Autore: Roberto D’Alimonte

  • A Roma il primo turno si trasforma in primarie

    A Roma il primo turno si trasforma in primarie

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore il 18 marzo 2016

    A prima vista sembra difficile spiegare la decisione di Georgia Meloni di candidarsi a sindaco di Roma.  Dopo Bertolaso, Marchini e Storace arriva anche lei. Quattro candidati che si collocano tra il centro e la destra. Poi ci sono Virginia Raggi del M5s, Giachetti del Pd e un candidato della sinistra radicale il cui nome è ancora incerto. Forse Fassina, forse Marino. Con tutti questi candidati le elezioni saranno una lotteria. Ed è proprio questo il motivo che ha spinto la Meloni a entrare in gioco. In una lotteria tutti (o quasi) possono provare a vincere. E allora tanto vale fare una puntata. Per lei, come per gli altri, la chiave sarà il ballottaggio.

              Il sistema elettorale con cui si eleggono i sindaci è una specie di Italicum.  I turni sono due. A differenza dell’Italicum si vince al primo turno solo se si arriva al 50% dei voti più uno. Nell’Italicum la soglia per vincere al primo turno è al 40%. Se nessun candidato arriva al 50% i due candidati più votati vanno al ballottaggio.  Nel caso di Roma l’unica cosa certa è che nessuno vincerà al primo turno. Sarà il ballottaggio a decidere chi farà il sindaco. Ma chi ci arriverà?  Difficile dirlo, ma è possibile che la Meloni possa essere uno dei due contendenti. Questa è la sua scommessa. Tra Bertolaso, Marchini e Storace potrebbe essere lei a prendere più voti. A Roma Fratelli d’Italia ha una base elettorale che pur non essendo solida come un tempo rappresenta comunque un bacino di voti di tutto rispetto. In più c’è da dire che la Meloni gode di una certa visibilità e di un discreto livello di popolarità.

              Il fattore decisivo è il numero di candidati. In un contesto così frammentato i voti al primo turno si sparpaglieranno e questo abbasserà la soglia per conquistare uno dei due posti in palio al ballottaggio. Dunque, per arrivarci non sarà necessario avere il 30% dei voti. Ne basteranno meno. Forse parecchi di meno. Questo rende la competizione molto aperta. Quasi tutti i candidati possono illudersi di avere una chance. La Meloni tra questi. Ma anche così non è detto che ce la faccia. I vincitori del primo turno potrebbero essere il candidato del Pd e la candidata del M5s.  Ma se invece fossero la Meloni e la Raggi oppure la Meloni e Giachetti?

              Sono scenari interessanti. In entrambi i casi la leader di Fratelli d’Italia avrebbe una grossa opportunità. Sbaragliati i vari Bertolaso, Marchini e Storace al primo turno la Meloni diventerebbe naturalmente il punto di riferimento di tutto lo schieramento moderato al secondo turno. Tra l’altro il sistema elettorale delle comunali, a differenza dell’Italicum, prevede la possibilità di apparentamento tra primo e secondo turno. E così è molto probabile che la coalizione del centro-destra, che non si è formata ora, si formi dopo il primo turno. In pratica il primo turno funzionerebbe come una elezione primaria. Quella primaria che Berlusconi ha sempre rifiutato ma che la candidatura della Meloni finisce per imporre. Ma alla leader di Fratelli d’Italia non basterà vincere le primarie del centro-destra. Dovrà anche essere capace di prendere più voti di Giachetti o della Raggi. Solo così arriverà al ballottaggio. Superare Marchini e Bertolaso sarebbe una magra consolazione se restasse esclusa dal secondo turno.

              Come abbiamo detto la partita è apertissima. E per la Meloni vale certamente la pena di giocarla in prima persona. La posta in gioco va al di là della città di Roma. Una eventuale sua vittoria ne farebbe non solo il sindaco della capitale, ma anche uno dei punti di riferimento per la riaggregazione della destra italiana dopo la fine del berlusconismo. Chissà,  lei e Salvini  potrebbero dividersi i compiti ovvero i territori. L’uno al Nord e l’altra al Sud. In fondo Lega Nord e Fratelli d’Italia sono partiti complementari geograficamente. Il primo ha sempre , e presumibilmente continuerà ad avere, la sua roccaforte elettorale nel Nord, mentre il MSI e le sue filiazioni, ultima delle quali il partito della Meloni, sono sempre stati molto più forti nelle regioni centro-meridionali.

              Una ultima considerazione. Il giochino di trasformare il primo turno nelle primarie del centro-destra si può fare a Roma, ma sarebbe impossibile farlo alle politiche. Infatti se il quadro dentro il quale si andrà al voto sarà simile a quello attuale è praticamente certo che, se i partiti del centro-destra si presenteranno divisi al primo turno, saranno Pd e M5s ad andare al ballottaggio. Anche per questo motivo Roma rappresenta una ghiotta opportunità, seppur rischiosa. Ma di questi tempi se non si rischia si rimane ai margini del grande gioco.  Matteo Renzi, con la sua sfida alle primarie per il sindaco di Firenze, ha fatto scuola.

  • Sui nodi italiani partiti poco credibili

    Sui nodi italiani partiti poco credibili

    di Roberto D’Alimonte

    Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 29 novembre 2015

    Il Pd continua a stare sopra il 30% delle intenzioni di voto. Per Renzi è la buona notizia che emerge dal sondaggio Cise-Sole24Ore. Il 35.6% stimato in questo sondaggio è il valore più alto registrato dopo le Europee dello scorso anno.  E’ certamente un risultato notevole. Nelle politiche del 2013 il Pd guidato da Bersani si è fermato al 25,4% (Camera).  Visto però in un quadro più ampio non è un risultato che può lasciare del tutto tranquillo l’attuale presidente del consiglio, nonché probabile candidato alla stessa carica alle prossime elezioni. (https://www.utahfoodbank.org) Dopo quasi due anni di governo, Renzi non è ancora riuscito a costruire intorno a sé un blocco elettorale tale da garantirgli la vittoria alle prossime politiche. E’ certamente il candidato in pole position, ma l’esito non è scontato. Oggi- ripetiamo oggi-  il suo problema principale si chiama M5s. E lo è perchè, nonostante le stime di voto attuali, il premier ha alcuni punti di debolezza che emergono chiaramente in questo sondaggio e che rendono il quadro più incerto.

              Pochi all’indomani delle elezioni politiche del 2013 pensavano che il movimento di Grillo avrebbe conservato il livello di consensi raggiunto allora arrivando al 25, 6%, che ne ha fatto il partito più votato alla Camera. L’opinione più comune era che quello straordinario risultato fosse dovuto a un voto di protesta destinato a ridimensionarsi in un tempo relativamente breve. Dopo un anno e più di un governo tecnico, davanti a una offerta elettorale che riproponeva di nuovo opzioni vecchie, con Bersani da una parte e Berlusconi dall’altra, molti elettori si sono ribellati votando un partito ‘diverso’. Tanti giovani, ma anche operai, commercianti, imprenditori, disoccupati. Ma la protesta tende a essere una base fragile per creare qualcosa di duraturo. Questa era la tesi prevalente. Soprattutto dopo i conflitti e le defezioni che all’indomani del voto hanno rivelato la fragilità interna del movimento di Grillo e le sue tante contraddizioni.

              E invece no. A quasi due anni da quel voto il M5s non solo è ancora lì, ma è addirittura cresciuto. Lasciamo perdere le percentuali precise. Il 30,8%  di questo sondaggio è una stima approssimativa.  Altri sondaggi fatti in queste settimane danno percentuali diverse, sotto il 30%. Si sa, anche se non lo si ripete mai abbastanza: i sondaggi sono strumenti molto imprecisi. Ma non sono inutili. Servono non a indovinare esiti, ma a rilevare tendenze. Il punto da sottolineare è che- sopra o sotto il 30%- il M5s è il secondo partito italiano. E senza Matteo Renzi a guidare il Pd e il governo molto probabilmente sarebbe ancora il primo. Come nel 2013.

              Anche da questo sondaggio emerge che, se si votasse oggi,  le elezioni si deciderebbero al ballottaggio. E i due sfidanti sarebbero il candidato del Pd e quello del M5s. L’Italicum, così come è strutturato e cioè con il premio alla lista e non alla coalizione, penalizza il centro-destra che non ha al suo interno un partito delle dimensioni di Pd e di M5s.  Ha invece due partiti che si dividono i voti tra loro. Nel nostro sondaggio Forza Italia è leggermente davanti alla Lega ma potrebbe essere il contrario. In ogni caso cambierebbe poco. Questa altalena di sorpassi continuerà. Il punto è che oggi la somma dei due- anche con l’aggiunta di Fratelli d’Italia- rischia di non essere sufficiente per  arrivare al ballottaggio. E questa per Renzi non è una buona notizia.

              Come si vede dai nostri dati al premier conviene sfidare il candidato di una lista unitaria del centro-destra. Questa sfida avrebbe un esito scontato. Nel nostro sondaggio finirebbe 58 a 42 a favore di  Renzi. Il motivo è che al secondo turno gli elettori del M5s o non tornerebbero a votare (la grande maggioranza) o voterebbero per Renzi (relativamente pochi).  Ma pochissimi voterebbero per il candidato del centro-destra. Invece l’esito sarebbe molto meno scontato se al ballottaggio andassero Pd e M5s. In questo sondaggio -ma non è il solo- il candidato del M5s risulta davanti a Renzi:  51 a 49.  Un vantaggio statisticamente insignificante ma politicamente significativo. Il bipolarismo italiano è sempre più imperniato tra un partito che fa politica stando al governo e uno che fa anti-politica stando all’opposizione. Oggi il voto tende a concentrarsi sempre di più su questi due attori. Gli altri sembrano essere dei comprimari.

               Ma è veramente possibile che il M5s possa vincere le prossime elezioni?  Nessuno può dirlo oggi. Quello che si può ragionevolmente affermare è che questo esito non può essere escluso a priori. Dipenderà da molti fattori. In questo momento la rabbia degli italiani, la loro voglia di cambiamento- la stessa che ha portato il Renzi rottamatore al successo-  è ancora così forte che fanno del M5s un avversario temibile. La parte più interessante di questo sondaggio è quella relativa alla capacità che gli elettori attribuiscono ai vari partiti di risolvere i problemi che li angustiano oggi. Quali sono i partiti ritenuti più capaci di far valere gli interessi dell’Italia in Europa, di ridurre i costi della politica, far ripartite l’economia, combattere la corruzione e la criminalità, controllare l’immigrazione ?  E’ nella risposta a queste domande che si trova gran parte della spiegazione della popolarità persistente del M5s. Su quasi tutti questi temi la maggioranza relativa degli intervistati pensa che non ci sia nessun partito in grado di trovare soluzioni. Gli scettici e i delusi dominano la scena. La sfiducia continua ad essere la caratteristica distintiva di questa fase della politica italiana. Un sentimento diffuso che tocca tutti i ceti e tutte le zone del paese. In questo quadro spicca il fatto che il M5s sia considerato credibile quanto il Pd. E su alcuni temi più del Pd. Anzi, complessivamente è ritenuto più credibile del Pd.

              Si guardi il dato sui costi della politica e sulla corruzione. Rispetto al M5s il gap di credibilità del Pd renziano su questi temi è netto. Solo sulla capacità di far valere gli interessi dell’Italia in Europa il Pd è nettamente più credibile. E questo è un risultato positivo per Renzi e non scontato. Ma anche in questo caso a vincere è il partito degli scettici. Costi della politica, corruzione, criminalità, immigrazione sono chiaramente i punti deboli del premier. Temi spinosi su cui i partiti di opposizione- M5s per un verso e Lega Nord per l’altro- hanno il vantaggio di non dover render conto a un elettorato arrabbiato e ansioso. E’ il vantaggio di stare alla opposizione. Quanto peserà sul voto questo difetto di credibilità del premier non è facile da stimare. Sta di fatto che la sua vulnerabilità  su questo terreno contribuisce ad alimentare l’incertezza sull’esito di un eventuale ballottaggio tra lui e il candidato del M5s.

               Dalla sua Renzi ha il vantaggio di continuare a godere di una maggiore credibilità su Europa e economia. E sarà molto probabilmente proprio su queste questioni, e soprattutto sull’economia, che si giocherà l’esito delle prossime elezioni. Se la ripresa economica continuerà sarebbe veramente sorprendente la sconfitta di Renzi al ballottaggio. Anzi, se le cose si mettessero veramente bene e cambiasse drasticamente l’umore nel paese, forse potrebbe anche non esserci un ballottaggio. A Renzi basterebbe il 40% dei voti per vincere. Nell’attesa il premier si può rallegrare per un altro dato di questo sondaggio. Agli italiani la riforma costituzionale tutto sommato piace e andranno in massa a votare per il sì al prossimo referendum. Così pare.

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  • Il nuovo sito CISE

    Il nuovo sito CISE

    Da stamattina è online il nuovo sito CISE. Da più parti ultimamente ci era stato suggerito che il sito CISE aveva bisogno di un restyling 😉 ed era vero, visto che ci siamo resi conto che eravamo online ormai dalla primavera 2011 con la stessa veste grafica.

    Quattro anni di grandi cambiamenti nella politica italiana. Cambiamenti che abbiamo seguito, commentato ed analizzato con un totale di circa 700 articoli, prodotti dal piccolo gruppo storico di collaboratori del CISE, affiancati in alcune occasioni da nuovi giovani collaboratori e – in occasione delle elezioni europee del 2014 – da un gruppo di altri 30 giovani ricercatori da tutta Europa.

    Ma anche quattro anni di cambiamenti nella comunicazione online, e nella comunicazione in generale. Cambiamenti che abbiamo ritenuto di interpretare attraverso l’uso di nuovi strumenti; anzitutto i social network, ma soprattutto i Dossier CISE. Tre anni fa riflettemmo sul fatto che c’era un crescente divario che rischiava di dividere la comunità scientifica, abituata ai ritmi lenti dei volumi e degli articoli scientifici approfonditi, da quella ampia (e sempre più ricca e sviluppata) comunità di appassionati e commentatori politici ed elettorali, che si muoveva con i ritmi veloci del Web e quelli ormai forsennati dei social network. Così ci venne l’idea che potevamo cercare di colmare questo divario raccogliendo le nostre analisi pubblicate sul Web in degli e-book gratuiti e open source (tutti pubblicati con licenza Creative Commons), con l’obiettivo di fornire uno strumento per fermarsi un attimo e guardare a volo d’uccello, con uno sguardo complessivo e più lento, un insieme di analisi dedicate a una singola elezione. Tuttavia senza aspettare i mesi o gli anni che sono necessari per una pubblicazione scientifica più rigorosa e approfondita.

    Così, nel luglio 2012, è nato il primo Dossier CISE. Salutato da un’accoglienza positiva, tanto che ci abbiamo preso gusto e a oggi i Dossier CISE sono diventati otto. Due di questi sono usciti in inglese, e quello dedicato alle elezioni europee del 2014 l’abbiamo realizzato coordinando una rete di 40 ricercatori da tutta Europa. L’idea dei Dossier CISE è stata ricompensata da circa 25.000 download complessivi in tre anni, con un risultato che secondo noi conferma che avevamo avuto un’intuizione giusta.

    E’ da quell’esperienza, tra le altre, che abbiamo tratto un ulteriore insegnamento sull’importanza ormai raggiunta dal Web anche per la comunità scientifica. Così si può dire che, accanto a una veste grafica rinnovata e con un maggior ruolo delle immagini, la principale novità del nuovo sito CISE sta nella visibilità molto maggiore che abbiamo voluto dare all’attività di ricerca vera e propria del CISE, fatta di volumi (l’ultimo è Terremoto elettorale, dedicato alle elezioni politiche del 2013) e di articoli pubblicati su riviste scientifiche italiane e internazionali: due ambiti cui abbiamo dato grande spazio già nella home page del sito. E l’importanza del Web per la ricerca scientifica è testimoniata da altre due aggiunte importanti: la prima è una sezione dedicata alle analisi in inglese, che ci permette di dare spazio in termini rapidissimi a collaboratori internazionali sulle elezioni in Europa e nel mondo, ma soprattutto la seconda è una rubrica in cui raccogliamo segnalazioni bibliografiche che selezioniamo dalle più importanti riviste internazionali. Un importante strumento di lavoro per noi, che tuttavia riteniamo fondamentale condividere con la comunità degli studiosi.

    Tutto questo ovviamente non sarebbe stato possibile (e non sarà possibile in futuro) senza i preziosi collaboratori del CISE. E quindi, da direttore e coordinatore del CISE, vogliamo ringraziarli in modo importante: anzitutto Alessandro Chiaramonte, con il suo supporto prezioso e costante, e poi Matteo Cataldi, Federico De Lucia, Vincenzo Emanuele, Nicola Maggini e Aldo Paparo, che in questi anni hanno sostenuto una grande mole di lavoro; non ultimo, estendendo la rete del CISE ad altri giovani studiosi che hanno iniziato a collaborare con noi. E vogliamo ovviamente ringraziare anche i membri del Comitato Scientifico del CISE, sempre pronti a fornire consigli e suggerimenti.

    Ma l’ultimo e più importante ringraziamento va ovviamente a voi che ci avete seguito finora, in così tanti. Ovviamente vi invitiamo a farci sapere cosa pensate del nuovo sito, e quali suggerimenti o critiche avete da fare. Lo potete fare ad esempio tramite Facebook o Twitter, oppure – su alcune pagine su cui stiamo facendo una sperimentazione – anche direttamente commentando in fondo alla pagina: potete creare un profilo, oppure loggarvi tramite Facebook e Twitter: in questo caso potrete anche taggare e coinvolgere i vostri amici, nonché condividere i vostri commenti.

    Grazie ancora!

    Roberto D’Alimonte
    Lorenzo De Sio

  • Regionali 2015: Grillo resta secondo partito, Lega prima nel centrodestra

    Regionali 2015: Grillo resta secondo partito, Lega prima nel centrodestra

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 2 giugno

    L’effetto Renzi non c’è stato. La Lega Nord è il primo partito del centro-destra. Il M5s è ancora il secondo partito italiano. L’astensionismo continua a salire. Sono questi i dati più significativi di questa tornata di elezioni regionali aldilà del cinque a due.

    Per il Pd è un risultato ambiguo. Poteva andare meglio se avesse vinto in Liguria. Ma poteva andare peggio se avesse perso anche in Campania. Tanto più che ora sappiamo che avrebbe potuto perdere anche in Umbria. E’ un risultato comunque diverso da quello delle Europee. Non c’è stato un ‘effetto Renzi’ e non poteva esserci. Chi si aspettava una cosa simile aveva fatto male i conti. Un ‘effetto Renzi’ c’è stato alle Europee perché lì il candidato era lui, perché all’epoca era un personaggio nuovo e perché la competizione era a livello nazionale. Dopo un anno difficile di governo con una crisi economica che continua a mordere aspettarsi che il premier potesse avere un forte impatto su queste elezioni era fantapolitica. Senza l’effetto Renzi i candidati regionali del Pd hanno dovuto contare sulle proprie forze. Hanno vinto nelle regioni del Centro dove esiste ancora un residuo di tradizione di sinistra e una struttura di partito a livello locale. Hanno vinto in Campania e Puglia perché Emiliano e De Luca sono figure con un seguito personale notevole. Hanno perso male in Liguria e Veneto per scelte sbagliate e divisioni suicide.

    In particolare in Liguria i dati dicono inequivocabilmente che il Pd unito avrebbe potuto vincere. E vincendo lì sarebbe cambiata l’interpretazione mediatica di questo risultato, anche se la sostanza delle cose sarebbe rimasta la stessa. E la sostanza è che a livello nazionale quando il Pd può contare su Renzi ha una possibilità di uscire dal perimetro del suo elettorato tradizionale mentre a livello locale con la sua attuale classe dirigente questo non succede. Il caso del Veneto è clamoroso da questo punto di vista. La questione settentrionale e la questione della riforma del partito si intrecciano e costituiscono un problema di non facile soluzione per il premier.

    La Lega Nord ha sorpassato Forza Italia. Prima lo dicevano i sondaggi. Adesso lo dicono i voti. Solo la vittoria di Toti in Liguria, grazie alla Lega, può mascherare il fatto che l’attuale Forza Italia è ormai diventata un attore marginale. Il sorpasso è avvenuto al Nord e al Centro. Non ancora al Sud. In questa area il partito di Salvini era presente solo in Puglia e qui il risultato è stato molto modesto (2%). Nelle regioni meridionali un partito che si chiama Lega Nord fa fatica ad affermarsi anche se camuffato con la sigla ‘noi con Salvini’. Nelle altre regioni la Lega è andata invece molto bene sopravanzando largamente il partito di Berlusconi. Arrotondando le percentuali, in Liguria è finita 20 a 13 a favore di Salvini ; in Veneto 18 a 6; in Toscana 16 a 9 ; nelle Marche 13 a 9; in Umbria 14 a 9.   .

    La Lega Nord è diventata dunque il maggior partito del centro-destra, ma l’ambizione di Salvini di guidare questo schieramento si scontra con due limiti oggettivi. La Lega Nord non è ancora un partito nazionale. E’ un partito del Centro-Nord. Ed è un partito in cui c’è molta più destra che centro. Infatti la sua crescita si deve in larga misura alla capacità del suo leader di far leva sulle ansie e sulle paure di un elettorato anti-europeo e anti-immigrati. Molti di questi elettori una volta votavano Forza Italia. Adesso si sono trasferiti. L’interscambio di voti tra il partito di Berlusconi e quello che una volta era il partito di Bossi è cosa nota. Tra i due elettorati c’è sempre stata, e c’è ancora, una notevole sovrapposizione. Ma Forza Italia rappresentava anche un elettorato moderato di centro che oggi si è largamente dileguato. Elettori delusi dal Cavaliere e non convinti da Salvini. Sono rimasti a casa e qualcuno è finito tra le fila di Grillo. E così queste elezioni, per quanto rappresentino un test limitato, confermano che a destra c’è un vuoto che la Lega Nord solo in parte riesce a colmare. Né lo fanno i vari Ncd, Udc o Fratelli d’Italia. Mutatis mutandis, siamo tornati al 1994 quando solo la discesa in campo del Cavaliere riuscì a dar voce a un elettorato moderato disorientato dalla perdita dei suoi punti di riferimento, Dc e Psi. Una delle differenze è che allora il maggior partito della destra era il Msi-An oggi è la Lega Nord.

    La Lega Nord però non è il secondo partito italiano. Se queste fossero state elezioni nazionali al ballottaggio contro Renzi sarebbe andato il candidato di Grillo (chi?) e non Salvini. Il M5s non è quella meteora della politica italiana che molti pensavano. Non è più il primo partito del paese come fu nel 2013 ma non è scomparso. Tiene benissimo la seconda posizione. E non più solo a livello di elezioni politiche nazionali ma anche a livello di amministrative, e questo non era scontato. Inoltre, a differenza della Lega Nord, è un partito nazionale. Anzi, è il solo partito nazionale dopo il Pd. Crisi economica, disoccupazione giovanile,scandali, polemiche sui candidati impresentabili continuano a sostenerne il consenso alimentando la protesta di elettori sempre più lontani dalla politica tradizionale. Per molti di loro il M5s rappresenta la sola vera alternativa radicale. E’ il vero partito anti-sistema. E finchè i suoi elettori continueranno a percepire che il ‘sistema’ non cambia continueranno a votarlo. Senza questa componente di ‘arrabbiati’, cui il partito di Grillo dà voce, è molto probabile che l’astensionismo sarebbe ancora più alto.

    In conclusione, questa consultazione conferma l’evoluzione recente del nostro sistema politico, tanto più che le sette regioni costituiscono dal punto di vista elettorale un campione rappresentativo dell’intero paese. Come si nota nella tabella, i poli del sistema sono stabilmente tre. Il fatto interessante è che, nonostante tutto quello che è successo dal 2010 a oggi, centro-sinistra e centro-destra sono ancora in equilibrio. Entrambi possono contare all’incirca sul 38% dei consensi. Molti meno rispetto al 2010 ma il loro rapporto di forze è rimasto lo stesso. Il centro-destra però non è un polo unitario mentre il centro-sinistra, pur con le divisioni interne al Pd, lo è. E lo è anche il M5s. Per questo non è affatto prevedibile oggi quale sarà lo sfidante di Renzi alle prossime politiche. Il sistema partitico non si è ancora stabilizzato. In questa situazione di accentuata volatilità vedremo certamente molti altri cambiamenti. E sarà soprattutto l’economia a dirci in quale direzione.

    Tab. 1 – Risultati aggregati nelle 7 regioni, voti per partiti e coalizioni

  • Il “federalismo” dei sistemi elettorali

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 31 maggio

    Oggi si vota in sette regioni con sette sistemi elettorali diversi. Una volta si votava in quasi tutte le regioni con lo stesso sistema elettorale. E’ stato così nel 1995 quando è stata fatta la terza riforma elettorale della Seconda Repubblica. In quell’anno il Parlamento passò la legge Tatarella che fu utilizzata per la prima volta per le elezioni regionali svoltesi in quello stesso anno in tutte le 15 regioni a statuto ordinario. La Tatarella originale era un sistema a premio di maggioranza a un turno. Una delle sue caratteristiche è che il premio veniva assegnato senza che una lista avesse dovuto raggiungere alcuna soglia in termini di percentuale di voti. Era quindi un Porcellum ante litteram. Prevedeva anche l’indicazione del candidato alla presidenza della regione, ma non la sua elezione diretta come invece era, ed è, per i sindaci. Poi nel 1999 è arrivata la legge di riforma costituzionale che ha introdotto sia l’elezione diretta sia la possibilità per le regioni di scegliersi un sistema elettorale diverso dal modello Tatarella. Erano i tempi della devolution quando le regioni godevano di una credibilità che oggi non hanno più.

    In un primo momento l’autonomia è stata utilizzata con parsimonia. I cambiamenti sono stati pochi e limitati, a parte i tentativi non riusciti in Calabria e Friuli Venezia Giulia. Poi è cominciato il balletto delle riforme. Adesso si può dire che tutte le regioni hanno un proprio sistema elettorale. Le ragioni dietro questi cambiamenti sono molteplici. La sentenza della Consulta, che ha dichiarato incostituzionale un premio senza soglia, ha fatto la sua parte, anche se in diverse regioni è stata disattesa. Ma hanno contato molto anche gli interessi locali di partiti e partitini. Tuttavia non tutto è cambiato rispetto alla Tatarella. Nessuna regione ha osato introdurre i collegi uninominali e nessuna regione ha osato reintrodurre tout court un sistema proporzionale. Infatti tutti i sistemi delle regioni a statuto ordinario sono dei proporzionali con premio di maggioranza. E’ con questo tipo di sistema che si voterà oggi nelle sette regioni. Ma con notevolissime differenze.

    La variante più significativa riguarda Liguria e Marche. Qui gli elettori eleggeranno direttamente il presidente della regione, come nelle altre regioni, ma è possibile che il presidente eletto non abbia la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio, come invece sarà nelle altre cinque. In altre parole il sistema elettorale non è majority-assuring, non assicura cioè una maggioranza a chi è eletto. Quindi il nuovo presidente potrebbe essere costretto a negoziare un accordo coalizionale con altri partiti dopo il voto. In Liguria questo evento si materializzerà se i sei seggi di premio del listino regionale non dovessero essere sufficienti ad ottenere la maggioranza. Nelle Marche l’eventuale vincitore non potrà contare su una sua maggioranza nel caso in cui non ottenesse almeno il 34% del totale dei voti validi.

    Nelle altre regioni il sistema elettorale è decisivo, ma la consistenza del premio e quindi l’ampiezza della maggioranza variano. In Campania e Umbria il premio è fisso, pari al 60% dei seggi in consiglio. In Veneto, Toscana e Puglia – come nelle Marche – la maggioranza garantita al vincitore varia in funzione del risultato elettorale suo o della sua coalizione: fra il 54 e il 60% dei seggi nei diversi casi. Fra tutte le regioni la Toscana è la sola che abbia adottato una specie di Italicum. Qui il premio viene assegnato in due turni se al primo turno nessuna lista arriva al 40% dei voti.

    Soglie di sbarramento, tipo di voto, listini, preferenze, quote di genere, formule elettorali sono le altre dimensioni del sistema di voto dove troviamo differenze significative. La tabella 1 le riassume sinteticamente. In questa sede ci limitiamo ad alcuni cenni. Sulle soglie la Puglia è la regione con quella più alta per le liste fuori dalle coalizioni: l’8%. La Toscana invece ha la soglia più alta per le coalizioni: almeno il 10% (e una lista del 3% all’interno). Marche e Umbria sono le due regioni in cui gli elettori non potranno esprimere un voto disgiunto, vale a dire non potranno votare un candidato-presidente di un partito e una lista non collegata a quel candidato. Queste sono anche le sole regioni in cui il voto dato solo al candidato viene automaticamente trasferito alla coalizione che lo sostiene. Entrambe queste modifiche limitano la libertà di espressione del voto. Il lettore giudichi.

    In tema di preferenze e rappresentanza di genere tutte le sette regioni hanno mantenuto il voto di preferenza, ma solo in Toscana, Umbria e Campania l’elettore ha a disposizione due preferenze con la clausola che la seconda potrà essere data solo a un candidato di genere diverso. Nelle altre regioni le donne avranno meno spazio, Si dovranno accontentare di varie clausole relative alla composizione delle liste dove la quota riservata al genere femminile varia da un terzo al 50%. Ma, come è noto, si tratta di clausole molto meno efficaci della doppia preferenza di genere.

    Tab. 1 – I diversi sistemi elettorali delle regioni al voto

    Insomma, le regioni si sono sbizzarrite nell’inventarsi diversi modelli di sistema elettorale. Tutta questa varietà è una fortuna per noi ricercatori. Offre una straordinaria opportunità di studiare il comportamento degli elettori in funzione di diversi contesti istituzionali. E’ meno chiaro se tutto ciò sia una fortuna per il paese. Forse non sarebbe sbagliato sollevare la questione se sia meglio o no tornare ad un sistema unico per tutte le regioni oppure fissare principi comuni più stringenti. Intanto vediamo come va questa Domenica.

  • Regionali: liste polverizzate a destra

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 19 maggio

    L’offerta politica con cui i partiti si presenteranno davanti agli elettori nelle sette regioni al voto il prossimo 31 Maggio è un misto di elementi di continuità e di alcune interessanti novità. Tra i primi spicca la proliferazione di liste e candidati.

    Prendiamo la Puglia. Qui i candidati alla presidenza della regione sono sette. Le liste sono 19 e i candidati sono quasi mille. Le liste a sostegno di Michele Emiliano, candidato del centro-sinistra, sono 8. Lo stesso numero di liste che in Liguria appoggiano Giovanni Toti, candidato del centro-destra. Il record però spetta alla Campania. Qui le liste sono in totale 24. Sia il candidato del centro-destra, Stefano Caldoro, che quello del centro-sinistra Vincenzo De Luca sono collegati alla bellezza di 10 liste ciascuno. Tra quelle che appoggiano Caldoro troviamo liste evocative del tipo “Vittime della giustizia e del fisco” oppure “Mai più terra dei fuochi”. De Luca è stato meno fantasioso. La sua lista più intrigante è “Campania in rete”.

    Tanti candidati e tante liste non sono una novità. Ma perché questo fenomeno? E perché accomuna Nord e Sud ? Ci sono diversi fattori in gioco. Non basta però fare un riferimento generico a cultura politica e clientelismo. Se così fosse dovremmo trovare una maggiore diffusione del fenomeno nelle aree più interessate da rapporti di tipo personale e clientelare, e cioè il Sud. E invece, come abbiamo già fatto notare, la proliferazione di liste e candidati esiste al Nord come al Sud. Nelle regionali in Piemonte nel 2010 le liste furono addirittura 31, di cui 12 a sostegno della candidata del Pd. Certo, nelle regioni meridionali il fenomeno presenta caratteristiche in parte diverse, ma alla fine il quadro è lo stesso.

    Secondo noi la ragione principale sta in certi meccanismi sbagliati dei sistemi elettorali regionali. In particolare, il fatto che i voti raccolti da qualunque lista, anche quelle che restano sotto le varie soglie per prendere seggi, servono a vincere. Infatti anche la lista “Vittime della giustizia e del fisco” potrebbe consentire a Caldoro di prendere un voto in più di De Luca e quindi conquistare vittoria e premio di maggioranza. La stessa cosa succedeva con il sistema elettorale ideato da Calderoli nel 2005 per l’elezione del Parlamento nazionale. Con l’Italicum non può più succedere. Questo è un altro dei vantaggi legati al fatto che il premio di maggioranza va solo alla lista e non più anche alle coalizioni. A livello regionale non è così. Ed è un errore.

    Se a questo fattore aggiungiamo il voto di preferenza che è una caratteristica di tutti i sistemi elettorali regionali, il quadro è completo. La formula è semplice: più liste, più candidati, più voti di preferenza. E naturalmente più sono i voti di preferenza più sono le possibilità di essere eletti, e soprattutto maggiore è il peso politico da far valere sui vari tavoli della politica sia con il vincitore che con i futuri sfidanti. Il lato positivo della faccenda è che ci saranno più elettori che andranno a votare. Elettori che senza il voto di preferenza starebbero a casa. Qualcuno si rallegrerà di questo sostegno alla affluenza. Il sottoscritto ha qualche dubbio.

    La vera novità di queste elezioni sta nella politica delle alleanze. Soprattutto nel centro-destra. Una volta era il centro-sinistra lo schieramento più numeroso e più diviso. Oggi non è più così. Certo, anche in questo schieramento ci sono combinazioni diverse nelle diverse regioni, ma nulla in confronto al centro-destra. In un paio di regioni il Pd è alleato di Sel, in altre due sta con l’Udc (senza Ncd), e in Puglia è alleato sia con Sel che con l’Udc. Il fatto curioso è che in nessuna delle sette regioni il Pd è alleato con Ncd, suo partner nel governo nazionale.

    Diverso è il caso del centro-destra, i cui partiti si presenteranno davanti agli elettori in 10 diversi tipi di alleanze. Nella scheda in pagina il lettore potrà vedere le varie configurazioni in cui si materializza la diaspora di questo schieramento. Solo in Liguria e in Umbria si presenta unito. In tutte le altre regioni manca qualche pezzo. Per arrivare al caso della Toscana in cui i candidati del centro-destra sono addirittura tre.

    Tab. 1 – I diversi tipi di alleanze nel centro-sinistra e nel centro-destra

    È vero che a livello regionale le alleanze spesso si adattano alle situazioni locali, ma quando le varianti arrivano a questi livelli si è portati inevitabilmente a pensare che il fenomeno non sia altro che il riflesso di uno stato di anarchia al centro che si ripercuote in periferia. L’esito di queste elezioni potrebbe aggravare la sindrome o creare le condizioni per una graduale uscita dalla crisi. La prima ipotesi sembra più probabile della seconda. Dipende da quanto succederà in Liguria e in Campania, che sono le due regioni veramente in bilico. Ma anche dalla resa dei conti in Puglia tra Berlusconi e Fitto. I motivi di interesse per questa tornata elettorale certamente non mancano.

  • Elettori euroscettici, «vince» Forza Italia

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 15 maggio

    L’Europa non piace più come una volta. Sono finiti i tempi in cui l’Italia figurava in testa alla graduatoria dei paesi più europeisti. Dopo l’innamoramento è subentrato il disincanto. È quello che dicono i dati del sondaggio Cise-Sole 24 Ore. Una conferma rispetto a quello che già si sa. Secondo i dati raccolti a novembre del 2014 nell’ambito della ultima indagine pubblicata dall’Eurobarometro solo il 47% degli italiani si sente cittadino europeo contro il 74% dei tedeschi. Ci superano addirittura gli inglesi. Davanti a noi ci sono i bulgari e dietro ci sono solo i greci.

    In realtà gli italiani non rifiutano l’Unione e nemmeno la moneta unica. La maggioranza (il 54%) continua a pensare che l’appartenenza all’Unione sia una cosa positiva. Coloro che ne danno un giudizio del tutto negativo sono solo il 21%, mentre un altro 25% è su una posizione agnostica. Ma questi ultimi non sono più tali quando la domanda tocca il tasto dei benefici che l’Italia ha ottenuto dalla sua appartenenza all’Unione. In questo caso il campione si polarizza nettamente con un 52% che risponde positivamente e il 45% che la pensa in modo diametralmente opposto. Per quasi la metà degli intervistati lo stare nell’Unione non ha portato reali vantaggi. Ci si sta perché non si può fare diversamente. Non si spiega altrimenti perché per una parte consistente di loro l’appartenenza all’Unione è una cosa né positiva né negativa anche se i benefici che se ne ricavano sono scarsi o nulli.

    L’euroscetticismo non è però diffuso allo stesso modo tra le varie forze politiche. Su questo argomento la differenza tra gli elettori di sinistra e quelli di destra è netta. Come si vede nel grafico in pagina sono questi ultimi a essere decisamente più critici nei confronti dell’Unione. Con la sola eccezione del giudizio sulla Germania, per tutte le domande comprese nel nostro sondaggio le risposte degli elettori dei partiti di centrodestra rivelano un atteggiamento molto più euroscettico rispetto agli elettori del Pd. Per esempio, solo il 25% degli elettori democratici ritiene che l’Italia non abbia beneficiato della sua appartenenza alla Ue contro il 64% degli elettori di Forza Italia, il 59% di quelli della Lega Nord e il 57% degli elettori del M5s.

    Ma è sulla questione dell’euro che viene fuori una sorpresa. A livello dell’intero campione solo il 29% degli intervistati vorrebbe uscire dalla moneta unica. Un dato simile a quello dell’ultimo Eurobarometro. Anche in questo caso la differenza tra la destra, la sinistra e Grillo c’è, ma non è così netta. Come per le altre domande sono gli elettori del Pd a essere i più europeisti. Solo il 14% è d’accordo con l’affermazione che l’Italia dovrebbe uscire dalla Eurozona. Tra gli elettori leghisti e grillini questa percentuale sale, ma resta tutto sommato contenuta. In maggioranza preferiscono restare dentro. E già questa è una novità. Ma la vera novità riguarda Forza Italia. Sono gli elettori del partito di Berlusconi a essere i più contrari all’euro. Addirittura la maggioranza di loro vorrebbe che l’Italia uscisse dalla moneta unica. E questo non è vero né per la Lega Nord né per il M5s. È questa la sorpresa.

    In sintesi, sull’Europa gli italiani sono divisi ma non lo sono trasversalmente. In maggioranza sono ancora favorevoli all’Europa. Ma la differenza tra chi si colloca a destra e chi si colloca a sinistra è netta. A sinistra l’Unione è vista meglio che a destra. Non è così in tutti i paesi europei. Per esempio, in Francia l’antieuropeismo ha fatto breccia sia alla estrema destra che alla estrema sinistra. In Italia questo non si è ancora verificato. Ma visto che anche da noi gli operai tendono ad essere tra le categorie più critiche nei confronti dell’Europa non è detto che prima o poi quello che è successo in Francia non succeda anche da noi. Dipenderà, come molte altre cose, dall’andamento dell’economia.

  • Sondaggio Cise-Sole 24 Ore: Pd al 36%, bene Grillo e Lega. Il lavoro preoccupa ancora

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 14 maggio 2015

    Passano i mesi ma gli umori degli italiani non cambiano. I dati recenti su contratti e crescita sembrano promettere un futuro migliore ma per ora il clima politico e sociale continua ad essere caratterizzato dalla sfiducia e dal pessimismo. L’economia e il lavoro restano le preoccupazioni maggiori seguiti a molta distanza dalla questione dell’immigrazione. Nessuno dei leader politici, nemmeno Renzi, ottiene una sufficienza piena nel gradimento degli italiani. E nessuno viene considerato in grado di risolvere veramente i problemi del Paese. E’ quello che emerge dal sondaggio Cise-Sole24Ore.

    In questo clima negativo trovano però conferma le tendenze politiche sviluppatesi negli ultimi mesi. Il quadro dei rapporti di forza tra i partiti è quello fotografato da altri sondaggi e dal voto recente in Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta. Il Pd è di gran lunga il partito che raccoglie la percentuale più alta di intenzioni di voto, il 36,5%. E’ un dato rimasto stabile negli ultimi mesi. Questa percentuale è inferiore a quella delle europee ma superiore di 10 punti a quella delle politiche del 2013. Il secondo partito è il M5s con il 23,5%. Questa è una stima più alta di quella di altri sondaggi, ma in linea con la tendenza che vede il M5s stabilmente al secondo posto nelle preferenze di voto degli italiani. Lo era anche alle europee, mentre alle politiche era stato il partito più votato in assoluto alla Camera.

    Nel centro-destra la Lega Nord di Salvini ha superato Forza Italia come maggior partito dello schieramento. Lo dicono i dati di questo sondaggio e lo hanno già detto i risultati del Trentino Alto Adige. Tra due settimane è molto probabile che una ulteriore conferma verrà dal voto regionale. Ma c’è di più. Salvini ha sopravanzato Berlusconi come possibile candidato del centro-destra unito. Alla domanda su chi debba essere il leader di una eventuale lista unica di centro-destra alle prossime elezioni la risposta chiara è Matteo Salvini. E’ così a livello dell’intero campione, ma è soprattutto vero tra gli elettori che si considerano di destra. Tra questi il 48% indica il leader della Lega Nord e solo il 26% sceglie Berlusconi. Per Alfano, Fitto, Passera e Tosi i numeri sono bassi o bassissimi. Berlusconi è persona di straordinarie risorse, sia materiali che simboliche, ma è difficile che possa tornare ad essere il grande federatore della destra italiana. Il suo tempo sembra finito. Ma non si vede ancora chi ne possa raccogliere l’eredità. Per i moderati del centro-destra Salvini è un po’ troppo di destra anche se oggi sembra il favorito.

    In sintesi, il quadro è quello di un sistema in cui a sinistra c’è un grande partito con un leader mentre a destra ci sono due partiti di media consistenza in competizione tra loro (Forza Italia e Lega Nord) e altri piccoli partiti in cerca di futuro. E poi c’è il M5s che nonostante tutto è ancora lì e non ha nessuna intenzione di uscire di scena. Per Renzi la frammentazione e la poca credibilità della opposizione rappresentano il vantaggio più importante su cui può contare in questa fase. Governare di questi tempi è difficile. E nei dati di questo sondaggio si vede. Il giudizio sul governo non è positivo per la maggioranza degli italiani.

    Lo stesso vale per il giudizio sul premier. Su una scala da 1 a 10 solo il 41% degli intervistati gli dà la sufficienza. Ma resta pur sempre il leader meno sgradito visto che per i suoi rivali i giudizi negativi vanno dal 68% di Salvini al 70% e più di Grillo, Berlusconi e Landini per arrivare al 82% di Alfano e al 87% di Fitto.

    Ma si tratta di una magra consolazione. La politica non ha ancora riacquistato credibilità e chi governa non si sottrae a questo sentimento diffuso. In tutte le domande di questo sondaggio in cui si è chiesto agli intervistati di indicare il partito più credibile a realizzare obiettivi condivisi dalla maggior parte dei cittadini la risposta prevalente è stata ‘nessuno è davvero credibile’. In questo clima di generalizzata sfiducia nei confronti della classe politica, la credibilità è un bene più o meno equamente distribuito. Il Pd viene considerato come il partito più credibile nel far valere gli interessi dell’Italia in Europa e nel far ripartire l’economia italiana, ma il M5s lo è per ridurre i costi della politica e la Lega Nord per controllare in maniera efficace l’immigrazione. Ma i numeri sono bassi e quindi poco indicativi. Il dato vero è quello che si è già detto, la sfiducia.

    In questo contesto c’è un partito, il Pd, che raccoglie le intenzioni di voto del 36% degli italiani. Non è cosa da poco. Con questa percentuale David Cameron ha vinto le recenti elezioni in Gran Bretagna. Ma l’impressione è che sia un fenomeno fragile, legato da una parte al credito di cui ancora gode il premier e dall’altra alla debolezza della opposizione. Solo un duraturo cambiamento a livello della situazione economica e sociale del paese potrà portare ad una reale stabilità degli allineamenti elettorali. Messa da parte l’ideologia è l’economia il vero motore dei comportamenti politici degli italiani. E’ così da anni in altri paesi. E oggi lo è anche da noi. E’ su questo terreno che si gioca la vera partita di Renzi e del Pd.

  • La lezione inglese

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 9 maggio 2015

    Con il 36,9% dei voti  il partito conservatore  di Cameron ha conquistato il 51% dei seggi.  Un premio pari a 14 punti percentuali. Con il 30,4% dei voti i laburisti hanno perso ma hanno ottenuto il 36% dei seggi. E’ andata molto male invece ai liberal-democratici che con l’8% dei voti hanno preso solo 8 seggi (l’1%). A differenza del  partito nazionalista scozzese che con il 4,7% dei voti, di seggi ne ha presi 56  (sui 59 dell’intera Scozia). Dulcis in fundo, lo Ukip di Farage con il 12,6% di voti ha preso un solo seggio.

                Siamo di fronte a un sistema elettorale indiscutibilmente incostituzionale secondo i criteri della nostra Corte. Non solo. Secondo i critici nostrani dell’Italicum  non c’è alcun dubbio che la democrazia inglese sia in grave pericolo. La deriva autoritaria è dietro l’angolo. La più antica democrazia parlamentare del mondo è ormai moribonda. Come è possibile che un premier eletto da poco più di un terzo degli elettori possa governare legittimamente?

                E’ il maggioritario, bellezza!  A casa nostra non piace a molti. A Londra invece tanti hanno tirato un sospiro di sollievo.  Fino all’altro ieri la Gran Bretagna sembrava sull’orlo della ingovernabilità. Si parlava non solo di governi di coalizione, ma addirittura di governi di minoranza. Una vera iattura in quel paese. E invece gli elettori britannici oggi hanno un governo di maggioranza. Questo esito  è il prodotto del sistema elettorale. Un sistema maggioritario fortemente disproporzionale, imperniato su 650 collegi uninominali dove basta arrivare primo per vincere il seggio. Winner-takes- all. Il vincitore si prende tutto è la definizione gergale di questo sistema. Chi arriva primo si prende tutta la posta e agli altri non resta niente. Quando il sistema funziona  gli elettori eleggono ‘direttamente’ il governo del paese, come è successo questa volta.  La governabilità fa premio su tutto. Ma il costo è la disrappresentatività. Anche Tony Blair nel 2005 vinse le elezioni con il 35% dei voti.

                Naturalmente è un sistema che ha i suoi critici anche in Gran Bretagna. Tra questi spiccano i sostenitori dei partiti minori che nel corso della storia elettorale inglese sono stati sistematicamente svantaggiati. In particolare i liberal-democratici. Quando cinque anni fa Cameron non riuscì ad arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi e fu costretto a fare un governo di coalizione proprio con i liberal-democrattici la prima richiesta del loro leader fu un referendum sul sistema elettorale. Si svolse il 5 Maggio 2011. Quel giorno i cittadini inglesi potevano decidere di abbandonare il sistema uninominale maggioritario e sostituirlo con il voto alternativo. Invece il 68% ha votato contro il cambiamento. Hanno preferito mantenere il vecchio disproporzionalissimo sistema. Hanno scelto la governabilità rispetto alla rappresentatività.

                Ma veniamo ora alla buona notizia per tutti coloro che hanno seri dubbi sulla bontà della evoluzione maggioritaria nel nostro paese. Con l’Italicum quello che è successo in Gran Bretagna accadrà in maniera diversa. E in meglio. Infatti, il vantaggio dell’Italicum sta nel fatto che chi vince avrà 340 seggi e chi perde se ne dividerà 278. Poi ci sono i 12 seggi della circoscrizione estero.  Per questo e per altri motivi legati a Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta in realtà chi vince ne avrà di più e chi perde qualcuno meno. Ma questi sono dettagli. Il punto è che l’Italicum è sì un sistema majority-assuring, cioè assicura che ci sia un vincitore certo, ma a differenza di quello inglese non è un sistema wiiner-takes-all. Il vincitore infatti non si prende tutta la posta in gioco ma solo il 54%.

                Certo, per garantire che la sera delle elezioni ci sia un vincitore certo si deve sacrificare in parte la rappresentatività. Ma solo in parte. Da noi un partito con il  13% dei voti, come l’Ukip, non viene escluso dal parlamento. Questo è il vantaggio dell’Italicum rispetto al sistema inglese, e anche rispetto a quello francese. Tra due anni in Francia assisteremo ad un altro caso analogo a quello dello Ukip inglese. Infatti il Front National di Marine Le Pen potrebbe arrivare addirittura al 20% dei voti ma senza prendere seggi o prendendo una manciata. (Clonazepam)  Questo per dire che nemmeno il maggioritario a due turni francese con i suoi collegi uninominali può impedire esiti fortemente disrappresentativi. Da noi grazie all’Italicum Salvini e Grillo possono dormire sonni tranquilli. Mal che gli vada porteranno comunque in parlamento una bella pattuglia di deputati.

                Insomma, l’esito delle elezioni inglesi è la migliore dimostrazione della bontà dell’Italicum. Con buona pace di tutti quei critici provinciali che hanno investito tanto nella sua demonizzazione.

  • Il Pd tiene, il governo scivola sull’economia

    di Roberto D’Alimonte

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 7 dicembre 2014

    Un quadro politico di grande fragilità in cui pessimismo e sfiducia sono le note dominanti.  Questo è il dato saliente che emerge dall’ultimo  sondaggio Cise-Sole24ore.  In questo contesto Il Pd risulta  ancora di gran lunga il primo partito del paese con il 39,3% delle intenzioni di voto, leggermente sotto il dato delle europee ma abbondantemente sopra quello delle politiche del 2013. Il fattore Renzi funziona ancora ma, come vedremo, mostra evidenti segni di sofferenza.  Al secondo posto, nonostante tutto, si colloca il M5s con il 18,6%. Quella del movimento di Grillo sembra essere una discesa lenta, non un vero e proprio smottamento.  Il suo punto di forza sono sempre i giovani tra i 18 e i 29 anni.  In questo segmento dell’elettorato è ancora il partito più votato seguito dal Pd.

    A ruota seguono gli altri. Forza Italia con il suo 15% si colloca al terzo posto sopravanzando di poco la Lega Nord. Anche questo sondaggio conferma che Berlusconi ha un suo nocciolo duro di consensi fatto di fedelissimi disposti a seguirlo sempre e comunque. Per Renzi è una buona notizia vista la disponibilità del Cavaliere a continuare sulla strada della collaborazione con il governo sulle riforme istituzionali.

    Di questo sta approfittando la Lega Nord che ha trovato in Salvini un leader efficace. Il 14,3% è un dato notevole. Non si tratta ancora di voti ma solo di intenzioni. Ma abbiamo già visto nelle recenti elezioni regionali in Emilia-Romagna che lì le intenzioni si sono effettivamente trasformate in voti. Il declino di Berlusconi ha liberato milioni di elettori in cerca di un approdo stabile. Salvini cerca di approfittarne. E ci sta riuscendo. La sua strategia di radicalizzare il messaggio leghista in chiave di tematiche nazionali paga. Tre temi: Europa, immigrazione, diritti dei gay. Sono questi i temi di cui si sta impossessando il leader leghista.  Un partito che non voglia diventare il partito della nazione può permettersi il lusso di radicalizzare la sua offerta politica sfruttando  l’intensità delle opinioni su queste tematiche.

    Il caso della domanda sui matrimoni gay è esemplare. L’opinione pubblica è nettamente polarizzata: il 36% è fortemente contrario mentre il 33% è assolutamente favorevole. Mettendo insieme pezzi di elettorato contrari ai diritti dei gay , all’Europa e alla immigrazione Salvini sta puntando a costruire un nuovo partito di destra nazionale. Lo aiutano le sue indubbie doti di comunicatore e lo spazio che gli altri da Berlusconi alla Meloni gli stanno lasciando. E così la Lega cresce e si allarga aldilà dei suoi confini tradizionali conquistando nuovi consensi ,soprattutto nella zona tra Bologna e Roma. Il suo punto di debolezza rimane il Sud. Ma Salvini sembra decisamente intenzionato a rimediare. Come riuscirà a fare di un partito che si chiama Lega Nord un partito nazionale è una bella sfida da seguire.

    Dunque, Il Pd è il primo partito del paese, ma né il giudizio sul governo né quello su Renzi sono entusiastici. Il 40% degli intervistati approva l’operato dell’esecutivo ma tra questi solo il 3% è molto positivo, mentre tra i critici il 22% si esprime in modo fortemente negativo. Il giudizio sul premier è migliore di quello sul governo, ma neanche Renzi arriva alla sufficienza. In una scala da 1 a 10 solo il 46% gli dà un voto uguale o superiore a 6. Ma nessuno dei suoi avversari arriva alla sufficienza. Renzi resta quello che più gli si avvicina. Insomma, son tutti bocciati.  Anche Salvini e Landini, per non parlare di Grillo e Berlusconi per cui i giudizi negativi sono intorno all’80%.

    Sono dati che disegnano un quadro di profonda sfiducia nella classe politica. Sfiducia alimentata da un radicale pessimismo relativamente alla crisi economica. Oltre il 70% degli intervistati pensa che negli ultimi 12 mesi la situazione economica generale sia peggiorata.  All’interno di questo quadro non tutti i partiti sono considerati alla stessa stregua.  Nelle domande sulla credibilità, intesa come capacità di realizzare determinati obiettivi, il Pd ne esce meglio, ma non su tutto (si veda cise.luiss.it). E in ogni caso circa un terzo degli intervistati pensa che nessun partito sia credibile per ridurre i costi della politica, far ripartire l’economia o proteggere i cittadini dalla criminalità. Un quadro desolante.

    L’Europa è la sezione del sondaggio che riserva le maggiori sorprese, relativamente parlando.  Gli italiani non sono contenti dell’Unione. La stragrande maggioranza pensa che  le decisioni prese a Bruxelles danneggino l’Italia (60%). Quasi il 70% è convinta che i sacrifici richiesti mettano in pericolo lo stato sociale. Si oppongono all’idea che le politiche dell’UE debbano privilegiare il rigore dei conti (80%).  Anche il loro giudizio retrospettivo sui benefici della appartenenza del nostro paese all’Unione riflette una buona dose di scetticismo: solo il 51% ritiene che sia un fatto positivo. Eppure quando  si chiede se l’Italia debba uscire dall’Euro il 50% dice di non essere affatto d’accordo e il 14% poco d’accordo. Fa il 64% di contrari all’uscita. E la stessa cosa si vede in risposta alla domanda sul futuro del processo di integrazione. Gli italiani si lamentano dell’Europa ma vogliono più Europa.

    Rassegnazione o convinzione?  Sia sull’Europa che sul governo e il suo leader si coglie negli atteggiamenti degli italiani una sostanziale ambiguità. E’ difficile capire se  prevalga più l’uno o più l’altro di questi stati d’animo. Forse più il primo del secondo.  La sensazione è che a Renzi e all’Europa non ci siano alternative. Ed è anche per questo che torniamo a sottolineare la fragilità del quadro politico. Fino a quando l’economia, che è la vera preoccupazione degli italiani, non avrà cambiato verso anche il 39% dei consensi al Pd  resta un dato labile.

    Ma di una cosa può gioire il premier. Sulla riforma elettorale gli italiani sono con lui. E’ veramente sorprendente che il 74% dichiari di essere d’accordo su una legge elettorale che debba garantire a chi vince le elezioni una maggioranza per governare, anche a costo di ridurre la rappresentanza degli altri partiti. In un paese dove una volta dominava la cultura della proporzionale scopriamo che la grande maggioranza è diventata disproporzionalista. Cambiare si può.