Autore: Davide Angelucci

  • Non saranno strategie basate su temi concreti ad aiutare Trump. Ecco perché

    Non saranno strategie basate su temi concreti ad aiutare Trump. Ecco perché

    Riproduciamo qui tradotto un articolo apparso oggi sul blog EUROPP della London School of Economics
    (traduzione di Federico Trastulli)

    Le elezioni presidenziali americane del 3 novembre saranno seguite dall’Europa con grande intersse. Basandosi su recenti dati di sondaggio originali, Davide Angelucci, Lorenzo De Sio, Morris P. Fiorina e Mark N. Franklin illustrano la sfida che attende Donald Trump nel suo tentativo di rielezione. Al momento non ci sono temi divisivi su cui Trump si trova a ottenere più sostegno da indipendenti e democratici di quanto non possa perdere dalla sua stessa base elettorale; mentre su questioni per le quali gli obiettivi sono ampiamente condivisi, Trump manca di credibilità rispetto a Joe Biden.

    Con la campagna elettorale per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 2020 che volge al termine (e la maggior parte dei sondaggi che riportano un vantaggio di Biden di 10 punti nelle intenzioni di voto popolare), Donald Trump si concentra sui valori, non sui problemi; sul carattere, non sulle politiche. Alcuni strateghi repubblicani sono disperati per la scelta di Trump di coltivare l’entusiasmo della sua base piuttosto che di tentare di raggiungere gli indipendenti. Alcuni commentatori ci dicono che questo è “ciò che a Trump piace fare”. Ma forse la verità è che non ha scelta. I dati di un sondaggio originale che abbiamo condotto su un campione statunitense di 1.550 intervistati tra il 28 settembre e il 5 ottobre suggeriscono che in realtà potrebbe non esserci più praticamente nessun tema che Trump potrebbe utilizzare per andare oltre la sua base.

    In genere i candidati si affidano a temi di campagna con alto rendimento (issue yield), ma…

    I dati che abbiamo raccolto fanno parte del più ampio progetto internazionale ICCP, che ha già studiato le elezioni generali in sei paesi dell’Europa occidentale. Il progetto si basa sulla teoria del rendimento dei temi (issue yield theory): l’idea che, in un’epoca in cui le campagne non giocano più sulle differenze ideologiche, i partiti e i candidati costruiscono le loro strategie facendo leva su specifici pacchetti tematici a loro elettoralmente più favorevoli. Gli obiettivi tematici con il rendimento pià alto sono quelli che combinano l’unanimità all’interno del partito, un ampio sostegno del pubblico in generale e una forte credibilità del partito / leader.

    Il problema per Trump nel 2020 è che, secondo i nostri dati, qualsiasi tema che potrebbe cercare di sfruttare durante il resto di questa campagna probabilmente aumenterebbe il sostegno a Biden almeno quanto lo aumenterebbe a se stesso. Biden, al contrario, sembra in una posizione molto migliore.

    I dati (1): Joe Biden gode di un maggiore sostegno elettorale sulla maggior parte dei “suoi” temi

    Nel nostro sondaggio, abbiamo posto ai potenziali elettori circa 30 domande (alcune relative a obiettivi ampiamente condivisi dall’elettorato statunitense – come la riduzione della disoccupazione -; altre “divisive”, che prevedono obiettivi opposti – come il controllo su possesso e vendita delle armi). Quando si applica a temi divisivi, la teoria della issue yield suggerisce che i candidati dovrebbero promuovere gli obiettivi sui quali: 1) i loro sostenitori sono d’accordo; e che, allo stesso tempo, 2) sono fortemente popolari nell’elettorato complessivo.

    Nella Figura 1, le barre gialle indicano il sostegno per una posizione tematica all’interno della base del candidato; mentre le barre verdi indicano il sostegno in generale. I temi sono ordinati approssimativamente in base a quanto avvantaggiano Trump. I dati mostrano una chiara divisione tra i due candidati. Trump può guadagnare molto meno di Biden con una strategia elettorale basata sui singoli temi, poiché il sostegno complessivo (barre verdi) per le tematiche a lui più favorevoli è decisamente inferiore al sostegno generale (anche questo raffigurato dalle barre verdi) per i temi di Biden. Inoltre, il sostegno all’interno del partito repubblicano per questi obiettivi è generalmente inferiore per Trump che per Biden (le barre gialle di Trump sono generalmente più corte di quelle di Biden).

    Figura 1 – Sostegno generale (verde) e interno al partito (giallo)
    su varie posizioni tematiche
    (elaborazione originale degli autori)

    Anche solo enfatizzando uno qualsiasi dei “suoi” temi, Trump di conseguenza potrebbe guadagnare piuttosto poco, mentre rischierebbe invece di perdere il suo sostegno attuale. Biden sembra maggiormente favorito da obiettivi che sono più popolari in generale, e su cui i suoi sostenitori sono più uniti.

    I dati (2): sugli obiettivi condivisi da tutti, Donald Trump non è quasi mai percepito come più credibile di Biden

    E per quanto riguarda gli obiettivi condivisi? La figura 2 mostra un quadro ancora più cupo per Trump quando guardiamo ai temi trasversali, condivisi dai sostenitori di entrambi i candidati. Questo perché, con questo tipo di obiettivi politici, entra in gioco una nuova considerazione: quella della credibilità. Quasi tutti vorrebbero vedere una maggiore crescita economica, ad esempio; ma i candidati possono essere più o meno credibili per raggiungere questo obiettivo.

    Nella figura 2 (per ragioni di spazio limitata ai temi più favorevoli a Trump) vediamo che il presidente in carica soffre di un significativo svantaggio di credibilità. Ancora una volta, in questo grafico, più le barre sono lunghe e meglio è per ciascun contendente. Tuttavia, questa volta le barre sono colorate in base al candidato in questione; e vi sono un paio di barre per ogni tematica (una rossa per la credibilità di Trump, una blu per la credibilità di Biden). Di nuovo, i temi sono ordinati in base a quanto siano favorevoli a Trump.

    Figura 2: Credibilità di ogni candidato su obiettivi condivisi
    (elaborazione originale degli autori)

    Solo sui tre temi a lui più favorevoli vediamo Trump in parità statistica con Biden in termini di credibilità. Questi tre temi (crescita economica, disoccupazione e protezione dal terrorismo) sono quelle sulle quali Biden gode di minore credibilità; ma, anche su queste, la credibilità di Biden è praticamente identica a quella di Trump. Ironia della sorte, le tematiche a marchio Trump (ridurre l’immigrazione e mettere gli Stati Uniti al primo posto) sono diventate questioni sulle quali Trump ha così poca credibilità che nessuna di loro appare nemmeno in questo elenco delle tematiche a lui più favorevoli (essendo la sua credibilità su di esse attualmente inferiore a 25 %).

    Si noti che molti dei temi che premiano Biden (come la sua posizione sull’assistenza sanitaria) non compaiono nel grafico perché sono molto sfavorevoli a Trump. In particolare, la migliore tematica di Biden ruota attorno all’obiettivo “Black Lives Matter” di ritenere gli agenti di polizia responsabili dell’uso della forza mortale. Questo traguardo è supportato dall’86% dei sostenitori di Biden e ha il 74% di sostegno nel paese.

    Non ci sono vere risorse tematiche per Trump

    Secondo la teoria della issue yield, la risorsa chiave per un partito o un candidato sta nell’enfatizzare le questioni su cui gode di un vantaggio competitivo, sperando che questo induca l’opinione pubblica a spostarsi a suo favore. Il problema è che Trump si trova a corto di questi temi. In primo luogo, per la mancanza di questioni divisive sulle quali, sottolineandole, potrebbe guadagnare, pescando dal bacino degli indipendenti e dei democratici, più di quanto non perderebbe nella sua attuale base. In secondo luogo, fatto ancora più importante, perché – sui grandi obiettivi condivisi dagli americani – Trump manca di credibilità rispetto a Biden.

    Con questa configurazione dell’opinione pubblica, nessuna strategia basata sui singoli temi sembra in grado di produrre per Trump un chiaro vantaggio nei restanti giorni di campagna elettorale. Questo potrebbe spiegare perché lo vediamo tentare di accendere nuove questioni nella speranza di trovarne una che prenda poi fuoco; concentrandosi anche, nel frattempo, su strategie non tematiche, come il mettere in discussione l’integrità e l’idoneità di Biden per il ruolo di presidente.

  • Europe matters … upon closer investigation: a novel approach for analysing individual-level determinants of vote choice across first- and second-order elections, applied to 2019 Italy

    Europe matters … upon closer investigation: a novel approach for analysing individual-level determinants of vote choice across first- and second-order elections, applied to 2019 Italy

    Angelucci, D., De Sio, L., & Paparo, A. (2020). Europe matters … upon closer investigation: A novel approach for analysing individual-level determinants of vote choice across first- and second-order elections, applied to 2019 Italy. Italian Political Science Review/Rivista Italiana Di Scienza Politica, 1-16. doi:10.1017/ipo.2020.21

    Scarica l’articolo qui

    Are European Parliament (EP) elections still second-order? In this article, we test the classical model at the individual level in contrast to an alternative ‘Europe matters’ model, by investigating the relative importance of domestic vs. European Union (EU)-related issues among voter-level determinants of aggregate second-order effects, that is, individual party change. We do so by relying on an original, CAWI pre-electoral survey featuring a distinctively large (30) number of both domestic and EU-related, positional and valence issues, with issue attitudes measured according to the innovative ICCP scheme (De Sio and Lachat 2020) which includes issue positions, issue priorities and respondents’ assessment of party credibility on both positional and valence goals. Leveraging the concept of ‘normal vote’, we estimate multivariate models of electoral defections from normal voting separately for general and European elections, based on issue party credibility. This allows us to assess: (a) the distinctiveness of the two electoral arenas in terms of issue content; and (b) the relative impact of EU-related and domestic issues on defections of Italian voters. Our findings show that although second-order effects are still relevant in accounting for results in EP elections, vote choice in the latter is also partly due to specific effects of certain policy issues, including some related to the European dimension. This indicates that EP elections have their own political content, for which Europe matters even after controlling for the importance that EU-related issues have acquired in national elections.

  • Italiani spaccati sull’Europa, ma non è solo una questione di destra vs sinistra

    Italiani spaccati sull’Europa, ma non è solo una questione di destra vs sinistra

    Nei giorni scorsi il CISE ha commissionato un sondaggio per testare l’opinione degli italiani rispetto alla crisi sanitaria in corso e a quella economica che arriverà nei prossimi mesi[1]. Abbiamo chiesto ai cittadini di esprimersi rispetto a vari temi collegati all’emergenza Covid-19, dal giudizio sull’operato del governo e dei principali leader alle responsabilità sulla gestione della crisi, fino alle misure economiche da adottare per ripartire.

    Fra i vari argomenti toccati dal sondaggio c’erano anche una serie di domande relative al rapporto tra italiani e Unione Europea (UE). Un tema al centro del dibattito pubblico ormai da molto tempo e che negli anni più recenti ha mostrato un trend di crescente euroscetticismo fra gli italiani, un tempo uno fra i popoli più eurofili della UE (Bellucci e Conti 2012; Carrieri 2019)[2].

    Il tema diventa ancor più d’attualità in queste settimane, vista la cruciale importanza delle istituzioni UE per far fronte alla crisi economica in arrivo e le aspre polemiche tra governo e opposizione e perfino all’interno della stessa maggioranza di governo sull’opportunità di attivare il MES (vedi articolo di D’Alimonte) e, più in generale, sull’effettivo supporto che le istituzioni UE sono in grado di garantire ai paesi maggiormente in difficoltà.

    Come incide quindi l’emergenza sanitaria sull’atteggiamento degli italiani verso la UE? Quanto sono polarizzate le opinioni degli italiani sulla UE da un punto di vista socio-demografico e politico?

    Per rispondere a queste domande abbiamo analizzato tre aspetti relativi all’UE, testandoli con altrettante domande nel nostro sondaggio. Si tratta del giudizio generale degli italiani rispetto all’appartenenza all’UE, dell’opportunità di una “Italexit” e infine dell’opinione rispetto ad una eventuale solidarietà europea mostrata dagli altri paesi UE all’Italia in questo momento di difficoltà. Per ciascuna di esse mostriamo la distribuzione nell’intero campione di intervistati e successivamente riportiamo i risultati dell’incrocio con le intenzioni di voto rilevate dal sondaggio e la categoria professionale dell’intervistato. In questo modo possiamo rispondere alle domande formulate in precedenza cogliendo nello specifico quanto l’atteggiamento degli italiani nei confronti della UE sia trasversale rispetto alle preferenze politiche e alla posizione occupata dall’intervistato nel mercato del lavoro, o invece sia in qualche modo correlata ad esse e, in questo caso, in che direzione.

    La Tabella 1 riporta la distribuzione del campione rispetto al giudizio generale verso l’appartenenza all’UE. Nel complesso, la maggioranza relativa degli italiani (42%) ha un’opinione negativa dell’appartenenza dell’Italia all’UE. Coloro che esprimono un’opinione positiva sono poco più di un terzo (35%), mentre quasi un quarto rimane in posizione neutrale (il 23% risponde infatti indicando la categoria “Né positivo né negativo”).

    Tabella 1- Giudizio sull’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea

    Anche alla luce di quello che è successo con questa crisi, per l’Italia è un fatto positivo o no far parte della Unione Europea?  %
    Negativo 42
    Né positivo né negativo 23
    Positivo 35
    Totale (N=1601) 100

    La virata euroscettica degli italiani avvertibile già dalla Tabella 1 è ancora più evidente se osserviamo la Tabella 2 che riporta la distribuzione del campione alla domanda sulla permanenza nell’UE. All’intervistato sono state fornite tre opzioni di risposta: 1) Uscire dall’UE; 2) Uscire dall’Euro, ma non dall’UE; e infine 3) Restare nell’UE. Abbastanza sorprendentemente, solo una minoranza degli intervistati (47%) vorrebbe che l’Italia rimanesse sia nella moneta unica che nell’UE. Questa cifra è la più bassa mai registrata nei sondaggi a cura CISE che, seppur con livelli diversi di supporto, avevano sempre mostrato una maggioranza a favore della piena permanenza del paese nell’UE[3]. Al contrario, la maggioranza assoluta degli intervistati (53%) vorrebbe modificare lo status quo: il 18% vorrebbe abbandonare l’Euro, mentre addirittura il 35% opta per l’opzione più “hard”, cioè la completa uscita dall’UE, alla stregua di quanto fatto dal Regno Unito nei mesi scorsi.

    Tabella 2 – Opinione sulla permanenza dell’Italia nell’Unione Europea

    Anche alla luce di quanto è successo con questa crisi, l’Italia dovrebbe… %
    Uscire dall’UE 35
    Uscire dall’Euro ma non dall’UE 18
    Restare nell’UE 47
    Totale (N=1556) 100

    Sulla base di queste premesse, non stupirà la netta maggioranza che non rintraccia alcuna solidarietà europea negli avvenimenti di queste ultime settimane. L’emergenza Covid-19 ha messo in seria crisi la tenuta del nostro sistema-paese e l’Italia è rimasta sola ad affrontare l’emergenza, senza ricevere aiuto dagli altri partner europei. È questo ciò che sembra pensare l’85% degli intervistati, contro il 15% circa che invece ritiene che gli altri paesi EU stiano aiutando l’Italia (Tabella 3).

    Tabella 3 – Opinione sulla solidarietà europea

    Secondo lei, in questo momento gli altri paesi della UE nel complesso stanno aiutando il nostro paese…  %
    No 85
    Si 15
    Totale (N=1643) 100

    Fin qui l’analisi “monovariata” del campione ha fornito un quadro piuttosto coerente: gli italiani manifestano un crescente euroscetticismo e, sebbene permanga in una quota importante del campione un’idea di fondo sulla positività dell’appartenenza all’UE e alle sue istituzioni, l’ostilità verso i nostri partner europei è invece condivisa da una larghissima maggioranza dell’elettorato.

    Vediamo adesso se e in che modo l’atteggiamento nei confronti dell’Europa polarizza l’elettorato italiano.

    Tabella 4 – Incrocio tra giudizio sull’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea e intenzioni di voto alle elezioni politiche

    Anche alla luce di quello che è successo con questa crisi, per l’Italia è un fatto positivo o no far parte della Unione Europea? Pd IV M5S FI FdI Lega Totale campione
    Negativo 2 12 37 30 71 79 42
    Né positivo né negativo 14 19 34 42 23 18 23
    Positivo 84 69 29 28 6 3 35
    Totale (N=1601) 100 100 100 100 100 100 100


    Tabella 5 – Incrocio tra opinione sulla permanenza dell’Italia nell’Unione Europea e intenzioni di voto alle elezioni politiche

    Anche alla luce di quanto è successo con questa crisi, l’Italia dovrebbe… Pd IV M5S FI FdI Lega Totale campione
    Uscire dall’UE 3 15 28 25 60 65 35
    Uscire dall’Euro ma non dall’UE 2 4 32 33 29 27 19
    Restare nell’UE 96 81 40 42 12 8 47
    Totale (N=1556) 100 100 100 100 100 100 100


    Tabella 6 – Incrocio tra opinione sulla solidarietà europea e intenzioni di voto alle elezioni politiche

    Secondo lei, in questo momento gli altri paesi della UE nel complesso stanno aiutando il nostro paese… Pd IV M5S FI FdI Lega Totale campione
    No 64 67 90 95 98 98 85
    Si 36 33 10 5 2 2 15
    Totale (N=1643) 100 100 100 100 100 100 100


    Da un rapido sguardo alle Tabelle 4, 5 e 6 che riportano i risultati degli incroci con le intenzioni di voto, risulta evidente che il tema dell’Europa divide non solo l’elettorato nel suo complesso ma anche i singoli partiti. Utilizzando una terminologia Rokkaniana, diremmo che quella europea è una frattura “crosscutting” piuttosto che “overlapping” rispetto alla tradizionale divisione sinistra-destra. Ma andiamo con ordine. Il Partito democratico (Pd) è in assoluto la forza politica con la maggiore omogeneità interna rispetto al tema della UE. Più di 4 elettori democratici su 5 hanno un atteggiamento positivo rispetto alla UE e la quasi totalità di loro vuole restare nell’UE e nell’euro (96%). Rispetto alla questione della solidarietà degli altri paesi UE, “solo” il 36% pensa che i nostri partner ci stiano aiutando, ma questa percentuale è comunque più che doppia rispetto alla media nazionale. Su posizioni molto simili a quelle del Pd c’è Italia Viva, i cui elettori sono ampiamente eurofili, sebbene un po’ meno entusiasti di quelli del Pd. Del resto, tra i molti motivi della scissione renziana dal Pd di Zingaretti, certamente non compare il tema della UE che invece unisce i due partiti nel fronte pro-Europa del governo. Dall’altra parte, su posizioni sensibilmente diverse e decisamente più euroscettiche compare l’altro partner del governo Conte, il Movimento Cinque Stelle (M5S), che risulta profondamente diviso su atteggiamento nei confronti dell’Unione e Italexit e invece quasi plebiscitariamente scettico sulla solidarietà mostrata dagli altri paesi UE all’Italia. Meno di un intervistato su 3 del partito di Grillo e Di Maio ha un atteggiamento positivo verso l’UE e “solo” il 40% vuole restare in Europa, contro il 60% che invece vuole modificare lo status quo, abbandonando la moneta unica o uscendo del tutto dall’UE. Questi dati, e lo stridente contrasto fra Pd e Italia Viva da una parte, e M5S dall’altra, fanno emergere un gigantesco nodo gordiano del governo giallo-rosso. La divisione sul tema europeo non è certamente una novità emersa in questi mesi ma un elemento già presente al momento della formazione del governo. Eppure, la gestione di questo potenziale conflitto interno sarà uno dei punti chiave del governo Conte da qui in avanti, soprattutto alla luce della difficilissima negoziazione che l’esecutivo dovrà portare avanti con le istituzioni UE e gli altri partner europei.

    A destra, invece, il tema dell’Europa è molto meno divisivo. Lega e Fratelli d’Italia (FdI), che hanno in mano la golden share del blocco conservatore, sono ormai due partiti apertamente euroscettici. Circa i tre quarti dei rispettivi elettorati manifestano un atteggiamento negativo verso l’UE, mentre coloro che esprimono un giudizio positivo verso l’Europa si contano sulle dita di una mano (tra il 3% ed il 6% circa). Pochissimi, fra i seguaci di Salvini e Meloni, vorrebbero restare in Europa mantenendo anche la moneta unica. La maggioranza assoluta di entrambi gli elettorati (rispettivamente il 65% ed il 60%) vorrebbe piuttosto seguire il Regno Unito con l’Italexit, mentre poco più di un quarto vorrebbe uscire dall’Euro rimanendo però nell’UE (il 27% ed il 29% rispettivamente). Le posizioni di duro euroscetticismo dei due partiti di destra si riflettono anche nelle risposte alla domanda sulla solidarietà in Europa, con circa il 98% degli intervistati dei due elettorati che nega che gli altri paesi UE stiano aiutando l’Italia. Infine, Forza Italia, presenta posizioni più moderate, con una maggioranza relativa degli intervistati che è neutrale sull’UE (42%) e vorrebbe restarci (42%). Nel complesso, le posizioni di Forza Italia rispetto all’Europa sono simili a quelle del M5S, un risultato già emerso nel recente passato (De Sio, De Angelis e Emanuele 2018; Emanuele, Maggini e Paparo 2020)[4].

    Spostando ora l’attenzione dalla dimensione partitica a quella socioeconomica, passiamo ad analizzare il modo in cui diversi gruppi socioeconomici guardano all’Europa. Il primo dato che emerge dalle nostre analisi è una polarizzazione sicuramente meno accentuata rispetto a quanto osservato in relazione alle linee di divisione partitiche, ma non per questo meno rilevante. Non mancano, infatti, sostanziali elementi di differenziazione tra diversi gruppi sociali, nonché indicazioni che sembrano mostrare l’emergere di ‘alleanze sociali’ per certi versi inedite.

    Sul versante decisamente europeista si collocano i dirigenti, i liberi professionisti e gli imprenditori -il gruppo socioeconomico con maggiore disponibilità di capitale economico (Tabella 7). È una maggioranza assoluta di questa categoria (52%), infatti, che esprime un giudizio positivo sull’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea. Un giudizio negativo è espresso invece “soltanto” da un terzo, mentre una minoranza del 16% si colloca su una posizione neutrale.

    Tabella 7 – Incrocio tra giudizio sull’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea e classe occupazionale

    Anche alla luce di quello che è successo con questa crisi, per l’Italia è un fatto positivo o no far parte della Unione Europea? Imprenditori/Dirigenti Impiegati Professioni sociocult. Commercianti Operai Disoccupati Studenti Pensionati Totale campione
    Negativo 32 39 14 50 57 58 46 37 42
    Né positivo né negativo 16 23 43 24 25 18 11 23 23
    Positivo 52 38 43 26 18 25 43 40 35
    Totale (N=1601) 100 100 100 100 100 100 100 100 100

    Relativamente positivo è il giudizio espresso anche dagli impiegati nei settori socioculturali (come ad esempio gli insegnanti di scuola superiore ed i professori universitari). In questo caso, però, non si tratta di una maggioranza assoluta, ma del 43%, contro il 14% che esprime un giudizio negativo. Sebbene la proporzione di coloro che rivelano un atteggiamento positivo nei confronti dell’UE sia relativamente ampia, vale la pena notare che il gruppo non è compatto, come nel caso dei dirigenti e degli imprenditori. Una maggioranza relativa, infatti, si colloca in una posizione di neutralità, esprimendo un giudizio né positivo né negativo (si tratta del 43%). Più frammentate le posizioni di quello che potremmo definire il ceto medio impiegatizio. Sebbene vi siano quote rilevanti di questo segmento sociale che guardano positivamente alla membership europea dell’Italia (38%), una porzione sostanzialmente identica la giudica negativamente (39%), mentre una minoranza del 23% è di fatto neutrale.

    Sul versante euroscettico si collocano invece le classi più deboli dal punto di vista economico, vale a dire i disoccupati e gli operai. In questo caso è la maggioranza assoluta (rispettivamente il 57% ed il 58%) che giudica negativamente l’appartenenza del paese all’Unione. Sebbene entrambi i gruppi manifestino uno stesso livello di euroscetticismo, l’atteggiamento più negativo è espresso soprattutto dagli operai. Se, infatti, un disoccupato su quattro esprime un giudizio positivo sull’appartenenza dell’Italia all’UE, il rapporto scende di circa sette punti percentuali tra gli operai, dove solo il 18% è disposto ad esprimere un giudizio positivo sull’Unione Europea. Al gruppo euroscettico si aggiungono infine -seppur in misura leggermente minore rispetto a disoccupati ed operai-, i commercianti (un commerciante su due esprime un giudizio negativo). Il dato relativo a quest’ultimo gruppo occupazionale è di particolare interesse, soprattutto se visto in prospettiva. Si tratta infatti di una delle categorie professionali maggiormente penalizzate dalle misure del lockdown e che probabilmente risentirà degli effetti dell’imminente crisi economica prima delle altre. La negatività espressa da questo gruppo non sorprende, ed è, per certi versi, preoccupante. Qualora il nesso tra condizione socioeconomica e atteggiamenti verso l’Europa fosse confermato, all’incedere rapido della crisi potrebbe seguire una virata in direzione ancor più euroscettica della categoria, che potrebbe così diventare un bacino elettorale ideale per partiti genuinamente euroscettici come Lega e FdI.

    Infine, vale la pena notare un ultimo dato interessante relativo agli studenti, tradizionalmente individuati come sostenitori del progetto di integrazione. Il dato della nostra rilevazione sembra in qualche modo contraddire questa narrazione: è il 43% degli studenti a considerare positivamente la membership dell’Italia, contro una maggioranza relativa del 46% che invece esprime un giudizio negativo. Allo stesso tempo, solo una minoranza mantiene una posizione neutrale (il 11%)[5].

    Se il giudizio sulla membership è ampiamente divisivo tra le diverse classi occupazionali, registriamo invece una sostanziale coesione, di fatto trasversale ad ogni classe occupazionale, sul modo in cui vengono percepiti i partner europei nel contesto dell’emergenza sanitaria (Tabella 8).

    Tabella 8 – Incrocio tra opinione sulla solidarietà europea e classe occupazionale

    Secondo lei, in questo momento gli altri paesi della UE nel complesso stanno aiutando il nostro paese… Imprenditori/Dirigenti Impiegati Professioni sociocult. Commercianti Operai Disoccupati Studenti Pensionati Totale campione
    No 75 83 85 86 95 88 71 84 85
    Si 25 17 15 14 5 12 29 16 15
    Totale (N=1643) 100 100 100 100 100 100 100 100 100

    Infatti, indipendentemente dal ruolo occupato all’interno del mercato del lavoro, una maggioranza assoluta dei rispondenti ritiene che gli altri paesi europei non abbiano aiutato l’Italia a sufficienza nel fronteggiare l’emergenza sanitaria. Tuttavia, ancora una volta il maggiore disappunto nei confronti degli altri paesi europei è espresso dalle classi economicamente più fragili, mentre sono le classi più alte (in particolare dirigenti ed imprenditori) ad avere posizioni leggermente più positive. In altre parole, sebbene gli atteggiamenti verso l’Europa siano chiaramente strutturati sulla base della condizione socioeconomica, esiste un sentimento di sfiducia trasversale a tutte le classi sociali e che riguarda gli alleati dell’Italia in Europa. Se questo sentimento di sfiducia sia il portato di posizioni genuinamente euroscettiche radicate nei cittadini già prima dell’esplosione della pandemia oppure un diretto effetto delle vicende delle ultime settimane è difficile da dire. Per alcuni (in special modo per i più convinti sostenitori dell’Unione Europea, come ad esempio insegnanti ed accademici), la posizione critica espressa nei confronti degli alleati potrebbe essere il risultato del momento e cioè di un giudizio relativo alle modalità con le quali l’Europa (e gli altri paesi europei) sta gestendo la crisi. Per altri, in particolare per chi ha posizioni più euroscettiche, non è possibile escludere che queste posizioni siano, almeno in parte, indipendenti dalla crisi -la quale non avrebbe fatto altro che catalizzarle e radicalizzarle- e per lo più innescate da un euroscetticismo già radicato. Ad ogni modo, esiste una sacca consistente di insoddisfazione e di frustrazione trasversale alla società italiana, un’insoddisfazione che potrebbe rappresentare carburante prezioso per i principali partiti euroscettici. Partiti che, in questa fase, hanno tutto l’interesse a spostare l’asse del conflitto politico proprio sull’Europa.

    Il dato sinora discusso va inserito e letto all’interno del contesto dell’emergenza sanitaria. Il giudizio espresso dagli intervistati riflette infatti una valutazione della membership e della solidarietà europea alla luce degli effetti provocati dalla pandemia. Non è quindi sorprendente che tali giudizi non si traducano in modo automatico in atteggiamenti favorevoli o contrari all’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. E infatti, quando si analizza la desiderabilità dell’uscita dall’Unione Europea per categoria professionale, i dati mostrano risultati leggermente diversi -sebbene coerenti- con quanto discusso in precedenza (Tabella 9).

    Tabella 9 – Incrocio tra opinione sulla permanenza dell’Italia nell’Unione Europea e classe occupazionale

    Anche alla luce di quanto è successo con questa crisi, l’Italia dovrebbe… Imprenditori/Dirigenti Impiegati Professioni sociocult. Commercianti Operai Disoccupati Studenti Pensionati Totale campione
    Uscire dall’UE 25 32 13 26 49 48 36 32 35
    Uscire dall’Euro ma non dall’UE 11 15 4 38 23 21 13 21 19
    Restare nell’UE 63 53 83 36 28 31 51 47 47
    Totale (N=1556) 100 100 100 100 100 100 100 100 100

    Emerge innanzitutto in modo più chiaro una linea di frattura pro/anti Europa, strutturata sulla base della classe occupazionale. Da una parte, una maggioranza assoluta tra professionisti socioculturali (83%), dirigenti/liberi professionisti/imprenditori (63%), e, in misura minore, impiegati (53%) e studenti (51%) sostiene la permanenza dell’Italia nell’UE. Sul fronte opposto, convintamente euroscettico, troviamo invece commercianti, operai e disoccupati, che optano per una qualche forma di sganciamento dalle strutture istituzionali europee. Tra i commercianti, una maggioranza (relativa) del 38% ritiene che l’Italia debba uscire dall’Euro (ma non dall’Unione Europea) e circa il 26% considera più opportuna l’opzione hard dell’Italexit (uscire sia dall’Unione Europea che dall’Euro). Più radicali sono invece le posizioni di operai e disoccupati. Per i primi, la soluzione Italexit è la decisione più auspicabile (un operaio su due); mentre l’uscita dall’euro (ma non dall’Unione) è supportata dal 23%. Per i secondi il dato è sostanzialmente analogo: quasi un disoccupato su due sostiene l’uscita sia dall’Unione che dall’Euro; è invece il 21% a preferire un’opzione parziale di uscita (uscita dall’Euro ma non dall’Unione).

    I dati sembrano profilare una chiara contrapposizione tra diverse classi occupazionali, in linea con diversi studi sul tema (Kriesi et al. 2006): da un lato (quello europeista) i cosiddetti vincitori della globalizzazione, vale a dire le classi sociali più benestanti dal punto di vita economica e/o con un capitale culturale relativamente più elevato (la cosiddetta medio-alta borghesia). Sul lato opposto della barricata (quello profondamente euroscettico), invece, troviamo i cosiddetti perdenti della globalizzazione, cioè una buona porzione di ceto medio, duramente colpito dalla recente crisi economica e che probabilmente subirà più di altri gruppi socioeconomici gli effetti economici della pandemia da Covid-19, e le classi sociali più disagiate (operai e disoccupati), generalmente meno istruite (e quindi dotate di un capitale culturale ridotto da poter spendere sul mercato del lavoro) e più fragili dal punto di vista economico.  

    La strutturazione su base socioeconomica del conflitto sull’Europa è ulteriormente confermata dai risultati di un’analisi di regressione logistica, in cui abbiamo utilizzato come variabile dipendente una variabile dicotomica, distinguendo coloro che vogliono restare nell’Unione Europea da coloro che invece optano per una trasformazione dello status quo (sia attraverso l’uscita dall’Euro -ma non dall’UE, sia attraverso una soluzione hard che preveda l’uscita sia dall’UE, sia dalla moneta unica). Oltre ad includere l’occupazione come variabile indipendente, il modello controlla per regione di residenza, genere, età e titolo di studio. I risultati della nostra analisi confermano ampiamente quanto descrittivamente osservato nell’analisi bivariata. In Figura 1 riportiamo per ciascuna categoria professionale la probabilità predetta dal modello di preferire l’opzione di restare all’interno dell’UE (al netto dell’effetto delle altre variabili di controllo).

    Figura 1 – Probabilità predetta da un modello di regressione logistica di preferire l’opzione “Rimanere nell’Unione Europea” per classe occupazionale e controllando per genere, età, istruzione e regione di residenza.

    Le radici socioeconomiche del conflitto pro-anti Europa emergono con chiarezza: le classi a più alto livello di capitale economico e culturale hanno una probabilità significativamente maggiore di scegliere il “remain” rispetto alle classi con un più basso livello di capitale economico e culturale (commercianti, operai e disoccupati). Inoltre, vale la pena notare che, sul versante eurofilo, spicca tra gli altri il gruppo dei professionisti socioculturali, con una probabilità significativamente più alta rispetto ad ogni altro gruppo sociale di manifestare posizioni pro-UE. Al contrario, sul versante euroscettico, commercianti, operai e disoccupati non differiscono in alcun modo tra di loro, a dimostrazione del fatto che, benché in condizioni socioeconomiche differenti, rappresentano di fatto un unico blocco sociale compatto quando si tratta di esprimere la propria posizione sull’appartenenza dell’Italia all’UE. Insomma, la categoria che ha storicamente rappresentato la base sociale della sinistra (la classe operaia) e la categoria che invece ha rappresentato negli ultimi 25 anni la base sociale di riferimento della destra (le partite IVA) (vedi Bellucci e Segatti 2012) sono accomunate da un viscerale euroscetticismo. Si tratta di dati che, naturalmente, necessiterebbero di ulteriori elaborazioni, però questi risultati sembrano fornirci ulteriori conferme sul fatto che Prima e Seconda Repubblica sono ormai definitivamente alle spalle.

    Riferimenti bibliografici

    Bellucci, P. e Segatti, P. (2012), Votare in Italia: 1968-2008. Dall’appartenenza alla scelta, Bologna, Il Mulino

    Carrieri, L. (2019), ‘The limited politicization of the European integration in Italy: Lacking issue clarity and weak voter responses’, Italian Political Science Review 50(1), pp. 52-69.

    Conti, N. e Bellucci, P. (2012), Gli Italiani e l’Europa. Opinione pubblica, élite politiche e media, Roma, Carocci.

    D’Alimonte, R. (2020), ‘Il virus spinge l’antieuropeismo. E Zaia scala la classifica dei leader’, disponibile presso: https://cise.luiss.it/cise/2020/04/29/il-virus-spinge-lantieuropeismo-e-zaia-scala-la-classifica-dei-leader/

    De Sio, L., De Angelis, A., e Emanuele, V. (2017), ‘Issue Yield and Party Strategy in Multiparty Competition’, Comparative Political Studies 51 (9), pp. 1208-1238.

    Emanuele, V., Maggini, N. e Paparo, A. (2020), ‘The times they are a-changin’: party campaign strategies in the 2018 Italian election’, West European Politics 43 (3), pp.665-687.

    Kriesi, H., Grande, E., Lachat, R., Dolezal, M., Bornschier, S. e Timotheus, F. (2006) ‘The globalization and the transformation of the national political space: Six European countries Compared’, European Journal of Political Research 45(6), pp. 921-956.


    [1] Il sondaggio è stato realizzato con metodo CAWI tra il 21/04/2020 ed il 23/04/2020 su un campione (N=1643) della popolazione maschile e femminile italiana dai 18 anni in su, stratificato per genere, età e provincia di residenza in proporzione all’universo della popolazione italiana.

    [2] Si vedano inoltre sul punto le analisi semestrali dell’Eurobarometro.

    [3] È importante ricordare che le formulazioni utilizzate nei precedenti sondaggi CISE erano significativamente differenti rispetto a quella utilizzata nel sondaggio attuale. Nei precedenti sondaggi si chiedeva al rispondente di esprimere la propria preferenza sulla permanenza dell’Italia nell’Unione Europea e nell’Euro in due domande separate. L’accorpamento delle due domande in unico quesito che contemporaneamente misura gli atteggiamenti sull’Euro e sull’Unione Europea potrebbe aver generato una sovrarappresentazione delle posizioni euroscettiche nel nostro sondaggio attuale.

    [4] Vale la pena notare che il numero di elettori di Forza Italia nel nostro campione è relativamente basso. Di conseguenza, i dati mostrati vanno letti ed interpretati con una certa dose di cautela.

    [5] Il numero di studenti incluso nel campione è relativamente basso. Di conseguenza, le analisi che vengono riportate nel testo vanno lette ed interpretate con cautela.

  • Comunali: il ruolo degli uscenti e il mancato effetto bandwagon della Lega nei ballottaggi

    Comunali: il ruolo degli uscenti e il mancato effetto bandwagon della Lega nei ballottaggi

    Le ultime elezioni amministrative sembrano aver aperto la strada ad un ritorno del bipolarismo, con il campo del centrodestra compatto sotto la nuova leadership di Salvini, ed il centrosinistra in fase di ricostruzione. L’esito finale è stato un chiaro indicatore di un riequilibrio tra i due poli: il centrodestra recupera terreno nelle amministrazioni locali, mentre il centrosinistra, dopo la straordinaria crescita nella fase di massima popolarità del renzismo, perde 39 amministrazioni (D’Alimonte e Emanuele 2019; Angelucci e Paparo 2019). Il sostanziale riequilibrio è tuttavia maturato in un contesto di continuità e stabilità del colore politico delle amministrazioni locali al voto. Rispetto alla precedente tornata elettorale, registriamo infatti una stabilità complessiva (vale a dire, il tasso di riconferme nel colore politico di un’amministrazione) tendenzialmente più alta: il 57% delle amministrazioni hanno infatti riconfermato il colore politico delle giunte locali (Angelucci e Paparo 2019). Quanto di questa stabilità deriva dalla presenza di candidati sindaco uscenti in grado di mobilitare l’elettorato al voto? E quanto invece è legato ad una dinamica più generale di ricompattamento degli elettorati delle forze politiche in campo?

    Nella Tabella 1 sono riportate le combinazioni tra i colori delle amministrazioni uscenti e quelle entranti dopo le ultime elezioni per quei comuni dove sono stati ricandidati i sindaci uscenti (i cosiddetti incumbent): si tratta della maggioranza assoluta dei 221 comuni superiori ai 15.000 abitanti al voto, 118 casi in tutto.

    Il centrosinistra ha riconfermato il sindaco uscente in 66 comuni su 93 (71%), mentre il centrodestra in 9 comuni su 10 (vale a dire, nel 90% dei casi). Complessivamente si registra una stabilità del 68%, chiaramente più alta rispetto a quella registrata sul totale dei comuni al voto. Il dato non sorprende ed è in linea con le aspettative. Tuttavia, vale la pena notare che tale livello di stabilità, quando l’uscente è in corsa per un nuovo mandato da primo cittadino, è sostanzialmente in linea con quello registrato nella precedente tornata elettorale (allora intorno al 60%, Paparo 2017), un dato che segnala con una certa evidenza come la presenza dell’incumbent non abbia giocato un ruolo significativamente diverso rispetto al passato nel determinare un aumento della stabilità complessiva nel colore politico delle amministrazioni al voto. Al contrario, la continuità che si registra tra uscenti e vincitori sembra più che altro da attribuirsi ad un ricompattamento dell’elettorato dietro i due poli del centrodestra e del centrosinistra e ad una crescente difficoltà per i due poli di attrarre voti da campi politici contrapposti.

    Tab. 1 – Incrocio fra colore politico dell’amministrazione comunale uscente e di quella entrante dopo le comunali 2019 nei comuni superiori in cui il sindaco uscente era di nuovo in corsa118incumbentsL’unico caso in cui la presenza dell’incumbent sembra aver pesato sull’esito finale del voto è quello dei comuni dove i sindaci uscenti hanno cambiato bandiera ed hanno partecipato alla competizione elettorale sotto insegne politiche diverse rispetto a quelleper le quali avevano vinto nella precedente tornata elettorale. Andando nel dettaglio, sono 17 i comuni in cui l’uscente ha cambiato sponda. Fra questi comuni, solo a Pagani, Corato e Settimo Milanese (17%) la coalizione uscente priva del sindaco tiene e rivince. Al contrario, in oltre la metà dei casi (10 su 17, cioè nel 59% dei casi) l’uscente è stato rieletto sotto le nuove insegne. Il dato mostra chiaramente come in questi comuni, il candidato uscente abbia saputo attrarre voti e supporto elettorale a prescindere dalla sua collocazione politica originaria, una dinamica che sembra riflettere un vantaggio strategico per l’incumbent, oltre che una non nuova personalizzazione del voto locale (Emanuele e Marino 2016).

    La sfida dei ballottaggi

    Dinamiche simili di stabilità e riequilibrio sono emerse anche nel turno di ballottaggio, sebbene questo abbia mostrato alcune peculiarità di rilievo che vale la pena mettere in evidenza. Partiamo innanzitutto dai risultati per tipo di sfida (Tabella 2).

    Su 122 comuni al ballottaggio, 59 sono quelli conquistati dal centrosinistra (62 si considerano anche i comuni conquistati da forze di sinistra alternative al PD), contro i 38 conquistati dal centrodestra (46 se si includono anche i comuni vinti dalla destra senza FI). Resta dunque il vantaggio in termini assoluti del centrosinistra, ma in un contesto in cui complessivamente il centrodestra è chiaramente in rimonta. I due poli contrapposti si sono sfidati in 74 comuni e in 44 il centrosinistra ha superato il centrodestra, mentre quest’ultimo è riuscito ad imporsi sugli avversari in 30 comuni. Più bilanciate le sfide tra destra e centrosinistra: su 11 comuni a ballottaggio in cui si sono confrontati candidati di destra e candidati di centrosinistra, i candidati dell’area PD si sono imposti in 6 casi, mentre i restanti 5 sono stati vinti a destra. Nei 4 comuni dove invece a sfidarsi erano forze di sinistra alternative al PD e candidati del centrodestra, la sinistra ha chiaramente prevalso, con 3 comuni conquistati e 1 perso.

    Tab. 2 – Incrocio fra colore politico del candidato vincente e quello dello sconfitto nei ballottaggi122La stragrande maggioranza di comuni è stato vinto dai poli in vantaggio già al primo turno. Questo è quello che è successo in 98 casi su 122. Si tratta di un dato chiaramente interessante, che ancora una volta ci dice come gli schieramenti dei principali poli in competizione fossero ben solidi dietro il proprio candidato e come sia stato complicato mobilitare un elettorato più ampio di quello che rappresenta il bacino di voti naturale di ogni singolo schieramento – quello ideologicamente più affine.

    Sono 24 i ballottaggi dove c’è stata invece una rimonta (Tabella 3). Tra questi il più importante è certamente Campobasso, l’unico comune con un candidato pentastellato al ballottaggio, in cui il M5S ha confermato il proprio ottimo rendimento nei secondi turni recuperando oltre 10 punti di svantaggio al candidato del centrodestra e vincendo largamente – grazie anche a voti degli elettori del PD (vedi le analisi dei flussi a Campobasso). Più in generale, sui 24 comuni dove si è registrato un capovolgimento di fronte, 14 sono i comuni in cui il centrosinistra ha rimontato vincendo sul centrodestra, tutti a danno di candidati del centrodestra in testa dopo il primo; mentre sono solamente 5 quelli in cui il centrodestra, da secondo, è riuscito a vincere il ballottaggio (di cui 4 contro il centrosinistra).

    Tab. 3 – Incrocio fra colore politico del candidato in testa e quello del secondo classificato dopo il primo turno nei comuni vinti da chi inseguiva24reversedPare dunque chiaro che l’arretramento del centrodestra nei ballottaggi non sia stato un caso isolato relativo alla sola Campobasso. Ci si poteva attendere un effetto di trascinamento del successo leghista alle europee sui secondi turni delle comunali: il cosiddetto effetto bandwagon (Simon 1954), per cui gli elettori tendono a saltare sul carro del vincitore (annunciato). Fu così cinque anni fa per il centrosinistra dopo il risultato del PD alle europee. Ma stavolta l’effetto bandwagon non c’è stato. Anzi, la grande forza di Salvini e del suo partito sembra addirittura avere mobilitato contro, probabilmente spingendo (almeno in alcuni casi e per ragioni diverse) gli elettori pentastellati e democratici a fare fronte comune contro l’avanzata del Carroccio. In effetti, numerose analisi dei flussi confermano che di fronte alla scelta fra centrodestra e centrosinistra, in questi ballottaggi, gli elettori del M5S (specie quelli del 2019) non sono più refrattari ai candidati del centrosinistra, ma anzi tendono a preferirli (D’Alimonte e Emanuele 2019).

    Alcune considerazioni finali

    In un contesto di ristrutturazione del bipolarismo e di riequilibrio di poteri a livello locale, nella maggior parte delle amministrazioni al voto le giunte uscenti di centrodestra e centrosinistra sono state in grado di riconfermarsi. La continuità nel colore politico delle singole amministrazioni non pare tuttavia esclusivamente dovuta ad un effetto incumbent, cioè alla capacità dei sindaci uscenti, ricandidati in queste elezioni, di mobilitare un numero significativo di elettori. Al contrario, emerge con chiarezza un più generale ricompattamento degli elettorati dei due poli contrapposti, elettorati che paiono sempre più impermeabili a passaggi diretti da un polo all’altro. Almeno in alcune città, questa ristrutturazione dell’arena politica sembra essere passata anche dal consolidamento di un fronte di opposizione all’ascesa del centrodestra leghista. Il successo di Matteo Salvini alle europee non ha infatti generato un effetto traino sui secondi turni, tant’è vero che proprio nei ballottaggi le forze di centrodestra sono apparse più in difficoltà. Un risultato che, almeno in parte, può essere legato al fatto che in molti comuni elettori democratici e pentastellati abbiano votato allo stesso modo in chiave oppositiva rispetto all’avanzata leghista.

     

    Riferimenti bibliografici

    Angelucci, D. e Paparo, A. (2019), ‘Comunali: equilibrio, stabilità e il ritorno del bipolarismo’, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/06/13/comunali-equilibrio-stabilita-e-il-ritorno-del-bipolarismo/   

    CISE (2019), ‘Flussi Campobasso: gli elettori PD si riversano in massa sul candidato del M5S’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/06/10/flussi-campobasso-gli-elettori-pd-si-riversano-in-massa-sul-candidato-del-m5s/

    D’Alimonte, R. e Emanuele, V. (2019), ‘Nei comuni oltre 15mila abitanti, centrodestra +33, centrosinistra -39’, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/06/12/nei-comuni-oltre-15mila-abitanti-centrodestra-33-centrosinistra-39/

    Emanuele, V., e Marino, B. (2016), ‘Follow the candidates, Not the parties? Personal vote in a regional de-institutionalized party system’, Regional & Federal Studies, 26 (4), pp. 531-554.

    Paparo, A. (2017), ‘Alla ricerca della stabilità perduta: a livello locale domina la volatilità’, in A. Paparo (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017, Dossier CISE (9), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 205-212.

    Simon, H.A. (1954), ‘Bandwagon and underdog effects and the possibility of election predictions’, Public Opinion Quarterly18, pp. 245253.

  • Comunali: equilibrio, stabilità e il ritorno del bipolarismo

    Comunali: equilibrio, stabilità e il ritorno del bipolarismo

    Come già abbiamo osservato in un precedente contributo (D’Alimonte e Emanuele 2019), le ultime elezioni amministrative hanno mostrato un sostanziale riequilibrio nei rapporti di forza a livello locale: complessivamente il centrosinistra conquista 113 comuni, con una perdita netta di 39 rispetto alle amministrative precedenti. Il centrodestra ne vince 71, ma il numero di comuni vinti in questa tornata è decisamente superiore rispetto alla precedente (+33). Guardiamo ora nel dettaglio cosa è accaduto nelle diverse aree geografiche del paese (Tabella 1).

    Tab. 1 – Comuni superiori ai 15.000 vinti nelle comunali 2019 e in quelle precedenti per zona geopolitica[1]Tabella1Contrariamente a quanto osservato nelle elezioni europee del 26 maggio, dove il centrodestra ha più che raddoppiato i suoi voti nelle regioni del Sud (D’Alimonte 2019; De Sio 2019), il voto delle amministrative disegna una geografia elettorale del territorio diversa. Il successo del centrodestra è prevalentemente localizzato nelle regioni del Nord e della Zona Rossa, con il Sud dove invece le differenze tra i diversi schieramenti restano sostanzialmente stabili. Su 79 comuni superiori al voto al Nord, 43 sono stati vinti dal centrodestra o da liste di destra, mentre 29 sono in totale i comuni conquistati dal centrosinistra. Rispetto alle precedenti elezioni amministrative il centrosinistra perde ben 28 comuni, con una variazione del -49%. Il centrodestra passa invece da 16 comuni a 35, con un tasso di incremento del 118%. Sommati ai comuni vinti dalle forze di destra, il totale delle città vinte da forze di destra o centrodestra è 26, un incremento che eguaglia quasi perfettamente le perdite registrate nel campo rivale.

    Nella Zona Rossa, dove pure le forze del centrodestra sono in espansione, le perdite del centrosinistra appaiono più contenute. Rispetto alle precedenti amministrative, 13 sono i comuni persi (si passa infatti dai 76 comuni vinte nelle precedenti amministrative, a 63 comuni, con un tasso di riduzione del 17%). Cresce notevolmente invece il centrodestra: 18 è il totale di comuni conquistati, 12 in più rispetto alle precedenti amministrative. Anche in questo caso, aggiungendo un comune che è stato vinto dalla destra, il bilancio complessivo è quello di 13 comuni vinti, a fronte dei 13 persi dal centrosinistra. Perde invece il suo unico comune il Movimento 5 Stelle: dopo cinque anni di giunta Nogarin, Livorno torna in mano al centrosinistra.

    Se al Nord e nella Zona Rossa il successo del centrodestra è evidente, più sfumato è il successo nelle regioni del Sud. Sommando i comuni vinti dalla destra e dal centrodestra, il bilancio è positivo, ma non così netto come ci sarebbe potuti aspettare dopo i risultati delle Europee. Solo 4 sono i comuni conquistati, appena 2 in più rispetto a quelli vinti dal centrosinistra nella stessa area geografica. A perdere nelle regioni del Sud sono infatti le giunte centriste, oltreché il Movimento 5 Stelle. I pentastellati perdono infatti 2 comuni, tra cui Avellino -che viene conquistata da una coalizione civica, e vincono solamente a Campobasso contro il candidato di centrodestra.

    La dinamica, dunque, è quella di un tendenziale riequilibrio nei rapporti di forza tra centrodestra e centrosinistra, con il Movimento 5 Stelle chiaramente marginalizzato, almeno nei comuni superiori al voto in questa tornata: prima del 26 maggio, il centrosinistra amministrava in 152 città, il centrodestra solamente in 38 ed il M5S in 4. Oggi i rapporti di forza sono più equilibrati, con il centrosinistra che scende a quota 113 ed il centrodestra che sale invece a 71. Il M5S invece conferma solamente un comune.

    Uno sguardo d’insieme ai 25 comuni capoluogo al voto, conferma questa tendenza al riequilibrio (Tabella 2). Complessivamente il centrosinistra vince in 12 capoluoghi (13 se si include Avellino, dove il neoeletto sindaco, benché abbia corso contro il candidato ufficiale del PD e sostenuto solo da liste civiche, può essere ricondotto all’area di centrosinistra). Alla vigilia delle elezioni il PD controllava 17 capoluoghi. Cadono in mano al centrodestra città importanti come Ferrara (storica roccaforte rossa), Biella, Forlì e Pavia; ma arrivano anche importanti conferme: innanzitutto Firenze, confermata già al primo turno, sebbene con una campagna che ha tenuto i vertici nazionali del PD a distanza; e poi Bergamo, Cremona, Lecce, Modena, Pesaro, Regio Emilia, Prato e Verbania. Prima del 26 maggio il centrodestra controllava 6 capoluoghi soltanto, oggi ne amministra 5 in più, per un totale di 11 capoluoghi. Di questi, 4 sono stati vinti già al primo turno, mentre 7 sono quelli ottenuti dopo il turno di ballottaggio. Anche per il centrodestra importanti riconferme e perdite illustri: Rovigo passa al centrosinistra, ma, oltre ai successi già elencati, il centrodestra conferma Ascoli, Perugia, Potenza e Vibo Valentia.

    Tab. 2 – Comuni capoluogo: riepilogo della situazione di partenza e dei risultati (primo turno e ballottaggio), in corsivo le coalizioni vincentitabella-2

    Il bilancio complessivo di queste elezioni sembra quindi suggerire un ricompattamento di uno scenario bipolare, con il M5S non pervenuto (se non a Campobasso) ed il centrodestra che recupera posizioni rispetto al centrosinistra sia nei capoluoghi, sia nei centri più piccoli. Se il dato è in linea con l’avanzamento elettorale fatto registrare dal centrodestra (e in particolare dalla lega), il travaso di diverse amministrazioni dal campo della sinistra a quello del centrodestra va, almeno in parte, ricollegato ad una situazione di partenza completamente diversa. Il predominio del centrosinistra nella maggior parte dei comuni al voto è evidentemente l’eredità dell’epoca d’oro del renzismo, quando, con il centrodestra in sofferenza e la leadership berlusconiana in declino, il Partito Democratico fu in grado di ottenere il 40,8% alle elezioni europee del 2014. Oggi lo scenario è totalmente rovesciato: il centrosinistra, sotto la guida del nuovo segretario Zingaretti, sta lentamente ricostruendo il ‘campo progressista’, mentre la Lega ha consolidato la propria posizione come forza trainante del centrodestra capace di conquistare voti tanto al Nord, quanto in quelle regioni del Sud un tempo impenetrabili.

    Il dato appare chiaro se si incrociano i dati relativi agli uscenti (chi ha vinto nelle precedenti amministrative) ed i vincitori di questa tornata (Tabella 3). Il messaggio più importante da sottolineare e che emerge dai dati, è quello di una stabilità complessiva del colore delle amministrazioni molto elevata: la stabilità totale è infatti del 57%, significativamente maggiore rispetto a quella registrata in un contesto di tripolarismo (vedi ad esempio Paparo 2017). I diversi poli hanno mostrato una certa capacità di mantenere il controllo di quei comuni in cui avevano amministrato nella precedente consiliatura. Su 152 comuni amministrati, il centrosinistra ne conserva 95 (il 62,5%) e ne strappa al centrodestra soltanto 9. Per quanto riguarda il centrodestra, sui 38 comuni amministrati ne vengono conservati 22, vale a dire il 57,9%. Contrariamente a quanto osservato per il centrosinistra, l’espansione del centrodestra è chiaramente dilagante in quei comuni amministrati da giunte di centrosinistra. Sono 43 i comuni precedentemente amministrati dal centrosinistra che cambiano colore in questa tornata elettorale.  D’altra parte, la situazione di partenza rappresentava essa stessa uno sbilanciamento per certi versi eccezionale a favore del centrosinistra, per cui un riequilibrio a seguito delle nuove dinamiche in atto nella politica italiana sembra in qualche modo fisiologico.

    Tab. 3 – Incrocio fra coalizione vincente 2019 e coalizione uscentevincente_uscente_2019La stagione elettorale si chiude quindi con un timido ritorno del bipolarismo. Dopo il successo del centrosinistra a guida Renzi, che aveva assicurato al PD l’amministrazione nella maggior parte dei comuni al voto gli scorsi giorni, assistiamo ad un ridimensionamento del centrosinistra e, come in un sistema di vasi comunicanti, ad un ritorno del centrodestra. Il dato interessante è che queste dinamiche sono avvenute in un contesto di elevata stabilità e continuità tra amministrazioni dello stesso colore. In altre parole, i poli uscenti nei comuni al voto nella maggior parte dei casi sono stati riconfermati, un indicatore di quanto sia difficile per entrambi i campi politici mobilitare elettori del campo opposto. Il ‘travaso’ di comuni a vantaggio del centrodestra, invece, appare fisiologico, legato in parte ad una situazione di partenza, in cui il centrosinistra aveva ottenuto vittorie in numero eccezionalmente elevato di comuni, in parte dall’ascesa della Lega, che traina il centrodestra sia al Nord che al Sud.

     

    Riferimenti bibliografici

    D’Alimonte, R. e Emanuele, V. (2019), ‘Nei comuni oltre 15mila abitanti, centrodestra +33, centrosinistra -39’, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/06/12/nei-comuni-oltre-15mila-abitanti-centrodestra-33-centrosinistra-39/

    D’Alimonte, R. (2019), ‘Lega-M5S: Sud chiave del ribaltone’, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/05/29/lega-m5s-sud-chiave-del-ribaltone/

    De Sio, L. (2019), ‘La nazionalizzazione della Lega di Salvini’, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/05/27/la-nazionalizzazione-della-lega-di-salvini/

    Paparo, A. (2017), ‘Alla ricerca della stabilità perduta: a livello locale domina la volatilità’, in A. Paparo (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017, Dossier CISE (9), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 205-212.


    [1] I comuni superiori ai 15.000 abitanti al voto in queste elezioni amministrative al Sud erano 57. Corigliano-Rossano è escluso dal conteggio delle precedenti comunali in quanto queste sono le prime elezioni del nuovo comune nato dalla fusione di Corigliano e Rossano che nelle precedenti comunali avevano eletto due sindaci di diverso colore politico. Lo stesso abbiamo fatto per le successive analisi che guardano all’insieme dei comuni superiori al voto.

  • L’Europa al voto, ma con quali regole?

    L’Europa al voto, ma con quali regole?

    Dal 23 al 26 maggio i cittadini dei 28 paesi membri dell’Unione Europea saranno chiamati al voto per rinnovare il Parlamento Europeo dopo cinque anni dall’ultima consultazione elettorale. Ad aprire le danze saranno i Paesi Bassi ed il Regno Unito, dove le votazioni si svolgeranno giovedì 23; seguirà l’Irlanda il 24, Lettonia, Malta e Slovacchia il 25 (con l’aggiunta della Repubblica Ceca, dove la tornata elettorale è spalmata su due giorni, il 24 ed il 25), per chiudere infine con i restanti 21 paesi (tra cui, ovviamente, l’Italia) dove le elezioni si terranno domenica 26 maggio. Si tratterà di un voto cruciale per l’Unione Europea, aspramente criticata da quei partiti challengers –fortemente in ascesa- che puntano ad una sostanziale revisione dell’intera architettura istituzionale dell’Unione. Se e come questo avverrà sarà il voto di poco più di 400 milioni di elettori a stabilirlo e sarà certamente un tema di discussione all’indomani delle elezioni. Per ora le nostre analisi possono limitarsi a disegnare i possibili scenari futuri del dopo voto e a fornire alcune indicazioni generali sui temi che molto probabilmente orienteranno le scelte di voto dei cittadini. Questo è quello che il Centro Italiano di Studi Elettorali ha fatto nei giorni scorsi, pubblicando le proprie analisi sulle intenzioni di voto alle Europee dei cittadini italiani (De Sio e Angelucci, 2019), tracciando una mappa dei temi principali potenzialmente in grado di orientare il voto (Maggini 2019) e valutando le strategie dei principali partiti in competizione (De Sio 2019).

    Tuttavia, c’è ancora un tema che riteniamo utile discutere mentre ci avviciniamo rapidamente alla data del voto, vale a dire le modalità attraverso cui si svolgeranno le prossime elezioni sia in Italia, sia negli altri Stati membri. Si tratta in effetti di un processo complesso e non del tutto omogeneo tra i 28 Stati dell’Unione, i quali, pur all’interno di un quadro normativo comune stabilito a livello europeo, mantengono un certo margine di discrezionalità nel definire la legislazione che regola il processo di selezione dei rappresentanti nazionali nel Parlamento Europeo.

    Partiamo innanzitutto dai numeri. Come nelle passate elezioni del 2014, anche quest’anno gli elettori Europei eleggeranno 751 rappresentanti a Bruxelles. Si tratta tuttavia di un numero provvisorio, che include i candidati che verranno eletti nel Regno Unito, dove il voto si svolgerà regolarmente, non essendo ancora concluso il faticoso processo di uscita dall’Unione Europea (la Brexit). Non appena il negoziato per la Brexit sarà concluso e l’uscita del Regno Unito dall’Unione diverrà effettiva, il numero di seggi all’interno del Parlamento Europeo scenderà ad un totale di 705. Inoltre, una volta che il Regno Unito sarà definitivamente uscito dall’UE, alcuni (ma non tutti) i seggi ottenuti da deputati britannici saranno ridistribuiti tra gli altri Stati membri.[1]

    La Brexit avrà quindi un effetto significativo non solo sulla composizione complessiva dell’Europarlamento, ma anche sulla distribuzione dei seggi tra i 27 Stati membri rimanenti. Questi sono ripartiti sulla base di un criterio proporzionale digressivo rispetto alla popolazione dei singoli paesi: fermo restando il principio per cui Stati relativamente più popolosi eleggono un numero maggiore di Europarlamentari, il sistema garantisce che proprio tra questi stati ogni deputato rappresenterà un numero maggiore di elettori, consentendo quindi agli stati più piccoli di non essere eccessivamente penalizzati in termini di rappresentanza. Germania, Francia, Italia e Regno Unito sono i paesi europei cui spetta un maggior numero di seggi all’interno del PE (rispettivamente 96, 74 e 73 seggi per Italia e Regno Unito), mentre Cipro, Estonia, Lussemburgo e Malta sono gli stati con un numero di seggi relativamente più basso (i quattro Stati eleggeranno infatti soltanto 6 membri). In pratica, i tedeschi eleggono un rappresentano nell’Europarlamento ogni 850.000 abitanti; i maltesi uno ogni 75.000 abitanti.

    Per effetto della Brexit, questa ripartizione subirà cambiamenti rilevanti, a beneficio in particolare di Francia e Spagna, cui spetterà un numero aggiuntivo di 5 seggi, e di Paesi Passi e Italia, cui spetteranno 3 seggi aggiuntivi.

    Come già accennato, al di là delle differenze a livello nazionale -che verranno trattate più avanti-, la legge europea fornisce una cornice normativa generale a cui tutti gli stati devono uniformarsi. In modo particolare, i deputati devono essere eletti in tutti i paesi membri con un sistema di rappresentanza proporzionale, utilizzando il voto di lista ai partiti o il sistema di voto singolo trasferibile (single transferable vote, STV). Gli Stati membri possono decidere invece l’adozione di una soglia di sbarramento su base nazionale, purché non superiore al 5%. Gli Stati membri possono inoltre decidere se e come suddividere, ai fini dell’assegnazione dei seggi, il territorio nazionale in diverse circoscrizioni elettorali – sebbene ciò non può in generale incidere sulla natura proporzionale del sistema di voto.

    Oltre al numero delle circoscrizioni elettorali e all’adozione di una soglia di sbarramento, gli Stati membri possono decidere l’età degli elettori e dei candidati ammissibili, la formula elettorale (vale a dire il meccanismo vero e proprio che trasforma i voti in seggi), il metodo di selezione dei singoli deputati e l’eventuale presenza di sanzioni per gli elettori che decidono di astenersi, nel caso in cui ovviamente sia previsto il voto obbligatorio (vedi anche Emanuele, 2014 e Chiaramonte, De Sio e Emanuele, 2017 sulle specificità dei singoli sistemi).

    La Tabella 1 offre una panoramica completa delle principali caratteristiche del sistema elettorale per il PE nei 28 Stati membri. Il quadro generale che emerge è quello di un sistema proporzionale declinato in 28 diverse varianti nazionali. L’età minima per diventare elettori idonei è 18 in tutti i paesi ad eccezione di Austria e Grecia, dove l’età per votare è rispettivamente di 16 e 17 anni. Se vi è una sostanziale omogeneità per quanto riguarda i criteri di ammissione nell’elettorato attivo, una considerevole variabilità può essere osservata circa l’elettorato passivo. L’Italia, insieme alla Grecia, è il paese con la regola più restrittiva: 25 anni. Tutti gli altri paesi hanno fissato invece un’età inferiore per accedere all’elettorato passivo, consentendo ai cittadini la possibilità di candidarsi alle elezioni all’età di 23 anni (Romania), 21 (Belgio, Irlanda e la maggior parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale), o addirittura 18 (15 paesi, tra cui vi sono Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna e Svezia). Inoltre, in cinque paesi (vale a dire Belgio, Bulgaria, Cipro, Grecia e Lussemburgo) il voto è obbligatorio, sebbene non sia applicata alcuna sanzione formale, eccezion fatta per il Lussemburgo, dove gli astenuti possono ricevere una sanzione pecuniaria che varia dai 100 ai 1.000 euro.

    Tab. 1 – Caratteristiche dei sistemi elettorali per l’elezione del Parlamento Europeo nei 28 Stati membri dell’Unione Europea (clicca per ingrandire)

    EP

    Oltre ai diversi criteri di ammissibilità per elettori e candidati e alle norme sul voto obbligatorio, le differenze più interessanti dei sistemi di voto riguardano le caratteristiche del sistema elettorale, ovvero il numero di seggi disponibili, il numero di circoscrizioni elettorali, la formula elettorale e la presenza di eventuali soglie di sbarramento per l’accesso alla rappresentanza. Questi elementi infatti hanno un impatto notevole sulle strategie competitive degli attori politici, nonché sul comportamento stesso degli elettori (i cosiddetti “effetti psicologici”), oltre ad avere una chiara influenza sul meccanismo di trasformazione dei voti espressi dall’elettorato in seggi (i cosiddetti “effetti meccanici” del sistema).[2]

    Nella stragrande maggioranza degli Stati membri dell’UE i rappresentanti sono eletti all’interno di un’unica circoscrizione nazionale. Le eccezioni sono rappresentate da alcuni grandi paesi come il Regno Unito e la Polonia, e da due paesi piccoli ma culturalmente eterogenei come il Belgio e l’Irlanda, dove i seggi vengono assegnati all’interno di varie circoscrizioni elettorali al fine di garantire la rappresentanza delle differenze locali. L’Italia è suddivisa in cinque circoscrizioni, ma tale suddivisione ha valore solo per la selezione dei deputati, mentre l’assegnazione dei seggi è calcolata esclusivamente sulla base dei risultati raccolti dalle diverse liste livello nazionale. In altre parole, il territorio nazionale costituisce di fatto un unico collegio, suddiviso in cinque circoscrizioni a cui è assegnato un certo numero di seggi. All’indomani delle elezioni, i seggi verranno dapprima ripartiti nell’unico collegio nazionale con metodo proporzionale, al fine di stabilire i il numero di seggi spettanti a ciascuna lista. In seconda battuta, i seggi verranno ripartiti nelle cinque circoscrizioni, rispettando sia i seggi totali attribuiti a ciascuna circoscrizione, che i seggi totali spettanti a ciascuna lista (sulla base della distribuzione nazionale) – con un meccanismo familiare per chi ricorda il Porcellum.

    La tabella riporta inoltre la grandezza media delle circoscrizioni (Magnitudo, M) in ciascun paese. Questo valore è calcolato come rapporto tra il numero totale di seggi disponibili ed il numero di circoscrizioni elettorali (qui inteso come unità territoriali in cui si svolge l’assegnazione dei seggi). Il dato che appare chiaro ancora una volta è un grado piuttosto elevato di variabilità del valore M: la grandezza media delle circoscrizioni varia infatti tra 3,7, registrato in Irlanda (dove 11 seggi sono assegnati in tre circoscrizioni elettorali), e 96 in Germania. Con 73 deputati eletti in un collegio nazionale unico, l’Italia è il paese con la terza M più alta in Europa – dopo anche la Francia, che da quest’anno attribuisce i seggi anch’essa in una unica circoscrizione nazionale.

    Un’ulteriore rilevante differenza può essere rilevata nelle formule elettorali. Il più diffuso meccanismo di trasformazione dei voti in seggi è il metodo delle medie più alte, utilizzato in 20 paesi su 28. In particolare, il metodo D’Hondt è utilizzato in ben 16 paesi su 28, mentre la variante più proporzionale del metodo Sainte-Laguë è adottata in tre ulteriori paesi (Germania, Lettonia e Svezia).

    Per quanto riguarda l’Italia, il nostro paese appartiene alla piccola minoranza di Stati membri che adotta invece una formula a quoziente. In dettaglio, il meno disproporzionale di tutti: il metodo Hare (quozienti naturali) e dei più alti resti. Oltre all’Italia, il classico metodo Hare è adottato in Bulgaria, Cipro, Lituania e Paesi Bassi mentre sue varianti più distorsive di Hagenbach-Bischoff e Droop sono adottate in Slovacchia e Grecia.

    Infine, l’Irlanda e Malta adottano il voto singolo trasferibile.

    Per quanto riguarda invece le soglie di sbarramento, vale la pena notare come poco più che la metà degli Stati membri (15 su 28) abbia introdotto una soglia elettorale per le elezioni europee, generalmente fissata al 5% (in 10 casi in tutto) o al 4% (in 3 casi, vale a dire Austria, Italia e Svezia). Una soglia del 3% è invece fissata in Grecia, mentre uno sbarramento all’1,8% è previsto a Cipro. Occorre tuttavia precisare come l’impatto effettivo delle soglie legali di sbarramento sia limitato a pochi, medio-grandi paesi che distribuiscono i propri seggi nazionalmente: Italia e Francia, ma anche Romania, Ungheria e Repubblica Ceca. In tutti gli altri paesi, in realtà, la soglia implicita è più alta, a volte anche in maniera rilevante – come ad esempio in Belgio e, ancor di più, in Polonia.[3]

    In merito, infine, alla selezione dei candidati, circa due terzi (19 su 28) dei paesi hanno introdotto un voto di preferenza nel loro sistema, pur seguendo diverse procedure specifiche (ad esempio, lista aperta in Italia, lista flessibile in Austria, o addirittura il panachage, o voto disgiunto, in Lussemburgo), mentre sette paesi votano con le liste bloccate, in cui l’ordine dei candidati eletti è quello deciso dai funzionari del partito al momento della compilazione delle liste. Come accennato, in Italia è previsto il voto di preferenza, per cui l’elettore potrà esprimere fino a un massimo di tre preferenze, purché, se se ne usa più di una, candidati di entrambi i sessi siano indicati con le preferenze, pena annullamento della seconda e della terza preferenza.

    In conclusione, i 28 paesi dell’Unione Europea andranno al voto con sistemi elettorali che, benché strutturati su principi comuni generali, sono variamente differenziati. Si tratta di differenze non irrilevanti, che incidono in maniera significativa tanto sul meccanismo di traduzione dei voti in seggi (con sistemi che, a seconda della formula elettorale e del numero di circoscrizioni, possono essere più o meno disproporzionali), quanto sulle scelte di voto dei singoli elettori. Questa variabilità si innesta in un quadro di più generale incertezza che coinvolge sia la futura composizione del Parlamento Europeo (e, dunque, la sua connotazione politica), sia la sua futura organizzazione nel post-Brexit (considerando che seggi e allocazione dei seggi subiranno importanti modifiche). Gli effetti di almeno alcune di queste variabili saranno presto visibili, già a partire dalle 23 di domenica 26 maggio, quando le operazioni di voto saranno concluse in tutti i 28 e lo spoglio avrà inizio contemporaneamente in tutti i paesi dell’Unione.

    Riferimenti bibliografici

    Chiaramonte, Alessandro, De Sio, Lorenzo e Emanuele, Vincenzo (2017), ‘The Evolution of Italian Representation in the European Parliament: Electoral Laws, Systemic Effects and MPs’ Characteristics’, in The Italian Parliament in the European Union, Month 1, p. 67-84. London: Hart Publishing.

    De Sio, Lorenzo (2019), ‘Salvini, perché? Il possibile passo falso del “Capitano”, e un illustre precedente’, Centro Italiano Studi elettorali, disponibile presso: https://cise.luiss.it/cise/2019/05/13/salvini-perche-il-possibile-passo-falso-del-capitano-e-un-illustre-precedente/

    De Sio, Lorenzo, e Davide Angelucci (2019), ‘Sondaggio CISE: Lega primo partito, ma appena intorno al 30% – e il “sorpasso” PD si allontana’, Centro Italiano Studi elettorali, disponibile presso: https://cise.luiss.it/cise/2019/05/09/sondaggio-cise-lega-primo-partito-ma-appena-intorno-al-30-e-il-sorpasso-pd-si-allontana/

    Duverger, Maurice (1954), Political Parties: Their Organization and Activity in the Modern State, New York, Wiley.

    Emanuele, Vincenzo (2014) ‘Proporzionale a geometria variabile. Ecco come si vota nei 28 paesi membri’, in De Sio, L., Emanuele, V., e Maggini, N. (a cura di), Le Elezioni Europee 2014, Dossier CISE(6), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 37-42.

    Golder, Matt (2005), ‘Democratic electoral systems around the world, 1946–2000’, Electoral Studies, Vol. 24, No. 1, pp. 103–121.

    Maggini, Nicola (2019), ‘Chi è credibile per realizzare gli obiettivi condivisi dagli italiani? La Lega primeggia, il M5S sull’eguaglianza economica, il PD sull’Europa’, Centro Italiano Studi elettorali, disponibile presso: https://cise.luiss.it/cise/2019/05/10/la-credibilita-dei-partiti-sui-temi-piu-condivisi-dagli-italiani-nel-super-sondaggio-cise-la-lega-primeggia-staccando-il-m5s-e-il-pd/

    Taagepera, Rein (1998), ‘Effective Magnitude and Effective Threshold’, Electoral Studies, Vol. 17, No.4, pp. 393-404.

    Tarli Barbieri, G. (2019), ‘Requiem per una defunta… C’era una volta la riserva di legge in materia elettorale’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile presso: https://cise.luiss.it/cise/2019/05/25/requiem-per-una-defunta-cera-una-volta-la-riserva-di-legge-in-materia-elettorale/


    [1] In tutto, saranno 27 i seggi britannici a venire ridistribuiti fra gli altri Stati membri, mentre 46 non saranno riassegnati. Questo spiega la riduzione dei membri del PE di 46 unità, da 751 a 705. Tra l’altro, questo ha aperto la questione relativa alle modalità di elezione dei parlamentari europei aggiuntivi nei 14 Stati membri che si dividono questi 27 seggi. In Italia la questione è stata recentemente regolata dalla Corte di Cassazione: evento quantomeno inconsueto trattandosi, appunto, di materia elettorale (Tarli Barbieri 2019).

    [2] Sui concetti di effetti meccanici e psicologici, si veda Duverger (1954). Circa gli effetti delle diverse formule elettorali, anche all’interno della famiglia dei sistemi proporzionali, si veda Golder (2005).

    [3] Utilizziamo qui la formula di soglia effettiva proposta da Taagepera (1998): SogliaEff = 0,75/(M+1).

  • Più che la crisi migratoria, valori profondi. Da dove viene l’ostilità verso gli immigrati?

    Più che la crisi migratoria, valori profondi. Da dove viene l’ostilità verso gli immigrati?

    Le analisi condotte dal CISE hanno ampiamente dimostrato il peso dell’immigrazione sulle scelte di voto degli Italiani, nonché l’importanza che tale tema ha avuto (e continua ad avere) per il successo elettorale dei partiti di governo, in special modo della Lega (De Sio e Paparo 2018). Quest’ultima, nello specifico, adottando una linea dura sulla gestione dei flussi migratori e rivendicando apertamente la politica dei porti chiusi, è stata in grado di mobilitare l’elettorato italiano. Elettorato peraltro già ampiamente critico nei confronti del fenomeno: basti pensare che secondo alcuni recenti dati CISE, circa l’80% degli intervistati ritiene che il numero di migranti in Italia sia troppo alto, laddove solo il 20% ritiene che l’Italia possa accogliere un numero maggiore di migranti (vedi anche De Sio 2018).  

    Già, ma cosa c’è alla base degli atteggiamenti degli italiani nei confronti dell’immigrazione? In generale, vogliamo prendere in considerazione due possibili narrazioni e dimensioni esplicative: da una parte ci chiediamo se gli italiani esprimano posizioni critiche nei confronti dell’immigrazione a causa di una maggiore presenza (reale o percepita) di migranti sul territorio e della minaccia economica e di sicurezza (reale o percepita) che essi rappresentano; dall’altra, invece, ci chiediamo se tali atteggiamenti siano il frutto di fattori culturali latenti, che trovano la loro radice in predisposizioni valoriali pregresse, più profonde, e non certo nate negli ultimi mesi. La risposta a questo interrogativo non è banale. Una cosa infatti è scoprire che la capacità di mobilitazione della Lega di Salvini ha fatto leva su una nuova inquietudine dovuta alla crisi migratoria; altra cosa sarebbe scoprire che in realtà ha riportato alla luce degli atteggiamenti profondi che erano stati in passato anche alla base del consenso al centrodestra guidato da Berlusconi. Insomma, gli italiani, aizzati da Salvini, sono improvvisamente diventati tutti intolleranti (come si legge di frequente sui media), oppure – sostanzialmente – una parte di loro è sempre stata ostile all’immigrazione? In questo senso verrebbe da ricordare che la legge Bossi-Fini fu introdotta dall’intero centrodestra guidato da Berlusconi; e fu sempre nel seno di quella coalizione che Roberto Calderoli (all’epoca vicepresidente del Senato) paragonò la ministra Kyenge a un orango. Di conseguenza l’atteggiamento di chiusura espresso da Salvini in realtà è forse più in continuità con l’identità della coalizione di centrodestra di quanto appaia oggi nei commenti. Tuttavia vale la pena di esplorare il quesito basandosi su dati di opinione pubblica. Quanto delle posizioni critiche nei confronti dell’immigrazione è frutto di predisposizioni individuali radicate all’interno di una parte importante del corpo sociale? 

    Possibili fattori esplicativi 

    Diverse sono le argomentazioni che vengono utilizzate per spiegare atteggiamenti più o meno ostili nei confronti dell’immigrazione. Una prima argomentazione individua in fattori di disagio economico e deprivazione oggettiva la causa di atteggiamenti ostili nei confronti dell’immigrazione. L’ostilità nei confronti dei migranti e, più in generale, atteggiamenti di intolleranza politica, andrebbero dunque rintracciati nella paura diffusa (soprattutto tra le classi sociali più basse ed economicamente più vulnerabili) che un afflusso eccessivo di immigrati possa scalfire il benessere economico dei cittadini ‘autoctoni’, sottraendo lavoro e risorse (Scheve e Slaughter 2001). Sulla base di questo approccio, l’aspettativa è che le oggettive condizioni socioeconomiche dei ‘nativi’ possano incidere in modo significativo sul modo in cui vengono strutturati gli atteggiamenti nei confronti dell’immigrazione. 

    Una prospettiva diversa è fornita invece dalle teorie di prossimità e vicinanza. Secondo questo approccio, gli atteggiamenti nei confronti del fenomeno migratorio non sarebbero il frutto esclusivo di fattori sociali ed economici, ma piuttosto dell’esperienza diretta del fenomeno migratorio nella vita quotidiana, nonché della relativa percezione di insicurezza (personale e non economica) derivante dalla condivisione di spazi fisici e sociali (vedi Stouffer 1955, ad esempio, per quanto riguarda la relazione tra percezione della minaccia ed intolleranza politica). Da questo punto di vista, la prossimità e la visibilità dei migranti nei luoghi della vita quotidiana -come ad esempio nelle strade, sul posto di lavoro, nei mezzi pubblici, etc.- sarebbero alla base di atteggiamenti tendenzialmente più diffidenti ed ostili nei confronti dell’immigrazione (Fetzer 2000; vedi anche Hainmueller e Hopkins 2014, 236-237). Da una prospettiva opposta, alcuni studi mostrano tuttavia come la condivisione di spazi ed esperienze quotidiane crei in realtà i presupposti per una maggiore tolleranza, favorendo lo scambio di idee, la conoscenza reciproca ed un’apertura alla diversità (Fetzer 2000; McLaren 2003). Questo quadro ci porta a formulare due ipotesi rivali: da una parte, è lecito aspettarsi che una maggiore visibilità del fenomeno migratorio nella vita quotidiana delle persone possa generare una reazione ostile verso l’immigrazione. Dall’altra, è possibile ipotizzare che la presenza di immigrati favorisca in realtà la comunicazione e la reciproca comprensione, stimolando quindi l’apertura verso il diverso, verso ciò che non si conosce. 

    Gli argomenti che abbiamo brevemente descritto imputano gli atteggiamenti nei confronti dell’immigrazione a condizioni tendenzialmente oggettive (è il caso dello status socioeconomico o della prossimità) oppure a percezioni individuali derivanti in qualche misura da tali condizioni (è il caso delle percezioni di insicurezza personale che associano l’immigrazione a criminalità). Una terza argomentazione guarda invece all’effetto esercitato da una certa predisposizione valoriale. Sulla base di questa prospettiva, gli atteggiamenti verso l’immigrazione non sarebbero tanto (o soltanto) veicolati da condizioni oggettive di deprivazione economica e prossimità o da percezioni soggettive di insicurezza, quanto piuttosto da quell’insieme di principi generali ed esistenziali (i valori, appunto) che guidano le opinioni ed il comportamento sociale delle persone. 

    I valori possono essere definiti come principi astratti che regolano l’agire individuale. Essi sono anche considerati come elementi costitutivi delle ideologie politiche, gli elementi di base che fondano una struttura coerente di convinzioni che riguardano non solo il mondo sociale così come esso è ma anche come dovrebbe essere (Catellani e Milesi 2010). Da questo punto di vista, i valori non sono semplicemente guida dell’agire individuale (cosa è bene o più giusto fare per l’individuo) ma regolano anche l’atteggiamento degli individui nei confronti di determinate politiche o di specifiche issues (cosa sarebbe giusto che la politica facesse in relazione a determinate problematiche) (Catellani e Milesi 2010: 221). È assumendo questa prospettiva che l’interrogativo relativo al modo in cui i valori si collegano agli atteggiamenti verso l’immigrazione diventa chiaramente rilevante.  

    Già, ma come identificare i possibili valori? Il tentativo probabilmente più sistematico di identificare i valori principali che guidano l’agire umano è da attribuire allo psicologo Shalom Schwartz (1992, 1994, 2006). In una serie di studi condotti in più di 60 paesi, Schwartz ha identificato un elenco di dieci valori fondamentali che le persone riconoscono come principi guida del loro agire sociale e che individuano altrettanti obiettivi esistenziali: Universalismo (Comprensione e tolleranza); Benevolenza (Miglioramento del benessere delle persone vicine); Tradizionalismo (Rispetto della tradizione e della sua eredità); Conformismo (Rispetto delle regole, dell’ordine costituito e delle principali norme sociali); Sicurezza (Ordine sociale e sicurezza personale); Successo (Successo personale e riconoscimento sociale); Edonismo (Ricerca del piacere sensoriale); Autodirezione (Autonomia e controllo del proprio destino); Stimolazione (Ricerca di una vita in continua evoluzione e ricca di stimoli); Potere (Status economico e sociale elevato che dia accesso alle risorse necessarie per ottenere una posizione dominante rispetto agli altri). Sono questi i dieci valori che prenderemo in considerazione nella nostra analisi. 

    Gli Italiani e l’immigrazione 

    Al fine di valutare se ed in che misura le posizioni sull’immigrazione siano il frutto di variabili sociodemografiche, di oggettive condizioni di vicinanza oppure di predisposizioni valoriali pregresse, abbiamo utilizzato i dati raccolti in una recente indagine di opinione condotta dal CISE (Dicembre 2018) su un campione rappresentativo della popolazione elettorale italiana (N=1.113). La variabile di interesse è l’atteggiamento verso i flussi migratori, una variabile che ci consente di distinguere coloro che ritengono che l’Italia riceva troppi migranti da coloro che invece ritengono che l’Italia potrebbe accogliere più migranti. 

    Per valutare la consistenza di ciascuna argomentazione teorica discussa in precedenza, abbiamo costruito tre modelli analitici e per ciascun modello abbiamo fatto affidamento su un’analisi di regressione lineare (Tabella 1). Il primo modello (Modello 1) include una batteria di variabili che tengono sotto controllo le caratteristiche sociodemografiche dei rispondenti e che servirà come benchmark su cui valutare gli effetti delle variabili di maggior interesse per questo studio. Il secondo modello (Modello 2) aggiunge alle caratteristiche sociodemografiche dei rispondenti, alcune misure di prossimità con i migranti. Si tratta in particolare di variabili che misurano la presenza di colleghi stranieri nel posto di lavoro e la presenza di stranieri nelle strade in prossimità del luogo di residenza del rispondente. Un ulteriore indicatore individua quei rispondenti che segnalano episodi di criminalità di cui essi stessi o loro conoscenti siano stati vittime. Infine, il modello include il livello di insicurezza percepita dai rispondenti. Il terzo modello (Modello 3) aggiunge ai modelli precedenti la batteria formata dai dieci valori di Schwartz che sono stati precedentemente discussi.  

    Tab. 1 – OLS Regression analysis. Variabile Dipendente: Atteggiamenti verso l’immigrazione[1]effetti Partendo dal primo modello, troviamo effetti statisticamente significativi per l’età ed il livello di istruzione. Rispetto alle persone di età compresa tra i 45/54 anni -la nostra categoria di riferimento-, i 18/35enni e gli ultra sessantacinquenni mostrano orientamenti sostanzialmente più favorevoli rispetto all’immigrazione. Allo stesso modo, i rispondenti con un livello di istruzione più elevato appaiono relativamente più aperti agli immigrati. In parte significativo è anche l’effetto della classe sociale. Nello specifico, nelle classi più basse gli atteggiamenti verso l’immigrazione sono più negativi se paragonati con gli strati sociali più alti -la nostra categoria di riferimento. Da questo punto di vista, i dati sembrano confermare, almeno in parte, quanto ipotizzato in letteratura e discusso nelle sezioni precedenti. 

    Aggiungendo l’insieme delle misure di prossimità e percezione della minaccia, la capacità esplicativa complessiva del modello migliora sensibilmente. L’R2 passa infatti dallo 0,05 relativo al Modello 1, allo 0,11 nel Modello 2, con una varianza spiegata dell’11%. In linea generale, il Modello 2 conferma quanto già visto in precedenza. Svanisce tuttavia l’effetto della classe sociale (già di per sé modesto nel Modello 1). Per quanto riguarda invece le misure di prossimità e percezione, i rispondenti che lavorano e collaborano con colleghi stranieri appaiono relativamente più aperti nei confronti degli immigrati. Questo risultato sembra dunque confermare quelle argomentazioni teoriche secondo cui un contatto diretto e collaborativo, come può essere quello che si svolge all’interno di un ambiente di lavoro, possano favorire un livello di empatia e tolleranza maggiore, favorendo quindi atteggiamenti generalmente più positivi nei confronti dei migranti. Notiamo invece che una maggiore percezione di insicurezza personale determina orientamenti più negativi rispetto alla possibilità di accogliere i migranti. 

    I valori (Modello 3) aggiungono una componente esplicativa ulteriore. Le predisposizioni valoriali, sebbene non cancellino del tutto l’effetto dell’istruzione, della percezione della minaccia e della presenza di stranieri nel posto di lavoro, fanno crescere l’R2 dallo 0,11 (registrato nel Modello 2) allo 0,25 con una varianza spiegata pari al 25%. Ciascuna delle tre componenti (socioeconomica, di prossimità e valoriale) restituisce quindi una particolare dimensione degli atteggiamenti verso l’immigrazione e contribuisce alla spiegazione complessiva del fenomeno. Tuttavia, il peso di ciascuna di queste tre componenti esplicative è radicalmente diverso. Il Modello 2 aggiungeva una varianza spiegata di 6 punti percentuali rispetto al Modello 1; la capacità esplicativa del Modello 3, invece, aumenta di ben 14 punti percentuali rispetto al Modello 2.  In altre parole, rispetto alle condizioni oggettive di prossimità e rispetto alle percezioni di minaccia individuali dei rispondenti, le predisposizioni valoriali che guidano gli individui pesano più del doppio nel determinare gli atteggiamenti dei rispondenti verso l’immigrazione. 

    La nostra analisi suggerisce in particolare che i valori della sicurezza e del tradizionalismo incidono in modo particolarmente negativo sull’apertura ai migranti; al contrario, benevolenza ed universalismo giocano a favore di atteggiamenti relativamente più aperti. A margine, troviamo anche un effetto negativo sull’apertura ai migranti del valore dell’autodirezione. Se gli effetti relativi al tradizionalismo, alla sicurezza, alla benevolenza ed all’universalismo non stupiscono e sono sostanzialmente in linea con quanto già osservato in passato da altri studi (Catellani e Milesi 2010), appare invece controintuitivo l’effetto negativo dell’autodirezione, rispetto al quale studi precedenti mostrano un effetto contrario (Catellani e Milesi 2010). È molto probabile, tuttavia, che questo controverso risultato sia da attribuire alla distribuzione particolarmente sbilanciata della variabile che misura l’autodirezione. In effetti, circa il 95% del nostro campione identifica l’autonomia, l’originalità e la creatività come principi esistenziali particolarmente importanti nella loro vita. 

    Conclusioni 

    Il risultato delle nostre analisi mostra che le tre argomentazioni prese qui in considerazione, benché tutte in qualche misura rilevanti, contribuiscono in modo diverso a spiegare gli atteggiamenti nei confronti dell’immigrazione. Questi ultimi appaiono il risultato non tanto e non solo di condizioni di deprivazione economica oggettiva e di fattori sociodemografici; né tanto meno il frutto esclusivo di condizioni oggettive di prossimità agli immigrati o di percezione soggettiva di minaccia e insicurezza. Sono infatti le predisposizioni valoriali a fare la parte del leone e a spiegare la parte più rilevante delle differenze negli atteggiamenti sull’immigrazione.  

    Le difficoltà sperimentate in un mercato del lavoro precario, il timore di vedersi sottratte dagli stranieri risorse economiche e posti di lavoro, la percezione di insicurezza associata alla presenza cospicua di immigrati sono spesso considerati elementi alla base di opinioni piuttosto critiche nei confronti dell’immigrazione e tendono a fornire argomenti legittimanti di tali posizioni. Tuttavia, la capacità esplicativa di questi argomenti appare chiaramente limitata. Dietro, infatti, si nascondono elementi culturali pregressi, che hanno radici profonde nella storia personale dell’individuo e che predispongono il modo di pensare ed agire in società. 

    La principale implicazione di questo risultato è chiara: se è vero che i valori sono l’elemento chiave per capire il modo in cui le persone si rapportano al fenomeno migratorio, è plausibile allora ipotizzare che il successo elettorale di un partito come la Lega -che ha investito ampiamente sulla tematica dell’immigrazione- sia dipeso esattamente dalla capacità del partito di dare voce e visibilità a quei principi esistenziali, a quei valori che più di altri favoriscono atteggiamenti critici, se non addirittura ostili, nei confronti dei migranti. 

    Il problema, tuttavia, è che elementi come i valori – veri e propri principi esistenziali – difficilmente sono soggetti a fluttuazioni di breve termine; rappresentano aspetti più profondi della struttura individuale di atteggiamenti e opinioni. Ecco quindi che ci risulta difficile unirci a quelle interpretazioni che vedono gli ultimi anni (tra crisi migratoria e arrivo di Salvini al governo) come responsabili di una qualche mutazione genetica che avrebbe visto degli italiani “brava gente” trasformarsi improvvisamente in razzisti. In realtà, il fatto che questi atteggiamenti siano spiegati da orientamenti valoriali generali suggerisce proprio che si tratti di caratteristiche più strutturali di una parte dei cittadini italiani, d’altronde in linea con il consenso che per vent’anni aveva sostenuto la coalizione di centrodestra e le sue politiche restrittive verso l’immigrazione. Si tratterà dunque di atteggiamenti che verosimilmente andranno tenuti bene in conto, anche per il futuro. 

    Riferimenti bibliografici 

    Catellani P e Milesi P (2010). I Valori e la Scelta di voto, in Bellucci Paolo e Segatti Paolo (a cura di) Votare in Italia 1968-2008: Dall’Appartenenza alla Scelta (pp. 213-245). Bologna: Il Mulino.  

    De Sio L (2018). Lavoro, lotta all’evasione e limiti all’accoglienza: le priorità degli italiani e i partiti, in Vincenzo Emanuele e Aldo Paparo (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018 (pp. 17-20). Dossier CISE (11), LUP e CISE, Roma.

    De Sio L e Paparo A (2018) Il mandato del 4 marzo. Dietro vittorie e sconfitte, la domanda di affrontare vecchi problemi e nuovi conflitti, In Vincenzo Emanuele e Aldo Paparo (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018 (pp. 153.158). Dossier CISE (11), LUP e CISE, Roma.

    Fetzer JS (2000). Public Attitudes Toward Immigration in the United States, France, and Germany. New York: Cambridge University Press. 

    McLaren L (2003). Anti-immigrant prejudice in Europe: contact, threat perception, and preferences for the exclusion of migrants, Social Forces 81 (3): 909–936.  

    Scheve KF e Slaughter MJ (2001). Labor market competition and individual preferences over immigration policy, The Review of Economics and Statistics 83 (1): 133–145. 

    Schwartz SH (1992). Universals in the Content and Structure of Values: Theory and Empirical Tests in 20 Countries, in M. Zanna (a cura di), Advances in Experimental Social Psychology, Volume 25, New York, Academic Press, pp. 1-65. 

    Schwartz SH (1994). Are There Universal Aspects in the Content and Structure of Values? Journal of Social Issues 50(4): 19-45. 

    Schwartz SH (2006) Measuring Changing Value Orientations Across Nations,, in R. Jowell, C. Roberts, R. Fitzgerald e G. Eva (a cura di), Measuring Attitudes Cross-nationally – Lessons from the European Social Survey, London, Sage, pp. 169-213.   

    Stouffer S (1955). Communism, Conformity, and Civil Liberties. New York: Doubleday.


    [1] Il segno ‘+’ indica un atteggiamento più favorevole nei confronti dell’immigrazione rispetto alla categoria di base; il segno ‘-’ indica, invece, un atteggiamento relativamente meno favorevole nei confronti dell’immigrazione. Per ciascuna variabile l’etichetta ‘Base’ indica la categoria rispetto alla quale sono calcolati gli effetti. Ad esempio, nel caso dell’età il segno positivo associato alla coorte 18-35 anni indica che questa classe di età è relativamente più favorevole all’immigrazione rispetto alla categoria base, vale a dire la classe di età 45-54. Sono riportati solamente gli effetti che sono risultati significativi (p.<0.05).

  • Regionali in Abruzzo: la Lega Nord alla conquista del Sud, cede il M5S

    Regionali in Abruzzo: la Lega Nord alla conquista del Sud, cede il M5S

    Il risultato del voto in Abruzzo

    Tertium non datur. L’Abruzzo si conferma regione dell’alternanza e dopo cinque anni di giunta regionale a guida centrosinistra, la regione passa di nuovo nelle mani del centrodestra, con il M5S che incassa una clamorosa e dolorosa sconfitta. In Abruzzo il centrodestra non si limita a vincere. Come spesso accade in un tempo di incertezza e volatilità, la realtà delle urne supera di gran lunga i pronostici della vigilia. Come già rilevato in un precedente contributo (Angelucci 2019), il candidato alla presidenza per il centrodestra, Marco Marsilio, partiva da favorito. Ma l’esito delle elezioni ha superato di gran lunga la più rosea delle aspettative (Tabella 1). Il senatore di Fratelli d’Italia, romano di famiglia abruzzese, incassa il 48% del voto popolare conquistando la presidenza della regione e distanziando con ampio margine le altre forze politiche in campo. Nel 2014 la compagine di centrodestra si fermò al 29,3% cedendo il passo al candidato di centrosinistra Luciano D’Alfonso che con la coalizione di centrosinistra ottenne il 46,3%.

    Il risultato è ancora più sorprendente se si confronta con il dato delle politiche delle 4 marzo, quando la coalizione di centrodestra, sotto la spinta propulsiva di una Lega in forte crescita, conquistò il 35,5% nella regione. In occasione delle politiche appariva chiara l’inversione dei ruoli all’interno del centrodestra. Da gregaria, la Lega si affermò come punta di diamante della coalizione, ottenendo il 14% e fermandosi a poche manciate di voti da Forza Italia (che ottenne il 14,7%). Le regionali di ieri hanno sublimato questa tendenza: per la prima volta la Lega sfonda in una regione del sud, imponendosi come primo partito e conquistando il 27,5% dei voti, una percentuale che sarebbe stata impensabile solo qualche anno fa.

    Se questo è vero, è altrettanto vero che, in termini relativi, la performance elettorale degli alleati (Forza Italia e Fratelli d’Italia) è stata tutto sommato in linea con le aspettative e con le tendenze nazionali. Forza Italia, in caduta libera a livello nazionale, ottiene il 9%, quasi sei punti percentuali in meno rispetto alle politiche di marzo. Fratelli d’Italia ottiene invece il 6,5%, un punto percentuale e mezzo al di sopra di quanto ottenuto a livello nazionale alle ultime elezioni politiche. Si tratta tuttavia di un risultato modesto, se si pensa che il candidato alla presidenza Marsilio è espressione di questo partito.

    Tab. 1 – Risultati elettorali in Abruzzo nelle recenti elezioni politiche e regionali[1]
    tableu

    É in casa Cinque Stelle che la realtà del voto frantuma le aspettative della vigilia. Il consigliere uscente Sara Marcozzi, già candidata alla presidenza della regione nel 2014, ottiene il 20,2%, ben al di sotto delle aspettative. È lei la vera sconfitta di questa tornata elettorale. Mai il M5S negli ultimi anni era sceso così in basso in Abruzzo in termini di consenso. Rispetto alle politiche di marzo, quando il partito ottenne quasi il 40%, i Pentastellati hanno praticamente dimezzato la propria percentuale di voto. È vero, si tratta di competizioni dalla natura molto diversa e sarebbe una forzatura voler tentare di comparare elezioni locali e politiche. Tuttavia, anche rispetto alle elezioni regionali del 2014, dove il partito risultò essere il secondo (dietro il PD) in termini di voto, il M5S è sceso di quasi due punti percentuali. Come già rilevato in precedenza (Angelucci 2019), il M5S conferma le enormi difficoltà a livello locale e l’incapacità di radicarsi sui territori. Insomma, rispetto alle previsioni che davano il M5S come possibile candidato alla vittoria, il tonfo c’è stato e si è sentito chiaro e forte anche Roma, dove i vertici pentastellati dovranno misurare il valore politico della sconfitta.

    Non crolla invece, come pure molti sospettavano, il centrosinistra. Sotto la guida dell’ex-presidente del CSM ed ex-sottosegretario alla presidenza del Consiglio, la coalizione, ampia e partecipata, con forte connotazione civica, raggiunge il 31,3%, ottenendo il secondo posto a quasi 17 punti percentuali di distanza dal centrodestra. Nonostante la sconfitta, il dato è sintomatico di una maggiore competitività del centrosinistra, almeno a livello locale. Molto probabilmente il dato è da attribuirsi alla capacità di Giovanni Legnini di formare – in controtendenza rispetto alle scelte nazionali degli ultimi anni – una coalizione politica inclusiva in cui il peso dei partiti (in special modo del Partito Democratico) è stato fortemente ridimensionato e sfumato dalla presenza di forze politiche e della società civile molto diverse. Se questa strategia politica non è bastata ad assicurare la vittoria, ciò che è accaduto ieri in Abruzzo lancia un chiaro segnale sul possibile futuro del centrosinistra. Potrebbe essere proprio questa la strategia politica su cui ricostruire una forza di opposizione credibile e competitiva anche a livello nazionale.

    Un test per le forze politiche in campo?

    Molti saranno tentati in queste ore di leggere nei numeri delle elezioni regionali abruzzesi indicazioni utili per valutare tendenze più ampie a livello nazionale. Si tratta d’altra parte di un primo test elettorale per le forze politiche in campo dopo l’approvazione della manovra economica, nonché il primo di una serie di appuntamenti elettorali che porterà alle elezioni Europee di fine maggio. Trasferire le dinamiche regionali a livello nazionale potrebbe essere tuttavia rischioso ed è un’operazione che richiede certamente cautela.

    Innanzitutto, solo poco più di un milione di abruzzesi è stato chiamato al voto in queste elezioni. E, tra gli aventi diritto, l’affluenza alle urne è stata decisamente bassa. All’incirca un elettore abruzzese su due (il 46,9%) ha deciso di non prendere parte alle elezioni. Un calo sensibile della partecipazione non solo rispetto alle politiche del 4 Marzo (dato tuttavia fisiologico, considerato che le competizioni a livello nazionale sono generalmente più partecipate), ma anche rispetto alle elezioni regionali del 2014, quando si astenne il 38,4% degli aventi diritto. Così come in altri casi e coerentemente con un trend piuttosto generalizzato, anche in Abruzzo il primo partito è quello dell’astensione, espressione di un chiaro disaffezionamento e allontanamento dei cittadini dalla sfera del politico.

    Fatte queste considerazioni, alcuni dati emergono però con chiarezza e forniscono indicazioni utili sull’evoluzione dei rapporti di forza tra i principali attori politici che occupano la scena. Il primo dato rilevante è il successo elettorale indiscusso della Lega che, per la prima volta, sfonda in una regione del Sud conquistando oltre il 27% dei voti e, di fatto, allineando l’Abruzzo alla performance del partito a livello nazionale. Nella coalizione di centrodestra cresce anche Fratelli d’Italia, che ottiene il 6,5%, un punto percentuale e mezzo in più rispetto alle ultime politiche e quasi quattro punti percentuali in più rispetto alle regionali del 2014). Fa da contraltare a questo risultato il crollo del Movimento 5 Stelle, che aveva ottenuto alle politiche il suo miglior risultato nella regione (39,6%). Sulla stessa scia del risultato ottenuto alle politiche, continua il trend negativo per il Partito Democratico (che perde poco più di due punti percentuali rispetto alle politiche del 2018) e di Forza Italia (che passa dal 14,7%, ottenuto in occasione delle politiche, al 9%, ottenuto in occasione di queste ultime elezioni regionali). In buona sostanza, avanzano le forze più radicali del centrodestra unito, cala sensibilmente il M5S e restano ai margini le forze politiche più tradizionali, come Forza Italia e Partito democratico.

    Questi dati sono inoltre rivelatori per quanto riguarda la diversa capacità delle forze politiche in campo di radicarsi nel territorio abruzzese e di trasferire il risultato nazionale a livello locale. Per fare maggiore chiarezza e fornire un’interpretazione politicamente più profonda dell’esito elettorale di queste regionali, confrontiamo i risultati di queste ultime elezioni con quelli della tornata politica immediatamente precedente (marzo 2018). Questa operazione ci consente di misurare il rendimento elettorale alle regionali (brevemente: RER), ovvero la capacità di una coalizione di trascinare anche sulle elezioni regionali il proprio risultato delle politiche. Per farlo calcoliamo, per ciascun soggetto politico (in questo caso la coalizione), il rapporto tra voti ottenuti alle regionali e voti ottenuti alle politiche. E qui è interessante confrontare i valori di RER per le coalizioni alle regionali del 2014 (in rapporto alle politiche del 2013) e alle regionali del 2019 (in rapporto alle politiche del 2018) mostrati nella Tabella 2.

    Tab. 2 – Rendimento elettorale alle regionali rispetto alle politiche dell’anno precedente(RER)[2] Cattura rendimento 3

    Emerge con chiarezza la stabilità di rendimento per la coalizione del centrosinistra. Se confrontato con le regionali del 2014, dove il rendimento rispetto alle politiche dell’anno precedente era del 176%, nella tornata elettorale del 10 febbraio il rendimento è sostanzialmente identico (178%). Questo conferma, in generale, la capacità del centrosinistra di ottenere più voti alle regionali rispetto alle politiche: in media il centrosinistra è riuscito ad ottenere 178 voti in questa tornata elettorale per ogni 100 voti di questa stessa coalizione ottenuti alle politiche del 2018. Vale la pena notare che l’origine di tale stabilità non va ricercata tanto nella forza elettorale del PD (la cui quota di voti è calata), quanto nella forza di una coalizione particolarmente ampia che ha saputo ottenere un consenso abbastanza elevato tra gli elettori.

    Appaiono evidenti, come già in altre occasioni (Paparo 2018), le grandi difficoltà del M5S nel tradurre le preferenze nazionali in voti alle regionali. Già nelle regionali del 2014, il M5S – guidato anche allora da Sara Marcozzi – non fu in grado trascinare i voti ottenuti alle politiche a livello regionale (il rendimento allora fu del 72%, con poco più di un terzo degli elettori pentastellati alle elezioni politiche dell’anno precedente che confermò il proprio supporto al Movimento nelle regionali dell’anno successivo). Nella tornata elettorale del 10 febbraio, il rendimento del Movimento è addirittura peggiorato: in questo caso infatti su 100 voti ottenuti dal M5S alle politiche di marzo, solo la metà in media viene confermata al suo candidato alla Presidenza. Vale la pena notare, inoltre, che tale peggioramento sia avvenuto sebbene a partire dal 2014 il Movimento sia stato per lo più all’opposizione – sia a livello regionale e sia a livello nazionale.

    È sorprendente invece il risultato collezionato dal centrodestra sotto la spinta propulsiva della Lega e, in misura evidentemente minore, di Fratelli d’Italia. Nel 2014 il rendimento della coalizione rispetto alle politiche del 2013 era del 99%. In sostanza, in occasione delle regionali di quell’anno la coalizione mantenne intatto il consenso ottenuto alle precedenti elezioni politiche del 2013. Nel 2019, il rendimento del centrodestra cresce in modo sensibile, passando dal 99% al 135%. Il risultato è notevole e segnala la capacità della coalizione di incrementare i propri voti a livello regionale.

    Il dato è ancor più rilevante se si tiene conto dei flussi di voto tra le politiche del 2018 e le regionali che si sono appena svolte. L’analisi dei flussi elettorali in alcune importanti città abruzzesi ha mostrato come la Lega abbia attratto voti in modo cospicuo dal Movimento 5 Stelle e solo in misura minore dai partners della propria coalizione (redazione Centro Italiano Studi Elettorali 2019a, 2019b). All’Aquila, ad esempio, circa la metà dei voti ottenuti dalla Lega provengono da elettori che in occasione delle politiche del 4 marzo avevano votato il Movimento 5 Stelle (redazione Centro Italiano Studi Elettorali 2019b). Quest’ultimo, invece, cede quote importanti del proprio elettorato non solo alla Lega, ma anche alla coalizione di centrosinistra (redazione Centro Italiano Studi Elettorali 2019a, 2019b).

    Un ultimo elemento di riflessione emerge da queste elezioni ed è la fondamentale, chiara asimmetria che struttura i rapporti di forza all’interno della coalizione di governo composta da Lega e Movimento 5 Stelle. Vincendo in Abruzzo, la Lega ha mostrato di poter capitalizzare la propria esperienza di governo ed ottenere consenso giocando su un’evidente ambiguità, un’ambiguità che la porta a governare fuori dalla compagine del centrodestra, ma a correre con successo con i vecchi alleati quando le circostanze lo richiedono. Al momento, questo aspetto rappresenta un elemento di forza per il partito di Salvini (che probabilmente continuerà a giocare su questa ambiguità) ed un chiaro fattore di debolezza per il M5S (fuori dalle logiche delle alleanze). A questo si aggiunge il ruolo non indifferente del Partito Democratico. Data l’asimmetria tra Lega e M5S, l’indisponibilità dei dem al dialogo con il M5S tiene quest’ultimo in una condizione di minor forza relativa, nonché nell’impossibilità di contenere da solo l’ascesa leghista. Se e per quanto tempo ancora perdurerà questa particolare condizione non è dato da sapere. Certo è che i prossimi appuntamenti elettorali e in particolare le Europee di maggio forniranno dati sicuramente più probanti.

    Riferimenti bibliografici

    Angelucci, D. (2019) ‘Verso le regionali in Abruzzo: Il quadro della vigilia’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/02/01/verso-le-regionali-in-abruzzo-il-quadro-della-vigilia/

    Redazione Centro Italiano Studi Elettorali (2019a) ‘Regionali Abruzzo: nei flussi a Pescara il 30% dei voti della Lega proviene dal M5S”, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/02/11/regionali-abruzzo-nei-flussi-a-pescara-il-30-dei-voti-della-lega-proviene-dal-m5s/

    Redazione Centro Italiano Studi Elettorali (2019b) ‘Flussi Abruzzo: A L’Aquila addirittura la metà dei voti della Lega proviene dal M5S”, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/02/11/flussi-abruzzo-a-laquila-addirittura-la-meta-dei-voti-della-lega-proviene-dal-m5s/

    Paparo, A. (2018). ‘Le fatiche del M5S nei comuni: l’avanzata che non arriva e i sindaci che se ne vanno’, in Paparo, A. (a cura di), Goodbye Zona Rossa. Il successo del centrodestra nelle comunali 2018, Dossier CISE (12), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 227-234


    [1] Nella parte superiore della tabella sono presentati i risultati al proporzionale (per le politiche 2018 sono riportati i voti espressamente assegnati ai partiti, prima dell’attribuzione dei voti al solo candidato di collegio sostenuto); nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari.

    Nella parte superiore, ciascuna riga somma i risultati dei relativi partiti, a prescindere dalla coalizione della quale facessero parte. Nella categoria partiti di sinistra rientrano: PRC, PC, PCI, PAP, SEL, SI, MDP, LeU, RC. Nella categoria altri partiti di centrosinistra sono inseriti: Insieme, PSI, IDV, Radicali, +EU, Verdi, CD, DemA. Nella categoria partiti di centro rientrano: NCI, UDC, NCD, FLI, SC, CP, NCD, AP, DC, PDF, PLI, PRI, UDEUR, Idea, CPE. Nella categoria partiti di destra rientrano La Destra, MNS, FN, FT, CPI, DivB, ITagliIT.

    Nella parte inferiore, invece, si sommano i risultati dei candidati (uninominali), classificati in base ai criteri sotto riportati. Per le politiche 2013 e le regionali 2014 e 2019, abbiamo considerato quali voti raccolti dai candidati quelli delle coalizioni (che sostenevano un candidato, premier o governatore). Sinistra alternativa al PD riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra PAP, RC, PRC, PCI, PC, MDP, LeU, SI, SEL, Insieme, PSI, +EU, CD, DemA, Verdi, IDV, Radicali – ma non dal PD. Il Centrosinistra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia il PD; il Centro riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra NCI, UDC, CP, NCD, FLI, SC, PDF, DC, PRI, PLI, CPE, Idea, UDEUR (ma né PD né FI/PDL).Il Centrodestra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia FI (o il PDL). La Destra riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra Lega, FDI, La Destra, MNS, FN, FT, CasaPound, DivBell, ITagliIT – ma non FI (o il PDL).

    Quindi, se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o PDL) è attribuito al centrosinistra e al centrodestra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno.

    Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico (Altri). Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI/PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

    [2] Le percentuali esprimono, fatti 100 i risultati percentuali ottenuti alle politiche, i risultati ottenuti alle regionali.

  • Verso le regionali in Abruzzo: il quadro della vigilia

    Verso le regionali in Abruzzo: il quadro della vigilia

    A distanza di cinque anni dalle elezioni regionali del 2014, l’Abruzzo torna al voto con qualche mese di anticipo rispetto alla naturale scadenza del mandato governativo. Il governatore uscente, Luciano D’Alfonso, è stato infatti eletto al Senato nelle elezioni politiche del 4 marzo e, data l’incompatibilità delle due cariche (di senatore e di governatore), ha rassegnato le proprie dimissioni da Presidente regionale ad agosto 2018. Nello stesso mese è quindi avvenuto lo scioglimento del Consiglio Regionale, che ha aperto una fase di transizione sotto la guida di Giovanni Lolli che ha assunto la carica di Presidente vicario.

    A seguito dello scioglimento anticipato del Consiglio Regionale, le elezioni per il suo rinnovo sono state fissate per il 10 febbraio, data che non ha mancato di suscitare polemiche. Il timore è che un voto in pieno inverno possa penalizzare la partecipazione, soprattutto nelle zone dell’entroterra particolarmente soggette a maltempo. Tra un paio di settimane, dunque, sarà interessante valutare la reale affluenza alle urne e capire se ed in che misura il voto nella stagione fredda abbia penalizzato il turnout. Vale la pena notare a questo proposito che nelle precedenti elezioni regionali del 2014, l’affluenza aumentò significativamente rispetto alle precedenti elezioni regionali, passando dal 53% del 2008 (quando si votò a dicembre) al 61,6% del 2014 (quando invece si votò non solo a maggio, ma anche in concomitanza con le elezioni Europee) (Carrieri 2014).

    Al di là del dato relativo all’affluenza – che analizzeremo in dettaglio in un contributo post-elettorale, le elezioni abruzzesi segnano un momento importante per la politica italiana. Sono in gioco, infatti, non solo gli equilibri politici di una regione che negli ultimi anni è stata contraddistinta da un certo grado di alternanza politica, ma anche le più ampie dinamiche politiche a livello nazionale. A pochi mesi ormai dalle cruciali elezioni europee, la tornata elettorale in Abruzzo sarà infatti un test elettorale per le forze politiche in campo, a poco più di sette mesi dalla formazione del governo gialloverde, il primo dopo quello in Trentino-Alto Adige (Vittori 2018). Sarà un’occasione importante per valutare la tenuta elettorale dei partiti che formano attualmente il governo  – e che godono di ampio sostegno tra i cittadini (Angelucci 2018 e D’Alimonte 2019); nonché per riflettere sull’evoluzione dei rapporti di forza sia all’interno dell’attuale compagine governativa, sia tra le forze di governo e quelle di opposizione.

    Da questo punto di vista, gli studi condotti dal CISE hanno evidenziato tre dati importanti che sembrano contraddistinguere la politica italiana in questa fase storica: 1) Elevato grado di apprezzamento del governo Conte e delle forze politiche che lo compongono (Lega e M5S) (Angelucci 2018); 2) La sopravanzata della Lega, che ha superato nei sondaggi il M5S, crescendo considerevolmente sia a livello nazionale, sia a livello locale (Emanuele e Paparo 2018); 3) L’inefficacia dell’ opposizione del PD, fermo sostanzialmente al palo dopo la disfatta del 4 marzo e delle successive elezioni amministrative dello stesso anno (Emanuele e Paparo 2018). In questo quadro, uno dei principali interrogativi che pende sulle regionali del 10 febbraio è se ed in che misura queste tre dinamiche verranno confermate dai risultati delle urne.

    Dinamiche elettorali

    Sebbene una valutazione complessiva di queste dinamiche è da rimandare al 10 febbraio, un’analisi della recente storia elettorale d’Abruzzo offre interessanti spunti di riflessione per comprendere meglio come è cambiato lo scenario politico abruzzese e come potrebbe evolvere in futuro (Tabella 1).

    Tab. 1 – Risultati elettorali in Abruzzo nelle recenti elezioni politiche e regionali[1]abruzzo tabpreIn linea con le dinamiche politiche nazionali e con la formazione di un nuovo sistema tripolare, le elezioni politiche del 2013 segnano anche in Abruzzo un momento di svolta, decretando il successo elettorale indiscusso del M5S. Il partito delle stelle ottenne in quella tornata elettorale il 29,9% dei voti, distanziando, seppur di poco, i propri avversari e risultando la coalizione più votata nella regione – oltre che il primo partito. Il centrodestra, trascinato da FI, ottenne il 29,5% dei voti piazzandosi al secondo posto, seguito dal centrosinistra a poco più di tre punti percentuali di distanza (26,2%).

    Le regionali del 2014, tuttavia, non confermarono il risultato delle politiche dell’anno precedente. Gli elettori infatti premiarono la coalizione di centrosinistra, guidata dall’ex sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso che ottenne un eccellente 46,3%. Fermi rispettivamente al secondo ed al terzo posto invece il centrodestra, attestatosi al di sotto del 30% (29,3%), ed il M5S (21,4%). Guardando al dettaglio dei partiti, il quadro che si delinea è certamente più chiaro. Il successo del centrosinistra fu trascinato principalmente da liste civiche e di alleati minori collegate al nome del candidato democratico D’Alfonso. In effetti, rispetto alle politiche del 2013, la crescita del PD nella regione è stata piuttosto modesta (al di sotto dei tre punti percentuali).  Il dato è ancor più significativo se si considera il peso più generale del PD nel sistema politico italiano in quel periodo. Il 2014 è stato infatti anche l’anno delle Europee e, soprattutto, l’anno in cui il PD del segretario Matteo Renzi ha fatto registrare il suo massimo livello di espansione elettorale, raggiungendo la percentuale ‘record’ del 40,8% su tutto il territorio nazionale (Maggini 2014). In altre parole, nonostante il buon risultato, il PD da solo non sembrò in grado di replicare a livello locale l’exploit ottenuto a livello nazionale nelle Europee. Appare chiara invece l’emorragia di voti da FI, che passò dal 23,8% ottenuto in Abruzzo alle politiche del 2013, al 16,7% raccolto nelle regionali del 2014 (con uno scarto in termini assoluti di oltre 73.000 voti). Allo stesso modo, un trend negativo venne registrato per il M5S, passato dal 29,9% ottenuto in Abruzzo alle politiche del 2013, al 21,4% in occasione delle regionali dell’anno successivo. Dato, quest’ultimo, non sorprendente se si tiene conto di una certa difficoltà del M5S a radicarsi nei territori (De Sio et al. 2018) e a replicare a livello locale le prestazioni elettorali ottenute a livello nazionale.

    Se il confronto tra le regionali del 2014 e le politiche del 2013 offre riferimenti interessanti per capire l’andamento della competizione elettorale in Abruzzo, la comparazione risulta in ogni caso problematica, data la diversa natura delle due arene elettorali. Le elezioni politiche del 2018 offrono, da questo punto di vista, un termine di paragone più adeguato con le politiche del 2013. Il risultato delle elezioni del 4 marzo in Abruzzo rispecchia ampiamente le dinamiche elettorali osservate a livello nazionale, allineando in particolar modo i risultati regionali con quelli registrati in molte regioni del Sud Italia (D’Alimonte 2018). Il risultato di marzo attesta il crollo della coalizione di centrosinistra e, in particolar modo, del PD in Abruzzo. Il centrosinistra è passato dal 26,2% del 2013, al 17,6% ottenuto nel 2018. Il trend negativo appare evidente anche per il PD preso singolarmente, passato infatti dal 22,6% al 13,7% – ottenuti rispettivamente nel 2013 e nel 2018. Parallelamente, emerge con chiarezza l’avanzata del M5S, risultato nuovamente il partito più votato in Abruzzo alle elezioni del 4 marzo con il 39,6% dei voti (con una crescita di quasi 10 punti percentuali rispetto al 2013). Più interessante, invece, la dinamica nel centrodestra. Anche in questo caso il risultato nazionale sembra essersi riflesso accuratamente nelle dinamiche regionali. Alla caduta libera di FI, passata dal 23,8% nel 2013 al 14,7% nel 2018, fa da contraltare l’avanzata sorprendente della Lega, che entra nello scenario politico regionale come uno dei competitor principali. La Lega passa infatti da un modesto 0,2% ottenuto nel 2013, ad un clamoroso 14% cinque anni dopo, imponendosi anche a livello regionale come il partito di punta del centrodestra. Quest’ultimo, trascinato quindi dalla prestazione della Lega, ha raggiunto il 35,5%, con una crescita di sei punti percentuali.

    In occasione delle prossime regionali si tratterà di capire se le principali forze politiche in campo saranno in grado di trascinare a livello locale la competizione nazionale e di replicare il risultato delle elezioni del 4 marzo. Se così fosse, la partita verrà giocata principalmente dal centrodestra a trazione leghista e dal M5S. E gli ultimi sondaggi sembrano accreditare questa ipotesi. Sarebbe tuttavia affrettato escludere dai giochi la coalizione di centrosinistra. Diversi fattori rendono infatti l’esito della competizione elettorale meno scontato di quanto possa apparire. Si tratta innanzitutto di elezioni regionali, le cui dinamiche possono essere ben diverse da quelle di una competizione a livello nazionale. Da questo punto di vista il confronto tra le regionali del 2014 e le politiche del 2013 è emblematico, soprattutto per ciò che riguarda il M5S che non riuscì a replicare alle regionali l’ottimo risultato ottenuto nel 2013. Un ulteriore elemento potrebbe inoltre incidere sull’esito finale della votazione, vale a dire la natura e la composizione dell’offerta politica. Su questo aspetto ci concentreremo nel paragrafo successivo.

    L’offerta elettorale

    Quattro saranno i candidati alla Presidenza della regione Abruzzo. Per il centrosinistra sarà Giovanni Legnini a competere per la presidenza. Già Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri del governo Letta, Legnini ha prestato servizio come Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura fino al settembre del 2018. A sostenerlo nella competizione elettorale vi sarà un’ampia coalizione formata da ben otto liste che mettono insieme rappresentanti politici e della società civile. Oltre al supporto del PD, Legnini potrà contare sull’appoggio di tre liste civiche senza collegamenti con i partiti: Legnini Presidente, Abruzzo Insieme e Abruzzo in comune. A queste si aggiungono cinque liste riferibili a partiti politici. Si tratta, ovviamente, della lista del Partito Democratico e delle liste Centristi per l’Europa, Progressisti con Legnini-Sinistra Abruzzo-LeU, Avanti Abruzzo-IdV, + Abruzzo.

    Per il centrodestra, invece, il candidato alla presidenza sarà Marco Marsilio. Eletto alla Camera dei Deputati nel 2008 nelle liste del PDL, è nel 2012 tra i fondatori di Fratelli d’Italia, il partito attualmente guidato da Giorgia Meloni. A sostenerlo vi sarà una coalizione più ristretta rispetto a quella del centrosinistra. Dopo l’esclusione da tutte le circoscrizioni elettorali della lista Popolo della famiglia-Popolari per l’Italia, cinque saranno infatti le liste a sostegno del candidato di centrodestra: Fratelli d’Italia-Marsilio Presidente, Lega Salvini Abruzzo, Forza Italia, Azione Politica, UDC-DC-Idea.

    Coerentemente con una strategia che da sempre evita apparentamenti, il M5S correrà da solo, con Sara Marcozzi candidata alla presidenza della regione. Già candidata alle regionali del 2014 per il M5S, Marcozzi è stata individuata come ideale candidata alla presidenza in seguito alle ormai celebri “regionarie”. Infine, per CasaPound sarà invece l’avvocato Stefano Flajani a partecipare alla competizione elettorale del 10 febbraio.

    Sebbene, come accennato in precedenza, i sondaggi più recenti diano in vantaggio il centrodestra, seguito a stretto giro dal M5S, la composizione delle coalizioni potrebbe giocare a favore della compagine di centrosinistra. Le liste a sostegno di quest’ultima, come detto, saranno otto (uno stesso numero di liste appoggiò D’alfonso nella tornata elettorale del 2014) includendo una porzione non irrilevante di liste civiche che potrebbero ampliare il bacino elettorale della coalizione. Mancano inoltre in quest’ultima tornata competitors alternativi al PD. Rifondazione Comunista, che presentò la propria candidatura alle regionali del 2014 ottenendo il 3%, non è riuscita a raccogliere le firme necessarie per presentare una propria lista, restando quindi fuori dalla competizione. Non è da escludere che parte di questo elettorato possa decidere di appoggiare la candidatura di Legnini.

    Il centrodestra, invece, presenta una lista in più rispetto al 2014. Si tratta tuttavia di liste riferibili prevalentemente a partiti politici, per cui probabilmente in grado di mobilitare soprattutto un elettorato già tendenzialmente orientato. Va inoltre notato che in questa tornata, contrariamente a quanto accaduto nel 2014, sarà presente una lista di destra alternativa alla coalizione guidata da Marsilio. CasaPound infatti è riuscita a presentare una propria lista autonoma a sostegno di Flajani. Sebbene il partito in Abruzzo si sia attestato su valori piuttosto bassi in passato, significativa è stata la sua crescita negli ultimi anni. La presenza di CasaPound potrebbe sottrarre alcuni voti alla coalizione di centrodestra, riducendone il margine nei confronti delle altre forze politiche in campo. Pesano infine sul centrodestra le polemiche relative all’inclusione nella lista presentata da UDC-DC-Idea di due candidature, quella di Marianna Scoccia e Mario Olivieri, su cui gli alleati di coalizione (in particolar modo leghisti) avevano posto un veto iniziale.  Sebbene fosse stato raggiunto un accordo pre-elettorale per l’esclusione dei due candidati in questione, i delegati locali del gruppo centrista, con una decisione dell’ultim’ora, hanno optato per la reintroduzione delle due candidature. Tale decisione ha provocato la reazione immediata degli alleati e dello stesso candidato alla Presidenza Marsilio, che ha pubblicamente sconfessato la decisione di UDC-DC-Idea, escludendo il simbolo dell’alleato dalla propria comunicazione elettorale (salvo poi reinserirlo in un secondo momento).

    La legge elettorale

    Vale la pena, infine, ricordare le modalità con cui si svolgerà il voto. Per quanto riguarda il Presidente, verrà eletto il candidato che avrà ottenuto il maggior numero di voti validi nel complesso delle quattro circoscrizioni in cui è suddiviso il territorio abruzzese. Il sistema è dunque articolato su un unico turno ed esclude il ballottaggio.

    Ciascun candidato alla presidenza è sostenuto da liste collegate. Gruppi di liste possono sostenere lo stesso candidato, formando una coalizione (come è il caso delle liste che formano la coalizione di centrodestra a sostegno di Marsilio e di centrosinistra a sostegno di Legnini). Le liste collegate ai candidati alla Presidenza della regione competono per l’elezione del Consiglio Regionale, che avverrà contestualmente all’elezione del Presidente.

    L’elezione del Consiglio Regionale è regolata da un sistema di natura proporzionale con premio di maggioranza. Il consiglio è composto da 31 membri, due dei quali verranno assegnati di diritto al Presidente della Giunta eletto e ad al candidato alla Presidenza arrivato secondo nella competizione elettorale. I restanti 29 seggi sono ripartiti tra le quattro circoscrizioni in cui è suddiviso il territorio abruzzese e coincidenti con le quattro provincie della regione (vale a dire Chieti – dove verranno eletti otto consiglieri; Pescara, L’Aquila e Teramo – in ciascuna delle quali verranno invece eletti sette consiglieri). La ripartizione dei seggi tra le liste circoscrizionali avverrà in proporzione ai voti ottenuti dalle stesse nella circoscrizione. La normativa regionale, inoltre, prevede un premio di maggioranza per le liste collegate al Presidente eletto. A queste, infatti, verrà garantita una quota di seggi in Consiglio compresa tra il 60% ed il 65%, con un meccanismo a doppio livello (regionale e provinciale) simile a quello del Porcellum, ma basato stavolta su un mix di D’Hondt e Hare. È prevista una soglia di sbarramento, per cui non parteciperanno al riparto dei seggi le liste non coalizzate che otterranno meno del 4% e le liste in coalizione che otterranno meno del 2% nell’intera regione.

    L’elettore potrà esprimere il proprio voto in tre modi: potrà votare per il solo candidato alla Presidenza, per il candidato alla Presidenza ed una delle liste che lo sostengono, oppure solamente per una delle liste a sostegno del candidato Presidente. Nel primo caso, il voto varrà solamente per il candidato alla Presidenza. Nel secondo e nel terzo caso l’elettore potrà esprimere un voto di preferenza per uno dei candidati alla carica di consigliere inseriti all’interno della lista circoscrizionale votata. In entrambi i casi, il voto attribuito alla lista circoscrizionale viene contestualmente assegnato anche al candidato Presidente. Non è ammesso invece il voto disgiunto, per cui non sarà possibile votare per un candidato alla Presidenza e per una lista diversa da quelle a lui collegate. È previsto invece un meccanismo a tutela della parità di genere: gli elettori avranno possibilità di esprimere due preferenze tra i candidati al Consiglio Regionale inclusi nella stessa lista circoscrizionale purché di genere differente.

    Conclusioni

    A poche settimane dalle elezioni regionali in Abruzzo, lo scenario che si prospetta sembra essere quello di un testa a testa tra il centrodestra a trazione leghista che sostiene il candidato alla Presidenza Marsilio ed il M5S, che presenta invece Sara Marcozzi come candidata alla guida della regione. Il centrosinistra di Legnini appare invece più staccato e parte certamente da non favorito. Sarebbe tuttavia affrettato dare per scontato l’esito delle urne. Legnini è appoggiato da una larga coalizione che include una porzione consistente di candidati civici, elemento che potrebbe allargare il bacino elettorale del centrosinistra. La coalizione che appoggia Marsilio, invece, è entrata nella fase più delicata della campagna elettorale lacerata dalle divisioni interne, dato che potrebbe incidere negativamente sulla performance elettorale della coalizione. Per quanto riguarda il M5S, la crescita evidente del partito in Abruzzo in occasione delle politiche del 4 marzo, fa il paio con una scarsa capacità di radicamento del Movimento sui territori. Già nelle elezioni regionali del 2014 il M5S non riuscì a replicare il risultato delle politiche dell’anno precedente, piazzandosi dietro il centrosinistra ed il centrodestra.

    Un dato è tuttavia certo: l’esito delle elezioni fornirà indicazioni utili per valutare la solidità elettorale delle forze politiche in campo, le prime dopo l’approvazione della manovra. Sarà quindi possibile valutare, fondandosi su veri dati elettorali e non semplici sondaggi, quanto i partiti che formano il Governo Conte siano davvero popolari, anche dopo l’approvazione nella manovra economica – quantomeno con particolare riferimento agli elettori abruzzesi. Si tratterà inoltre di un importante test per misurare (e possibilmente ricalibrare) i rapporti di forza in seno alla maggioranza, oltre quelli fra maggioranza e opposizione. Tutto ciò appare particolarmente interessante a ormai pochi mesi dalle fatidiche elezioni europee di fine maggio.

    Allo stesso modo, gli esiti di questa tornata forniranno una prova importante per il centrosinistra e la sua capacità di mantenere il controllo di un territorio su cui cinque anni fa s’impose con ampio margine di distacco rispetto alle altre forze politiche nonostante partisse in svantaggio in base al risultato delle politiche dell’anno prima, esattamente come quest’anno.

    Riferimenti bibliografici

    Angelucci, D. (2018), ‘Il Governo Conte nel giudizio degli Italiani. ‘Honeymoon’ gialloverde e frammentazione delle opposizioni’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2018/12/21/il-governo-conte-nel-giudizio-degli-italiani-honeymoon-gialloverde-e-frammentazione-delle-opposizioni/ 

    Carrieri, L. (2014), ‘Abruzzo, la “legge ferrea dell’alternanza”: il Pd riconquista la regione’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2014/05/28/abruzzo-la-legge-ferrea-dellalternanza-il-pd-riconquista-la-regione/

    D’Alimonte, R. (2019), M5S e Lega ancora forti nonostante i tanti scivoloni, Centro Italiano Studi Elettorali, Disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/01/09/m5s-e-lega-ancora-forti-nonostante-i-tanti-scivoloni/

    D’Alimonte, R. (2018), ‘Perché il Sud premia il M5S’, in  Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE (11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 115-118

    De Sio, L., Emanuele, V., Maggini, N. e Paparo, A. (2018), ‘Il risultato? Ancora il clima del 4 marzo, ma il m5S (come nel 2013) non rende bene alle comunali’, in Paparo, A. (a cura di), Goodbye Zona Rossa. Il successo del centrodestra nelle comunali 2018, Dossier CISE(12), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 59-63

    Emanuele, V. e Paparo, A. (2018), ‘Centralità della Lega e isolamento del PD: il nuovo spazio politico italiano’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2018/12/21/centralita-della-lega-e-isolamento-del-pd-il-nuovo-spazio-politico-italiano-2/

    Maggini, N. (2014), ‘I risultati elettorali: il Pd dalla vocazione all’affermazione maggioritaria’, in De Sio L., Emanuele V. e Maggini N. (a cura di), Le Elezioni Europee 2014, Dossier CISE(6), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 115-124.

    Vittori, D. (2018), ‘Regionali TAA: storico successo della Lega, a Bolzano la SVP arretra ma tiene’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2018/10/22/regionali-taa-storico-successo-della-lega-a-bolzano-la-svp-arretra-ma-tiene/


    [1] Nella parte superiore della tabella sono presentati i risultati al proporzionale (per le politiche 2018 sono riportati i voti espressamente assegnati ai partiti, prima dell’attribuzione dei voti al solo candidato di collegio sostenuto); nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari.

    Nella parte superiore, ciascuna riga somma i risultati dei relativi partiti, a prescindere dalla coalizione della quale facessero parte. Nella categoria partiti di sinistra rientrano: PRC, PC, PCI, PAP, SEL, SI, MDP, LeU, RC. Nella categoria altri partiti di centrosinistra sono inseriti: Insieme, PSI, IDV, Radicali, +EU, Verdi, CD, DemA. Nella categoria partiti di centro rientrano: NCI, UDC, NCD, FLI, SC, CP, NCD, AP, DC, PDF, PLI, PRI, UDEUR, Idea. Nella categoria partiti di destra rientrano La Destra, MNS, FN, FT, CPI, DivB, ITagliIT.

    Nella parte inferiore, invece, si sommano i risultati dei candidati (uninominali), classificati in base ai criteri sotto riportati. Per le politiche 2013 e le regionali 2014, abbiamo considerato quali voti raccolti dai candidati quelli delle coalizioni (che sostenevano un candidato, premier o governatore). Sinistra alternativa al PD riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra PAP, RC, PRC, PCI, PC, MDP, LeU, SI, SEL, Insieme, PSI, +EU, CD, DemA, Verdi, IDV, Radicali – ma non dal PD. Il Centrosinistra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia il PD; il Centro riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra NCI, UDC, CP, NCD, FLI, SC, PDF, DC, PRI, PLI (ma né PD né FI/PDL).Il Centrodestra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia FI (o il PDL). La Destra riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra Lega, FDI, La Destra, MNS, FN, FT, CasaPound, DivBell, ITagliIT – ma non FI (o il PDL).

    Quindi, se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o PDL) è attribuito al centrosinistra e al centrodestra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno.

    Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico (Altri). Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI/PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

  • Suppletive a Cagliari: nella smobilitazione vince il centrosinistra

    Suppletive a Cagliari: nella smobilitazione vince il centrosinistra

    A distanza di quasi un anno dalle elezioni del 4 marzo, le elezioni suppletive svoltesi ieri a Cagliari e in altri sette comuni del cagliaritano offrono, seppur in scala molto ridotta, un primo quadro sull’evoluzione dei rapporti di forza tra i principali partiti che occupano la scena politica attuale. Inaugurano, inoltre, un’intensa stagione elettorale il cui esito sarà fondamentale per ridefinire gli equilibri politici del paese. A febbraio, il 10 ed il 24, si svolgeranno le elezioni per il rinnovo del consiglio regionale rispettivamente in Abruzzo e in Sardegna. Successivamente sarà il turno della Basilicata, a cui seguiranno, a maggio, le elezioni regionali in Piemonte, una nuova tornata di elezioni amministrative e, infine, le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Contestualizzati in questo quadro di riferimento più ampio, i risultati delle suppletive nel capoluogo sardo vanno dunque letti con attenzione, fornendo infatti delle preziose indicazioni su come potrà muoversi l’elettorato (non solo locale) nei prossimi appuntamenti elettorali.

    Prima di entrare nel merito della discussione dei risultati, vale la pena chiarire la natura di queste elezioni. Le elezioni suppletive sono previste dalla legge che attualmente regola le modalità di elezione del Parlamento, il cosiddetto “Rosatellum”. La legge elettorale prevede che all’incirca i due terzi dei deputati vengano eletti con sistema proporzionale ed un terzo, invece, con sistema maggioritario in collegi uninominali. In caso di dimissioni di un deputato eletto con sistema proporzionale, a subentrargli è il candidato risultato primo tra i non eletti della medesima lista. Per la parte maggioritaria, invece, sono previste elezioni suppletive in caso di dimissioni del deputato. Le elezioni suppletive, dunque, nascono con l’esigenza di rimpiazzare un deputato dimissionario attraverso la convocazione di nuove elezioni solamente nel collegio in cui il deputato dimissionario è stato eletto.

    Nel capoluogo sardo, le elezioni suppletive sono state convocate in seguito alle dimissioni del deputato Andrea Mura, eletto nel collegio uninominale di Cagliari con il M5S nelle elezioni del 4 marzo ed espulso dallo stesso Movimento in seguito alle polemiche che hanno preso di mira le ripetute assenze in Parlamento dell’ormai ex deputato pentastellato. All’espulsione, sono seguite poi le dimissioni di Mura, aprendo definitivamente la strada ad una nuova elezione per rimpiazzare il seggio vacante. Si votava quindi per eleggere il nuovo rappresentante alla Camera del collegio di Cagliari, senza che gli elettori potessero indicare alcuna preferenza partitica.

    Quattro sono stati i candidati che si sono fronteggiati in queste elezioni. Il candidato del M5S è stato Luca Caschili, già assessore a Carbonia, investito del gravoso compito di mantenere il seggio conquistato alle politiche rimesso in palio in seguito alle dimissioni di Andrea Mura. Il centrodestra ha presentato la candidatura di Daniela Noli, ex dipendente del gruppo di Forza Italia in Consiglio Regionale e da molti considerata la principale favorita alla vigilia delle elezioni. CasaPound ha confermato la candidatura di Enrico Balletto, già presentato come candidato nell’uninominale, ma al Senato, nelle elezioni politiche del 4 marzo. Il centrosinistra, invece, ha puntato sulla candidatura del giornalista Andrea Frailis (Progressisti di Sardegna), vincendo la propria scommessa e ribaltando, come vedremo, i risultati delle elezioni politiche dell’anno scorso.

    Come detto, alla vigilia delle elezioni la candidata del centrodestra Daniela Noli sembrava essere in una posizione più favorevole rispetto agli altri candidati. Da una parte, poteva infatti contare sulla debolezza relativa dei rivali del M5S che, nonostante il successo elettorale ottenuto nella regione alle politiche del 2018, si sono presentati alle elezioni suppletive indeboliti dalla vicenda Mura. Dall’altra, poteva invece fare affidamento sulla forza di traino del centrodestra unito, dato in crescita su tutto il territorio nazionale (D’Alimonte 2018). Infine, un ultimo dato avrebbe potuto favorire la vittoria di Daniela Noli, vale cioè a dire la presenza di un consistente bacino elettorale che già nelle elezioni politiche del 2018 aveva permesso alla coalizione di centrodestra di ottenere un buon risultato sia su tutto il territorio regionale, sia nel singolo collegio cagliaritano.

    I pronostici sono stati tuttavia ribaltati (Tabella 1). Nonostante le apparizioni sull’isola dei principali rappresentanti di partito negli ultimi giorni, e il grande sostegno di Berlusconi in persona, la candidata per il centrodestra si è fermata al 27,8%, perdendo quasi cinque punti percentuali rispetto alle elezioni del 4 marzo e attestandosi su livelli più simili a quelli raggiunti sullo stesso territorio nel 2013. In quell’anno, infatti, il centrodestra raggiunse il 26,3% dei voti, cedendo il passo sia al centrosinistra che al M5S.

    Su livelli simili a quelli delle politiche del 2013, si è attestato anche il candidato del M5S che ha ottenuto il 28,9% dei voti, piazzandosi secondo nella tornata elettorale di ieri. Vale la pena notare che, in questo territorio, si tratta del risultato peggiore ottenuto dal M5S. Nel suo esordio, alle politiche del 2013, infatti, il M5S ottenne nel cagliaritano il 30%. Nelle recenti elezioni di marzo 2018 invece il M5S aveva dominato su tutte le altre forze politiche, imponendosi con una considerevole crescita elettorale sia nel collegio di Cagliari (dove ha ottenuto il 38,4%), sia sull’intero territorio della regione dove il Movimento ha trionfato superando il 40% (Paparo 2018).

    Se centrodestra e M5S arretrano, avanza sorprendentemente il centrosinistra, recuperando l’enorme svantaggio accumulato nelle elezioni del 4 marzo. Coerentemente con quanto osservato su tutto il territorio nazionale (Emanuele 2018), le elezioni politiche del 2018 avevano sancito il crollo del centrosinistra sia nella regione (Paparo 2018), sia nel collegio cagliaritano. Qui infatti, il centrosinistra era passato dal 28,4% ottenuto nelle elezioni del 2013 al 19,4% ottenuto nel 2018, per una perdita di 9 punti percentuali. Le elezioni di ieri, invece, hanno incoronato vincitore Andrea Frailis, che ha ottenuto oltre il 40% dei voti (40,5%), in crescita quindi di più di venti punti percentuali rispetto alle politiche di marzo. Si tratta di un risultato importante, che segnala una chiara inversione di tendenza rispetto alle dinamiche osservate quasi un anno fa. Le forze che attualmente formano il governo gialloverde hanno perso sensibilmente terreno, lasciando invece spazio ad una sostanziale rimonta del centrosinistra.

    Tab. 1 – Risultati elettorali nel collegio uninominale di Cagliari[1]tableu_CA_completo

    Tuttavia, se i dati appena discussi forniscono un quadro abbastanza dettagliato delle dinamiche del voto di ieri, il risultato delle elezioni è stato fortemente influenzato dal ruolo giocato dall’astensionismo, nettamente il primo vero partito di questa tornata elettorale. Su poco più di 250.000 cittadini chiamati alle urne, ha votato solamente il 15,5% (poco più di 39.000 persone). L’affluenza è stata decisamente più bassa rispetto a quella registrata sullo stesso territorio alle politiche del 2018 e del 2013, quando fu rispettivamente del 67,2% e del 70,6%.

    Il dato sull’affluenza non è irrilevante ed ha sicuramente inciso sull’esito finale delle elezioni. Sebbene analisi più dettagliate potrebbero chiarire se ed in che modo l’elevato numero di astenuti abbia plasmato il risultato elettorale, ci limiteremo qui ad alcune semplici osservazioni. È un dato oramai acquisito quello che collega la partecipazione elettorale non solo allo status socio-economico (i.e. livello di istruzione, reddito, status sociale), ma anche al più generale interesse per le questioni politiche. I livelli di partecipazione politica e, nello specifico, di partecipazione elettorale tendono ad essere significativamente più elevati in quell’elettorato politicizzato e fortemente identificato. In questa prospettiva, un certo vantaggio competitivo potrebbe aver favorito il candidato di centrosinistra. Infatti, già candidato in passato con i Comunisti Italiani (elezioni regionali del 2004) e sostenuto in questa tornata suppletiva anche da LeU, Frailis potrebbe aver tratto vantaggio dal fatto di poter contare su un elettorato tradizionalmente più facile da mobilitare. Si tratta tuttavia di dinamiche che potranno essere chiarite solamente da un’analisi più dettagliata dei flussi voto.

    Un ulteriore elemento merita di essere sottolineato. In queste elezioni suppletive, come alle politiche, il centrodestra si presentava compatto. Nel caso di specie, a sostegno di una candidata forzista. Tuttavia, la Lega, che stando ai sondaggi è attualmente il più grande partito del centrodestra (con tutta probabilità anche a Cagliari dove già il 4 marzo non era molto lontana da Forza Italia), è oggi al governo con il M5S. A ben guardare, quindi, una vittoria della candidata Noli avrebbe accresciuto le fila dell’opposizione alla Camera. Per questa ragione è possibile che lo sforzo di Salvini in Sardegna si sia soprattutto concentrato sulle prossime regionali, piuttosto che sul mobilitare il massimo numero di elezioni in queste suppletive a favore di Noli.

    In conclusione, in una tornata segnata dall’astensione record e contro i pronostici della vigilia, il centrosinistra ha ribaltato i risultati delle politiche del 4 marzo. La solidità di questa inversione di tendenza tuttavia potrà essere accertata solamente nelle prossime settimane. Il 24 febbraio si voterà per il rinnovo del consiglio regionale in Sardegna e ed i risultati di queste elezioni potranno chiarire meglio se ciò che è accaduto a Cagliari sia il risultato di una dinamica più generale e ampia, oppure di condizioni contestuali più limitate.

    Riferimenti bibliografici

    D’Alimonte, R. (2018), ‘Centrodestra avanti ma Salvini aspetta il voto delle Europee’, Contributo CISE, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 1 Dicembre 2018. Disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2018/12/01/centrodestra-avanti-ma-salvini-aspetta-il-voto-delle-europee/

    Emanuele, V. (2018), ‘Il peggior risultato di sempre della sinistra italiana, la seconda più debole d’Europa’, in Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE (11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 129-131

    Paparo, A. (2018), ‘Cagliari: il centrosinistra perde un terzo dei voti nonostante le entrate del centrodestra’, in Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE (11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 255-261.


    [1] I dati relativi alle elezioni politiche del 2013 sono stati ricalcolati, per motivi di comparabilità, aggregando i risultati nei comuni che costituiscono il collegio di Cagliari ai sensi del Rosatellum (Cagliari, Maracalagonis, Monserrato, Quartucciu, Quartu Sant’Elena, Sinnai, Burcei, Villasimius).

    Nella parte superiore della tabella sono presentati i risultati al proporzionale; nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari.

    Nella parte superiore, ciascuna riga somma i risultati dei relativi partiti, a prescindere dalla coalizione della quale facessero parte. Nella categoria partiti di sinistra rientrano: PRC, PC, PCI, PAP, SEL, SI, MDP, LeU, RC. Nella categoria altri partiti di centrosinistra sono inseriti: Insieme, PSI, IDV, Radicali, +EU, Verdi, CD, DemA. Nella categoria partiti di centro rientrano: NCI, UDC, NCD, FLI, SC, CP, NCD, AP, DC, PDF, PLI, PRI, UDEUR, Idea. Nella categoria partiti di destra rientrano La Destra, MNS, FN, FT, CPI, DivB, ITagliIT.

    Nella parte inferiore, invece, si sommano i risultati dei candidati (di collegio), classificati in base ai criteri sotto riportati. Per le politiche 2013, abbiamo considerato quali voti raccolti dai candidati quelli delle coalizioni (che sostenevano un candidato premier). Sinistra alternativa al PD riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra PAP, RC, PRC, PCI, PC, MDP, LeU, SI, SEL, Insieme, PSI, +EU, CD, DemA, Verdi, IDV, Radicali – ma non dal PD. Il Centrosinistra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia il PD; il Centro riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra NCI, UDC, CP, NCD, FLI, SC, PDF, DC, PRI, PLI (ma né PD né FI/PDL).Il Centrodestra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia FI (o il PDL). La Destra riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra Lega, FDI, La Destra, MNS, FN, FT, CasaPound, DivBell, ITagliIT – ma non FI (o il PDL).

    Quindi, se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o PDL) è attribuito al centrosinistra e al centrodestra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno.

    Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico (Altri). Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI/PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).