Autore: Davide Vittori

  • Crollo del PSOE nelle regionali in Andalusia: verso il primo governo di centrodestra?

    Crollo del PSOE nelle regionali in Andalusia: verso il primo governo di centrodestra?

    Secondo Cas Mudde (2010), la destra radicale lungi dall’essere una ‘normale’ patologia, dovrebbe essere intesa come una patologica ‘normalità’: in tutte le polities europee i valori della destra radicale sono la ‘normalità’ – un nuovo mainstream nella domanda e nell’offerta politica – con cui tutti i sistemi partitici hanno dovuto fare i conti. Con poche eccezioni; tra queste la Spagna. Nonostante il terreno fertile per questa famiglia partitica in termini di valori espressi dall’opinione pubblica spagnola, fattori strutturali (una legge piuttosto disproporzionale pur nell’impostazione proporzionale) e di competizione partitica (la capacità del Partito Popolare di attrarre l’elettorato più a destra), hanno impedito alla destra radicale di sfondare in terra iberica (Alfonso e Katlwasser 2015). Per lo meno fino a queste elezioni in Andalusia. Per molti aspetti questa tornata rappresenta un terremoto con conseguenze nel medio-lungo periodo ancora difficili da prevedere. E non solo perché si tratta della Comunità Autonoma più popolosa della Spagna (e anche una tra le più povere, specie al di fuori delle aree urbane). Il risultato di Vox (11%), partito nato nel 2013, sembra indicare che la normalizzazione della destra-radicale, già avvenuta nel lato della domanda, potrebbe essersi spostata anche sul lato dell’offerta. E questo proprio quando il PSOE-A – il partito socialista andaluso – rischia seriamente di essere escluso dal governo per la prima volta nella storia. Con le dovute proporzioni, se volessimo trovare una comparazione italiana potremmo dire che il PSOE-A rappresenta ciò che il PD rappresenta nelle regioni rosse oppure, per rifarsi ad un altro caso non italiano, ciò che la CSU rappresenta in Baviera. Come si vede nella Figura 1, in oltre la metà dei comuni andalusi, il PSOE aveva sempre ricevuto la maggioranza (almeno relativa) dei voti alle regionali.

    Fig. 1 – Storia elettorale del PSOE nelle regionali andaluseandalusia_PSOE_mapProviamo a capire che cosa è accaduto provando a fornire qualche chiave di lettura.

    La grande caduta: l’Andalusia a destra?

    Nonostante la polarizzazione della competizione politica, l’affluenza si attesta sul 58,6%, quasi 4 punti in meno rispetto alle precedenti regionali, nel 2015, quando a votare era andato il 62,3% degli aventi diritto. L’ingresso di un nuovo partito di destra radicale, dunque, non ha portato nuovi elettori alle urne. E difatti – Vox a parte – solo Ciudadanos (C’s) ha aumentato i propri voti in termini assoluti, raddoppiandoli rispetto alle precedenti elezioni della Comunità Autonoma. PSOE-A, il Partito Popolare (PP) e Adelante Andalusia (AA, alleanza tra Podemos, Izquierda Unida e i Verdi) hanno visto un calo vistoso. I socialisti hanno lasciato per strada 400.000 voti, 315.000 il PP e 282.000 AA (Tabella 1). Vox nel 2015 era relegato ad un ruolo di pura testimonianza, come moltissimi altri partiti ultra-conservatori, nostalgici e di destra radicale, che popolano la Spagna dalla transizione alla democrazia. In tre anni, è passato da 18mila voti a oltre 395mila voti. I voti assoluti, tuttavia, restituiscono un’immagine solo parziale di quanto è successo.
    Quello che è accaduto in termini sostanziali è che il PP (26 seggi) e C’s (21), alleati di governo a Madrid (attraverso il supporto esterno di C’s a un monocolore popolare) sino all’anno passato, sono giunti ad 8 seggi dalla maggioranza assoluta (55). Con un accordo con Vox (12) si potrebbe costituire la prima maggioranza non socialista in Andalusia. Per il PSOE-A è l’ennesimo risultato negativo: mantiene la maggioranza relativa (33 seggi) e si riprende la palma di primo partito andaluso (del PP nelle politiche del 2016), ma scende sotto la soglia psicologica del 30% (28%, vedi Tabella 1). Eppure il PSOE-A non è il PSOE a livello nazionale: certamente dall’Andalusia deriva il più grande bacino elettorale del partito, ma la rottura consumatasi nel partito tra il 2016 e il 2017 vedeva proprio la corrente capitanata dalla candidata socialista in Andalusia, Susana Díaz, contrapporsi al nuovo primo ministro Pedro Sánchez. Díaz ha vinto la prima battaglia (le dimissioni di Sánchez nel 2016), ma ha perso la guerra (le primarie del 2017 in cui Sánchez si è ripreso il partito) e si ritrova ora ancora più alle strette. L’indebolimento del PSOE-A è un brutto segnale per un partito che era dato in ascesa a livello nazionale in molti sondaggi. Tuttavia, potrebbe anche garantire un maggiore margine di manovra a Sánchez nel finale di legislatura. Il PP, pur con dichiarazioni trionfaliste, vede arrivare la marea arancione di C’s. E non solo a livello a livello di Comunità Autonome. Il fatto che nelle precedenti regionali del 2015 ci fossero 12 punti di distanza (addirittura 15 dopo le politiche del 2016) e ora il margine si sia ridotto ad appena due punti, dovrebbe far riflettere il nuovo corso conservatore di Pablo Casado. Il PP paga l’essere uscito dall’esecutivo nel suo peggior momento, quando la questione catalana e alcune indagini per corruzione hanno pregiudicato l’immagine del partito. Al contempo, il messaggio ‘nazionalista’ di C’s – specie in una regione a statuto autonomo come l’Andalusia, ma fortemente dipendente da Madrid – sembra aver fatto presa in un elettorato che vede di cattivo occhio ulteriori cedimenti alle spinte centrifughe nel paese.

    Tab. 1 – Risultati elettorali in Andalusia, 2015-2018andalusia_tab1

    La novità di Vox, la normalizzazione di Podemos

    E se i partiti tradizionali soffrono, solo due dei tre partiti anti-establishment possono gioire. Può cantare vittoria Vox: il tema dell’immigrazione sembra aver fatto presa nell’elettorato andaluso, garantendo un fondamentale potenziale di ricatto al partito di destra-radicale. Una grande coalizione contro di esso con PSOE-A, PP e C’s darebbe ancor più risalto al risultato; un inserimento di Vox nella giunta di una comunità da sempre dominata dalla sinistra altrettanto. All’opposizione o al governo si tratta di una situazione win-win per Vox almeno nel breve periodo. Assieme a Vox, l’altro vincitore è indubbiamente C’s che raddoppia i voti e si pone come alternativa partitica – pur non essendo un’alternativa ideologica – al PP sul piano nazionale. Discorso a parte invece per Podemos: il partito che era nato per spostare l’asse della competizione da sinistra/destra a alto/basso, si sta lentamente normalizzando assomigliando sempre più a quello che non voleva diventare, l’ala sinistra dei socialisti. Proprio in Andalusia, dove il partito nel 2015 aveva prima ottenuto un risultato sorprendente e poi aveva rifiutato l’accordo con Susana Díaz, Podemos si trova in uno stallo. L’accordo col PSOE-A ora non garantirebbe la maggioranza (50 seggi totali contro i 55 necessari) ed entrare in una grande coalizione con partiti di centro-destra sarebbe molto rischioso (e difficilmente realizzabile, essendo la leadership di Podemos in Andalusia più a sinistra di quella di Madrid). Rimane il fatto che in Andalusia le due sinistre divise – Podemos e Izquierda Unida (più altri alleati minori) – si attestavano intorno al 20%. Presentandosi unite, non solo non sono riuscite ad essere alternative al PSOE, ma hanno anche perso voti. Sia chiaro, il 16,2% è un risultato rimarchevole e al di sopra di ogni aspettativa se lo si guarda con gli occhi del 2014. Oggi, tuttavia, siamo nel 2018 e la sinistra sembra di nuovo relegata in un angolo, per quanto grande e più confortevole degli ‘angoli’ angusti del passato.

    Concludendo

    Ora inizieranno le trattative per la formazione della giunta e Susana Díaz ha già fatto intendere di voler cercare un accordo con gli altri partiti moderati e di sinistra. Al contempo PP e C’s rivendicano una vittoria storica. All’orizzonte si stagliano però le elezioni europee e soprattutto la sopravvivenza del governo di minoranza guidato da Sánchez. Difficilmente si può pronosticare un nuovo ribaltone parlamentare, data anche la procedura di sfiducia costruttiva necessaria per far cadere il governo. Tuttavia, in casa socialista si rifletterà certamente sul da farsi nei prossimi mesi. I sondaggi garantiscono un risultato discreto per il PSOE, che potrebbe voler capitalizzare la luna di miele del nuovo governo, senza dover passare per il test delle elezioni europee. Proprio nel 2014, per la prima volta, il sistema politico spagnolo da bipartitico si trasformò in quadripartitico, portando due nuovi competitor sulla scena (Podemos e C’s). Il 2019 rischia di consegnare uno scenario ulteriormente frazionato e con i partiti tradizionali ancor di più sulla difensiva.

    Riferimenti bibliografici

    Alonso, Sonia, e Cristóbal Rovira Kaltwasser. (2015), ‘Spain: No Country for the Populist Radical Right?’, South European Society & Politics, 20(1), pp. 21-45.

    Mudde, Cas (2010), ‘The Populist Radical Right: A Pathological Normalcy’, West European Politics, Vol. 33(6), pp. 1167-1186.

  • Qualcosa è cambiato. Un nuovo euroscetticismo e una nuova frattura politica in Italia?

    Qualcosa è cambiato. Un nuovo euroscetticismo e una nuova frattura politica in Italia?

    Dall’introduzione del Trattato di Maastricht il sistema politico italiano si è sempre caratterizzato per una netta prevalenza delle forze pro-europeiste (o euro-entusiaste). Secondo Taggart e Szczerbiak (2002) all’inizio degli anni 2000 l’Italia era il paese dell’Europa Occidentale in cui i partiti euroscettici (sia nella versione soft che in quella hard) erano meno rappresentati (con la sola eccezione della Spagna). Nonostante l’ambiguità mostrata da Forza Italia nei confronti delle istituzioni europee specialmente, ma non esclusivamente, nel quinquennio 2001-2006 (Rossi 2002, Quaglia 2005 e 2011) e la presunta svolta neo-atlantista di Silvio Berlusconi durante il conflitto iracheno, i partiti di centro-destra (Forza Italia prima e Popolo della Libertà dopo) si sono sempre allineati con i partiti di centro e centro-sinistra nelle principali votazioni nel Parlamento italiano concernenti i trattati europei. Nonostante le élite politiche di centro-sinistra in Italia siano sempre state maggiormente pro-europeiste, in comparazione con quelle conservatrici, il quadro che emergeva alla vigilia della crisi, secondo quanto analizzato da Roux e Verzichelli (2010), era che queste ultime – e ancor più quelle economiche – mostravano un supporto marcato nei confronti dell’integrazione europea. Questo supporto si rifletteva anche nell’opinione pubblica: al pari di quello dei parlamentari (Benedetto 2008), l’europeismo dell’opinione pubblica è difatti stato sempre considerato un fatto acquisito per il sistema politico italiano (si veda in prospettiva comparata Lubbers and Scheepers 2005). La Grande Recessione ha messo questo doppio consenso alle corde.

    Una prospettiva di lungo periodo: il tradizionale europeismo italiano di fronte alla crisi

    I dati dell’Eurobarometro in questo caso possono fornire un quadro diacronico dell’evoluzione e dei cambiamenti dell’elettorato: mettendo insieme le due maggiori potenze economiche e politiche europee e i “vicini” italiani del Sud Europa (Grecia e Spagna) è possibile notare come all’indomani dell’introduzione della moneta unica, solo (all’incirca) un italiano su dieci aveva un giudizio “negativo” o “abbastanza negativo” dell’Unione Europea. Questa proporzione è andata diminuendo negli anni successivi, mantenendosi costantemente al di sotto della media dell’Unione Europea e del duo franco-tedesco, dove le risposte negative oscillavano tra il 15% e il 20% nel quinquennio 2000-2005. La Grande Recessione cambia lo scenario (Figura 1). Radicalmente. Ma soprattutto nel Sud Europa, dove per la prima volta le risposte negative superano la media europea nel momento finanziariamente più critico per Grecia, Spagna e Italia (2011-2013, per la Grecia il trend non si attenua nei successivi anni).

    Fig. 1 – Andamento dei giudizi negativi circa l’Unione Europeaeuroscetticismo_fig2

    Passando dal giudizio sull’Europa al sostegno all’Euro, i dati Eurobarometro mostrano per l’Italia una tendenza analoga. Il Sud Europa, sin dalla ratifica del Trattato di Maastricht, ha mostrato un altissimo supporto all’Euro, con l’Italia a fare da capofila per tutto il decennio che ha preceduto il faticoso ingresso del paese nella moneta unica (Figura 2). Anche quando questo supporto è calato nel decennio pre-crisi (2000-2009), esso si è mantenuto al di sopra della media europea, fatta eccezione per una brevissima parentesi. Mentre in Spagna e Grecia, alla crescente percezione negativa dell’Unione Europea non ha fatto da contraltare un calo di portata significativa sulla moneta unica, in Italia i giudizi negativi su Unione ed Euro sono andati a braccetto, pur essendo la moneta unica ancora un ancoraggio fondamentale per l’opinione pubblica italiana, come vedremo di seguito. Quello che però la Figura 2 evidenzia in Italia è un calo di oltre trenta punti dal 2002 al 2016 e soprattutto, in maniera speculare, una completa “rivoluzione” nell’elettorato tedesco che, tra quelli presi in analisi, si è trasformato nel più ferreo sostenitore dell’Euro, dopo esserne stato per lungo tempo molto più scettico.

    Fig. 2 – Andamento dei giudizi positivi circa l’Euroeuroscetticismo_fig2

    Ai giorni nostri: una nuova frattura nell’elettorato?

    Spostando lo sguardo alla politica odierna in Italia, il trend evidenziato dall’Eurobarometro sino al 2016 risulta essere confermato anche nel 2018. Un sondaggio CATI-CAMI-CAWI condotto da IPSOS nell’ottobre di quest’anno mostra come il grado di fiducia nell’Unione Europea – ossia coloro che hanno espresso un giudizio da 6 a 10 in una scala da 0 a 10 – sia fermo al 34% del campione, ben 22 punti percentuali in meno di chi invece ha espresso sfiducia nei confronti di Bruxelles (giudizi da 0 a 5). A livello partitico, emerge chiara la frattura tra il Partito Democratico e i partiti di governo che, dopo aver condotto una campagna elettorale nel 2014 molto critica nei confronti delle istituzioni europee (basti ricordare il motto “Basta Euro!” della Lega), hanno innalzato di recente il livello di scontro con la Commissione. Solo il 26% e il 21% dell’elettorato rispettivamente di Cinque Stelle e Lega nutre fiducia nell’UE (il 72% e il 77% ha un giudizio negativo), mentre nel PD questa percentuale è del 78% (contro un 22% di giudizi negativi). Più ondivago il caso dell’elettorato di Forza Italia che appare spaccato su questa issue (52% di giudizi negativi contro il 39% di quelli positivi).
    Anche sull’Euro si nota una spaccatura, seppure anche qui, in linea con i dati dell’Eurobarometro, il supporto alla moneta unica è ancora maggioritario nel paese. Il 61% propende ancora per la moneta unica e solo un 27% vorrebbe il ritorno della Lira. Seppure in un quadro di generale supporto, il trend evidenziato nei giudizi sull’Unione da parte degli elettorati di Cinque Stelle, Lega, PD e FI qui si ripete specularmente. Nella Lega il ritorno al vecchio conio è supportato dal 50% del proprio elettorato, mentre nei Cinque Stelle la percentuale è del 36%, quindi al di sopra del dato del campione di 9 punti. Gli elettori del PD sono unanimi nel supporto all’Euro (97%), mentre in FI le percentuali rispecchiano quelle dell’elettorato (60% a favore dell’Euro, 25% della Lira).
    Uno dei cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle alle scorse elezioni europee era stato il referendum sull’Euro. Un referendum presumibilmente consultivo, come solo una volta è accaduto in Italia su un potenziale mandato costituente al Parlamento Europeo. Il sondaggio si spinge più in là chiedendo agli intervistati il proprio posizionamento sull’uscita del paese dall’Unione Europea (EX-ITA) in caso di referendum. Al netto di coloro che non sanno o non rispondono – una quota non indifferente (21%) – il sondaggio evidenzia una netta preferenza (54%) per la permanenza del paese nell’Unione, rispetto ad una potenziale EX-ITA (25%). Come nei due precedenti casi, l’elettorato della Lega si conferma come il più euroscettico (48% a favore dell’uscita e 32% contro); nel polo opposto il Partito Democratico in cui il 93% degli elettori vuole rimanere nell’Unione. Tra i due poli – euroscettico forte ed euro-entusiasta, si inseriscono gli elettori del Movimento 5 Stelle (35% a favore dell’uscita, 42% per la permanenza) e di Forza Italia (27% pro EX-ITA, 62% per la permanenza). Da registrare che, mentre i due alleati di governo registrano una quota significativa di chi non sa, non indica una preferenza o non voterebbe (23% Movimento 5 Stelle, 20% Lega), nel PD e in Forza Italia questa quota scende rispettivamente al 2% e all’11%, segno che le preferenze negli elettorati di questi due partiti sono maggiormente consolidate.
    Rimane certamente complicato stabilire quanto la frattura europea sia stata decisiva per la strutturazione del voto dello scorso marzo, tuttavia una breve comparazione con la Grecia può fornire uno spunto di riflessione. Nel Gennaio 2015, quando SYRIZA ottenne la maggioranza relativa alle elezioni, l’alleato di governo (ANEL) era il partito che più si avvicinava alle posizioni del partito di maggioranza sull’UE rispetto ad altri potenziali partner. Lo stesso è accaduto in Italia, pur in un contesto di minore polarizzazione sulla questione europea rispetto alla Grecia. Quanto questa frattura sia duratura è difficile stabilirlo; tuttavia, le elezioni europee del 2019 potrebbero consolidare questa tendenza, specie se le tensioni con la Commissione dovessero continuare. Se così dovesse essere, sarebbe l’elettorato del Movimento 5 Stelle, tutt’altro che compatto sulla questione europea, a dover fare una scelta “dura”, ossia privilegiare la fedeltà al partito o punire lo spostamento dei 5 Stelle verso un polo più marcatamente euroscettico.

    In ogni caso, uno sguardo complessivo ai dati sembra suggerire una chiave di lettura fatta di due aspetti: da un lato emerge un forte atteggiamento critico nei confronti dell’Unione Europea e delle politiche economiche simboleggiate dall’Euro; dall’altro, tuttavia, si riscontra una tendenza chiara a non mettere in discussione in modo significativo (se non nell’elettorato della Lega, perfettamente diviso) l’appartenenza dell’Italia all’Europa e all’Euro – come confermato dai dati CISE di pochi mesi fa (Emanuele e De Sio 2018). Di qui la complessità delle strategie dei partiti (soprattutto di quelli di governo) nell’interpretare il mandato di un elettorato che vorrebbe evidentemente che l’indirizzo politico dell’Unione Europea cambiasse, ma senza mettere in dubbio l’appartenenza all’Europa (De Sio e Paparo 2018).

    Riferimenti bibliografici

    Benedetto, Giacomo (2008), ‘Explaining the Failure of Euroscepticism in the European Parliament’, in Szczerbiak, Aleks e Paul Taggart (a cura di), ‘Opposing Europe? The Comparative Party Politics of Euroscepticism‘ (Volume 2), Oxford, Oxford University Press, pp. 127-150.

    De Sio, Lorenzo e Aldo Paparo (2018), ‘Il sondaggio CISE: priorità dei cittadini e strategie dei partiti verso il voto’, in Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE(11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 153-158.

    Emanuele, Vincenzo e Lorenzo De Sio, (2018), ‘Il mandato del 4 marzo. Dietro vittorie e sconfitte, la domanda di affrontare vecchi problemi e nuovi conflitti’, in Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE(11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 21-30.

    Lubbers, Marcel e Peer  Scheepers (2005), ‘Political versus Instrumental Euro-scepticism’, European Union Politics, 6(2), pp. 223-242.

    Quaglia, Lucia (2005), ‘Europe and the right in Italy: an ambivalent relationship’, South European Society and Politics, 10(2), pp. 277–291.

    Quaglia, Lucia (2011), ‘The Ebb and Flow’ of Euroscepticism in Italy’, South European Society and Politics, 16(1), pp. 31-50.

    Rossi, Lucia Serena (2002), ‘New trends in Italy’s European policy’, The International Spectator, 37(1), pp. 97-106.

    Roux, Christophe e Luca Verzichelli (2010), ‘Italy: Still a Pro-European, but not a Fully Europeanised Elite?’, South European Society and Politics, 15(1), pp. 11-33.

    Taggart, Paul e Aleks Szczerbiak (2002),’The Party Politics of Euroscepticism in EU Member and Candidate States’, Opposing Europe Research Network Working Paper N. 6.

  • Regionali TAA: storico successo della Lega, a Bolzano la SVP arretra ma tiene

    Regionali TAA: storico successo della Lega, a Bolzano la SVP arretra ma tiene

    Le elezioni per il rinnovo dei consigli autonomi delle province di Trento e Bolzano e, contestualmente, del consiglio regionale hanno prodotto risultati in linea con i risultati delle scorse politiche, ma che certificano un mutamento per così dire “storico” dei sistemi politici. Come già ribadito nel precedente articolo (Carrieri e Paparo 2018) su questa tornata elettorale, la provincia di Trento si è caratterizzata per un’egemonia del centrosinistra durante la fase bipolare (1994-2008), mentre a Bolzano il partito egemone è stato da sempre l’SVP, al di sotto della maggioranza assoluta dei voti per la prima volta solo nel 2013. Rispetto però alle previsioni più fosche, tuttavia, il partito di Arno Kompatscher rimane oltre il 40% (41,9%) perdendo però il 3,8% rispetto al 2013 e il 6,9% rispetto alle ultime politiche. Seguendo anche le prescrizioni della legge elettorale, all’SVP servirà un accordo con altre forze politiche (italiane) per garantirsi la maggioranza assoluta nella provincia: nel 2013 l’alleato era stato il PD, con cui l’SVP si è alleato per le elezioni 2018. Per i prossimi cinque anni, tuttavia, il solo seggio conquistato dal PD non basterà più.
    Nella provincia di Trento, invece, la scossa al sistema politico può definirsi tellurica guardando al 2013, mentre è in linea con i risultati delle elezioni di marzo: il centrodestra guidato dal sottosegretario Maurizio Fugatti (46,7%) è la coalizione vincente, con la Lega ad avere la preminenza e Forza Italia relegata al ruolo di junior partner insieme agli altri alleati. Una nuova sconfitta, invece, per il PD che, pur rimanendo il secondo partito, amplia a 13,2 punti il distacco con la Lega, perdendo rispetto al 2013 8,3 punti percentuali (-5,6 rispetto alle politiche 2018). Il centrosinistra nel suo complesso è staccato di oltre venti punti dal centrodestra, mentre cinque anni orsono aveva raccolto quasi il 60% dei voti.
    Vediamo nel dettaglio i risultati delle due province, in modo da fornire un quadro più dettagliato di queste elezioni.

    Alto Adige: l’SVP è ancora il primo partito, ma cresce la Lega (non le destre)

    Come già ribadito, l’SVP pur retrocedendo ancora in termini di supporto elettorale rispetto al 2013 e rispetto alle ultime elezioni politiche, evita il peggio, ossia uno scenario simile a quello della CSU bavarese (-10,4% e meno 16 seggi): sarà ancora il partito egemone in Alto Agide per i prossimi cinque anni, pur non potendo contare sul decisivo apporto del PD, che ha perso uno dei due seggi del 2013 e che ha visto ridursi del 50% in termini assoluti i propri voti rispetto a marzo. Il calo rispetto al 2013 è di -2,9 punti. Se l’SVP dovesse scegliere come partner la Lega (vedi sotto), si ripeterà uno scenario simile a quello austriaco, in cui l’ÖVP ha optato per una coalizione con la destra-radicale dell’FPÖ (Plescia, Kritzinger e Oberluggauer 2018). Sempre nell’alveo del centrosinistra, i Verdi, che hanno avuto l’appoggio di LeU, come nel 2013 ebbero quello di SEL con cui si coalizzarono in una lista unica, calano al 6,8% (8,7% nel 2013). A sorprendere, invece, il partito fondato dall’ex grillino Paul Köellensperger, che ha lasciato i 5 Stelle in polemica con “l’appiattimento” del partito rispetto all’SVP: con una chiara piattaforma rivolta all’elettorato di lingua tedesca, il Team Köllensperger (questo il nome del movimento), si è imposto come seconda forza altoatesina con un ragguardevole 15,2%. Dovendo esserci un Vicepresidente italiano nella provincia, tuttavia, il Team Köllensperger non potrà allearsi con l’SVP (di cui però si era già dichiarato oppositore). Per quanto riguarda il centrodestra nazionale, la Lega fa la voce grossa (11,1%): è il primo partito a Bolzano (27,8% contro il 16,6% dell’SVP) e soprattutto registra una crescita rilevante a livello provinciale rispetto al 2013, quando si fermò allo 0,9%, e rispetto al 2018 (9,6%). Il successo della Lega coincide con la crisi della destra radicale (e indipendentista), rappresentata da Süd-Tiroler Freiheit e, soprattutto, da Die Freiheitlichen. Il primo, in realtà, rispetto alla precedente tornata regionale perde solo l’1,2% (6%), mentre il secondo, dopo l’exploit delle politiche del 2013 (15,9%) e le regionali del medesimo anno (17,9%), crolla al 6,2% divenendo il quinto partito in Alto Adige, dopo essere stato secondo nei precedenti cinque anni. Sulla destra con proiezione nazionale e quella localista occorre però un distinguo: la destra indipendentista rispetto al 2013, perde in Oltradige-Bassa Atesina, Salto-Sciliar, Val d’Isarco, Alta Val d’Isarco, Val Pusteria, Val Venosta, Burgraviato, dove la Lega ha avuto sì buoni risultati, ma non ha certamente sfondato come avvenuto a Bolzano, dove è saldamente il primo partito e in cui in coalizione con Forza Italia aveva ottenuto l’8% alla scorsa tornata. Al di fuori di Bolzano è il Team Köllensperger a porsi come seconda compagine dietro la SVP (con l’eccezione dell’Oltradige-Bassa Atesina dove il partito è giunto terzo dietro SVP e Lega); segno che il cleavage linguistico è sì forte, ma le posizioni indipendentiste a tinte più forti non hanno premiato come nel 2013. In calo costante invece Forza Italia: il partito di Berlusconi vantava un 6,7% nelle politiche del 2013 e un 5,1% nel 2018: ora è all’1% ed è fuori dal consiglio provinciale, dove invece mantiene un seggio Fratelli d’Italia, all’1,7% in linea con le elezioni di marzo. Infine, i 5 stelle dopo la scissione di Köllensperger registrano una battuta d’arresto importante. Pur non essendo l’Alto Adige terra d’elezione per i grillini, il 2,3% di queste elezioni si scontra con i buoni risultati delle politiche del 2018 (13,9%), le regionali del 2013 (6,7%) e le coeve politiche (8,3%). Quanto poi sul piano nazionale i voti del Team Köllensperger si possano nuovamente trasferire ai grillini, anche in vista delle prossime europee, è ancora presto per dirlo.

    Tab. 1 – Risultati elettorali nella provincia di Bolzano, 2013-2018 (clicca per ingrandire)[1]BZ18

    Trentino: addio centrosinistra, la Lega (e i suoi alleati) sono maggioranza

    In Trentino l’onda lunga delle elezioni di marzo ha causato uno scossone di vastissima portata. Dopo aver raccolto il 58,1% dei consensi nel 2013, ora il centrosinistra guidato dal dirigente PD di lungo corso, Giorgio Tonini, si ferma 25,4%: al 25,4% si deve aggiungere anche il 12,4% raccolto dal candidato uscente Rossi, che guidava in queste elezioni il PATT (in coalizione con il PD nel 2013). In totale, le due compagini perdono oltre 20 punti in soli cinque anni, rispetto alla coalizione vincente del 2013. Il PATT rispetto alle regionali del 2013 perde 5 punti percentuali (nelle elezioni nazionali, il partito è storicamente più debole). Il PD, che veleggiava in questi anni attorno al 20% (23,7% alle politiche del 2013, 22,1% alle regionali 2013 e il 19,5% alle scorse politiche), ora si ritrova al 13,9%, con un calo che oscilla tra i 5,6 e i 10 punti. Il 10,9% raccolto dalle due liste alleate (Futura 2018, 6,9% e UPT, 4%) mitigano solo parzialmente la sconfitta. Può esultare al contrario il centrodestra, che ribalta completamente gli esiti di cinque anni orsono, eleggendo Maurizio Fugatti alla provincia. Con un distinguo: se la Lega (27,1%) può ritenersi soddisfatta, per Forza Italia la situazione è oltremodo critica. Il partito di Salvini rispetto al 7,3% delle politiche del 2013 e il 6,5% delle regionali dello stesso anno ha compiuto un balzo impronosticabile fino a qualche anno orsono; tuttavia, il 27,1% è in linea con il successo delle politiche del 2018 (26,7%) quindi non del tutto inaspettato. FI, al contrario, sta affrontando una costante emorragia di voti. I risultati delle politiche 2013 (15%) e 2018 (8,5%) sembrano ormai lontani: il 2,8% è anche al di sotto del 4,4% raccolto dal partito di Berlusconi alle regionali del 2013. Segno che la fagocitazione da parte della Lega, con cui FI non intende rompere, si sta compiendo con difficili scappatoie nel breve-periodo: in coalizione porterebbe a casa una vittoria, pur perdendo consensi ed essendo sempre più marginalizzata; da sola, non avrebbe chances di vittoria, pur avendo una maggiore libertà di azione (e di critica). Cala anche FDI, per lo meno rispetto alle passate elezioni politiche: si ferma all’1,4%, rispetto al 3,3% di marzo. Il Movimento 5 Stelle presenta un andamento elettorale simile a quello del PATT, ma con un trend opposto: (molto) debole a livello provinciale e forte nelle politiche. Al 20,8% delle politiche 2013 ha fatto da contraltare il 5,8% delle regionali dello stesso anno; nel 2018, al 23,8% raccolto a marzo è seguito un 7,2%, che lo porta ad essere il quarto partito in Trentino. Da notare che si è allargata la forbice tra i risultati delle due tornate: da 15 a 16,5 punti percentuali. Segno che anche per il Movimento 5 Stelle, tale risultato non può ritenersi soddisfacente.

    Tab. 2 – Risultati elettorali nella provincia di Trento, 2013-2018 (clicca per ingrandire)[2]TN18

    Conclusioni

    La rivoluzione elettorale pronosticata prima delle elezioni è stata tale solo guardando ai risultati di cinque anni orsono. La Lega è sì indiscutibilmente uscita vincitrice dalle due elezioni (il suo sarà il gruppo più numeroso in Consiglio Regionale, Tab. 3), ma ha cavalcato un’onda che aveva già iniziato a incresparsi a marzo 2018 e che non si è interrotta nonostante gli scogli incontrati dal partito nei primi mesi di governo. Sempre che questi “scogli” siano stati percepiti nelle due province dove, specialmente in Alto Adige, la frattura linguistica, pur fortemente ridimensionata, rimane significativa grazie al successo fuori da Bolzano del Team Köllensperger, impostosi come secondo partito. Più significativa la sconfitta del centrosinistra in Trentino, dove vantata una lunga tradizione di governo. Pur avendo conquistato una provincia a trazione moderata-progressista come il Trentino, il centrodestra non può esultare compatto, perché Forza Italia ha ridotto tutto il suo potenziale di coalizione, confermando l’impressione di non essere in grado di staccarsi dall’abbraccio mortale della Lega. Un simile discorso, anche se meno allarmante, vale per Fratelli d’Italia. Il PD ancora una volta perde terreno: pur essendo l’elettorato moderato diviso tra il cleavage linguistico – con l’SVP e il PATT a drenare il supporto in questo tipo di elezioni – i democratici non riescono ad invertire la rotta negativa. Una considerazione a parte meritano i 5 Stelle: usciti sì ridimensionati da queste elezioni, ma con la consapevolezza che il voto di opinione difficilmente può tornare utile in queste tornate, specie in due sistemi politici con una peculiare strutturazione del conflitto partitico.

    Tab. 3 – Composizione dei consigli provinciali e del Consiglio Regionaleconsiglio

    In conclusione, quali indicazioni di carattere “nazionale” è possibile ricavare da queste elezioni regionali in Trentino-Alto Adige? Come sono andati davvero i partiti? Per rispondere a questo interrogativo nella maniera migliore, e ricavare da questo voto le informazioni più esatte  circa lo stato di salute elettorale dei principali partiti nazionali, abbiamo calcolato il rendimento elettorale alle regionali nel 2013 e nel 2018 rispetto alle politiche di pochi mesi prima (nelle due diverse province). Si tratta di un indice che abbiamo introdotto qualche mese fa (De Sio e Paparo 2018), in occasione delle elezioni comunali, proprio con lo scopo di ovviare al’arbitrarietà delle interpretazioni (Taagepera 2008), spesso derivanti da diverse aspettative di partenza. Come si può osservare nella Tabella 4, la Lega effettivamente si dimostra in grande forma. Infatti è fra i principali partiti nazionali (anche guardando al 2013) ad ottenere più voti alle regionali che non alle politiche. Questo avviene in Alto Adige, ma anche a Trento mostra un rendimento molto alto. Ciò significa che il Carroccio è innegabilmente in crescita dopo il 4 marzo.

    Si nota poi il deludente risultato del PD, che peggiora significativamente la propria capacità di trasportare sul piano locale i voti delle elezioni politiche. Il suo rendimento cala di circa 15 punti rispetto al 2013 sia a Bolzano che a Trento. Il M5S si conferma una volta di più debole nelle elezioni non nazionali, ma il risultato non è poi molto peggiore di quello di cinque anni fa: a Bolzano si osserva un certo peggioramento del rendimento (-9 punti), a Trento, invece, è, seppur basso in termini assoluti, leggermente più alto che cinque anni fa. Ciò indica che il M5S è andato male in queste elezioni, ma non peggio di quanto non fece nel 2013. Lo stesso vale per FI, che mantiene sostanzialmente invariati i (bassi) tassi di rendimento alle regionali che aveva nel 2013. La crisi del partito di Berlusconi sembra quindi essere avvenuta prima del 4 marzo, e non essersi acuita dopo – almeno in Trentino e Alto Adige.

    Tab. 4 – Rendimenti elettorali alle regionali rispetto alle politiche di pochi mesi prima, 2013 e 2018[3]TAA_rendimenti_VA

    Riferimenti bibliografici

    Carrieri, Luca e Aldo Paparo (2018), ‘Regionali in Trentino-Alto Adige: la volta buona per il centrodestra?’, Roma, Centro Italiano Studi Elettorali. https://cise.luiss.it/cise/2018/10/20/regionali-in-trentino-alto-adige-la-volta-buona-per-il-centrodestra/

    De Sio, Lorenzo e Aldo Paparo (2018), Comunali: chi potrà dire di aver vinto?’, Roma, Centro Italiano Studi Elettorali. https://cise.luiss.it/cise/2018/06/06/comunali-chi-potra-dire-di-aver-vinto/

    Plescia, Carolina, Sylvia Kritzinger e Patricia Oberluggauer (2018), ‘Svolta a destra nelle elezioni 2017 in Austria’, in Vincenzo Emanuele e Aldo Paparo (a cura di), Dall’Europa alla Sicilia. Elezioni e opinione pubblica nel 2017, Dossier CISE(10), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 207-210.

    Taagepera, Rein (2008), Making social sciences more scientific: The need for predictive models, Oxford, Oxford University Press.


    [1] Per le elezioni regionali, i dati di elettorali e votanti (e quindi la percentuale di affluenza) sono relativi agli aventi diritto residenti in provincia. Non sono quindi considerati gli aventi diritto al voto per corrispondenza, i quali pure concorrono ai risultati totali. Ecco perché, nel 2018, i voti validi sono più dei votanti: i voti validi sono infatti quelli complessivi (compresi quindi anche quelli per corrispondenza) su cui si assegnano i seggi; i votanti sono solo i residenti in Alto Adige, quelli su cui è calcolata la percentuale di affluenza delle politiche – ed è quindi per la comparabilità con quest’ultime che nella tabella non riportiamo, per le regionali, il dato dell’affluenza complessivo (calcolato su tutti gli aventi diritto, residenti e per corrispondenza). Nel 2018 gli aventi diritto al voto per corrispondenza erano 35.004, di cui 10.442 hanno votato. Quindi, il corpo elettorale complessivo è stato di 417.968 elettori, con 293.322 votanti (per una percentuale di affluenza del 70,2%). Nel 2013, invece, gli aventi diritto al voto per corrispondenza erano 27.911, di cui 7.993 hanno votato. Quindi, il corpo elettorale complessivo era di 400.961 elettori, con 297.837 votanti (per una percentuale di affluenza del 74,3%).

    [2] Nella parte superiore della tabella sono presentati i risultati al proporzionale; nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari. Nella parte superiore, ciascuna riga somma i risultati dei relativi partiti, a prescindere dalla coalizione della quale facessero parte. Nella parte inferiore, invece, si sommano i risultati dei candidati (sindaco o di collegio), classificati in base ai criteri sotto riportati. Per le politiche 2013, abbiamo considerato quali i voti raccolti ai candidati quelle delle coalizioni (che sostenevano un candidato premier).

    Criteri per l’assegnazione di un candidato a un polo: se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o il PDL) è attribuito al centro-sinistra e al centro-destra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno. Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico (Altri). Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. (https://expo.aspe.org) Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI/PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

    Nella categoria partiti di sinistra rientrano: RifCom, PC, PCI, PAP, FDS, SEL, SI, MDP, LEU, RivCiv. Nella categoria altri partiti di centro-sinistra sono inseriti: Insieme, PSI, IDV, Radicali, +EU, Verdi, CD, DemA.

    L’insieme dei candidati sostenuti da almeno una di queste liste, ma non dal PD, costituisce il polo di sinistra alternativa al PD della parte inferiore della tabella. Il polo di centro-sinistra somma, invece, i candidati nella cui coalizione compare (anche) il PD.

    Nella categoria partiti di centro rientrano: PATT, NCI, UDC, NCD, FLI, SC, CivP, NCD, AP, DC, PDF, PLI, PRI, UDEUR, Idea. Il polo di centro è formato da candidati sostenuti da almeno uno di questi.

    Nella categoria partiti di destra rientrano La Destra, MNS, FN, FT, CPI, DivB, ITagliIT. Il polo di destra somma i candidati sostenuti da almeno uno di questi o da Lega o FDI, ma non da FI/PDL. Il polo di centro-destra, invece, è la somma dei candidati nella cui coalizione compare (anche) FI (o il PDL).

    [3] Le percentuali esprimono, fatti 100 i voti in valore assoluto ottenuti alle politiche, i voti in valore assoluto raccolti alle regionali.

  • Primo turno ad Ancona: la diaspora del M5S, la tenuta del PD, la crescita della Lega

    Primo turno ad Ancona: la diaspora del M5S, la tenuta del PD, la crescita della Lega

    Sono lontani politicamente (più che temporalmente) in tempi in cui il centrosinistra, ad Ancona, vinceva agevolmente le elezioni amministrative al primo turno (nel 2001 e nel 2006). Tuttavia, volendo comparare i le elezioni politiche di quest’anno con il risultato del primo turno, il centrosinistra (e il Partito Democratico) appare più in salute che in passato, anche grazie alla già rilevata debolezza (De Sio et al. 2018) a livello locale del Movimento 5 Stelle.

    Andando con ordine, la candidata uscente del centrosinistra Valeria Mancinelli (47,9%) stacca di quasi venti punti percentuali il candidato di centrodestra Stefano Bartolini (28,4%) e di oltre trenta punti Daniela Diomedi (17,1%) del Movimento 5 Stelle (Tab. 1). Al ballottaggio, dunque, si rinnoverà la sfida del 2013 tra centrosinistra e centrodestra. L’altro dato da premettere è il calo dell’affluenza: quasi 20, e 3,7 punti percentuali in meno rispettivamente in confronto alle elezioni politiche e alle passate amministrative. In termini percentuali, Mancinelli guadagna 10,2 punti rispetto a cinque anni orsono, mentre Tombolini 7,9 (nel 2013, tuttavia, Fratelli d’Italia aveva presentato un proprio candidato, fermatosi al 2,8%, mentre oggi il centrodestra si è presentato unito all’appuntamento elettorale). Anche il candidato M5S guadagna 2,1 punti percentuali rispetto al 2013, ma perde oltre 10.000 voti in termini assoluti nel confronto con le politiche.

    Volgendo lo sguardo alle più recenti elezioni politiche e ai partiti politici, il dato più rilevante è che il 33,6% ottenuto dai 5 Stelle alle precedenti elezioni non è bastato a spingere il partito al ballottaggio (17,1%). Il PD al contrario è passato dal 26,2 del 2013 (e dal 25,5% del marzo 2018) al 30,3% in questa tornata, ritornando primo partito dopo aver abdicato tre mesi fa. Tutti i partiti di centrodestra, invece, registrano una battuta d’arresto: più rilevante nel caso di Forza Italia, che dimezza il proprio risultato del 4 marzo (dall’8,6 al 4,3%), raccogliendo poco più di un terzo dei voti assoluti. In leggero calo anche la Lega (con un arretramento di 2,2 punti), e Fratelli d’Italia (-0,3).  È da rimarcare, tuttavia, che la Lega nel 2013 non era presente alle elezioni amministrative, per cui, rispetto a 5 anni fa, il partito di Salvini è quello che registra il maggior incremento.

    Tab. 1 – Risultati elettorali per liste e coalizioni ad Ancona nelle elezioni politiche e comunali, 2013-2018[1] (clicca per ingrandire)ancona_tab

    I voti di marzo e giugno in prospettiva

    Per comprendere meglio i risultati delle elezioni comunali anconetane, abbiamo stimato i flussi elettorali dalle recenti elezioni politiche. Il diagramma di Sankey visibile sotto (Fig. 1) mostra in forma grafica le nostre stime dei flussi elettorali ad Ancona. A sinistra sono riportati bacini elettorali delle politiche, a destra quelli delle comunali. Le diverse bande, colorate in base al bacino di provenienza alle politiche, mostrano le transizioni dai bacini delle politiche a quelli delle comunali. L’altezza di ciascuna banda, così come quella dei rettangoli dei diversi bacini elettorali all’estrema sinistra e destra, è proporzionale al relativo peso sul totale degli elettori.

    Guardando la Figura 1, si nota come il maggior travaso di voti sia quello che coinvolge il M5S e il centrodestra verso il bacino del non voto (che raggiunge il 44,6%). Il M5S perde l’8,6% del proprio elettorato, mentre il centrodestra il 9,3%. Al contrario il PD e gli altri partiti di centrosinistra riescono ad assorbire l’elettorato di Renzi e dei suoi alleati, perdendo solo piccole porzioni di elettorato nei confronti della sinistra, del centrodestra e della Lega, ma guadagnando elettori principalmente dal M5S e solo in minor misura dal centrodestra. È quindi l’elettorato del M5S (delle politiche 2018) quello più volatile e più propenso a cambiare la propria scelta di qualche mese orsono. Pur tuttavia, emerge un altro dato in linea con il calo percentuale dell’affluenza: gli astenuti di marzo non sono tornati a votare a giugno; solo una piccolissima parte ha optato per il PD. Segno che, nonostante la crescita percentuale, tanto le coalizioni tradizionali quanto il M5S non sono riusciti a motivare i disillusi.

    Fig. 1 – Flussi elettorali ad Ancona fra politiche (sinistra) e comunali (destra) del 2018, percentuali sull’intero elettorato (clicca per ingrandire)ancona_sankey

    I nuovi elettorati dei partiti ad Ancona

    Spostando l’analisi sulla Tabella 2 è possibile comparare la composizione dell’elettorato per ciascun partito. Fatto 100 il totale dell’elettorato di ogni partito e coalizione alle comunali, si può notare la percentuale di elettorato rispetto di ogni candidato rispetto alle politiche del 2018. Scopriamo così, che nel PD tre quarti degli elettori (76%) avevano votato la coalizione di centrosinistra e ben il 15% il M5S a marzo. Simile il discorso per l’elettorato dei partiti minori di centrodestra (Lega a parte): il 74% ha confermato la scelta di marzo (il 16% invece aveva optato per il centrosinistra) L’elettorato del M5S ricalca in pieno (97%) quello delle politiche, mentre è più variegato quella della Lega. Nel partito di Salvini, metà dell’elettorato è composto da chi aveva già optato per il centrodestra il 4 marzo, ma addirittura un 16% proviene dalle file del centrosinistra e un 36% dal M5S. Ad Ancona quindi è l’elettorato leghista quello meno ancorato alle scelte passate (e, per deduzione, quello più legato alle oscillazioni dell’opinione pubblica locale).

    Tab. 2 – Flussi elettorali ad Ancona fra politiche  e comunali del 2018, provenienze (clicca per ingrandire)ancona_prov

    L’elettorato delle politiche

    Ribaltando la prospettiva rispetto a prima, passiamo ora ad analizzare la scelte degli elettorati delle politiche 2018 alle comunali (Tabella 3). L’82% degli elettori di centrosinistra alle politiche ha riconfermato il sostegno al PD (55%) o ai suoi alleati cittadini (27%), mentre solo il 49% di quello di centrodestra ha optato per la Lega (15%) o i suoi alleati (34%). Il 45% di questo elettorato si è rifugiato nell’astensione, come peraltro ha fatto una buona fetta di quello del M5S (34%). Il più grande dei tre poli alle politiche si è frammentato in molteplici direzioni, in una vera e propria diaspora: solo il 37% ha riconfermato la preferenza al candidato del Movimento, il 19% ha invece optato per il PD e altri partiti di centrosinistra, mentre quasi uno su dieci ha scelto il candidato di centrodestra. Interessante osservare come tutti questi abbiamo votato la Lega, e non altre liste a sostegno di Tombolini o solo il candidato. Analoga dispersione si riscontra nell’elettorato di LeU, che ha confermato la preferenza al candidato di sinistra Rubini Filogna solo in 39 casi su 100 (il 31% ha preferito Mancinelli, il 24% l’astensione).

    Tab. 3 – Flussi elettorali ad Ancona fra politiche  e comunali del 2018, destinazioni (clicca per ingrandire)ancona_dest

    Conclusioni

    Il primo turno delle elezioni comunali anconetane hanno arriso al PD, che si presenta al ballottaggio con il proprio candidato avvantaggiato rispetto a quello della coalizione di centrodestra di venti punti percentuali, e con una discreta capacità attrattiva sull’elettorato 5 Stelle delle elezioni politiche. Tuttavia il ballottaggio rimane sempre un’incognita, non solo per ciò che concerne l’affluenza, ma anche e soprattutto per il comportamento dei votanti di quanti non accedono al ballottaggio. Ad Ancona, decisivi potranno essere gli elettori del M5S, che con il loro 17% possono spostare l’ago della bilancia. Questo primo turno, intanto, ha confermato il trend positivo dei 5 stelle rispetto alle precedenti tornate amministrative (+2 punti percentuali), mentre ne ha ancora una volta evidenziato l’incapacità di trasportare sul piano locale i successi delle politiche (ha sostanzialmente dimezzato il proprio risultato, e preso il 40% dei voti assoluti del 4 marzo). Come accaduto per altre città (Vittori 2017), però, centrosinistra e centrodestra riescono solo parzialmente ad attrarre i voti del Movimento, che per lo più finiscono nell’astensione. Il PD, tornato ad essere il primo partito, può ritenersi soddisfatto dopo il deludente risultato di marzo. Stesso discorso per la coalizione di centrodestra, che tiene rispetto a tre mesi fa ed incrementa il consenso del 2013. Tuttavia, la Lega e i suoi alleati devono fare i conti con un crescente astensionismo della propria base elettorale.

    Riferimenti bibliografici

    De Sio, L., Emanuele, V., Maggini, N., e Paparo, A. (2018) ‘Il risultato? Ancora il clima del 4 marzo, ma il M5S (come nel 2013) non rende bene alle comunali’, Centro Italiano Studi Elettorali, https://cise.luiss.it/cise/2018/06/11/come-nel-2013-il-m5s-non-rende-alle-elezioni-comunali-mentre-il-centrosinistra-rende-addirittura-meglio-che-alle-politiche/

    Goodman, L. A. (1953), ‘Ecological regression and behavior of individual’, American Sociological Review, 18, pp. 663-664.

    Schadee, H.M.A., e Corbetta, P., (1984), Metodi e modelli di analisi dei dati elettorali, Bologna, Il Mulino.

    Vittori, D. (2017), ‘Parma, i voti M5s vanno nell’astensione:
    Pizzarotti in vantaggio coi voti del centrosinistra. I risultati e i flussi elettorali’, in Paparo, A. (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017, Dossier CISE (9), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 133-139.


    NOTA METODOLOGICA

    I flussi presentati sono stati calcolati applicando il modello di Goodman (1953) alle 100 sezioni elettorali del comune di Ancona. Seguendo Schadee e Corbetta (1984), abbiamo eliminato le sezioni con meno di 100 elettori (in ognuna delle due elezioni considerate nell’analisi), nonché quelle che hanno registrato un tasso di variazione superiore al 15% nel numero di elettori iscritti (sia in aumento che in diminuzione). Si tratta di 11 unità in tutto. Il valore dell’indice VR è pari a 13,4.


    [1]Nella parte superiore della tabella sono presentati i risultati al proporzionale; nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari. Nella parte superiore, ciascuna riga somma i risultati dei relativi partiti, a prescindere dalla coalizione della quale facessero parte. Nella parte inferiore, invece, si sommano i risultati dei candidati (sindaco o di collegio), classificati in base ai criteri sotto riportati. Per le politiche 2013, abbiamo considerato quali i voti raccolti ai candidati quelle delle coalizioni (che sostenevano un candidato premier).

    Criteri per l’assegnazione di un candidato a un polo: se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o il PDL) è attribuito al centro-sinistra e al centro-destra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno. Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico (Altri). Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI/PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

    Nella categoria partiti di sinistra rientrano: RifCom, PC, PCI, PAP, FDS, SEL, SI, MDP, LEU, RivCiv. Nella categoria altri partiti di centro-sinistra sono inseriti: Insieme, PSI, IDV, Radicali, +EU, Verdi, CD, DemA.

    L’insieme dei candidati sostenuti da almeno una di queste liste, ma non dal PD, costituisce il polo di sinistra alternativa al PD della parte inferiore della tabella. Il polo di centro-sinistra somma, invece, i candidati nella cui coalizione compare (anche) il PD.

    Nella categoria partiti di centro rientrano: NCI, UDC, NCD, FLI, SC, CivP, NCD, AP, DC, PDF, PLI, PRI, UDEUR, Idea. Il polo di centro è formato da candidati sostenuti da almeno uno di questi.

    Nella categoria partiti di destra rientrano La Destra, MNS, FN, FT, CPI, DivB, ITagliIT. Il polo di destra somma i candidati sostenuti da almeno uno di questi o da Lega o FDI, ma non da FI/PDL. Il polo di centro-destra, invece, è la somma dei candidati nella cui coalizione compare (anche) FI (o il PDL).

  • Il quadro della vigilia delle comunali: le alleanze e le amministrazioni uscenti

    Il quadro della vigilia delle comunali: le alleanze e le amministrazioni uscenti

    All’indomani della formazione del nuovo governo a guida M5S e Lega, le prossime elezioni amministrative assumono una rilevanza non solo locale. I circa 7 milioni di elettori potrebbero dare un giudizio non solo sulle amministrazioni precedenti ed i nuovi candidati, ma anche sugli ultimi (convulsi) mesi di trattative seguiti alle elezioni del 4 marzo. Come già evidenziato in un articolo recente, il Movimento 5 Stelle si presenta a questa tornata con la consapevolezza di essere più debole a livello locale rispetto ai principali competitor, mentre la Lega testerà la tenuta della preminenza all’interno del centrodestra conquistata a scapito di Forza Italia. In questo articolo presentiamo il quadro delle alleanze in campo in queste elezioni, nonché le amministrazioni uscenti, con particolare riferimento ai 109 comuni superiori ai 15.000 abitanti chiamati alle urne.

    L’offerta elettorale

    Partendo dalla distribuzione geografica delle candidature, balzano agli occhi alcuni dati preliminari interessanti (Tab. 1). La competizione tripolare riscontrata a livello nazionale si riflette ancora una volta a livello locale: il centrosinistra, il centrodestra e il Movimento 5 Stelle si contenderanno la vittoria al Nord, nella Zona Rossa e al Sud, mentre il centro è pressoché scomparso dai radar politici. Rimane, in ogni caso, una componente a sinistra del Partito Democratico e dei suoi alleati non trascurabile, per lo meno a livello di candidature: più difficile prevedere un successo sul piano elettorale, anche perché a livello di capoluoghi questo “quarto polo” si presenta spesso diviso – infatti ha più di un candidato per città di media (1,2). Il PD e Forza Italia, invece, concorrono in tutti i capoluoghi[1]; quest’ultima tuttavia deve fare i conti con 14 candidati sostenuti solo da Lega, Fratelli d’Italia o (più frequentemente) altri partiti di destra. Il M5S non si presenta a Siena e Vicenza: nel primo caso la certificazione è venuta a mancare a causa dello scontro tra i vertici e la base del partito, la quale aveva in precedenza contestato la candidatura di un ex-PDL nel collegio uninominale alle ultime elezioni, arrivando a proporre un proprio candidato sindaco. Nel secondo caso, non sono state fornite esplicite giustificazioni rispetto alla mancata certificazione. Allargando lo sguardo a tutti i comuni chiamati al voto, si può constatare come il PD e Forza Italia concorrano nella quasi totalità delle città al Nord e nella Zona Rossa, mentre al Sud, sono presenti con il proprio simbolo rispettivamente in 54 e 55 comuni sui 66 superiori al voto. Non è un caso che proprio al Sud, dove ha raccolto più consensi il 4 marzo, il M5S abbia, seppure di poco, una maggior penetrazione in termini di candidature totali rispetto ai partiti mainstream – corre infatti in 57 comuni. Al Nord e nella Zona Rossa, al contrario, il minore radicamento attuale si riflette con la candidatura rispettivamente in “soli” 19 comuni su 27 e 13 su 16. Così, il M5S continua ad essere, a livello nazionale, il polo dell’attuale tripolarismo italiano meno presente alle comunali. Ma nel 2018 questo deriva esclusivamente dalla sua minore presenza nel centro-nord, perché invece al Sud è il più presente.

    In generale, si riscontra una maggiore frammentazione nei comuni capoluogo e nella Zona Rossa, che presentano una media più alta (rispettivamente di 6,3 e 6,1) di candidati sindaco, rispetto al Nord (5) e al Sud (5,3). La prospettiva viene parzialmente ribaltata guardando al numero di liste a sostegno dei candidati sindaco. Dopo i comuni capoluogo (18,2), il Sud è l’area italiana in cui sono presenti più liste (16,8) contro una media italiana del 15,2. Nel meridione, dunque, un candidato sindaco è mediamente sostenuto da oltre tre liste. La maggiore frammentazione al Sud, ma solo in quanto a liste in corsa, e non ai candidati sindaco, non è un fenomeno nuovo, ma anzi pare ormai consolidato alle comunali in Italia. Potrebbe essere legato alla forza del notabilato in questa area che, attraverso la presentazione di un maggior numero di liste a sostegno di un minor numero di candidati, può avere un maggior controllo sul voto e misurare al contempo la propria forza elettorale. La Zona Rossa fa da contraltare a questa tendenza del Sud: in questo caso la maggiore frammentazione nella competizione per il sindaco viene controbilanciata da un minor numero di liste (13,6). Così, ciascun candidato è sostenuto mediamente da poco più di 2 liste. Infine, il Nord (12,2) presenta un andamento in linea con il ridotto numero di candidati per ogni comune: sono così in media 2 e mezzo le liste a sostegno di ciascun candidato sindaco.

    Per quanto riguarda il numero di liste presentate dai vari poli, il primo dato da sottolineare riguarda il M5S: coerentemente con la propria linea improntata a non stringere alleanze pre-elettorali, non risultano candidati del M5S sostenuti da altre liste. I candidati del centrodestra targato Forza Italia sono quelli sostenuti da un maggior numero di liste in tutte le aree geografiche analizzate: 5,2 di media nazionale, con picco di 5,9 per il Sud. Seguono le liste a sostegno dei candidati sostenuti dal PD, con una media di 4 a livello nazionale; e le liste a sostegno di candidati Lega, FDI o altre liste/partiti di destra (2,3). In quest’ultimo caso è interessante notare come vi sia una maggiore frammentazione al Nord (2,6) rispetto al Sud (2,3).

    Tab. 1 – Offerta elettorale alle comunali 2018 per zona geopolitica (clicca per ingrandire)com18_riepilogo_offerta

    Il colore politico delle amministrazioni al voto

    Per ciò che concerne le vittorie alle precedenti comunali nelle città chiamate al voto in questa tornata elettorale (Tab. 2), la proporzione rispetto al 2017 rimane pressoché invariata nel caso del centrosinistra a targa PD. Amministrava 76 comuni superiori sui 149 al voto nel 2017 (51%); sono 57 su 108 (52,7%) nel 2018. Bisogna tenere presente che per i tre quarti dei comuni chiamati al voto (80 su 109), le precedenti comunali si svolsero nel 2013, in un momento di forte difficoltà del centrodestra berlusconiano, e così il centrosinistra ottenne un ottimo risultato complessivo.

    Nel caso del centrodestra di Forza Italia si registra una lieve flessione: erano 40 (il 26,8%) l’anno scorso, sono 23 (il 21,3%) quest’anno. Il M5S passa da 3 a 4 candidati uscenti: da registrare in questo caso che, come accaduto l’anno passato per Parma, alcuni comuni governati dai pentastellati avranno un incumbent che correrà nuovamente, ma non sotto il simbolo M5S. Si tratta del comune di Pomezia, dove l’uscente Fabio Fucci corre con una lista civica (Essere Pomezia), contro il candidato ufficiale dei “grillini”, nonché Presidente del Consiglio Comunale uscente, Adriano Zuccalà; e del comune di Quarto, dove Rosa Capuozzo sarà sostenuta dalla lista Coraggio Quarto e dal partito lanciato recentemente proprio da Federico Pizzarotti, Italia in Comune. Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle amministrazioni al voto, 20 dei 57 sindaci di centrosinistra sono al Nord (24 al Sud), mentre sono solamente 4 su 23 nel centrodestra; i 4 sindaci del M5S e 17 su 23 del centrodestra sono invece al Sud. Ciò significa che il centrosinistra era stato quasi egemone al centro-nord, mentre invece il Sud era stato molto più competitivo. Sarà molto difficile che tale risultato possa ripetersi, e il rischio di una pesante batosta appare dietro l’angolo.

    Se da un lato è vero che per poter proiettare i risultati su scala nazionale si guarderanno soprattutto le percentuali e i voti assoluti conquistati da ogni singolo partito, è pur vero che il numero di amministrazioni conquistate avrà una importanza decisiva. Sotto quest’ultimo aspetto, il M5S avrà poco da perdere in questa tornata. Nel centrodestra, invece, più che ai comuni vinti dalla coalizione si peseranno, come ricordato, i voti ottenuti dalla Lega e da Forza Italia. Sarà, infine, interessante capire dove andranno a confluire i 7 comuni governati da sindaci di centro nel sud Italia, stante la difficile situazione che l’ex terzo polo sta incontrando attualmente.

    Tab. 2 – Coalizione vincente delle precedenti elezioni comunalicom18_colore_amm

    I sindaci uscenti

    Un ultimo dato di interesse riguarda i sindaci uscenti che si ripresentano per un nuovo mandato da primi cittadini (Tab. 3): recenti analisi sulle elezioni comunali hanno infatti sottolineato l’importanza dell’incumbency factor nel determinare risultati positivi per la parte politica di appartenenza degli incumbent. A livello nazionale si nota una divisione a metà tra i comuni con sindaci in corsa per un nuovo mandato (54) e quelli che non vedono l’incumbent in campo in queste elezioni (55). Quest’ultimo dato aggrega sia chi è ha scelto di non ricandidarsi per un secondo mandato, sia chi, al termine del secondo, non può ripresentarsi alle elezioni[2]. Tuttavia, l’equilibrio fra comuni con e senza l’uscente in campo registrato a livello nazionale non si mantiene nelle diverse zone del paese: al Sud, il 60,6% dei comuni non vede i sindaci uscenti in corsa, quota questa assai più alta rispetto al Nord (37,5%) e alla Zona Rossa (33,3%). Stessa sproporzione si nota guardando al colore politico dell’incumbency: il centrosinistra ripresenta circa il 65% degli amministratori, mentre nel centrodestra solo 4 su 23 sono ricandidati. Nel M5S i due casi di incumbent in corsa nel 2018 sono i già menzionati casi di Pomezia e Quarto in cui l’uscente non corre stavolta per il Movimento.

    Tab. 3 – Comuni con e senza il sindaco uscente candidato nel 2018com18_uscenti

    In conclusione

    Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, i motivi di interesse di questa tornata elettorale sono molteplici e, nonostante la scarsa attenzione mediatica riservata in queste settimane, sicuramente potranno avere ripercussioni politiche nel breve periodo. Il PD sembra essere il partito che rischia maggiormente, avendo il maggior numero di amministrazioni da difendere, in una congiuntura politica che definire negativa sarebbe eufemistico. Infatti, allo storicamente basso risultato del 4 marzo, si somma la fresca formazione del governo giallo-verde, che potrebbe premiare Lega e M5S per via della luna di miele che tipicamente unisce elettorato e governo nei suoi primi mesi di vita (Stimson 1976). Alla vigilia, tuttavia, possiamo aspettarci che il centrosinistra riesca a difendersi meglio in quel 65% di comuni in cui il sindaco uscente è nuovamente il campo.

    Anche il centrodestra, pur rimanendo formalmente unito, potrebbe utilizzare la tornata elettorale per testare la propria tenuta e misurare i rapporti di forza interni. La sinistra radicale, ferme restando le proprie divisioni storiche, anche in un momento di difficoltà di uno suo competitor (il PD) arriva alle urne sparpagliato in più componenti, cosa che difficilmente potrà aiutare elettoralmente. Infine, sotto la lente d’ingrandimento finirà ancora una volta lo scarso radicamento a livello locale del M5S: se la cronica differenza tra risultati elettorali e locali è ormai comprovata, questa volta – e in particolar modo al Sud, dove si trovano la maggioranza dei comuni al voto – il M5S partirà da un risultato travolgente raggiunto solo pochi mesi fa: è lecito quindi aspettarsi una nuova avanzata gialla per lo meno per quanto riguarda il numero assoluto di amministrazioni comunali a guida grillina.

    Riferimenti bibliografici

    D’Alimonte, R. (2012), ‘Il quadro complessivo dell’offerta nei comuni capoluogo’, in De Sio, L. e A. Paparo (a cura di), Le elezioni comunali 2012, Dossier CISE(1), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 43-44.

    Emanuele, V. e Marino, B. (2016), ‘Follow the candidates, not the parties? Personal vote in a regional de-istituzionalized party system’, Regional and Federal Studies, 26(4), pp. 531-554.

    Emanuele, V. e Paparo, A. (2017), ‘Il centrodestra avanza, il Pd arretra: è pareggio. I numeri finali delle comunali’, in Paparo, A. (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017, Dossier CISE(9), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 191-199.

    Maccagno, A. e Gatti, C. (2017), ‘L’identikit dei candidati nei comuni capoluogo’, in Paparo, A. (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017, Dossier CISE(9), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 99-101.

    Paparo, A. e Cataldi, M. (a cura di) (2014), ‘Le elezioni comunali 2013’,  Dossier CISE(5), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali.

    Paparo, A. (2017a), ‘Elezioni comunali 2017: il centrodestra unito avanza, il centrosinistra diviso arretra, il M5S non sfonda. A dominare è la disaffezione’, Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, 77, pp. 115-143.

    Paparo, A. (2017b), ‘Alla ricerca della stabilità perduta: a livello
    locale domina la volatilità’, in Paparo, A. (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017, Dossier CISE(9), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 205-212.

    Stimson, J. A. (1976), ‘Public support for American presidents: A cyclical model’, Public Opinion Quarterly40(1), pp. 1-21.


    NOTA:

    Sinistra alternativa al PD riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra PAP, RC, PCI, PC, MDP, LEU, SI, Verdi, IDV, Radicali, ma non dal PD;

    il Centrosinistra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia il PD;

    il Centro riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra  NCI, UDC, CP, NCD, FLI, SC, PDF, DC, PRI, PLI;

    il Centrodestra  è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia FI (o il PDL);

    la Destra riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra  Lega, FDI, La Destra, MNS, FN, FT, CasaPound, DivBell ma non FI (o PDL).

    Quindi, se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o PDL) è attribuito al centrosinistra e al centrodestra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno.

    [1] Per i conteggi qui riportati sono considerate a tutti gli effetti come liste dei vari partiti quelle liste civiche che, pur non presentando il nome ufficiale di alcun partito, sono risultate chiaramente riconducibili (per nome, simbolo, o ispirazione) ad un partito nazionale, e che corrono in comuni dove la lista ufficiale di quel partito non è presente. Si pensi ad esempio alle svariate liste Forza “Comune” disseminate fra le diverse città al voto.

    [2] Tra questi si segnala il caso di Trapani, che alle amministrative dello scorso anno, non ha eletto un sindaco.

  • A Rimini non tiene neanche il Muro di Arcore: la Lega prende direttamente al centrosinistra

    A Rimini non tiene neanche il Muro di Arcore: la Lega prende direttamente al centrosinistra

    Non tutti si aspettavano una doppia sconfitta del Partito Democratico a Rimini. Il candidato della coalizione di centrosinistra nel seggio uninominale della Camera, Sergio Pizzolante (Civica Popolare), è uscito sconfitto nello scontro con il centrodestra (35,2%), guidato da Elena Raffaelli, assessore a Riccione in quota Lega. Il centrosinistra è giunto addirittura terzo (25,7%) dietro anche alla candidata del Movimento 5 Stelle, Giulia Sarti (32,5%). Al Senato sempre nel seggio uninominale, che comprendeva anche Cesena, è sempre il centrodestra (34,4%) a trionfare con Antonio Barboni (FI) ai danni del candidato favorito Tiziano Arlotti (deputato uscente del PD) fermatosi al 27%, di nuovo terzo, dietro anche a Carla Franchini (consigliera comunale a Rimini) (30,9%).

    Le premesse per la vittoria del centrosinistra alla vigilia del voto erano buone: solo nel 2016 il sindaco uscente del Partito Democratico a Rimini aveva vinto al primo turno contro il candidato del centrodestra (in quota Lega) dopo aver stretto un accordo con diverse liste civiche, tra cui una centrista sponsorizzata proprio da Sergio Pizzolante, dal 2013 vice-capogruppo alla Camera per NCD. Il fatto che il collegio uninominale del Senato comprendesse anche Cesena, dove tradizionalmente il PD vanta una tradizione di governo, aveva portato più d’uno ad ipotizzare una vittoria di Arlotti.

    Quello che è accaduto è quindi un significativo spostamento dell’elettorato tanto alla Camera quanto al Senato. Per capire l’entità di tale spostamento e chi ne ha tratto maggior vantaggio proviamo ad analizzare i flussi elettorali del Comune di Rimini.

    Tab. 1 – Risultati elettorali a Rimini, 2013 e 2018risultati

    Da una prima analisi emergono alcuni dati di grande portata. Rispetto alle elezioni del 2013, la coalizione di centrosinistra ha perso a favore dell’astensione una quota di elettori pari a quasi il 4,5% dell’intero elettorato, il 3,2% nei confronti del Movimento 5 Stelle e ben il 3% nei confronti della Lega. Ciò significa che ogni 30 elettori riminesi circa, ve ne è uno che aveva votato Bersani e ha scelto la Lega il 4 marzo, e un altro che ha votato 5 Stelle (sempre dopo avere votato Bersani cinque anni fa). Nonostante le vicissitudini passate dal Movimento 5 Stelle a Rimini – non presentatosi alle scorse elezioni e con una candidata all’uninominale alla Camera, Giulia Sarti, che non ha praticamente partecipato alla campagna elettorale dopo essere stata coinvolta (ed ora scagionata dallo staff 5 Stelle) nella questione rimborsi elettorali – i grillini sono quindi stati capaci di attirare una buona fetta di elettorato del centrosinistra. Al di là di chi ha optato per l’astensione, emerge anche come il centrodestra moderato non abbia saputo fare da argine all’avanzata della Lega; raramente si assiste ad un travaso così rilevante tra centrosinistra e un partito appartenente ormai di diritto alla famiglia politica della destra radicale.

    Il centrosinistra, nonostante abbia presentato un candidato centrista, non è riuscito nemmeno a catalizzare attorno a sé nemmeno il voto centrista; il bacino montiano si è frammentato e dell’oltre 7% dell’elettorato raccolto nel 2013, solo il 2,9% è andato al PD. Infine, è importante notare come si sia registrato un flusso molto rilevante dall’elettorato del Movimento 5 Stelle verso la Lega (il 4,8% dell’intero elettorato riminese). Quindi ogni 20 elettori circa ve ne è uno che ha votato nel 2018 la Lega dopo avere votato il M5S nel 2013. Questo è il singolo flusso di elettori infedeli più numeroso osservato a Rimini fra 2013 e 2018.

    Il quadro appare ancora più chiaro se si guarda al comportamento dei diversi elettorati dei partiti e coalizioni presentatisi nel 2013, riportato nella Tabella 2. Fatto 100 l’elettorato del centrosinistra a guida bersaniana, solo 45 su 100 hanno scelto il PD, mentre ben 12 hanno scelto la Lega, e 13 il Movimento 5 Stelle. Quasi uno su cinque si è astenuto, mentre solo una quota minimale (il 4%) ha scelto gli scissionisti di LeU.

    L’elettorato del Movimento 5 Stelle del 2013 è stato più coerente: il 79% ha confermato la propria fiducia ai pentastellati, mentre il 21% ha scelto la Lega. Per capire il successo della Lega e la sua conquista di una netta egemonia nel centrodestra, però non basta guardare al travaso di voti del PD e del M5S. Infatti, solo 33 elettori su 100 che nel 2013 avevano scelto la coalizione di Berlusconi hanno dato fiducia a Forza Italia, mentre ben 26 hanno optato per la Lega, la quale, al pari di Forza Italia e M5S, è riuscita a rimobilitare anche una piccola fetta di astenuti del 2013. Infine, è interessante rilevare come anche a Rimini si segnali un flusso significativo (oltre un elettore su 30) dal centrodestra 2013 alle forze del centrosinistra 2018. Si tratta di uno spostamento di elettori già osservato a Torino, Prato e Reggio Calabria, che però qui raggiunge il proprio massimo in consistenza, sfiorando il 20% dell’elettorato 2013 del centrodestra.

    Tab. 2 – Flussi elettorali a Rimini fra politiche 2013 e 2018, destinazioni (clicca per ingrandire)dest

    Infine, rivolgiamo uno sguardo alla composizione dell’elettorato dei principali partiti dopo le elezioni del 2018 in termini di bacini 2013 (Tab. 3). Tanto il M5S quanto Forza Italia hanno preso in questa tornata la gran parte dei propri voti dal proprio elettorato  di cinque anni fa: 80% e 72% rispettivamente. La seconda componente più grande nel M5S di oggi sono gli ex elettori di Bersani (14%), mentre in Forza Italia sono minoritari gli elettori 2013 di centro (8%) e centrosinistra (7%). Il PD ad oggi vede un 69% di elettori di centrosinistra del 2013 e rispettivamente il 18% e il 13% di elettori di estrazione centrista o di centrodestra, segno che la trasformazione del PD in un partito a trazione centrista si sta compiendo anche in una importante provincia della Zona Rossa, e nonostante il complessivo arretramento elettorale. Un capitolo a parte merita ancora il nuovo elettorato leghista, che è composto ora in egual misura da ex 5stelle (36%) e da elettori già in precedenza di centrodestra (37%). Anche qui – il dato è molto significativo – il 22% è composto da coloro che avevano accordato la propria preferenza alla coalizione guidata da Bersani.

    Tab. 3 – Flussi elettorali a Rimini fra politiche 2013 e 2018, provenienze (clicca per ingrandire)prov

    Il diagramma di Sankey visibile sotto (Figura 1) mostra in forma grafica le nostre stime dei flussi elettorali a Rimini. A sinistra sono riportati bacini elettorali del 2013, a sinistra quelli del 2018. Le diverse bande, colorate in base al bacino 2013 di provenienza, mostrano le transizioni dai bacini 2013 a quelli 2018. L’altezza di ciascuna banda, così come quella dei rettangoli dei diversi bacini elettorali all’estrema sinistra e destra, è proporzionale al relativo peso sul totale degli elettori. Dal diagramma emerge innanzitutto il forte flusso giallo in uscita dal M5S ’13 verso la Lega di oggi. Poi, si nota chiaramente lo sparpagliamento dell’elettorato di centrosinistra, con rivoli rilevanti verso non voto, M5S, ma anche la Lega. Così, l’attuale composizione dell’elettorato del partito di Salvini appare qui non solo blu e gialla, ma per la prima volta mostra anche una significativa componente rossa, in ingresso da Bersani ’13.

    Fig. 1 – Flussi elettorali a Rimini fra politiche 2013 (sinistra) e 2018 (destra), percentuali sull’intero elettorato (clicca per ingrandire)sankey

    La Zona Rossa, che rossa per il momento non lo è più, ha modificato la geografia del voto italiano, marginalizzando il partito fino a ieri egemone (PD). Cosa sia accaduto di profondo nel cuore dell’elettorato più progressista sarebbe riduttivo spiegarlo con i numeri. Tuttavia, le cifre qui riportate danno l’idea di un travaso di voti del PD non verso le alternative considerate “moderate”, ma verso un voto anti-establishment, tanto appartenente alla destra-radicale (Lega) quanto quello più puramente anti-partitico come quello del Movimento 5 Stelle.

    Riferimenti bibliografici

    Draghi, S. (1987). L’analisi dei flussi elettorali tra metodo scientifico e dibattito politico, «Italian Political Science Review/Rivista Italiana di Scienza Politica», 17(3), pp. 433-455.

    Goodman, L. A. (1953), Ecological regression and behavior of individual, «American Sociological Review», 18, pp. 663-664.

    Plescia, C., e De Sio, L. (2017). An evaluation of the performance and suitability of R× C methods for ecological inference with known true values, «Quality & Quantity», pp. 1-15.

    Schadee, H.M.A., e Corbetta, P.G. (1984), Metodi e modelli di analisi dei dati elettorali, Bologna, Il Mulino.


    NOTA METODOLOGICA

    I flussi presentati sono stati calcolati applicando il modello di Goodman alle 143 sezioni elettorali del comune di Rimini. Abbiamo eliminato le sezioni con meno di 100 elettori (in ognuna delle due elezioni considerate nell’analisi), nonché quelle che hanno registrato un tasso di variazione superiore al 15% nel numero di elettori iscritti (sia in aumento che in diminuzione). Si tratta di 24 unità in tutto. Il valore dell’indice VR è risultato pari a 16,5.

  • La Lombardia non è più il regno di Berlusconi

    La Lombardia non è più il regno di Berlusconi

    Rispetto alle regionali di cinque anni orsono le gerarchie in Lombardia si sono ribaltate. Non era in discussione una vittoria della coalizione del centro-destra, nonostante il governatore uscente della Regione, Roberto Maroni (Lega) abbia deciso a sorpresa di non ricandidarsi dopo essere entrato in rotta di collisione con la Lega a trazione nazionale e non più nordista. Erano però in discussione sia l’entità della vittoria sia la gerarchia tra i due partiti del centro-destra. In questo senso l’esito del voto nazionale si è riflesso sulla tornata regionale: la Lega esce trionfalmente dalle consultazioni con il proprio candidato – Attilio Fontana – eletto governatore, mentre Forza Italia e come vedremo, il Partito Democratico ne escono ridimensionati. Un discorso a parte meritano invece le sorti del Movimento 5 Stelle.

    Partiamo dall’affluenza che, come il CISE ha già segnato per il voto nazionale, è stata buona rispetto alle fosche previsioni pre-elettorali (73,1%): in calo significativo rispetto alle elezioni politiche del 2013 (79,6%), ma solo leggermente più bassa rispetto alle precedenti elezioni regionali (76,7%).

    Il primo dato inequivocabile di queste elezioni è la vittoria della Lega: nel 2013 il partito di Salvini aveva raccolto poco più di 700.000 voti ed era il quarto partito, dopo PD, Forza Italia/Pdl e Movimento 5 Stelle; cinque anni dopo ne ha 1,5 milioni (+111%) ed è saldamente il primo partito (29,64%). Né i problemi interni, come la già citata rottura di Maroni, né la tiepidezza di Salvini di fronte al Referendum sull’autonomia Lombardo-Veneta hanno scalfito minimamente il partito di Salvini. Seppure all’inizio i media nazionali avevano sottolineato la relativa debolezza del candidato leghista (certamente non aiutato dall’improvvida uscita sulla difesa della “razza bianca”), gli elettori hanno premiato il nuovo corso “lepenista” della Lega, ormai pienamente integrato nella famiglia partitica dei partiti di destra-radicale in Europa. Qualche decade orsono la Lega diffondeva manifesti anti-Le Pen e contro il fascismo centralizzatore di Roma: ormai l’anti-meridionalismo e l’anti-centralismo sembrano spariti dai radar ideologici di Matteo Salvini; questa rivoluzione “filo-nazionalista” lungi dal penalizzare il partito in una delle culle dell’indipendentismo leghista, ha segnato una vittoria senza appello per gli altri partiti del centro-destra.

    Il secondo dato è la retrocessione di Forza Italia a sparring partner della Lega e la (parziale) marginalizzazione del Partito Democratico. Sul PD, le analisi della sconfitta elettorale a livello nazionale già abbondano; a Milano, la coalizione di centrosinistra ha ottenuto invece risultati comparativamente più incoraggianti. Le buone notizie però finiscono qui: Giorgio Gori è lontano venti punti percentuali dalla coalizione di centro destra. Il PD è fermo al 19,24% rispetto al 25,3% delle regionali del 2013 e il 25,6% delle politiche dello stesso anno. La affluenza simile tra le due regionali permette, come per la Lega, anche una comparazione di voti in termini assoluti: rispetto al 2013 il PD perde più di 360.000 voti (-35,7%). Includendo la Lista Gori Presidente che ha ottenuto il 3,02%, la situazione migliora leggermente, ma certo non cambia l’analisi complessiva, anche perché nel 2013 la lista “Con Ambrosoli presidente – Patto Civico” aveva ottenuto un lusinghiero 7,03% e ben 4 seggi. Il sindaco di Bergamo, passato in Fininvest alla corte di Berlusconi, chiamato all’improba prova di arginare il centro-destra grazie al suo background moderato e centrista, non ha trainato il PD. Né la scelta di Liberi e Uguali di correre da solo – a contrario del caso laziale – ha inciso: il 2,12% di lista e l’1,93% del proprio candidato (Onorio Rosati), dimostrano una scarsissima penetrazione della sinistra in terra lombarda.
    Ancora meno rosea, se possibile, la situazione in casa Forza Italia. Il partito di Berlusconi, come del resto a livello nazionale, ha perso definitivamente la leadership della Lombardia: nel 2013, pur avendo sostenuto un candidato leghista, poteva ancora contare sulla propria preminenza in termini assoluti sulla Lega. Cinque anni dopo, FI ha perso più di 155.000 voti (-20,5%) ed è distante in termini assoluti 800.000 voti dalla Lega. In 8 anni (elezioni regionali 2010), FI ha dilapidato 600.000 voti. Lungi dall’essere il rappresentante del capitalismo lombardo, FI dopo queste elezioni si ritrova ad essere uno sparring partner della Lega che, con questi risultati, sarebbe autosufficiente. FI è ora il quarto partito: potenzialmente non più fondamentale per il centro-destra. La fagocitazione di Salvini ai danni di Berlusconi, seppur non possibile a livello nazionale data la scarsa penetrazione leghista al Sud, in Lombardia sembra essere per ora un fatto acquisito.

    E il Movimento 5 Stelle? La storica scarsa penetrazione al Nord si è riflessa in parte anche a queste elezioni: il M5S è un partito dalla forte trazione sudista, specie dopo il quasi cappotto agli uninominali in meridione. Il proprio candidato – Dario Violi – si ferma al 17,36%, mentre il risultato di lista è leggermente migliore (17,8%); la Lega quindi è ancora molto distante. Tuttavia, tanto in prospettiva comparativa (rispetto agli altri partiti) quanto in una diacronica (precedenti elezioni), non si può parlare di sconfitta tout court. Il M5S ha ridotto il proprio distacco rispetto al PD a 1,44 punti percentuali (erano undici alle regionali del 2013) ed ha effettuato il sorpasso su Forza Italia. Non solo, in termini assoluti ha aumentato i propri voti (+156 mila voti, pari al 16,8%). Certamente, non è ancora un contender credibile per il centro-destra, ma sicuramente il M5S ha acquisito un peso specifico diverso anche al Nord. Per la leadership nazionale il Nord rimane un tabù, ma pensare ad uno stravolgimento (in positivo) maggiore rispetto a quello ottenuto, in un’area dove la Lega spopola, sarebbe utopistico.

    Tab. 1 – I risultati elettorali del 2018 in Lombardia, confronto con il 2013 (clicca per ingrandire)lomb

    Le elezioni in Lombardia, in conclusione, certificano l’ottimo stato di salute di cui gode il partito di Salvini e forniscono un’ulteriore prova delle difficoltà di Forza Italia e del Partito Democratico, i veri sconfitti di questa tornata elettorale, sia a livello nazionale sia in Lombardia. Il M5S partiva da un deficit strutturale evidente: non è riuscito ad invertire radicalmente la rotta, ma considerata la scarsa penetrazione e il forte competitor anti-establishment non può che essere moderatamente soddisfatto del proprio risultato.

    Riferimenti bibliografici

    Paparo, A., e Maggini, N. (2013), ‘Le elezioni in Lombardia’, in De Sio, L., Cataldi, M., e De Lucia, F. (a cura di), Le Elezioni Politiche 2013, Dossier CISE(4), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 157-160.


    NOTA: Nella parte superiore della tabella sono presentati i risultati al proporzionale; nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari (per le regionali).

    Sinistra è la somma dei risultati ottenuti da candidati (regionali) o partiti (politiche) di sinistra ma non in coalizione con il PD;

    il Centro-sinistra somma candidati (regionali) del PD o le coalizioni (politiche) con il PD;

    Il Centro è formato da candidati (regionali) o coalizioni (politiche) sostenuti o contenenti almeno uno fra NCI, UDC, NCD, FLI, SC;

    il Centro-destra somma candidati (regionali) sostenuti da FI (o PDL) o coalizioni (politiche) contenenti FI (o PDL);

    la Destra è la somma di candidati (regionali) sostenuti, contro FI/PDL, da Lega, FDI, La Destra, FN, FT, CasaPound, o coalizioni (politiche) contenenti almeno uno di questi.

    Criteri per l’assegnazione di un candidato a un polo: se un candidato è sostenuto dal PD o dal PDL (o FI) è attribuito al centro-sinistra e al centro-destra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno. Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico. Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

  • La lunga battaglia: chi può ancora sperare di convincere gli indecisi?

    La lunga battaglia: chi può ancora sperare di convincere gli indecisi?

    Gli esiti del sondaggio pubblicati da Il Sole 24 Ore tratteggiano una situazione molto incerta.

    Scarse appaino, difatti, le possibilità che vi sia una maggioranza politica nel prossimo Parlamento: il centro-destra – la coalizione più vicina alla maggioranza assoluta dei seggi – sembra rimanere ancora distante dalla agognata quota 316. Tuttavia, se da un lato la sempre maggiore volatilità del voto – fenomeno non legato solo al caso italiano – dovrebbe portare ad un supplemento di cautela nel leggere i dati, dall’altro è possibile trarre ulteriori considerazioni dai dati emersi dal sondaggio, focalizzandosi in particolare sulla cosiddetta area grigia. In parole povere, l’area grigia è quella parte del campione che a) pur essendo sicuro di recarsi alle urne, non ha ancora deciso chi votare o che b) è incerto sulla propria partecipazione al voto e, se dovesse decidere di esprimere una preferenza, ancora non ha ancora a chi accordarla.
    Per rendere l’idea stiamo parlando di un 25% del campione: quello che, sostanzialmente, potrebbe decidere l’esito della tornata elettorale di marzo.

    Chi fa parte dell’“area grigia”?

    Per ciò che concerne la distribuzione geografica degli indecisi, la radiografia del sondaggio non mostra scostamenti rilevanti: la distribuzione tra Nord (39,0), Zona Rossa (15,3%) e Sud (45,7%) degli indecisi ricalca quella del campione (rispettivamente 39,2%, 16,9%, 43,9%) con una lieve sovra-rappresentazione del Sud tra gli indecisi.

    Come si è distribuito il voto dell’area grigia nel 2013?

    La questione nodale per i partiti riguarda il precedente posizionamento degli indecisi. Come era lecito attendersi, la maggioranza relativa degli appartenenti all’area grigia non aveva votato nel 2013 (42,8%). Gli astenuti del 2013 nel campione totale sono solamente il 27%, segno che chi era indeciso cinque anni fa, non sembra essersi fatto le idee più chiare in questa turbolenta legislatura. La sovra-rappresentazione degli astenuti del 2013 tra gli indecisi, si registra con percentuali simili, anche quando si analizzano i dati sul referendum: mentre il 33,8% del campione dichiara di non aver votato, tra gli indecisi questa percentuale tocca il 45,7%. Questo dato può indurre ad una prima (sommaria) conclusione: di coloro che non hanno sciolto le riverse sul voto, una buona parte negli non si è recata alle urne in due cruciali appuntamenti; se ciò dovesse accadere nuovamente, si restringe considerevolmente il bacino di indecisi da cui i partiti potrebbero attingere ulteriori voti. Molto più rilevante è il fatto che solo il 7,8% degli indecisi ha dichiarato di aver votato il Movimento 5 Stelle nel 2013 (16,9% nel campione), mentre una discrasia minore si registra tra il campione (19%) e gli indecisi (13,5%) che hanno votato per partiti afferenti al centrodestra. Parimenti interessante è il fatto che nell’area grigia si trovi un discreto numero di elettori “centristi” (8,8% contro il 6,2% del campione), ossia coloro che avevano votato per il prof. Mario Monti. Questi elettori, se decideranno di recarsi alle urne, potrebbero risultare decisivi nei collegi uninominali dove le due coalizioni – centrosinistra e centrodestra – e il Movimento 5 Stelle sono appaiati.  Infine, se si guarda al referendum tanto il fronte del Sì (23,8%) quanto quello del No (30,5%) tra gli indecisi è inferiore rispetto al campione (rispettivamente 28,2% e 38,1%).

    Tabella 1 – Confronto fra gli indecisi e il totale del campione (clicca per ingrandire)area grigia

    Conclusioni

    I dati del sondaggio sembrano indicare che nessuna compagine possa aspirare ad una maggioranza assoluta dei seggi. Tuttavia, le prossime tre settimane di campagna elettorale vedranno schierati tutti i principali esponenti politici per la caccia agli ultimi voti disponibili sul mercato elettorale. Ebbene, il territorio di caccia sarà proprio l’area grigia rappresentata dagli indecisi. Questa consistente porzione di elettorato con il proprio voto potrebbe far pendere la decisiva bilancia dei collegi uninominali (e ovviamente quella del proporzionale) verso l’una o l’altra forza. I risultati del sondaggio mostrano che, qualora il trend non si inverta, circa il 40% degli indecisi sia destinato a non andare alle urne (come accaduto nel 2013 e per il referendum). La quota di indecisi potenzialmente attivabili potrebbe dunque restringersi ulteriormente. Il dato significativo è che la quota di indecisi che aveva accordato la propria preferenza al Movimento 5 Stelle è alquanto ridotta. Questo non vuol dire che il movimento guidato da Di Maio sia arrivato ad un punto di saturazione; piuttosto significa che, volendo indirizzare il proprio appello agli indecisi, Di Maio stesso dovrà guardare a chi ha votato nel 2013 al centrodestra e al centrosinistra. Per queste due coalizioni, invece, attivare i propri elettori indecisi ad accordare nuovamente la fiducia alle rispettive forze politiche potrebbe risultare cruciale per ottenere un buon esito elettorale.


    NOTA METODOLOGICA

    Il sondaggio è stato condotto da Demetra nel periodo dal 5 al 14 febbraio 2018. Sono state realizzate 3.889 interviste con metodo CATI (telefonia fissa) e CAMI (telefonia mobile), e 2.107 interviste con metodo CAWI (via internet), per un totale di 6.006 interviste. Il campione, rappresentativo della popolazione elettorale in ciascuna delle tre zone geografiche, è stato stratificato per genere, età e collegio uninominale di residenza. Il margine di errore (a livello fiduciario del 95%) per un campione probabilistico di pari numerosità in riferimento alla popolazione elettorale italiana è di +/- 1,17 punti percentuali. Il campione è stato ponderato per alcune variabili socio-demografiche.

  • I flussi elettorali a La Spezia: tutti verso Peracchini, anche un pezzo di sinistra

    I flussi elettorali a La Spezia: tutti verso Peracchini, anche un pezzo di sinistra

    I flussi elettorali di La Spezia mostrano come siano stati determinanti per la vittoria di Peracchini (centro-destra), l’elettorato di Guido Melley e soprattutto Lorenzo Forcieri. Proprio quest’ultimo, da iscritto al PD aveva destabilizzato, i democratici locali con una candidatura alternativa a Manfredini (centro-sinistra). (jaximplant.com) La composizione dell’elettorato di Peracchini, rispetto alle politiche del 2013, dimostra di essere molto più eterogenea rispetto a quella di Manfredini, la quale vede una netta maggioranza di elettori di Bersani.

     

    I risultati di Genova e La Spezia hanno generato un piccolo terremoto politico in Liguria. Il centrodestra ha strappato al ballottaggio due città simbolo del centrosinistra, riuscendo in una rimonta che solo pochi anni fa era difficile da pronosticare. Dal punto di vista simbolico, queste due vittorie sono paragonabili all’unico quinquennio di centro-destra a Bologna, quando a venire eletto fu a sorpresa Giuliano Guazzaloca (1999-2004).
    Soffermandosi sul caso spezino, con la sola eccezione del 1993, le coalizioni del centro-sinistra, da quando è entrata vigore l’elezione diretta del sindaco, sono riuscite sempre a vincere al primo turno con i due sindaci, Giorgio Pagano (1997-2007) e Massimo Federici (2007-2017), riconfermati con successo nel loro secondo mandato.
    In questa tornata, il candidato per il centrosinistra – scelto senza le elezioni primarie – è stato Paolo Manfredini, presidente del consiglio comunale uscente e nome di raccordo tra l’area facente capo al Ministro Orlando, l’area renziana e quella Dem. A sfidarlo, undici candidati tra cui Pierluigi Peracchini a capo della coalizione di centro-destra.

    Al primo turno proprio Peracchini si era imposto con il 32,61%, distanziando di oltre 7 punti Manfredini (25,07%). Un risultato in netto contrasto con la precedente tornata del 2012. Come emerso in una precedente analisi del CISE, l’indice di Bipolarismo e l’indice di Bipartitismo a La Spezia hanno subito una brusca battuta d’arresto: -10,6% per il primo e -10,2% per il secondo. Nonostante la contesta sia definibile anche in questa tornata come bipolare, le due coalizioni hanno raccolto al primo turno il 57,68% dei voti, mentre ben altri quattro candidati si sono attestati sopra il 5% (tra questi Donatella Del Turco del Movimento 5 Stelle all’8,8%). Data la distanza tra i due candidati e il terzo posto ottenuto da un candidato iscritto comunque al Partito Democratico, la disfida de La Spezia poteva considerarsi ancora aperta in vista del ballottaggio.

    A prevalere è stato Peracchini con un netto 59,98% contro il 40,02% di Manfredini. In entrambi i casi, i due contendenti (Tabella 1 e Figura 1) sono riusciti a portare al voto più dell’80% del proprio elettorato (83% e 85,6% rispettivamente). Rispetto all’elettorato delle altre principali liste, Peracchini riesce ad intercettare i due terzi dell’elettorato di Lorenzo Forcieri (66,2%) e il 53,9% di quello di Guido Melley. Al primo turno il primo aveva raccolto il 9,19% e il secondo il 7,88%, risultando rispettivamente il terzo e il quinto candidato più votati. Manfredini, al contrario, è riuscito sì ad accaparrarsi una fetta minore dell’elettorato di Melley (46,1%) e una più consistente di quello di Del Turco (Movimento 5 Stelle) (45,5%), ma non è riuscito a sfondare tra l’elettorato di Forcieri (21,4%). Proprio l’elettorato di Forcieri, candidatosi da iscritto al Partito Democratico (e da ex-sindaco di Sarzana nonché Sottosegretario del Ministero della Difesa durante il Governo Prodi) in alternativa al centro-sinistra di Manfredini, ha avuto quindi un peso notevole nel decretare la vittoria di Peracchini. Accanto all’elettorato di Forcieri, quello più di sinistra afferente alla doppia candidatura di Massimo Lombardi (4,67% al primo turno) e Cristiano Ruggia (2,83%) ha preferito l’astensione. Il 73,8% nel caso di Lombardi e il 48,8% nel caso di Ruggia.

    Tab. 1 – Matrice dei flussi elettorali fra primo e secondo turno, destinazioniflussi SP 2 dal primo turno destNei flussi elettorali del ballottaggio dunque sono tre gli elementi che hanno portato ad una netta affermazione del centro-destra: il primo luogo la capacità di Peracchini – al pari di Manfredini – di portare il proprio elettorato a votare al secondo turno; in secondo luogo, l’avvicinamento dell’elettorato di Forcieri a Peracchini e, infine, l’astensione di parte dell’elettorato sinistra.

    Fig. 1 – Flussi elettorali fra primo e secondo turno (percentuali sull’intero elettorato, clicca per ingrandire)flussi SP 2 dal primo turno

    Confrontando gli elettorati dei due candidati al ballottaggio (Tabella 2), si può notare come quello del vincitore sia molto più eterogeneo rispetto a quello di Manfredini. La composizione degli elettori di Peracchini rivela come poco più della metà (53,1%) degli elettori del neo-sindaco lo abbiano votato al primo turno; gli elettori di Forcieri (11,9%) e Melley (8,3%) costituiscono quasi il 20% del restante elettorato, mentre oltre il 10% viene dall’astensione. Nel caso di Manfredini, oltre ai propri sostenitori al primo turno (63%), il 22,5% è costituito dalla somma dell’elettorato di Melley e Del Turco. Irrilevante in questo caso la componente del non-voto al secondo turno (0,6%).

    Tab. 2 – Matrice dei flussi elettorali fra primo e secondo turno, provenienzeflussi SP 2 dal primo turno provInfine, rispetto alle politiche del 2013 il ballottaggio offre interessanti spunti di riflessione sia per il centro-destra che per il centro sinistra (Tabella 3 e Figura 2). Peracchini ha la meglio tra l’elettorato berlusconiano (55,8%), come è logico che sia per un candidato di centro-destra, e tra quello di Monti (59,1%). Manfredini ha sì il sostegno dell’elettorato di centro-sinistra (54,6%), ma raccoglie molto poco tra gli altri candidati. Rispetto al 2013 la maggioranza degli elettori del Movimento 5 Stelle (56,6%) ha scelto l’astensione.

    Fig. 2 –Flussi elettorali fra politiche 2013 e ballottaggio 2017 (percentuali sull’intero elettorato, clicca per ingrandire)flussi SP 2 dal 2013Tab. 3 – Matrice dei flussi elettorali fra politiche 2013 e ballottaggio, destinazioniflussi SP 2 dal 2013 destIn termini di composizione dell’elettorato sempre rispetto al 2013 (Tabella 4), quello di Manfredini si conferma essere stato nel 2013 in prevalenza legato al centro-sinistra (77,6%), mentre quello di Peracchini è molto più trasversale con solo il 33,4% che quattro anni fa aveva votato Berlusconi. Da notare, in conclusione, come un sorprendente 16,9% dell’elettorato di Peracchini nel 2013 abbia votato Bersani. Segno che l’emorragia di voti per Manfredini rispetto al risultato delle politiche sia stata altrettanto trasversale.

    Tab. 4 – Matrice dei flussi elettorali fra politiche 2013 e ballottaggio, provenienzeflussi SP 2 dal 2013 prov

    Riferimenti bibliografici:

    Corbetta, P.G., A. Parisi e H.M.A. Schadee [1988], Elezioni in Italia: struttura e tipologia delle consultazioni politiche, Bologna, Il Mulino.

    Goodman, L. A. (1953), Ecological regression and behavior of individual, «American Sociological Review», 18, pp. 663-664.


    NOTA METODOLOGICA

    I flussi riportati sono stati calcolati applicando il modello di Goodman alle 96 sezioni elettorali del comune di La Spezia. In entrambe le analisi abbiamo eliminato le sezioni con meno di 100 elettori (in una delle due elezioni prese in esame), nonché quelle che hanno registrato un tasso di variazione superiore al 20% nel numero di elettori iscritti (sia in aumento che in diminuzione).  Il valore dell’indice VR è pari a 2,8 per i flussi fra primo e secondo turno; 6,1 per i flussi dal 2013.

  • I flussi elettorali a Parma: Pizzarotti ancora il preferito per elettori di centrodestra e M5s 2013

    I flussi elettorali a Parma: Pizzarotti ancora il preferito per elettori di centrodestra e M5s 2013

    Federico Pizzarotti (57,87%) riesce ad imporsi nel ballottaggio contro il candidato di centrosinistra Paolo Scarpa (42,13%). Nonostante Pizzarotti nel primo turno non avesse sfondato tra i votanti del Movimento 5 Stelle, la trasversalità della sua candidatura ha permesso al ballottaggio di sopravanzare agevolmente lo sfidante.

     

    Federico Pizzarotti (Effetto Parma) è il secondo sindaco di Parma a riuscire a vincere una sfida elettorale da incumbent (57,87%); dall’introduzione dell’elezione diretta del primo cittadino, solo Elvio Ubaldi (centrodestra) era riuscito prima di lui (1998 e 2002) a farsi riconfermare. Il sindaco uscente è però il primo a vincere in entrambi i casi al ballottaggio – Ubaldi nel 2002 vinse al primo turno – e sempre contro un candidato di centrosinistra, Bernazzoli nel 2012 e Scarpa nel 2017. In questo caso, tuttavia, Pizzarotti partiva da una posizione di vantaggio (34,78%), rispetto a Scarpa (32,73%). Nel caso del 2012, la rimonta dell’ex 5 Stelle fu rimarchevole se si tiene conto tanto del divario enorme tra Bernazzoli (39,21%) e Pizzarotti (19,47%) quanto dell’esito del ballottaggio (60,23% a 39,77% a favore di Pizzarotti). Da registrare in questo caso un ulteriore calo dell’affluenza (45,17%), contro il 53,65% del primo turno.
    Partendo proprio da questo dato balza agli occhi il contrasto con le precedenti tornate elettorali: nel 2012 l’affluenza, seppur in lieve calo rispetto al primo turno (64,55%), si attestava al 61,18%. Al ballottaggio del 2007 era al 67,76% (74,51% al primo turno). Rispetto alla prima vittoria di Pizzarotti, dunque, il calo è consistente (-16,01%) e in linea con il trend decrescente degli ultimi dieci anni. Nonostante questa decrescita, in ogni caso, il sindaco uscente riesce a confermarsi con largo margine.
    Come emergeva dalla precedente radiografia tracciata dal CISE sui flussi elettorali parmensi, Pizzarotti si è dimostrato rispetto agli altri contendenti più trasversale e capace, nonostante uno scarso appeal nei confronti dell’elettorato grillino – solo poco di un quinto aveva optato per Pizzarotti, mentre la maggioranza si era rifugiata nel non-voto (66,8%) – di attrarre tanto l’elettorato di centro-sinistra quanto quello afferente al centro-destra.

    A dispetto della larga vittoria, la partita del ballottaggio poteva ritenersi aperta per due motivi: in primo luogo, l’elettorato del Movimento 5 Stelle (M5S) poteva essere mobilitato contro il sindaco uscente e spinto a votare – in controtendenza con l’opposizione al governo Gentiloni – un candidato del centrosinistra quale sgarbo nei confronti di chi dal movimento se n’era andato (o era stato cacciato a seconda delle interpretazioni). Non era accaduto nel primo turno, ma non si poteva escludere che potesse accadere nel ballottaggio, quale voto contram personam. In secondo luogo, dopo le recenti dichiarazioni di Silvio Berlusconi contro il M5S, l’elettorato di centro-destra avrebbe potuto preferire un candidato proveniente da un partito tradizionale rispetto ad un ex-grillino. D’altronde lo stretto margine tra i due candidati (2,05%) indicava la sfida del comune di Parma, come una delle più aperte tra i vari comuni capoluogo al voto in questa tornata. Inoltre, il caso sempre di Parma del 2012 – dove una sfida apparentemente chiusa venne ribaltata completamente – consigliava una cautela ancora maggiore a Pizzarotti.

    Timori che in ogni caso si rivelati infondati. In primo luogo, i dati sui flussi elettorali (Figura 1) mostrano come Pizzarotti sia riuscito a mantenere intatto il proprio elettorato.

    Fig. 1 – Flussi elettorali fra primo e secondo turno (percentuali sull’intero elettorato, clicca per ingrandire)parma flussi 2 dal primo allSolo l’1,3% dei votanti di Pizzarotti al primo turno ha disertato le urne al ballottaggio contro il 7,3% dell’elettorato di Scarpa (Tabella 1). Inoltre proprio il candidato di centrosinistra ha visto una parte relativamente piccola, ma comunque significativa (8%) di elettori migrare verso Pizzarotti al ballottaggio. Tuttavia, la vera partita si è giocata per l’elettorato di centro-destra ed è qui che il candidato di Effetto Parma ha fatto la differenza. Il 46,4% dell’elettorato che al primo turno aveva optato per il centro-destra (Cavandoli) ha espresso la propria preferenza per Pizzarotti e solo il 13,8% per Scarpa; il restante 39,7% non si è recato alle urne. Scarpa ha sì riscosso più preferenze tra le altre liste presenti al primo turno, ma con uno scarto percentuale non rilevante (28,3% contro il 20% di Pizzarotti) se si tiene conto che esse costituivano poco meno del 14% dei voti complessivi. Da rimarcare che il calo della partecipazione riflette anche la scarsa capacità dei due candidati di attrarre chi si era astenuto al primo turno: il 98,3% degli astenuti al primo turno, difatti, ha rinunciato a recarsi alle urne anche al secondo turno.

    Tab. 1 – Matrice dei flussi fra primo e secondo turno, destinazioniflussi parma 2 dal primo destSe invece guardiamo alla composizione dell’elettorato nel ballottaggio (Tabella 2), si può notare come in termini percentuali quello pizzarottiano abbia un 29,6% di nuovi elettori mentre quello di Scarpa solo un 21,8%. Dei nuovi elettori di Pizzarotti, come facilmente deducibile dai precedenti dati, la maggior parte proviene dal centro-destra (18,4%); solo il 7,5% dell’elettorato di Scarpa, invece, è composto dagli elettori della Cavandoli.

    Tab. 2 – Matrice dei flussi fra primo e secondo turno, provenienzeflussi parma 2 dal primo provSe si compara il ballottaggio con le politiche del 2013 (Tabella 3) si scopre che ancora una volta gli elettori del M5S hanno disertato le urne (69,8%) e solo un 15,4% ha scelto Pizzarotti. Come accaduto nel primo turno (Figura 2), Pizzarotti è riuscito a convincere una buona fetta di elettori di centro-sinistra (41,4% contro “solamente” il 47,9% di Scarpa, candidato d’area per questi elettori). Anche gli elettori di Berlusconi del 2013 hanno in gran parte disertato le urne (65,3%); tuttavia il restante 30,4% ha scelto Pizzarotti, mentre solo il 4,4% Scarpa.

    Tab. 3 – Matrice dei flussi fra politiche 2013 e ballottaggio 2017, destinazioniflussi parma 2 dal 2013 destInfine, un ultimo accenno lo merita certamente la comparazione con le elezioni politiche del 2013 sulla composizione dell’elettorato dei due candidati (Tabella 4). In una scelta binaria – come quella de ballottaggio – emerge ancora più chiaramente la maggiore trasversalità  dell’elettorato di Pizzarotti, composto per il 44,4% da coloro che nel 2013 hanno scelto Bersani, da un 17,2% di elettorato montiano e da un 25,4% di “grillini”. L’elettorato di Scarpa, invece, è in gran parte del centro-sinistra (70,7%) e in misura minore montiano (19,9%), segno che a Parma il Partito Democratico (e il suo candidato) non sono riusciti a sfondare né nel centro-destra né nel M5S.

    Tab. 4 – Matrice dei flussi fra politiche 2013 e ballottaggio 2017, provenienzeflussi parma 2 dal 2013 prov

    Fig. 2 – Flussi elettorali fra politiche 2013 e ballottaggio 2017 (percentuali sull’intero elettorato, clicca per ingrandire)parma flussi 2 all

    Riferimenti bibliografici:

    Chiaramonte A. ed Emanuele V. (2017). L’illusione bipolare: il sistema partitico nelle città al voto nel 2017. /cise/2017/06/19/lillusione-bipolare-il-sistema-partitico-nelle-citta-al-voto-nel-2017/

    Corbetta, P.G., A. Parisi e H.M.A. Schadee (1988), Elezioni in Italia: struttura e tipologia delle consultazioni politiche, Bologna, Il Mulino.

    Goodman, L. A. (1953), Ecological regression and behavior of individual, «American Sociological Review», 18, pp. 663-664.

    Vittori D. (2017). Parma, i voti M5S vanno nell’astensione: Pizzarotti in vantaggio coi voti del centrosinistra. I risultati e i flussi elettorali.  /cise/2017/06/12/parma-i-voti-m5s-vanno-nellastensione-pizzarotti-in-vantaggio-coi-voti-del-centrosinistra/


    NOTA METODOLOGICA

    I flussi riportati sono stati calcolati applicando il modello di Goodman alle 207 sezioni elettorali del comune di Parma. In entrambe le analisi abbiamo eliminato le sezioni con meno di 100 elettori (in una delle due elezioni prese in esame), nonché quelle che hanno registrato un tasso di variazione superiore al 20% nel numero di elettori iscritti (sia in aumento che in diminuzione).  Il valore dell’indice VR è pari a 1 per i flussi fra primo e secondo turno; 7,5 per i flussi dal 2013.