 la nuova legge elettorale, dopo la sentenza della Consulta, fu fatta da Renzi e Berlusconi. E’ probabile che finirà così anche questa volta.  Ma l’esito sarà diverso. E’ passato un secolo da quel 18 gennaio del 2014 quando i due si misero d’accordo su un sistema con premio di maggioranza e ballottaggio. A Renzi sarebbero andati bene anche i collegi uninominali, una riedizione della Mattarella, ma Berlusconi non era disponibile. I collegi non gli sono mai piaciuti. Non gli piacevano allora e continuano a non piacergli oggi. La differenza è che oggi non gli piacciono più i sistemi disproporzionali, soprattutto quelli che lo costringerebbero a scegliersi gli alleati prima del voto. In tarda età ha riscoperto il proporzionale e la libertà che gli consente.

              I collegi piacciono invece alla minoranza Pd e a Salvini. La conversione di Salvini al collegio è recente. (expertseoinfo.com) Calderoli deve avergli spiegato che con il collegio costringe Berlusconi a rifare l’alleanza a destra mentre con il proporzionale il Cavaliere se ne va per i fatti suoi. I collegi piacciono anche al sottoscritto. Soprattutto quelli a due turni. In un contesto tripolare il doppio turno è lo strumento più adatto per favorire un minimo di governabilità. A differenza dell’Italicum il secondo voto nei collegi non garantisce che le elezioni producano una maggioranza assoluta, ma aumenta le probabilità che ciò avvenga. Probabilmente anche Renzi non sarebbe contrario ai collegi. Lo sarebbe però il M5s. Quindi, è realistico pensare a una riforma elettorale di questo tipo approvata con i voti del Pd e della Lega Nord contro Forza Italia e M5s ?  Abbiamo qualche dubbio.

              A togliere le castagne dal fuoco a Gentiloni e al Pd ci penserà probabilmente la Consulta. Nessuno sa cosa effettivamente farà. Potrebbe decidere l’abolizione del ballottaggio, più qualche altra modifica su candidature plurime e dintorni. Queste ultime non cambieranno la sostanza delle cose. L’abolizione del ballottaggio sì. Con questa modifica Camera e Senato avrebbero due sistemi proporzionali abbastanza simili da rendere possibile il ricorso alle urne. Il che non è detto che accada. Ma senza ballottaggio la strada è percorribile. La riforma elettorale sarebbe fatta e i partiti potrebbero non fare nulla o quasi.

              Se resta il ballottaggio la palla passa di nuovo ai partiti. In questo caso con chi si alleerebbe il Pd per fare la riforma?  Il M5s non ci sta. Lo ha detto Di Maio l’altro ieri. Al M5s sta bene l’Italicum. Andrebbe applicato anche al Senato visto che vige solo alla Camera. A questo scopo ha già fatto una proposta. Sarebbe paradossale che l’Italicum fosse salvato dal M5s. Ma non sarà così. La paura di una sua vittoria ne ha decretato prematuramente la fine, anche se fosse risparmiato dalla Consulta. Vista l’indisponibilità del M5s a trattare su un altro sistema elettorale che non sia l’Italicum, l’unico partner possibile del Pd è sempre e solo Berlusconi. Ci sarà il Nazareno bis. Si passerà dal Nazareno maggioritario al Nazareno proporzionale.

              Quale proporzionale è tutto da vedere. Forse il modello spagnolo proposto una volta dal M5s prima che i pentastellati si innamorassero dell’Italicum. O potrebbe essere un proporzionale con un premietto di governabilità. Ma già questa seconda soluzione è più opinabile perché un premio porrebbe a Berlusconi il problema di allearsi con qualcuno prima del voto. E questo il cavaliere non lo vuole più fare. Preferisce tenersi le mani libere. Tolto Berlusconi non ci sono altri partners con cui il Pd potrebbe fare una nuova legge elettorale. La scelta è tra il Cavaliere e Grillo. Tra il proporzionale del primo e l’Italicum del secondo. Le parti in commedia si sono rovesciate. Incredibile, ma vero. Che paese!  Intanto aspettiamo Godot…

  • Senza collegi e premio si torna al ’92: governo scelto dopo il voto

    Senza collegi e premio si torna al ’92: governo scelto dopo il voto

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 10 dicembre 2016

              Non è ancora il ritorno alla Prima Repubblica, ma è molto probabile che questo sarà lo sbocco della crisi innescata dall’esito del referendum costituzionale. Due meccanismi elettorali potrebbero salvare il modello di competizione della Seconda Repubblica basato su coalizioni che si formavano prima del voto. Uno è il collegio uninominale. L’altro è il premio. Il primo ha funzionato nel 1994, 1996 e 2001 (legge Mattarella). Poi è arrivata la riforma berlusconiana e il collegio è stato sostituito dal premio (legge Calderoli). Con il premio si è votato nel 2006, 2008, 2013. Con quale sistema elettorale si svolgeranno le prossime elezioni, anticipate o meno?  Lo deciderà la Corte il 24 Gennaio. E’ praticamente certo che la Corte cancellerà ballottaggio e forse anche il premio rendendo il sistema elettorale della Camera simile a quello del Senato, da lei stessa introdotto nel 2014. Torneremo così al proporzionale, cioè al 1992, le ultime elezioni della Prima Repubblica. Possibile che sia Renzi a gestire il ritorno al passato?  Sarà lui a deciderlo. Sarebbe di certo uno strano destino.

              Eppure sfuggire a questo destino è praticamente impossibile. In teoria dopo la sentenza della Consulta (o anche prima) il parlamento potrebbe approvare una legge elettorale con i collegi o con il premio, ma non sarà così purtroppo. Un buon sistema con i collegi sarebbe quello della vecchia legge Mattarella. Ma non è possibile. In primo luogo perché non esiste una maggioranza parlamentare a suo favore. L’altra ragion è legata al contesto. Quando fu introdotto la competizione era bipolare. In un contesto tripolare il collegio uninominale comporta dei rischi. Per molti il rischio maggiore è che il M5s potrebbe ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Ma questo esito è meno probabile dell’altro rischio, e cioè che nessuno arrivi alla maggioranza.

              Con un sistema maggioritario basato sui collegi scenderanno in campo una coalizione di centro-sinistra, una di centro-destra e il M5s. Se nessuno arriva alla maggioranza come si fa il governo?  Berlusconi, i cui candidati sarebbero eletti con i voti di Lega Nord e Fratelli d’Italia, potrebbe staccarsi dagli alleati e fare il governo con il Pd di Renzi ?  Questo è il nodo. Con i collegi uninominali Forza Italia non può presentarsi da sola perchè non prenderebbe nemmeno un seggio maggioritario. Il collegio uninominale  spingerebbe Berlusconi a rifare la Casa delle libertà. Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia presenterebbero dei candidati comuni spartendosi i collegi. Come ai tempi della Mattarella. In un collegio il candidato della Casa sarà quello di Fi, in un altro sarà quello della Lega Nord e così via. Se Berlusconi rinunciasse a fare la coalizione per tenersi le mani libere potrebbe contare solo sulla quota di seggi proporzionali, più o meno una trentina. Non è da Berlusconi.

              L’alternativa ad un sistema con i collegi uninominali maggioritari potrebbe essere un sistema con un premio di maggioranza limitato, cioè ‘costituzionalizzato’. Un premio dato non ai singoli partiti ma a coalizioni di partiti, a condizione che raggiungano una certa percentuale di voti.  Ma anche questo sistema comporta il rischio che il premio vada al M5s che in questo momento ha il vento in poppa, visto che la destra è in crisi di leadership e la sinistra annaspa dopo la sconfitta referendaria. Forse ha qualche probabilità in più di essere considerato, ma poche probabilità di essere adottato. Sarebbe però il sistema con cui resteremmo dentro il modello della Seconda Repubblica. Le coalizioni si farebbero prima del voto per potere vincere il premio.

              La conclusione è che per non rischiare si tornerà a un sistema proporzionale da Prima Repubblica in cui ognuno andrà per conto suo, non vincerà nessuno e il problema del governo si cercherà di risolvere dopo il voto. E’ il sistema che confezionerà la Consulta. E Zagrebelski sarà contento. Con questo sistema però, e con la frammentazione esistente, esiste il rischio concreto che non si possa fare un governo. Cosa succederebbe infatti se la somma dei voti di Pd, Forza Italia e Ncd non arrivasse alla maggioranza assoluta?  Questo a Zagrebelski non interessa, ma a noi sì.

              Per limitare- non annullare-  questo rischio una strada ci sarebbe: l’adozione del sistema elettorale proposto dal M5s o una sua variante, e cioè un proporzionale di tipo spagnolo. Si tornerebbe comunque alla Prima Repubblica ma con un pochino di disproporzionalità in più. La disproporzionalità generata dal sistema non sarebbe tale da garantire maggioranze di governo stabili e coese (si veda la Spagna di oggi), ma le probabilità sarebbero più alte rispetto al sistema elettorale della Consulta. Sulle caratteristiche dello spagnolo torneremo in altro momento. Per ora ci limitiamo a far notare la situazione surreale in cui ci troviamo: il M5s oggi vuole l’Italicum, gli altri vogliono il sistema del M5s. In ogni caso il destino sembra segnato. La restaurazione della vecchia repubblica è dietro l’angolo. Approfittando della crisi economica, i conservatori hanno una buona chance di riportare le lancette indietro. Il referendum del 2016 cancellerà quello del 1993. Tutto sta a vedere come si riuscirà a governare questo paese. E se sarà Renzi a gestire la restaurazione dopo aver lanciato la rottamazione.

  • Gli scenari dopo la sentenza della Consulta

    Gli scenari dopo la sentenza della Consulta

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 9 dicembre 2016

    Tali sono le evoluzioni della politica italiana che da ieri la Consulta è candidata al ruolo di scomodo alleato di Renzi. Infatti, la scelta tra governo di responsabilità e voto subito, annunciata come la posizione del Pd in questa fase, non è nelle mani del premier dimissionario. Da una parte è nelle mani degli altri partiti che non hanno nessuna voglia di entrare in un governo di unità nazionale. Dall’altra è nelle mani della Consulta. Questo ultimo punto va spiegato.

              Con gli attuali sistemi elettorali di Camera e Senato non si può andare a votare. Su questo il presidente Mattarella è stato chiaro. Ci vuole una nuova legge elettorale.  La possono fare o la Consulta o il Parlamento. Se il 24 Gennaio la Consulta eliminerà il ballottaggio, e magari anche il premio di maggioranza, i due sistemi elettorali saranno abbastanza simili da poter votare a Marzo-Aprile. A quel punto sarebbe meglio che il Parlamento aggiustasse le soglie di sbarramento (Sole24Ore del 7 dicembre) , ma anche senza questo intervento le elezioni anticipate sarebbero una opzione percorribile. Certo, non basterà la decisione della Consulta per andare a votare. Il presidente e il parlamento dovranno dire la loro. Ma la decisione della Consultà è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per poter andare a votare in tempi brevi. Se invece la Consulta si limiterà a modificare l’Italicum su alcuni aspetti secondari, come per esempio le candidature plurime, i due sistemi elettorali resteranno comunque troppo diversi e le elezioni anticipate non sarebbero possibili senza fare un salto nel buio. In questo caso la palla passerà al Parlamento. La nuova legge elettorale dovrà essere fatta lì. E i tempi si allungheranno.

              In Parlamento le elezioni anticipate non sono affatto popolari. Deputati e senatori vogliono durare. Di mezzo ci sono i privilegi legati alla carica. Perché rinunciarci prematuramente? Ma soprattutto c’è il vitalizio. Questo diritto maturerà solo a Settembre 2017. Infatti le nuove regole prevedono che per avere questa rendita la legislatura debba durare quattro anni e mezzo. Quindi fino a Settembre. Ciò premesso, come farà Renzi a convincere i suoi, per non parlare degli altri parlamentari, a fare una nuova legge elettorale in tempi brevi per poter andare a votare ad Aprile?  Tra l’altro, non essendo lui un parlamentare, non potrebbe nemmeno seguirne direttamente l’iter. L’ipotesi più plausibile è che il naturale istinto di sopravvivenza di deputati e senatori li porterà ad allungare i tempi fino a rendere impraticabile l’ipotesi di elezioni anticipate. D’altronde mettersi d’accordo su due leggi elettorali -Camera e Senato-  è oggettivamente una cosa complicata.

              La sola arma che Renzi ha in mano per convincere i suoi parlamentari è la promessa di posti in lista alle prossime elezioni. Non è detto però che funzioni. Anche se c’è da dire che con la mancata riforma del Senato i posti da distribuire saranno ancora parecchi. Ma per approvare una nuova legge elettorale non basteranno i voti del Pd. E gli altri voti di cui avrebbe bisogno dove li potrebbe prendere e come ?  Forse un accordo con Forza Italia. Un nuovo patto del Nazareno che, a differenza del precedente, questa volta comprenderebbe riforma elettorale e governo. Difficile ma non impossibile.

              Se l’accordo con Forza Italia non si realizza e la Consulta non si sostituirà al Parlamento nel rifare la legge elettorale la seconda opzione di Renzi – le elezioni anticipate-verrà meno. Resterà in piedi solo la prima, il governo di responsabilità. Ma, come abbiamo già detto, questa opzione in realtà non esiste. Nemmeno la notevole capacità di persuasione del presidente Mattarella basterà a convincere Forza Italia, M5s, Lega Nord ecc. a far parte di un governo di grandissima coalizione. Troppo conveniente per loro stare all’opposizione in un frangente simile. A meno che Berlusconi non sia tentato dall’accordo di cui sopra.

              Quindi, il futuro delle legislatura è nella mani della Consulta, la quale non è immune dalla influenza del clima politico. Se non vorrà mettere nelle mani del segretario del Pd uno strumento che gli potrebbe consentire di andare a votare subito, non dovrà fare altro che non cancellare il ballottaggio. Chissà, forse l’Italicum è salvo. Almeno per ora. Ma è solo una battuta.

  • Città spaccate dal voto: centri per il Sì, periferie per il No

    Città spaccate dal voto: centri per il Sì, periferie per il No

    di Roberto D’Alimonte e Vincenzo Emanuele

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 6 dicembre 2016

    Tra i tanti dati interessanti di questo voto referendario ce n’è uno che spiega più di altri cosa è successo effettivamente Domenica. Nei 100 comuni con la percentuale più alta di disoccupati ha vinto il NO con il 65,8%. Nei 100 comuni con la più bassa il SI ha prevalso con il 59%. E’ quello che emerge dalla analisi fatta dopo il voto da You Trend. Come si è sempre sospettato è la insoddisfazione per la situazione economica il fattore più importante per spiegare la vittoria del NO. Un altro fattore, collegato a questo, è la sorprendente affluenza alle urne.
    Ci si chiedeva prima del voto quale delle due parti sarebbe stata favorita da una partecipazione elevata. Ora lo sappiamo. In Italia, senza tener conto della circoscrizione estero, ha votato il 68,5% degli elettori. Una percentuale di soli 7 punti inferiore a quella delle ultime elezioni politiche e di 10 punti superiore a quella delle europee del 2014. E tutto ciò senza che sulla scheda comparissero partiti e candidati. La regione in cui si è votato di più è stata il Veneto (76,7%) mentre quella in cui si è votato di meno è stata la Calabria (54,4). Da notare che in Veneto addirittura più che in Emilia (75,9%) e in Toscana (74,5%)
    Colpisce in particolare il dato del Sud dove si è recato alle urne il 61,6% degli elettori. In questa zona, che va dal Lazio alla Sicilia, si è registrata tra l’altro la più alta percentuale di NO, e cioè il 67,4% contro il 57,3% del Nord e il 48,8% della Zona Rossa. Ed è proprio nelle regioni più periferiche del paese che la percentuale dei NO è stata la più alta in assoluto. Per esempio 72,2% in Sardegna e 71,6% in Sicilia. L’importanza del fattore marginalità emerge anche da altri dati. Nelle grandi città, quelle sopra i 100.000 abitanti, e nei capoluoghi il SI va decisamente meglio rispetto ai piccoli centri e ai comuni non capoluogo. Questo è vero soprattutto al Nord. Il caso di Milano, dove il Si ha prevalso sul NO, ci fa capire ancora meglio cosa è successo. Infatti il SI ha vinto largamente nei quartieri centrali e più agiati ma ha perso in quelli periferici. Lo stesso fenomeno si riscontra anche a Roma e a Torino, dove complessivamente il NO ha prevalso, tranne che nei quartieri del centro. In breve, questo referendum può essere assimilato alla Brexit e alla elezione di Trump. Due casi in cui si è visto bene l’impatto che hanno avuto il fattore centro-periferia e l’influenza degli elettori marginalizzati.
    La politicizzazione del voto ha segnato il destino della riforma costituzionale. Una volta associata la riforma a Renzi e al suo governo è scattato in tanti elettori un riflesso partigiano. Era difficile evitare questa associazione, ma il premier è stato incauto nel rendere la cosa più facile ai suoi avversari. La sostanziale omogeneità del risultato denota che questo voto è stato percepito dalla maggioranza degli elettori come se si trattasse di una elezione politica vera e propria, anche se partiti e candidati non erano in lizza. Una prova ulteriore viene dal buon risultato del SI nelle regioni della zona rossa. In altre parole in questo voto si vede bene una componente partigiana. Dove il Pd è più forte, il SI è andato meglio. L’organizzazione territoriale conta ancora. Ma il problema è che il Pd rimane forte solo in una zona limitata. Il bilancio complessivo è che il SI ha prevalso in 12 province su 106, e 11 di queste sono situate in Emilia-Romagna e Toscana.

    Fig. 1 – Il risultato referendario per comune

    Un altro problema del Pd è svelato dai flussi calcolati sui dati di sezione (Tabella 1). Da questi dati emerge che, rispetto alle elezioni politiche del 2013, il Pd riesce a mobilitare in favore del SI solo circa due terzi dei suoi (ex) elettori nel centro-nord, e appena la metà a Napoli. Il SI fa invece il pieno nell’ex elettorato montiano, che risulta il più compatto in assoluto tra tutte le città esaminate. Fra i partiti a sostegno del NO, quello con le minori defezioni è il M5S che cede piccole quote verso l’astensione, ma porta a votare NO la stragrande maggioranza dei suoi elettori (fra il 76 e il 100%), con la parziale eccezione di Parma. Infatti nella città di Pizzarotti un terzo dei pentastellati non ha votato secondo le indicazioni del Movimento. Anche la Lega mostra grande compattezza, ma solo nelle sue roccaforti di Brescia e Treviso, in cui il NO leghista oscilla fra l’85 e l’89%. Viceversa, a Torino e Parma quasi la metà dei votanti leghisti del 2013 ha votato SI. L’elettorato berlusconiano del 2013 mostra la maggiore divisione interna, cedendo quote rilevanti di voti a Brescia e ad Ancona verso il SI, e a Napoli verso l’astensione. Infine, in tutte le città prese in esame, gli ex astenuti del 2013, che domenica sono andati alle urne, hanno scelto in larga maggioranza il NO.

    Tab. 1 – I flussi elettorati fra politiche 2013 e referendum 2016 in alcune città

    flussi referendumIn conclusione, con il senno di poi si può dire che questo è stato un referendum che difficilmente il Pd poteva vincere. Troppi fattori hanno giocato contro il premier. Ma resta il fatto che 13 milioni di voti sono tanti. E da qui può ripartire la sfida di Renzi.

    Riferimenti bibliografici:

    Goodman, L. A. [1953], Ecological regression and behavior of individual, «American Sociological Review», 18, pp. 663-664.


    Nota metodologica: le analisi dei flussi elettorali qui riportate sono state ottenute applicando il modello di Goodman corretto dall’algoritmo Ras ai risultati a livello di sezione elettorale in ciascuno dei comuni considerati. I valori dell’indice VR sono riportati nei post individuali.

  • Scelta di garanzia che «bilancia» il maggioritario

    Scelta di garanzia che «bilancia» il maggioritario

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 ore del 29 Novembre 2016

     Le nuove modalità di elezione del presidente della repubblica rappresentano l’esempio più eclatante della malafede dei critici della riforma costituzionale. L’attuale Costituzione prevede che dopo il terzo scrutinio il presidente sia eletto a scrutinio segreto dalla maggioranza dei grandi elettori. Finchè è rimasto in vigore il sistema elettorale proporzionale, e cioè fino al 1993, questa regola aveva un senso. In fondo, le maggioranze di seggi di allora coincidevano più o meno con la maggioranza dei voti popolari. Ma dopo l’introduzione di un sistema prevalentemente maggioritario – la legge Mattarella – questo non è stato più vero.

    Dal 1994 a oggi le maggioranze di governo sono state ‘fabbricate’ dal sistema elettorale che ha sistematicamente convertito una minoranza di voti in maggioranza di seggi, come avviene in Gran Bretagna, Francia e in altri paesi che adottano sistemi di voto maggioritari. Nulla di male in questo. Almeno per chi, come il sottoscritto, crede che l’Italia di oggi abbia bisogno di sistemi simili per favorire un minimo di stabilità dei governi e di governabilità.  Il problema però è che ciò che è legittimo a livello di governo non lo è a livello di presidenza della repubblica. Per essere assolutamente chiari. Va bene che il premier possa essere eletto da una minoranza, ma non va bene che lo sia il presidente della repubblica.

    Per il ruolo di equilibrio e di garanzia che nel nostro sistema il presidente della repubblica è chiamato a svolgere è giusto, anzi è necessario, che sia eletto da una maggioranza più ampia rispetto a quella che elegge il capo del governo. Quindi, era urgente che subito dopo l’approvazione della legge Mattarella nel 1993 si mettesse in cantiere una riforma costituzionale per alzare l’asticella per l’elezione del presidente della repubblica (e per dare il voto ai diciottenni al Senato), prevedendo che invece della maggioranza assoluta fosse necessaria una super-maggioranza. E invece niente. Silenzio anche da molti di coloro che oggi gridano allo scandalo in merito alle nuove modalità di elezione del capo dello stato.

    Finalmente, dopo più di venti anni dalla legge Mattarella, il governo Renzi si è posto il problema di rendere compatibile l’elezione del capo dello stato con il principio maggioritario. Infatti, le nuove norme che regolano la sua elezione prevedono questo: l’assemblea  è formata da 730 membri (630 deputati e 100 senatori), per i primi tre scrutini ci vuole la maggioranza di due terzi della assemblea, dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti, dal settimo scrutinio la maggioranza resta sempre dei tre quinti, ma non più degli aventi diritto, ma dei votanti. Ecco lo scandalo! Ecco un altro tassello della deriva autoritaria! I votanti, non gli elettori.

    Sono due gli argomenti dei sostenitori del complotto anti-democratico. Il primo è usato dai più sprovveduti. La loro tesi è che con il premio di maggioranza assegnato dall’Italicum chi vince le elezioni potrebbe comunque eleggersi a suo piacimento il presidente della repubblica. La loro è una matematica particolare. Infatti, se tutti i grandi elettori votano, la soglia per l’elezione è 438 su 730. Se a questa cifra sottraiamo i 340 seggi dati al vincitore dall’Italicum la differenza è il numero di senatori necessari per l’elezione. Ci vorrebbero cioè 98 senatori su 100 perché il vincitore delle elezioni potesse eleggersi da solo il presidente. No comment.

    L’altro argomento dei complottisti è altrettanto politicamente sballato. La loro tesi è che molti grandi elettori il giorno della elezione del capo dello stato stiano a casa o vadano in vacanza o si ammalino. Non votano. In questo modo, visto che la maggioranza dei tre quinti è calcolata sui votanti, con pochi votanti il capo dello stato potrebbe essere eletto da una minoranza. Questa è proprio bella. Le nuove norme sono state introdotte per fare in modo che i partiti di opposizione possano concorrere alla elezione del capo dello stato. Senza il consenso di una parte di loro il nuovo presidente non potrà essere eletto. E loro cosa fanno?  Rinunciano a usare il potere di veto che la costituzione gli dà e stanno a casa. Ci vuole una grande fantasia giuridica per articolare ragionamenti di questo tipo.

    I fatti raccontano invece che dal 1948 (Einaudi) al 2015 (Mattarella) la percentuale dei votanti non è mai scesa sotto il 96% degli aventi diritto e spesso è stata il 99%.  Il vero problema legato alle nuove modalità di elezione del presidente della repubblica è esattamente l’opposto di quanto temono i fautori del NO. Con una soglia di elezione così elevata il rischio è quello di negoziati estenuanti tra maggioranza di governo e opposizioni. Potrebbero volerci decine di scrutini prima di raggiungere un accordo. Basta vedere quanto tempo c’è voluto per eleggere gli ultimi giudici della Corte Costituzionale. Altro che minoranze che eleggono il capo dello stato!

  • Governo e Parlamento, quanto pesa l’incognita della legge elettorale

    Governo e Parlamento, quanto pesa l’incognita della legge elettorale

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 27 Novembre 2016

    Per il presidente del consiglio riforma elettorale e riforma costituzionale sono due cose separate. Da un certo punto di vista è così. Se la riforma costituzionale verrà approvata il 4 Dicembre le innovazioni introdotte potranno funzionare indipendentemente   dal metodo di elezione dei deputati. Il bicameralismo differenziato può coesistere sia con un sistema di voto proporzionale che con uno maggioritario. Questo vale a maggior ragione per gli altri elementi della riforma costituzionale: dal nuovo sistema di relazioni tra stato e regioni al rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta. Se vincerà il SI tutto questo sarà acquisito sia che l’Italicum resti come è, sia che si passi a altro sistema elettorale.

    Tutto questo è vero. Ma è anche vero che gli effetti della riforma costituzionale sul funzionamento del parlamento e sull’efficacia della azione di governo saranno significativamente diversi a seconda che i futuri governi siano più o meno stabili, più o meno coesi. E questo non dipende dalla riforma costituzionale, ma da quella elettorale. Il che non vuol dire che sono i sistemi elettorali a fare tutta la differenza. Cultura politica, forza dei partiti, qualità della classe politica, regolamenti parlamentari sono solo alcuni degli altri fattori che contano in termini di governabilità. Ma il sistema elettorale è la chiave.

    Italicum e riforma costituzionale sono stati pensati per completare un percorso iniziato nel 1993. Nel pieno della crisi della Prima Repubblica il parlamento approvò una legge che introdusse un nuovo modello di governo nei comuni (e nelle province). Gli elementi centrali erano, e sono, l’elezione diretta del sindaco insieme ad un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza e ballottaggio che, salvo casi eccezionali, garantiscono al vincente la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio. Inoltre è prevista la clausola per cui il sindaco può essere sfiduciato dal consiglio comunale, nel qual caso si torna a votare. Lo stesso modello più tardi fu introdotto, senza il ballottaggio, a livello regionale.

    Questo modello del tutto originale ha garantito la stabilità dei governi sub-nazionali in un contesto difficile, caratterizzato da elevata frammentazione, bassissima fiducia e grande debolezza dei partiti. Oggi comuni e regioni hanno governi che, salvo poche eccezioni, durano cinque anni. Ai tempi della Prima Repubblica duravano meno di uno. Ed è un modello che agli italiani piace senza ombra di dubbio. A questo proposito nell’ultimo sondaggio Cise-Sole24Ore pubblicato su queste pagine qualche settimana fa c’era questa domanda: ‘il sistema elettorale dovrebbe permettere agli elettori di scegliere direttamente il presidente del consiglio come avviene per i sindaci’.  Ebbene, l’81% degli intervistati si è dichiarato d’accordo. E dentro questo 81% il 46% ha risposto addirittura di essere molto d’accordo.  C’è qualcuno sano di mente che pensa che si possa tornare al passato? Che si possa rinunciare di questi tempi alla stabilità degli organi di governo comunali e regionali in nome di una maggiore rappresentatività?

    Se Renzi avesse potuto, avrebbe introdotto il modello del sindaco anche a livello nazionale, completando così il percorso iniziato nel 1993.  Glielo ha impedito la resistenza diffusa all’idea della elezione diretta del presidente del consiglio. Così, l’Italicum è diventato lo strumento con cui si è adattato il modello del sindaco al governo nazionale. E Il ballottaggio è il meccanismo con cui si è introdotta l’elezione ‘diretta’ del premier senza modificare la forma di governo che resta parlamentare. Checchè ne dicano Zagrebelski e altri proporzionalisti incalliti. Con il ballottaggio si dà ai cittadini – con un secondo voto-la responsabilità di scegliere il governo del paese. Un governo scelto dalla maggioranza assoluta dei votanti.

    L’Italicum è un tassello. L’altro è la riforma costituzionale. Uno dei suoi obiettivi è quello di dare a chi è stato scelto dai cittadini per guidare il paese qualche strumento in più per governare meglio, assumendosene in modo chiaro la responsabilità. Governi più stabili, più efficienti e più responsabili. E un parlamento comunque rappresentativo. In sintesi, più accountability e meno alibi.  La costituzione del 1947 ha frammentato il potere per paura di un governo forte. La revisione costituzionale del 2016 tende a concentrarlo un pochino di più senza cambiare formalmente le prerogative del premier, ma rafforzando il potere degli elettori. E senza toccare minimamente tutti i contrappesi presenti attualmente nella costituzione. Dalla assoluta indipendenza della magistratura, ai poteri della Consulta e del presidente della repubblica.

    Tutto ciò però fa paura. Un governo eletto ‘direttamente’ dai cittadini grazie al ballottaggio, una sola camera che approva la maggior parte delle leggi, una corsia preferenziale per deliberare in 70 giorni sui disegni di legge prioritari del governo rappresentano quel temutissimo ‘combinato disposto’ considerato una grave minaccia alla democrazia. Sono tutte cose che esistono in molte altre democrazie europee, ma da noi sono visti come i tasselli di una deriva autoritaria che per qualcuno ci riporterà addirittura indietro al fascismo. Siamo arrivati a sentir affermare che un governo stabile rappresenta una minaccia. Che il governo debole è sinonimo di democrazia. Che le elezioni non servono a scegliere un governo ma solo a fotografare le preferenze degli elettori. Che la democrazia è rappresentanza. Punto. Gran Bretagna, Francia- paesi i cui governi vengono eletti regolarmente da minoranze di elettori- sarebbero sistemi poco democratici. La Gran Bretagna!

    A questo punto siamo arrivati. In realtà si dovrebbe dire che non ci siamo mai spostati da una concezione kelseniana della democrazia per cui l’unica forma legittima di governo parlamentare è quella proporzionale. Una concezione che alligna soprattutto nel mondo dei nostri giuristi. In ogni caso i critici del ‘combinato disposto’ possono stare tranquilli. Che vinca il SI o che vinca il NO il sistema elettorale è destinato a cambiare. Se vincerà il NO sarà una necessità. Se vincerà il SI sarà una scelta. O forse no. Potrebbe infatti decidere la Consulta e il ballottaggio potrebbe essere la sua prossima vittima. E’ ormai un fatto che le leggi elettorali in Italia non le fa il parlamento, ma le fanno i giudici. Si vedrà a Gennaio.

  • Referendum, avanti il No. Ma sul merito italiani favorevoli

    Referendum, avanti il No. Ma sul merito italiani favorevoli

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 17 novembre 2016

    Oggi il No è davanti al Sì. Per la precisione questo era vero ieri, cioè nei giorni tra il 27 Ottobre e il 7 novembre quando è stato realizzato il sondaggio Cise-Sole 24 Ore i cui risultati presentiamo qui.

    La precisazione temporale è necessaria perché il clima di opinione di questi tempi è talmente volubile che umori e intenzioni di voto possono cambiare rapidamente anche in un breve lasso di tempo. Figuriamoci da qui al 4 dicembre. La tendenza però sembra chiara. Per quanto i sondaggi siano strumenti molto imperfetti sono troppe le rilevazioni che concordano sulla prevalenza dei No per ritenere questa stima completamente infondata. Nel nostro caso il No è al 34 %, il Sì al 29 % con un 37% tra incerti e astenuti.

    Tab. 1 – Intenzioni di voto al referendum del 4 dicembretab1

    Eppure la riforma costituzionale piace o quanto meno non dispiace agli elettori. Ne piacciono in particolare i singoli contenuti. Il 57% è d’accordo sul fatto che la maggior parte delle leggi possa essere approvata solo dalla Camera. Addirittura l’83% ritiene positivo che il governo possa chiedere alla Camera di deliberare su alcuni provvedimenti in tempi certi. Ma anche sulla composizione del Senato e sulla clausola di supremazia la maggioranza di giudizi è positiva. Solo sul trasferimento di competenze dalle regioni allo stato la maggioranza non è d’accordo.

    Tab. 2 – Giudizi sui contenuti della riforma costituzionaletab2

    E sia detto per inciso, anche la riforma elettorale, il tanto criticato Italicum, piace. L’80% dei rispondenti si dice abbastanza o molto d’accordo sul fatto che il sistema elettorale dovrebbe permettere agli elettori di scegliere direttamente il presidente del consiglio come avviene per i sindaci. Ed è esattamente quello che succede con l’Italicum.

    Tab. 3 – Grado di accordo con la seguente affermazionetab3

    Ha ragione quindi il premier a insistere sulla spiegazione dei contenuti della sua riforma. Tanto più che il 60% del campione sostiene di conoscerla poco o affatto.

    Tab. 4 – Conoscenza circa i contenuti della riforma [1]tab4

    Il problema però è che questo sforzo si scontra con l’atteggiamento negativo di molti elettori nei confronti del premier e del suo esecutivo. Infatti il 61% dà un giudizio abbastanza o molto negativo sulla azione di governo nel suo complesso. Purtroppo per Renzi questo giudizio finisce con l’influenzare la decisione di voto. E così la valutazione favorevole sui suoi singoli aspetti non si traduce in un giudizio positivo sul complesso della riforma. E tanto meno in un Sì al referendum. Il senso è chiaro: si vota no alla riforma per votare contro il premier, anche se – tutto sommato – se ne condividono i contenuti. Il fenomeno è emerso chiaramente da mesi e se ne attribuisce la responsabilità al premier. Certo, Renzi ci ha messo del suo, ma la personalizzazione di questo voto referendario ci sarebbe stata comunque. Renzi ha solo anticipato i suoi avversari. In larghi strati dell’elettorato, soprattutto meridionale, si respira un tale clima di disaffezione nei confronti di chi ha responsabilità di governo che è cosa naturale per gli oppositori del premier personalizzare il voto facendo leva sul fatto che la vittoria del No ne comporterebbe automaticamente le dimissioni.

    Tab. 5 – Giudizi sull’operato del governo Renzi [1]operatoQuesti dati, e altri già pubblicati, mostrano chiaramente la natura partitica di questo voto. I Sì sono concentrati prevalentemente tra gli elettori dei due partiti di governo, Pd e Ncd. Il 76% dei primi e il 73% dei secondi sono intenzionati a votare Sì. Sono percentuali non eccezionali ma sicuramente elevate. Il problema sono gli altri elettori. Il messaggio di Renzi stenta a far breccia nel variegato elettorato dei partiti di opposizione. Ci sono quote di elettori del M5s e di Fi disposti a votare Sì, scostandosi dalla posizione ufficiale dei loro partiti, ma sono ancora relativamente pochi.

    Tab. 6 – Intenzioni di voto al referendum per gli elettorati dei diversi partititab6

    Così come sono relativamente pochi i giovani favorevoli alla riforma. Infatti in tutte le classi di età fino ai 64 anni il No è in vantaggio, e lo è di circa 20 punti fra gli under 45. Il Sì è in vantaggio, largamente, solo fra chi ha almeno 65 anni. Il che va anche bene perché questi sono gli elettori che tendono a votare di più. Ma per un premier giovane che ha fatto del ricambio generazionale la sua bandiera lo scarso appeal tra i più giovani è un grave handicap.

    Tab. 7 – Intenzioni di voto al referendum per classe di etàtab7

    L’altro handicap è il voto nelle regioni del Sud. Qui l’ostilità nei confronti del premier e del suo governo è più forte che altrove. Stagnazione economica e disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ne sono certamente una delle cause principali. È difficile che nelle poche settimane che ci separano dal voto gli umori degli elettori meridionali possano cambiare drasticamente. Ma andranno veramente a votare? In questo tipo di sondaggi il dato sull’affluenza è generalmente sovrastimato. Se tutti quelli che hanno dichiarato di voler andare a votare il 4 dicembre lo facessero veramente la vittoria del Sì sarebbe molto difficile. All’ultimo referendum che ha avuto successo, quello sul nucleare, nel 2011 l’affluenza è stata circa il 57%. Ed era un referendum sentito. Al referendum sulla riforma costituzionale di Berlusconi nel 2006 hanno votato il 54% degli elettori. Con queste percentuali il Sì potrebbe avere una chance e in questo caso il voto degli italiani all’estero potrebbe fare la differenza. Se invece l’affluenza fosse particolarmente elevata è probabile che prevalga il No. Se andrà così, il giorno dopo il voto potremmo ritrovarci con un’Italia spaccata nettamente in due come ai tempi del referendum Repubblica-Monarchia, ma con un esito rovesciato rispetto ad allora. E senza una ragione legata al quesito.

    Tab. 8 – Intenzioni di voto al referendum per zona geopolitica [1]tab10


    Per ulteriori analisi sulle intenzioni di voto al referendum clicca:

    La polarizzazione del voto referendario sull’asse destra-sinistra

    Referendum e categorie professionali: il SI domina tra i pensionati, il NO è avanti in tutti i settori attivi

    Il referendum e la dimensione europea

    Il referendum e l’istruzione

    Il fronte del SI e la questione meridionale


    [1] Quattro regioni costituiscono la Zona Rossa: Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Umbria. Le 7 regioni a nord di queste costituiscono in Nord, mentre le 9 regioni a sud della Zona Rossa formano il Sud.

  • Che cosa lega riforma e Italicum

    Che cosa lega riforma e Italicum

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 2 ottobre 2016

    La legge elettorale è meno importante della riforma costituzionale. Questa affermazione fatta da Renzi l’altro ieri a Perugia è sbagliata. E’ vero esattamente il contrario.  Senza una buona legge elettorale la riforma costituzionale da sola non può favorire la cosa che oggi conta di più, e cioè la stabilità dei governi. Per cambiare l’Italia, per far fronte alle sfide della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica occorrono governi capaci di durare. Governi con un orizzonte temporale. E per cercare di arrivare a questo risultato il sistema elettorale è una condizione necessaria anche se non sufficiente. Certo, non basta la stabilità per assicurare la governabilità. Ma senza stabilità non possono esserci né governabilità né responsabilità. Governi instabili sono governi che non devono render conto agli elettori di quello che fanno o non fanno. Sono governi irresponsabili. E sono i sistemi elettorali che favoriscono o meno la stabilità dei governi.

              In tempi difficili per i sostenitori del SI fa comodo separare la riforma costituzionale da quella elettorale. E’ tattica politica che si regge su un dato di fatto: il referendum riguarda la riforma della costituzione e non l’Italicum. La nuova legge elettorale è già stata approvata in parlamento in via definitiva, anche se solo per la Camera. E può essere cambiata con legge ordinaria. Quindi con una procedura più semplice di quella prevista per le modifiche della costituzione.  Da qui la conclusione che il SI al referendum lascia comunque la porta aperta ad eventuali cambiamenti della legge elettorale. Come se le due riforme siano indipendenti l’una dall’altra. Sulla carta è così. La riforma della Costituzione  è formalmente compatibile con qualunque sistema elettorale. Il bicameralismo differenziato può coesistere sia con un sistema proporzionale che con l’Italicum. La nuova ripartizione delle competenze tra stato e regioni prescinde dal sistema con cui verranno eletti i deputati. E lo stesso vale per i capitoli della riforma dedicati al potenziamento degli strumenti di democrazia diretta e alla riduzione dei costi della politica.

              Tutto questo è vero, ma non coglie l’essenziale. In realtà le due riforme sono strettamente connesse. Tanto connesse che vivranno o cadranno insieme. La semplificazione del processo legislativo legata al superamento del bicameralismo paritario e l’introduzione del voto a data certa sui provvedimenti prioritari del governo servono a poco se i governi continueranno a durare meno di un anno come nella Prima Repubblica o meno di due anni come nella Seconda.  E’ la combinazione di Italicum e riforma costituzionale- quello che con un brutto termine da chierici viene chiamato il ‘combinato disposto’- a creare le condizioni di un diverso modello di democrazia in cui stabilità e responsabilità del governo si combinano in modo equilibrato con la rappresentatività del parlamento. Non è un caso che chi critica la riforma costituzionale lo fa non solo per i suoi contenuti ma soprattutto per il suo collegamento con la riforma elettorale. La tesi sbagliata della deriva autoritaria, che adesso è stata trasformata in deriva oligarchica, trova il suo fondamento proprio nel collegamento tra le due riforme.

              Questo lo sa bene anche Renzi. Ma il premier è preoccupato per l’esito del referendum. Le sue ultime dichiarazioni confermano la disponibilità a trattare sulla riforma dell’Italicum per aumentare le possibilità di vittoria del SI. Niente di male. La politica è la scienza del possibile. Ma ci sono dei limiti. Va bene sostituire i capilista bloccati con un sistema di collegi uninominali proporzionali. Va bene modificare le candidature plurime. Alla fine va anche bene introdurre il premio alla coalizione. Tanto le coalizioni si potranno fare o non fare. Basta solo tener presente però che una modifica del genere aumenterà la frammentazione del sistema dando più spazio ai partitini e alle scissioni dei partiti più grandi. Tutto questo si può fare. Sperando che serva a vincere il referendum, il che non è affatto detto. Quello che non si deve fare è la cancellazione del ballottaggio o il suo stravolgimento con accorgimenti come quelli indicati da Onida (si veda IlSole24Ore del 15 settembre).

              Il ballottaggio è il meccanismo più semplice, più trasparente e più democratico per cercare di favorire la creazione di governi stabili in condizioni difficili. Con il ballottaggio sono gli elettori a decidere. Sono loro, e non i partiti, gli arbitri della formazione del governo. Quanto meno all’inizio della legislatura. Ma il ballottaggio dell’Italicum fa paura. Nel nostro paese la stabilità dei governi fa paura a molti. Questo è il punto. Con le riforme istituzionali degli anni novanta abbiamo risolto il problema della stabilità dei governi comunali e regionali. Sindaci e presidenti di regione non sono più alla mercé dei consigli e dei partiti. Manca ora l’ultimo tassello. Quello più difficile. Dare stabilità al governo nazionale. Se al referendum vinceranno i NO torneremo al proporzionale e a governi di coalizione, con l’aggravante della assenza dei grandi partiti della Prima Repubblica. Torneremo alla instabilità e alla irresponsabilità. Ma se Renzi cederà sul ballottaggio i NO avranno già vinto senza nemmeno il bisogno di andare a votare a Dicembre.

  • Con il proporzionale Berlusconi torna in partita

    Con il proporzionale Berlusconi torna in partita

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 25 settembre 2016

    La voglia di proporzionale si sta diffondendo a macchia d’olio.  Ma non è una sorpresa. Il nostro in fondo è sempre stato un paese più proporzionale che maggioritario.

    L’idea che una minoranza possa diventare maggioranza attraverso il sistema elettorale fa fatica ad essere accettata a livello di massa. E certamente non piace alla maggioranza della nostra classe politica che preferisce sistemi in cui la formazione dei governi avviene dopo il voto e non con il voto. Il maggioritario è arrivato nel 1994 per caso. Grazie a un referendum che gli elettori non potevano capire ma che hanno utilizzato per esprimere rabbia e voglia di cambiamento. Dietro quel voto non si è sviluppata una cultura diffusa a sostegno dell’idea che la stabilità dei governi sia tanto importante quanto la rappresentatività dei parlamenti.

              Nonostante ciò, il maggioritario è sopravvissuto. Grazie soprattutto a Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia lo ha sfruttato per riunire intorno a sé e al suo partito i vari pezzi di una destra frammentata e eterogenea. Lo ha fatto prima con i collegi uninominali della legge Mattarella e la creazione di Poli e di Case. Poi ha sostituito nel 2005 quei collegi con il premio di maggioranza del famigerato porcellum. Lo strumento era diverso, ma l’obiettivo era lo stesso: l’unificazione del centro-destra. Con il porcellum ha sfiorato la vittoria nel 2006. Ha vinto nel 2008. E ha sfiorato di nuovo la vittoria alla Camera nel 2013. Poi è arrivata la sentenza della Consulta del Gennaio 2014 che ha resuscitato il proporzionale. Ma è arrivato anche Matteo Renzi cui il proporzionale non piaceva affatto. L’allora segretario del Pd ha trovato in Berlusconi un alleato per tornare al maggioritario. L’Italicum è nato così. Ed è stato approvato con i voti di Forza Italia fino alla conclusione del suo iter parlamentare.

              Oggi le convenienze sono cambiate. Berlusconi non ha più interesse ad un sistema maggioritario. Soprattutto un sistema come l’Italicum che assicura sempre e comunque una maggioranza di seggi a chi vince. Non gli conviene più. L’Italicum è stato negoziato e approvato in un periodo quando Berlusconi nutriva ancora la convinzione che sarebbe riuscito a fare di Forza Italia il collante del centro-destra, come è sempre stato dal 1994 in avanti. All’epoca era certo che con la sua leadership questo schieramento sarebbe tornato ad essere competitivo, tanto da potersi giocare la vittoria con il Pd di Renzi. Per questo ha accettato il ballottaggio. Ne era talmente convinto che non si è nemmeno opposto alla richiesta di Renzi di assegnare il premio non alla coalizione ma alla lista.

              Questa convinzione oggi è svanita. E nemmeno Parisi sembra in grado di rivitalizzarla. Nelle condizioni in cui è, e in cui presumibilmente rimarrà nel medio termine, il centro-destra non solo non ha alcuna chance di vincere ma nemmeno di arrivare al ballottaggio. Il secondo posto al secondo turno dell’Italicum è molto probabile che vada al M5s. Berlusconi è arrivato a questa- per lui triste- conclusione. E allora un sistema elettorale che lo relegherebbe ai margini della politica non va affatto bene. Molto meglio un sistema proporzionale. Magari corretto. Ma non troppo.

              Basta fare due conti. Anche se il Pd di Renzi arrivasse al 35% dei seggi, con chi fa il governo?  C’è qualcuno ancora disposto a credere che sia possibile un governo Pd-M5s?  Beh, se c’è qualcuno non è certamente l’attuale premier. Ma l’idea di un governo Renzi-Di Maio è divertente. Più realistica invece è la soluzione di un governo Pd-Forza Italia. Sempreché ci siano i numeri. Perché a pensar male, si corre il rischio che i due partiti non bastino. E potrebbe essere un bel problema. Che sia Renzi a presiederlo è cosa dubbia. Ma non è questo il punto. Chiunque sia il futuro premier, Forza Italia – anche con il 12 % dei seggi – sarebbe indispensabile per fare qualunque governo. Ed è questo che conta per Berlusconi. Visto che non può vincere, gli va bene anche partecipare. Evviva dunque il proporzionale! Che non vada bene al paese è un dettaglio. Intanto vediamo che succede tra referendum e Consulta.