Telescope
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“Stanchi delle guerre, contro l’immigrazione e non troppo convinti del clima che cambia: ecco gli italiani, nel nostro sondaggio”
Come la pensano gli italiani su guerre, immigrazione, magistratura ed altre questioni di stretta attualità? È cambiato qualcosa rispetto a maggio, quando eravamo nel pieno della campagna elettorale per le elezioni europee? Nella nuova puntata di Telescope pubblichiamo la prima parte dell’analisi del nostro nuovo sondaggio, realizzato con metodo CAWI su un campione di 1.200 italiani maggiorenni. Dopo una panoramica sugli orientamenti generali dell’opinione pubblica, abbiamo scelto di approfondire le opinioni su un argomento specifico: il cambiamento climatico. Se ne parla dal secolo scorso, ma da meno di un decennio in modo diffuso, specie quando accadono eventi catastrofici. In questo caso ci ha spinto un tema d’attualità: l’ennesima alluvione in Emilia-Romagna, che peraltro segue la siccità in Sicilia, dove almeno due milioni di abitanti hanno l’acqua razionata una volta a settimana. Queste calamità hanno inciso sulla più ampia percezione del fenomeno? Si crede che si tratti di variazioni naturali, oppure di un cambiamento climatico dovuto alle attività umane? Il governo, nell'affrontare tutto ciò, è stato giudicato all’altezza? Ecco cosa dicono i dati della rilevazione.Gli italiani, sei mesi dopo: cresce la polarizzazione
L’opinione pubblica italiana, oggi più che a maggio, rigetta le endless wars, i conflitti che si prolungano per anni senza una fine apparente. Ciò è chiaro per gli scenari internazionali più importanti e attenzionati dai media: l’Ucraina e Gaza. Sulla prima, due terzi del campione vorrebbero che si arrivasse a una trattativa di pace con la Russia, al costo di riconoscere i territori annessi da Putin. In Medio Oriente, una fetta ancora maggiore - pari all’81%, ben 4 punti in più che in primavera - si dice contraria alla prosecuzione dell’intervento militare israeliano. Nel mezzo di queste posizioni, non sorprende che la variazione più significativa sia stata sulla creazione di un esercito comune europeo, il cui consenso perde 7 punti, scendendo sotto la soglia del 50% (49%). Ad essere contrari sono soprattutto i Millennials (52%), cioè chi ha tra 28 e 43 anni, e i Gen X (55%) ricompresi nella fascia d’età 44-59, mentre a favore restano i gruppi più anziani over 60 e, rispetto all’auto-collocazione politica, chi si definisce di sinistra (57%). Riguardo poi a vari altri temi, rispetto alla primavera varie opinioni che già erano maggioritarie hanno acquisito ulteriore forza. Due esempi su tutti: il negare l’ingresso ai movimenti anti-abortisti nei consultori, che ora raccoglie oltre il 70% delle preferenze (era il 66,4% in primavera), e il limitare l’accoglienza degli immigrati (67,7%, era il 62,9%). Quest’ultimo tema è, da almeno 15 anni, tra i più sentiti dalle opinioni pubbliche occidentali, dimostrandosi determinante in diverse elezioni. Giusto per citarne una, quella americana del mese scorso con la vittoria di Trump. L’evidenza ormai è tale per cui alcuni partiti di sinistra, o più largamente definibili “progressisti”, stanno rivedendo le proprie posizioni in merito all’argomento. Lo ha fatto, se pure tardivamente e con scarso profitto, Kamala Harris, candidata presidente del partito democratico negli Stati Uniti. Prima di lei, e con risultati fino ad ora migliori, era successo in Danimarca, ed è successo più di recente in Germania con Sahra Wagenknecht, leader del partito BSW, che ha scalzato la Linke a riferimento della sinistra radicale tedesca. Accadrà lo stesso in Italia? Completiamo la nostra panoramica con una delle questioni più divisive: i poteri della magistratura. Le opinioni su questo tema sono difficili da scalfire, perché ormai appare chiara una polarizzazione su linee partitiche. L’orientamento sul dare ai giudici più o meno poteri è rimasto pressoché invariato (appena mezzo punto in più rispetto a maggio), nonostante il dibattito politico con relative tensioni sul ddl Nordio approvato in estate, che ha eliminato l’abuso d’ufficio.Il cambiamento climatico? C'è un segmento non trascurabile di negazionisti
C’è una questione però, visibile sopra nelle tabelle, su cui la maggioranza degli intervistati si dice d’accordo (56,3%, era il 57,8% in primavera): dare la priorità alla protezione dell’ambiente, anche a costo della crescita economica. È un tema che si ricollega al più generale tema dell’ambiente, che abbiamo voluto in particolare approfondire con una domanda chiave: di fronte all’intensificarsi di eventi meteorologici estremi degli ultimi anni, gli intervistati tracciano una connessione col cambiamento climatico oppure no? La risposta è essenzialmente “sì”, ma non unanime, e con alcune interessanti specificazioni. Intanto, abbiamo rilevato questa connessione con due domande diverse: una generica, che non faceva riferimento specificamente agli eventi di quest’anno, collocata dopo domande su altri temi; e poi una molto più specifica, alla fine di varie domande sul cambiamento climatico, e che faceva invece esplicito riferimento ai fenomeni estremi di quest’anno (alluvioni in Emilia-Romagna, siccità al Sud, ecc.). Ebbene, nel primo caso il 76% degli intervistati attribuisce gli eventi estremi degli ultimi anni a un processo di cambiamento climatico (invece che normali oscillazioni climatiche); nel secondo, l’81% degli intervistati imputa gli eventi di quest’anno in Italia al cambiamento climatico prodotto dall’uomo. Tuttavia i due dati indicano una tendenza coerente: a fronte di una stragrande maggioranza che lega i due fenomeni (in linea con il consenso unanime tra gli scienziati), esiste comunque un’area tra il 20 e il 25% degli intervistati che invece nega questo collegamento. Diventa quindi di grande interesse vedere in quali gruppi è più diffuso questo atteggiamento “negazionista”. Prendendo a parametro la domanda generale, ci sono molte conferme e qualche sorpresa. La parziale sorpresa viene da un dato generazionale: percentuali di negazionisti sopra la media si trovano tra i Millennials (28-43 anni, 34%) e nei più anziani Silent Gen (gli over 79, 25%), mentre i giovani della Gen Z (17-27 anni) sono i meno negazionisti con il 16%. Gli altri gruppi sociali mostrano invece sostanziali conferme: sono più negazionisti gli uomini delle donne (30 contro 18%), i meno istruiti (30% tra elementari e nessun titolo, 24% in tutti gli altri), i più agiati economicamente (56 e 60% nelle due categorie più agiate, rispetto a valori tra il 19 e il 27% in tutte le altre categorie); quest’ultima sovrapposizione di caratteristiche (agiatezza economica, ma minore istruzione) ricorda il profilo tipico degli elettori di centro-destra: e infatti l’auto-collocazione politica ha un effetto molto forte: la percentuale di negazionisti è solo del 7% tra chi si colloca a sinistra, mentre sale al 43% tra chi si colloca a destra. È peraltro verosimile che queste domande siano anche influenzate dalla posizione del proprio partito. Quando infatti chiediamo una questione più ampia e neutrale, ovvero se il cambiamento climatico abbia contribuito a cambiare il modo di vedere il futuro dell’intervistato, risponde di sì addirittura l’83% (rispetto al 69 di maggio): segno che alcuni che si dichiarano negazionisti forse poi alla fine credono al cambiamento climatico. E non a caso, essere colpiti da eventi climatici estremi ha un effetto sulle opinioni. Chi li ha vissuti sulla propria pelle nell’ultimo anno crede infatti molto di più al cambiamento climatico rispetto a chi invece non li ha affrontati (86 contro 70%). Inoltre, gli abitanti di una zona colpita credono maggiormente che questi fenomeni siano colpa delle attività umane (68%), rispetto a chi risiede altrove (59%). E peraltro, nella batteria di domande consultabile qui sotto, si vede che il 51,2% degli intervistati dichiara di avere fatto esperienza di alluvioni, siccità, ondate di calore. È una percentuale molto alta, che ci dà l’idea della rilevanza del fenomeno. Sui rimedi adottati, infine, il parere invece è netto, e boccia l’azione del governo Meloni: per l’81% i giudizi sono negativi o molto negativi. Quale conclusione possiamo trarre da tutto ciò? Per molti anni la protezione dell’ambiente è stato un tema politicizzato da una sola direzione, dal lato ambientalista. Negli ultimi anni, tuttavia, di fronte a provvedimenti con un rilevante impatto economico sui settori legati ai combustibili fossili, si è mobilitato un fronte contrario (con successo soprattutto tra gli elettori di destra). Il tema è quindi oggi più controverso e politicizzato, e i nostri dati ormai lo mostrano chiaramente. È una dinamica tipica della politicizzazione di questo conflitto, che a questo punto non riguarda più, ad esempio, solo gli Stati Uniti, ma sembra chiaramente presente anche in Italia. Nota metodologica Il sondaggio Cise-Telescope è stato somministrato con metodologia CAWI su un campione di 1.206 intervistati, tra il 20 e il 26 novembre 2024, dalla società Demetra. Il campione è rappresentativo della popolazione italiana in età di voto per combinazione di sesso e classe di età, titolo di studio e zona geografica. Successivamente il campione è stato ponderato per sesso, combinazione di classe ed età, zona geografica e ricordo del voto espresso nella precedente elezione del 2022. Il tasso di risposta in rapporto agli inviti è stato del 40%. Il margine di errore (al livello di fiducia del 95%) per un campione probabilistico di pari numerosità è di ± 2,8 punti percentuali.-
Redazione CISE Dic 9, 2024
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Trump colpisce ancora, ed ora che succede? Gli scenari per l’America e l’Europa
Donald Trump ha vinto le elezioni. Nessun presidente, dai tempi tardo ottocenteschi di Grover Cleveland, era tornato alla Casa Bianca dopo averle perse alla fine del primo mandato. Il tycoon ha battuto Kamala Harris in tutti e 7 gli Stati in bilico, conquistando il collegio elettorale con 312 grandi elettori e prevalendo pure, a sorpresa, nel voto popolare. Trump ha preso 2,6 milioni di voti in più della sua avversaria, come non succedeva ai repubblicani dal 2004 con George W. Bush. Il suo consenso si è nazionalizzato, come confermano gli ottimi risultati in roccaforti democratiche come la California e New York. La sua base elettorale si è allargata, specie tra giovani e latinos. Ha dimostrato, ancora una volta, di non essere un accidente della storia. Com’è stato possibile? Cosa faranno i repubblicani, che hanno anche il controllo del Congresso? E i democratici, in cerca di riscatto? Senza dimenticare i Paesi europei, in primis l’Italia. A queste domande rispondiamo nella nuova puntata di Telescope, realizzata grazie agli spunti e alle analisi - raccolti nel corso del nostro ultimo evento - di John Ferejohn e Bruce Cain (Stanford University), Daniela Giannetti (Università di Bologna), Roberto D’Alimonte e Sergio Fabbrini (Luiss).
Trump, un candidato diventato normale
La vittoria di Trump non è in sé una sorpresa. Che fosse possibile e per certi versi probabile, lo sapevamo da tempo. Guardando al collegio elettorale, non registriamo cambiamenti epocali: è vero che il tycoon ha prevalso in tutti e sette gli Stati in bilico, ma in cinque di questi (Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, North Carolina e Georgia) lo ha fatto in realtà con un margine minimo, tra lo 0,9 e il 2%. Significa che le elezioni, pure stavolta, sono state comunque competitive, anche se meno del solito. Il successo di Trump è però significativo, oltretutto consacrato dal primato nel voto popolare. Per capirlo dobbiamo partire proprio da lui. Dopo 8 anni in politica, il tycoon è diventato un candidato “normale”, ben conosciuto dagli americani che hanno dimostrato, in larga parte, di non considerarlo un pericolo per la democrazia. Peraltro, il presidente eletto si è dimostrato capace di spostarsi al centro su questioni come sicurezza sociale e assistenza sanitaria, e di mostrarsi più neutrale sull’aborto, che era costato caro ai repubblicani nelle ultime elezioni di midterm.
Ma soprattutto Trump è stato considerato più credibile per gestire i temi prioritari dell’opinione pubblica americana: l’immigrazione e l’economia. Su quest’ultima, dati alla mano, occorre in particolare una riflessione. Sotto l’amministrazione Biden sono stati creati 16 milioni di nuovi posti di lavoro, la disoccupazione è scesa al 4,3%, il mercato azionario è andato a gonfie vele, sono aumentati persino i salari. Ma questo non è bastato, perché la crescita economica parrebbe non aver portato a benefici diffusi, anche perché l’inflazione ha colpito con durezza i ceti meno abbienti, a partire dal rincaro su alimenti di largo consumo come bacon e uova. La lezione per i democratici è dunque quella di prestare ancora più attenzione agli effetti delle politiche economiche (è vero che Biden ha speso moltissimo per creare lavoro, ma non è riuscito ad affrontare in modo convincente il problema del costo della vita) e per certi versi di rivedere ulteriormente la propria agenda, privilegiando tematiche economiche anziché identitarie. È evidente quanto sia diverso il loro impatto: Trump, come mostrato nel grafico in basso, ha guadagnato voti tra tutte le fasce di reddito.
L’incognita Congresso: cosa succede col trifecta
Come se non bastasse, il tycoon godrà anche del cosiddetto trifecta government, che si ha quando un partito, oltre a esprimere il presidente, controlla anche i due rami del Congresso. I repubblicani hanno ottenuto infatti la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Per Trump è un bene, ma non è affatto garanzia per la realizzazione del suo programma. I margini di maggioranza sui democratici infatti sono esigui in entrambe le camere, e per le proposte repubblicane più estreme venire a compromessi sarà un problema, specie con due partiti così polarizzati. Tutti gli ultimi presidenti che hanno goduto del trifecta lo hanno perso alle elezioni di midterm. C’è di più: per ogni inquilino della Casa Bianca il picco di potere si raggiunge il 20 gennaio, il giorno dell’insediamento, e la luna di miele col Paese dura circa 100 giorni. Trump allora, come i suoi predecessori, non può permettersi di “partire male”, pena una probabile sconfitta tra due anni nelle elezioni di midterm, col rischio di diventare un’anatra zoppa. Non è un elemento da sottovalutare, perché il controllo o meno della Camera o del Senato incide molto sull’azione dell’amministrazione. Il Senato ad esempio, dove i repubblicani hanno una maggioranza di tre seggi, è fondamentale per la politica estera.
L’arma dei dazi contro l’Europa
Dal 1948 tutti i presidenti americani hanno sostenuto il processo di integrazione europea, che altrimenti non sarebbe stato possibile. Tutti, appunto, tranne Trump. Il tycoon è riflesso della tradizione risalente a Lord Palmerston, premier inglese della seconda metà dell’Ottocento, secondo il quale “non ci sono alleanze permanenti, ma solo interessi permanenti”. Trump, per perseguire i propri obiettivi da deal maker, potrebbe dividere l’Europa rafforzando i dazi su singoli prodotti, così da colpire i Paesi che ritiene più opportuno. Un approccio unilaterale come il suo penalizzerebbe l’export del vecchio continente. Esiste una soluzione politica che possa evitarlo, proposta magari dal governo italiano di centrodestra? Allo stato attuale, se ci fosse, è quantomeno complicata, perché un’alleanza transatlantica tra nazionalisti non appare logica. Uno dei tratti che meglio caratterizza Donald Trump è peraltro l’imprevedibilità, tipica di un soggetto post ideologico che combina posizioni di destra e sinistra su diversi temi. E a differenza del suo primo mandato, il contesto è cambiato, con Francia e Germania politicamente deboli, e quindi un’Europa ancora più in difficoltà. Per l’Unione Europea è un’ora decisiva, perché le toccherà rispondere a chi, forse più di chiunque altro, si è affermato grazie alla sfiducia diffusasi gli ultimi 30 anni nei confronti delle élite tradizionali, quelle che negli Stati Uniti si trovano a Washington e in Europa proprio a Bruxelles e Strasburgo.
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Redazione CISE Nov 29, 2024
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Evento – The 2024 US Presidential Elections: And Now What?
Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali americane. Un successo netto, con una nota sorprendente: il tycoon ha battuto Kamala Harris persino nel voto popolare, come non succedeva ai repubblicani dal 2004, anno della riconferma di George W. Bush. Per capire i motivi e approfondire i risvolti di questo risultato elettorale, il Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss ed il CISE ospiteranno una conferenza internazionale. L'evento, interamente in lingua inglese, è previsto per giovedì 14 novembre alle 17:30 nella sede Luiss di Viale Romania 32. Qui il link di registrazione.-
Redazione CISE Nov 6, 2024
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Elezioni in Liguria: crocevia d’autunno? Dati e scenari sullo scontro Bucci-Orlando
Lo scandalo giudiziario, le dimissioni di Giovanni Toti, le elezioni anticipate con lo scontro serrato tra Marco Bucci e Andrea Orlando: la politica nazionale guarda al voto di domenica e lunedì in Liguria, crocevia importante per il centrodestra, che vuole confermare una Regione dove governa dal 2015, e per il centrosinistra, presentatosi unito con la formula del campo largo, eccetto per Italia Viva rimasta fuori dopo i dissidi tra Conte e Renzi. Sono tanti gli spunti d’interesse: dalle strategie diverse (anzi, opposte) prese dalle coalizioni nella scelta del loro candidato presidente, alla storia politica della Liguria, terra di conquiste bipartisan come poche altre nella Seconda Repubblica, fino alle possibili ripercussioni del voto a medio termine, in vista delle prossime tornate in Emilia-Romagna e Umbria. Un’elezione bipolare? L’offerta politica e la legge elettorale Il sindaco di Genova Marco Bucci e l’ex ministro Andrea Orlando, stando agli ultimi sondaggi, vengono dati entrambi al 47%. Un acceso testa a testa. Eppure alla presidenza concorrono altri 7 candidati, tra cui diversi stimati allo 0,5%, con l’ex presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra intorno al 2,5%. Questi dati, se ribaditi dalle urne, confermerebbero la bipolarizzazione in corso nel sistema politico italiano: un fenomeno già evidenziato alle europee di giugno e, pochi mesi prima, alle regionali di Sardegna e Abruzzo. È un banco di prova rilevante in particolar modo per il centrosinistra: quanto può diventare competitivo con l’alleanza Pd-M5s? Alle precedenti regionali del settembre 2020 i due partiti si presentarono insieme a sostegno del giornalista Ferruccio Sansa, che perse però di 17 punti contro Giovanni Toti (56,1 contro 38,9%). Va ricordato che in quella tornata di regionali, svoltasi pochi mesi dopo lo scoppio del Covid, tutti i governatori uscenti candidati erano stati riconfermati (oltre Toti in Liguria, Zaia in Veneto, De Luca in Campania ed Emiliano in Puglia). Stavolta il contesto è diverso. Quel che non è cambiato rispetto a quattro anni fa è che nessuna lista fuori dai due poli principali entrerebbe in consiglio regionale. La legge elettorale ligure prevede che 24 seggi su 30 siano ripartiti con metodo proporzionale tra le liste che abbiano superato il 3%, tranne se collegate ad un presidente con almeno il 5%. I restanti 6 seggi formano invece un premio di maggioranza ad assegnazione variabile per la coalizione del governatore vincente, garantendole però non più di 19 seggi in consiglio regionale.Bucci vs Orlando: due diverse scelte strategiche I due principali candidati riflettono strategie molto diverse. Andrea Orlando, tre volte ministro, è un uomo fortemente di partito: guida una delle componenti del Partito Democratico, e aveva anche provato a diventare segretario nel 2017, perdendo contro Renzi. Il tema che si pone è se, oltre ai dem, gli altri partiti della coalizione lo sosterranno con la stessa forza, in primis il Movimento Cinque Stelle. La Liguria non è soltanto la terra del fondatore Beppe Grillo, ma l’unica regione del Nord Italia in cui alle ultime europee i pentastellati hanno oltrepassato il 10%. L’apporto del partito di Conte è quindi importante e non va sottovalutato, nonostante una tradizione elettorale negativa nelle tornate locali. Il ragionamento, al contrario, fatto dal centrodestra è stato di puntare su un federatore esterno ai grandi partiti: Marco Bucci, che forse potrebbe rivelarsi, grazie a questo profilo, più attrattivo verso elettori indecisi e di orientamento moderato. Bucci, in passato, è stato sostenuto in giunta da liste centriste come Azione. I flussi elettorali ci diranno cosa accadrà, ora che Calenda sostiene Orlando. Se il centrodestra vincesse, verrebbe depotenziato il valore nazionale dei successivi appuntamenti elettorali dell’autunno. L’Emilia-Romagna, per Meloni & Co., resta infatti un fortino difficilmente espugnabile, mentre l’Umbria da sola non stravolgerebbe granché. Se vincesse invece Orlando, la formula politica del campo largo, ancora lontana dall’essere praticata con continuità, verrebbe rilanciata, dando la “volata” alle altre due elezioni e aumentando le fibrillazioni politiche quando il dibattito sarà incentrato sulla legge di Bilancio. Nel tempo che rimane di questa legislatura il centrosinistra è chiamato a costruire un’offerta politica che lo renda competitivo alle prossime elezioni nazionali, di “farsi polo” come è riuscito al centrodestra negli ultimi anni, nonostante i cambiamenti nella leadership. È prioritario evitare di ripetere gli errori del 2022, quando a prevalere fu proprio un Polo solo [Chiaramonte, De Sio 2024], quello di Meloni, Salvini e Berlusconi. Ancora una volta, quindi, una prova elettorale regionale ha importanti implicazioni nazionali.-
Redazione CISE Ott 25, 2024
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Elezioni USA: testa a testa fino all’ultimo miglio. Analisi e scenari nella sfida Harris-Trump
Paese vasto e complesso, gli Stati Uniti. Gli abitanti sono 333 milioni, con una composizione etnica e demografica in rapida trasformazione. Alle ultime presidenziali gli elettori sono stati oltre 158 milioni, con un’affluenza in netta crescita rispetto al passato (66,6%, +7,4%). Eppure, in questa moltitudine, a decidere il risultato delle elezioni sono ormai poche decine di migliaia di voti sparse in una manciata di Stati chiave. È successo nel 2020 con la vittoria di Biden, e ancor prima con quella di Trump nel 2016. Tutto lascia presagire che sarà così pure nel 2024, in circostanze inedite dopo il ritiro del presidente e il lancio della candidatura della sua vice. “Non ho mai assistito ad un’elezione del genere in vita mia”, ha dichiarato Douglas Rivers, Chief Scientist di YouGov e professore a Stanford. La nuova puntata di Telescope è realizzata grazie ai dati presentati da lui e da David Brady, anche lui professore a Stanford, durante l’evento dello scorso 2 ottobre alla Luiss. Ringraziamo entrambi per averci permesso di utilizzarli in quest’articolo, che spiega perché gli americani sono così divisi e le elezioni presidenziali sistematicamente incerte, sondando possibili scenari relativi alla vittoria di Harris oppure di Trump.Nel segno di Reagan: cos’è rimasto degli anni Ottanta?
Non esistono più i democratici e i repubblicani di una volta. Gli elettorati dei due partiti (e la percezione dei partiti stessi) sono profondamente cambiati negli ultimi decenni. Guardando alla storia recente, la svolta più dirompente è avvenuta negli anni Ottanta sotto la presidenza di Ronald Reagan. Prima di allora, i presidenti democratici venivano considerati come quelli capaci di risolvere i problemi economici. Una convinzione, tuttavia, messa a dura prova sotto la presidenza di Jimmy Carter (1976-1980), quando il Misery Index - un indicatore che combina disoccupazione e inflazione - superò il 10%. Con Reagan il cambio di passo: i repubblicani hanno acquisito più credibilità sui temi economici, ed oggi a beneficiarne è Trump. La seconda ragione di questa trasformazione è culturale, legata a temi etici come ad esempio quello, di enorme attualità, dell’aborto. Nel 1972, ai tempi di Nixon, l’elettorato repubblicano era più pro choice (favorevole alla libertà di scelta delle donne) di quello democratico, tanto nel Nord quanto nel Sud del Paese. Sedici anni dopo, proprio al termine del mandato di Reagan (1988), questo rapporto si è invertito. Il lascito principale degli anni Ottanta, dunque, è l’inizio dello spostamento a destra dei repubblicani, con molti meno elettori moderati e conservatori che dichiarano di identificarsi tra i democratici. La tabella 2 è in tal senso emblematica, mostrando il confronto tra 1980 e 1994, quando ormai alla Casa Bianca non sedeva più Reagan ma Clinton. Parallelamente, si osserva il fenomeno speculare: l’inizio dello spostamento a sinistra del partito democratico, a cui dichiarano di identificarsi molti meno moderati e conservatori (questi ultimi pian piano più vicini ai repubblicani).La super polarizzazione: quanto c’entra Trump?
Quest’evoluzione maturerà poi negli anni successivi, in prossimità della discesa in campo di Trump. Il tycoon ha contribuito quindi ad un processo già esistente, perché ha acuito il solco tra gli elettorati dei due partiti spingendo i democratici a spostarsi più a sinistra. Lo si riscontra nei grafici sull’ideologia dei partiti tra 2012 e 2020. I democratici hanno perso ulteriormente elettori moderati e conservatori, passando dal 49 al 33%, mentre le varie componenti liberal sono cresciute dal 51 al 67%. Gli elettori americani diventano sempre più polarizzati, distanti anni luce sulle questioni più importanti, pieni di pregiudizi gli uni verso gli altri. I repubblicani credono che il 38% dei democratici appartenga alla comunità LGBT (lo è solo il 6%) e che il 36% sia ateo o agnostico (dato vero: 9%). Viceversa, i democratici credono che il 44% dei repubblicani sia composto da cittadini anziani (che pesano in realtà per circa la metà) e che guadagni più di 250.000 dollari all’anno (si tratta di appena il 2%). In un contesto del genere anche prendere decisioni al Congresso diventa difficile, vista la poca o nulla propensione al compromesso.Convinzioni inossidabili? Lo (scarso) peso dei dibattiti
È chiaro, di conseguenza, che oggi chi si considera democratico o repubblicano voterà molto probabilmente per il candidato del suo partito, a prescindere dagli eventi della campagna elettorale. Prendiamo i dati di YouGov sui due dibattiti televisivi. Nel primo, andato in onda lo scorso 27 giugno, la perfomance di Biden è stata decisamente negativa, tanto da costargli la rinuncia alla candidatura dopo le forti pressioni subite dal suo partito. Eppure, a fronte di tutto ciò, dopo il dibattito il presidente aveva perso appena l’1% nelle intenzioni di voto dei democratici. Significa che Trump, grazie a quell’evento, non ha guadagnato pressoché nulla sull’avversario. Lo stesso poi è successo il 10 settembre nel secondo dibattito, ma con Kamala Harris. La vicepresidente ne è uscita molto meglio di Trump, ciononostante le intenzioni di voto non hanno fatto registrare alcun spostamento. Si noti che, tanto nel pre quanto nel post dibattito, la percentuale di indecisi o non elettori è rimasta identica: 7%. È una cifra molto bassa, che contribuisce a rendere questa un’elezione iper-competitiva. Sembrerebbe che gli americani, addirittura già a due mesi dalle elezioni, avessero le idee chiare su chi votare. Un comportamento, questo, diverso da quello che si registra in Italia, dove una quota non marginale di elettori decide invece il giorno stesso delle elezioni (Ceccarini e Diamanti 2013). Tab. 4 - Percentuale di quanti ritengono che il dibattito TV sarà vinto (o sia stato vinto) da Biden/Harris o da Trump Tab. 5 - Come sono cambiate le intenzioni di voto ai candidati presidenti prima e dopo ciascun dibattitoTrump ed Harris: forze e debolezze
Quel che cambia velocemente nella campagna elettorale americana sono le opinioni su specifiche caratteristiche dei due candidati. Su questo il dibattito ha influito. Trump ne è uscito venendo considerato più confuso (+4,2%) e radicale (2,1%), mentre Harris come più ambiziosa (+3%) e audace (+2,4%). Il problema di Harris, oltre a quello di far parte dell’impopolare amministrazione Biden, è di essere percepita very liberal, un’etichetta che si è rafforzata dopo essere stata designata candidata, come visibile nella seconda visualizzazione: a febbraio, quando era soltanto la vice di Biden, era definita così per il 36%, appena due punti in più del presidente. Ad agosto, a cambio ormai avvenuto, la cifra sale al 42%. La strategia di dipingere Harris come una pericolosa estremista potrebbe dunque giovare a Trump, dal momento che ancora oggi gli americani si considerano in maggioranza moderati (32%) o conservatori (20%). Tab. 6 - Percentuale di intervistati che ha menzionato ciascun aggettivo per descrivere i candidati prima e dopo il bibattito TVPossibili scenari nell’era dell’incertezza
Gli Stati Uniti vivono questa elezione con fibrillazione. Per il Prof. Dave Brady due soli partiti non bastano in un Paese così vario, composito, con un’opinione pubblica sempre più cinica. Il rischio è di una reciproca delegittimazione tra i due schieramenti, che può sfociare persino nel non riconoscimento del risultato elettorale, come del resto è avvenuto con Trump nel 2020. Se volessimo tracciare degli scenari, potremmo semplificare l’analisi dicendo che “tutto” passa da Kamala Harris. Di Donald Trump ben conosciamo la forza, che verosimilmente gli permetterà di ottenere anche stavolta più di 70 milioni di voti ed essere in gioco negli Stati chiave. E sappiamo pure le debolezze, che lo rendono un candidato divisivo come nessun altro. Harris, quindi: continuerà o no il suo momentum, lo slancio che l’accompagna dall’estate dopo essere diventata candidata? Oppure, come parrebbe, l’entusiasmo diminuirà, assottigliando il suo vantaggio in diversi Stati cruciali? Ciò che è certo, è che se Harris dovesse far fatica nella Sun Belt (gli Stati della cintura meridionale), non prendendo il Nevada e senza spuntarla in almeno uno tra Arizona, Georgia e North Carolina, allora non potrà permettersi di perdere neppure uno degli Stati chiave del nel Mid-West. La partita decisiva è lì, in quegli stessi territori che avevamo individuato nella puntata Telescope di marzo: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Come con Trump e Clinton nel 2016. Come con Trump e Biden nel 2020. A quel punto Harris sarebbe ad un soffio dalla Casa Bianca: 269 grandi elettori. Gliene mancherebbe soltanto 1. Dove potrebbe ottenerlo? Dal 2° distretto del Nebraska, in passato repubblicano ma maggiormente conteso nelle ultime tornate (hanno vinto qui sia Obama nel 2008 che Biden nel 2020). La città di Omaha, dove è nato il miliardario Warren Buffett, risulterebbe decisiva, scrivendo il finale dell’elezione più serrata nella storia americana.
nota: si ringraziano Doug Rivers e David Brady per aver messo a disposizione i dati con i quali sono stati costruiti grafici e tabelle di questo articolo-
Redazione CISE Ott 10, 2024
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Left Governmental Power and the Reduction of Inequalities in Western Europe (1871–2020)
To cite the article: Emanuele, Vincenzo, and Federico Trastulli. 2024. “Left Governmental Power and the Reduction of Inequalities in Western Europe (1871–2020).” Perspectives on Politics: 1–20. doi: 10.1017/S1537592724000628. The article is open access and can be accessed here. Abstract Despite considerable attention in the literature, existing studies analyzing the effect of left governmental power on inequalities suffer from three main limitations: a privileged focus on economic forms of inequality at the expense of political and social ones, inaccurate measurements of left governmental power, and the analyses’ narrow time spans. This article addresses such concerns through a comparative longitudinal analysis where the impact of left governmental power on different measures of political, social, and economic inequalities is investigated in 20 Western European countries across the last 150 years. Data show that, consistent with previous literature, the Left in government has significantly reduced most forms of inequalities. However, the equalizing effect of the Left in government has decreased over time and has become not significant since the 1980s. The Left is today incapable of accomplishing its historical mission of reducing inequalities. The article discusses the rationale and implications of these findings.-
Vincenzo Emanuele Ago 20, 2024
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The ‘mainstream’ in contemporary Europe: a bi-dimensional and operationalisable conceptualisation
To cite the article:
Crulli, M., & Albertazzi, D. (2024). The ‘mainstream’ in contemporary Europe: a bi-dimensional and operationalisable conceptualisation. West European Politics, 1–30. https://doi.org/10.1080/01402382.2024.2359841
The article is open access and can be accessed here.
Abstract
The aim of this article is twofold. Firstly, it offers a new definition of ‘mainstream’. Moving beyond understandings of the concept that focus exclusively on parties’ alternation in power, or their ideology/message, the article’s conceptualisation considers both supply and demand sides of politics. Hence, an attitudinal component to functional definitions is added. This implies that, to be called ‘mainstream’, certain attitudes must be shared by a majority of the public, and there must be no significant differences in their endorsement across political groups. Secondly, consideration is given to whether liberal-, social-democratic, and populist radical right (PRR) parties and attitudes meet this new reconceptualisation. While liberal- and, to a lesser extent, social-democratic parties and attitudes are indeed shown to be ‘mainstream’, the PRR is found to fall outside of the proposed definition, despite being ‘established’ on the supply side. The article concludes by underlining its wider theoretical implications.
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Mirko Crulli Lug 3, 2024
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Un polo solo Le elezioni politiche del 2022
A. Chiaramonte, L. De Sio (a cura di)
Un polo solo. Le elezioni politiche del 2022
Bologna, Il Mulino, 2024 pp. 380
ISBN 978-88-15-38818-6
È disponibile in libreria "Un polo solo", l' ottavo volume della serie, dedicata alle elezioni politiche, iniziata dai ricercatori CISE a partire dall'elezione del 1994.
Un approfondito studio delle elezioni politiche del settembre 2022, ricco di dati e analisi originali, di un gruppo di ricercatori riunito su iniziativa del Centro Italiano di Studi Elettorali (CISE). Dopo un'introduzione sul contesto pre-elettorale - la costruzione dell'offerta politica; le domande espresse dall'opinione pubblica; lo sviluppo della campagna elettorale - segue una dettagliata analisi dei risultati, con focus sulla partecipazione al voto, sui flussi e sui temi decisivi, sul rapporto tra territorio e voto, sul partito vincitore - Fratelli d'Italia. Una serie di contributi inquadra l'elezione in una prospettiva di lungo termine, analizzando gli effetti del sistema elettorale, la selezione della classe parlamentare e l'evoluzione del sistema partitico italiano. È sulla scorta di questa grande messe di dati e di analisi che si costruisce un'interpretazione complessiva che vede il «cambiamento» ancora protagonista, ma anche il ritorno in primo piano di una caratteristica del vecchio bipolarismo, per cui a fare la differenza nella competizione elettorale è stata la capacità dei partiti di «farsi polo». Ma è un polo solo che ha risposto a questo appello, decidendo così il risultato.
Indice
Premessa
I. Partiti, coalizioni e alleanze: il ritorno del primato dell’offerta, di Matteo Boldrini, Marco Improta e Aldo Paparo
II. Al cuore della rappresentanza. I temi in discussione, tra domanda dell’elettorato e offerta dei partiti, di Lorenzo De Sio, Nicola Maggini ed Elisabetta Mannoni
III. Divergenti ma non troppo? Le priorità dei cittadini e le strategie dei partiti durante la campagna elettorale, di Luca Carrieri e Cristian Vaccari
IV. Cronaca di una morte annunciata. La partecipazione elettorale in Italia, 2022, di Davide Angelucci, Federico Trastulli e Dario Tuorto
V. Un polo solo, al comando: i risultati elettorali e i flussi di voto, di Davide Angelucci, Lorenzo De Sio e Aldo Paparo
VI. Territorio e voto in Italia alle elezioni politiche del 2022, di Matteo Cataldi, Vincenzo Emanuele e Nicola Maggini
VII. Fratelli d’Italia. Radici e dinamiche di un successo annunciato, di Davide Angelucci, Gianfranco Baldini e Sorina Soare
VIII. Maggioritario di risulta. Gli effetti del nuovo sistema elettorale alla sua seconda prova, di Alessandro Chiaramonte, Roberto D’Alimonte e Aldo Paparo
IX. La rivincita della politica? Il ceto parlamentare alla prova della riduzione dei seggi, di Bruno Marino, Filippo Tronconi e Luca Verzichelli
X. Un sistema partitico deistituzionalizzato, di Alessandro Chiaramonte, Vincenzo Emanuele e Elisa Volpi
Conclusioni: un polo solo, e poi?, di Alessandro Chiaramonte e Lorenzo De Sio
Riferimenti bibliografici
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Redazione CISE Apr 29, 2024
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Open selection for a 2-year post-doc position at CISE on social media analysis (deadline Apr 10)
The selection is still open (until Apr 10). The figure we are looking for (details in the call for applications-see PDF below) will deal with quantitative social media analysis, also through computational methods, so that familiarity with Python and/or R (possibly including API access) is an important plus.
The call for applications is for a two-year post-doctoral position at Luiss Rome within the CISE-run, nationally funded (PRIN) POSTGEN project - Generational gap and post-ideological politics in Italy. The position also offers interesting teaching opportunities; moreover, due to the geographically distributed nature of the project (the Luiss unit, headed by PI Lorenzo De Sio, coordinates three more units in Milan, Bologna and Pavia), applications by non-resident young scholars will be also very seriously considered.
The project is highly innovative on several aspects, from theoretical framework to data collection and analysis, combining qualitative ethnographic interviews, questionnaire-based surveys, and social media analysis using algorithms and GenAI (see description below, or directly https://postgen.org/ ).
Position description (from the call)
The selected postdoctoral researcher will be in charge for specific tasks related to the project work package dedicated to social media, in terms of both data collection and quantitative analysis.
The ideal candidate has:
• a background in empirical social research with a quantitative approach;
• familiarity with manual and automated collection of social media data (including access to social media APIs);
• familiarity with quantitative analysis of social media data, both with human coding and with algorithmic (supervised and unsupervised) approaches;
• familiarity with common data analysis software/programming languages (Stata, R, Python);
• some record of scientific publications;
• some previous participation to international research projects.The selected researcher will actively cooperate with the project team, and will be offered the possibility of a fully-fledged research experience within the POSTGEN project, including full participation to research activities and to the dissemination of the project, ranging from participation to international conferences to significant opportunities for scientific publications on international journals.
Useful links
Call for applications
(legal document in Italian; includes English position description at the end)Application form
(deadline: 14.00 CEST of April 10, 2024)POSTGEN in a nutshell:
Background
Recent, disruptive political change in the Western world (Brexit; Trump; challenger parties across Europe; the birth in 2018 Italy of the first “populist” government in Western Europe) has deeply challenged theories of voting behavior and party competition, leading most scholars to broad explanations based on populism and irrational publics.
Recent comparative research (see the ICCP project; see De Sio/Lachat 2020) has shown more specific mechanisms: challenger parties thrive on an ability to mobilize conflict by leveraging issue opportunities across ideological boundaries. This reveals a de-ideologized context, where voters, relying less on traditional ideological alignments, reward innovative post-ideological platforms.
Still, ICCP research only scratched the surface of a possible de-ideologization process, lacking processual focus (and missed the impact of the Covid crisis, potentially leading to further change).
The POSTGEN Project
POSTGEN fills this gap by offering – on the Italian case, lying at the forefront of disruptive political change – an in-depth analysis of the mechanisms and dynamics of possible de-ideologization. It adopts a generation-aware perspective (needed for understanding change) with emphasis on younger generations, and with innovative focus on:
- time: tracing the (memory and) dynamics of the formation of political attitudes (at the individual, generational, and collective level) and their impact on political behavior;
- meanings associated to different political issues, and the (lack of) overarching ideological organization thereof;
- non-political actors and influencers, and their increasing influence in an age of crisis of epistemic authorities.
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Redazione CISE Mar 27, 2024
Volumi di ricerca
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Un polo solo Le elezioni politiche del 2022
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The Deinstitutionalization of Western European Party Systems
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Conflict Mobilisation or Problem-Solving? Issue Competition in Western Europe
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“La politica cambia, i valori restano” ripubblicato in Open Access
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Il voto del cambiamento: le elezioni politiche del 2018
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Cleavages, Institutions and Competition
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Young People’s Voting Behaviour in Europe. A Comparative Perspective
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Terremoto elettorale. Le elezioni politiche del 2013
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Competizione e spazio politico. Le elezioni si vincono davvero al centro?
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La politica cambia, i valori restano? Una ricerca sulla cultura politica dei cittadini toscani
Dossier CISE
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Online il Dossier CISE “Le elezioni amministrative del 2019”
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The European Parliament Elections of 2019 – individual chapters in PDF
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The European Parliament Elections of 2019 – the e-book
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“Goodbye Zona Rossa”: Online il Dossier CISE sulle elezioni comunali 2018
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Dossier CISE “Goodbye Zona Rossa”: Scarica i singoli articoli in PDF
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“Gli sfidanti al governo”: Online il Dossier CISE sulle elezioni del 4 marzo
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Dossier CISE “Gli sfidanti al governo”: Scarica i singoli articoli in PDF
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The year of challengers? The CISE e-book on issues, public opinion, and elections in 2017
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The year of challengers? Individual PDF chapters from the CISE e-book
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“Dall’Europa alla Sicilia”: Online il Dossier CISE su elezioni e opinione pubblica nel 2017