Autore: Lorenzo De Sio

  • Il mandato del 4 marzo. Dietro vittorie e sconfitte, la domanda di affrontare vecchi problemi e nuovi conflitti

    Il mandato del 4 marzo. Dietro vittorie e sconfitte, la domanda di affrontare vecchi problemi e nuovi conflitti

    Nel Dossier CISE Gli sfidanti al governo (Emanuele e Paparo 2018) abbiamo documentato la configurazione delle preferenze degli elettori italiani sui diversi temi al centro del dibattito politico, e i risultati elettorali che si sono osservati il 4 marzo e che si sono determinati all’interno di tale spazio politico.

    In estrema sintesi, per quanto concerne la configurazione dell’opinione pubblica, abbiamo evidenziato l’alto livello di priorità assegnato dagli elettori italiani agli obiettivi imperativi, e il parallelo mix di preferenze sui temi posizionali, che comprende obiettivi social-democratici in economia, demarcazionisti nei confronti dei migranti, e progressisti sui diritti (Emanuele e De Sio 2018). Quanto ai risultati elettorali, gli elementi principali sono essenzialmente gli storici successi dei partiti “sfidanti” (challenger) M5S (Emanuele 2018(a)) e  Lega (Cataldi 2018), e i contemporanei altrettanto storici crolli per i grandi partiti tradizionali (mainstream) – PD e FI (Emanuele 2018(b)).

    Tuttavia, è chiaro che l’evoluzione del dibattito politico richiede di rispondere – ormai a mesi dalle elezioni – alla domanda cruciale sulle possibili cause di questi risultati. A questo proposito, l‘impressione è che il dibattito sul tema sia stato finora sorprendentemente carente. Alcune analisi della prima ora (tra cui anche alcune del CISE: vedi ad esempio Emanuele e Maggini (2018)) hanno messo in evidenza – a livello territoriale – un certo legame tra disoccupazione e successo del M5S e tra immigrazione e successo della Lega. Tuttavia – in un contesto in cui gli stessi attori politici hanno per certi versi cercato di evitare un’analisi strutturata del risultato – manca ancora un’analisi dettagliata legata agli specifici temi politici sul tavolo della campagna e dell’elezione. È quello che cerchiamo di accertare in questo contributo: quali temi sono stati decisivi nei successi di M5S e Lega? E quali cruciali per gli insuccessi di PD e FI?

    Anticipiamo anzitutto i principali risultati. In primo luogo, dietro al risultato del 4 marzo appare una chiara struttura tematica. In altre parole, i movimenti di voto che hanno determinato questo esito dirompente non appaiono affatto casuali o emotivi, ma viceversa diventano chiaramente leggibili, una volta che vengono messi in relazione con temi specifici. Questo risultato è chiaramente visibile soprattutto alla luce del fatto che, in più di un caso, i punti di forza dei vincitori sono i punti di debolezza degli sconfitti. E’ questa simmetria, per certi versi inattesa, che permette di affermare che c’è una struttura tematica nel risultato del 4 marzo. E i temi chiave sono pochi ma molto rilevanti. Per M5S e PD, si tratta della credibilità per rinnovare la politica e combattere la disoccupazione; dietro il successo del M5S appare chiaramente la crisi di credibilità del PD su questi temi, oltre alla questione – più chiaramente conflittuale – della riforma delle pensioni. Viceversa, nel campo di centrodestra, sono le diverse posizioni sull’Euro ad aver premiato la Lega a danno di Forza Italia; e forza aggiuntiva alla Lega è arrivata dalla crisi della leadership di Berlusconi, soprattutto sul tema della sicurezza. Vecchi problemi, quindi (il rinnovamento della politica, la disoccupazione, la sicurezza) e nuovi conflitti (le pensioni, l’Euro, e come vedremo l’uguaglianza economica, l’immigrazione e la globalizzazione) che sembrano aver guidato in modo ben leggibile i movimenti di voto che hanno creato i vincitori e i vinti del 4 marzo.

    Veniamo quindi al dettaglio dell’analisi. Per accertare l’importanza di diversi temi nel determinare il risultato elettorale abbiamo utilizzato i dati di uno specifico sondaggio pre-elettorale CISE – parte di una ricerca internazionale che abbiamo condotto su sei paesi  (De Sio 2018) – che aveva la peculiarità di rilevare le opinioni degli intervistati su un gran numero di temi di confronto politico (circa 30); e che ovviamente includeva anche una domanda sul partito votato nelle precedenti elezioni del 2013. Di conseguenza questi dati permettono di dare una risposta a una domanda cruciale: a livello di singoli elettori, quali sono i temi che hanno portato una buona parte di loro alla scelta di cambiare partito tra 2013 e 2018, determinando così l’esito fragoroso di queste elezioni?

    Per cercare di esplorare la questione nel dettaglio, abbiamo deciso di rispondere a questa domanda in modo separato e specifico per ciascun partito: ovvero analizzando rispettivamente la scelta di passare al M5S o passare alla Lega (rispetto al rimanere fedeli al partito votato nel 2013), e poi la scelta di lasciare il PD o lasciare Forza Italia (sempre rispetto al rimanere fedeli al partito nel 2013). L’idea di fondo è che il risultato (positivo o negativo) di ciascun partito potrebbe essere dovuto a temi diversi rispetto agli altri partiti.

    In termini tecnici, abbiamo stimato quattro modelli di regressione logistica binomiale. Le quattro variabili dipendenti, rispettivamente, sono: il passaggio al M5S; il passaggio alla Lega; l’uscita dal PD; l’uscita da FI. Le variabili indipendenti sono invece le posizioni dell’intervistato sui vari temi, la credibilità che assegnava a ciascun partito per realizzare un certo obiettivo sul tema; il tutto tenendo sotto controllo il possibile effetto delle caratteristiche socio-demografiche dell’intervistato. I principali risultati sono riportati nella Tabella 1, che mostra gli effetti significativi dei diversi temi politici nei 4 modelli.

    La nostra analisi permette innanzitutto di confermare un dato che è già emerso da varie analisi dei flussi elettorali: il fatto che l’espansione della Lega sia avvenuta largamente a danno di Forza Italia, mentre quella del M5S abbia danneggiato soprattutto il PD. Questo schema – che per certi versi suggerisce il permanere di alcune linee di campo ideologiche nello spazio politico italiano, emerge anche negli specifici temi: in più di un caso, il tema che ha prodotto il successo di un partito ha anche prodotto la crisi di un altro, e quindi appare fortemente indiziato di essere all’origine del cambiamento del 2018.

    Questo aspetto si vede anzitutto confrontando M5S e PD. I temi maggiormente associati al passaggio al partito di Di Maio sono temi imperativi, ovvero obiettivi su cui c’è un largo consenso tra cittadini, e in cui la competizione si sposta su chi sia più credibile per realizzarli (Stokes 1963, De Sio 2011). Il primo di questi è il rinnovamento della politica italiana. È il tema con l’effetto statisticamente più significativo (p value inferiore allo 0,001%): al netto di molti altri fattori, ritenere credibile il M5S per rinnovare la politica italiana ha portato elettori che avevano votato altri partiti nel 2013 a scegliere di votarlo nel 2018. Effetto simile si registra per un altro tema imperativo: combattere la disoccupazione. Anche qui, al netto di altri fattori, il ritenere il M5S credibile su questo obiettivo è associato a una probabilità significativamente più alta di passare a questo partito. Ma il punto chiave emerge nel confronto col PD. I risultati mostrano chiaramente che questi punti forti del M5S sono stati proprio i punti deboli del PD: i coefficienti negativi registrati per il PD su questi temi indicano che il ritenere non credibile questo partito sul rinnovamento della politica e sulla lotta alla disoccupazione è chiaramente associato alla scelta di lasciarlo. Sembrano questi due temi quindi il terreno di scontro diretto su cui il M5S ha sottratto voti al PD.
    Troviamo poi altri fattori specifici, diversi per questi due partiti. In particolare per il M5S un altro tema economico (questa volta non imperativo, ma posizionale, quindi divisivo): la riduzione dell’età pensionabile, con la riforma della Legge Fornero. Una posizione, quella del M5S, che sembra aver avuto un’importanza significativa nell’attrarre voti: e che per certi versi rende comprensibile l’attenzione del M5S al governo verso questo tema (così come per le misure legate all’impiego, come il reddito di cittadinanza). Per il PD invece emergono altri due temi di importanza significativa: la credibilità sul buon funzionamento della sanità (che dalle analisi emerge come un punto debole che ha fatto perdere elettori) e infine la proposta di un salario minimo orario, che invece sembra aver avuto un effetto significativo nel trattenere elettori potenzialmente in fuga.

    Guardando ora a quanto avvenuto nel centrodestra, con il successo della Lega di Salvini, e il crollo di FI, possiamo innanzitutto notare come, a differenza di quanto osservato per PD e M5S, gli effetti significativi sono in questo caso per lo più per temi posizionali, ovvero temi su cui partiti e cittadini hanno posizioni ben distinte e quindi conflittuali. Il tema più importante di tutti è stato l’Euro. Su questo tema si segnala infatti sia il più significativo effetto positivo per la Lega, sia un notevole effetto negativo per FI. In pratica, desiderare l’uscita dall’euro rende più probabile il passaggio alla Lega nel 2018, mentre – per gli elettori 2013 del PDL – voler rimanere nell’euro rende statisticamente più probabile essere rimasti fedeli a FI nel 2018. Molto importante, poi, appare anche la limitazione del numero dei rifugiati, tema stavolta caro a entrambi i partiti di centrodestra. Infatti, chi desidera ridurne il numero è più probabile che entri nell’elettorato della Lega, ma anche che rimanga un elettore di Berlusconi. Un tema, quindi, che potrebbe spiegare non tanto la mobilità interna al centrodestra, ma la capacità della Lega di attrarre elettori dall’esterno.

    Ma il legame molto forte tra gli elettorati dei due partiti di centrodestra emerge anche da altri temi, che per certi versi sembrano delineare in modo preciso una sorta di passaggio di testimone dalla leadership di Berlusconi a quella di Salvini. Infatti, emerge una simmetria (anche se non perfettamente sugli stessi temi) tra i punti cruciali per l’arretramento elettorale del partito del Cavaliere e altri chiave per il successo della Lega. Da un lato, sul tema generale della sicurezza: per Berlusconi si tratta della (scarsa o perduta) credibilità sulla protezione dal terrorismo, per Salvini si tratta della credibilità (rivendicata e acquisita) sulla sicurezza rispetto alla criminalità. Dall’altro lato, sul desiderio di protezione economica manifestato da una gran parte degli elettori italiani a prescindere dalle preferenze partitiche. Per FI è stato infatti un punto debole il tema dell’uguaglianza economica (chi vuole ridurre le diseguaglianze è più facile che abbia abbandonato il PDL), mentre un punto forte per la Lega è stata la protezione verso le fasce più deboli, in termini di limitazione della globalizzazione economica. In questa simmetria di effetti appare a nostro parere una struttura abbastanza chiara, relativa a come le inquietudini dei cittadini italiani sono state sfruttate in maniera efficace dai due vincitori di queste elezioni, risultando in una struttura di cambiamenti di voto che appare complessivamente leggibile. E peraltro in sintonia con le priorità tematiche del governo in questi primi mesi di attività.

    Tab. 1 – Effetti significativi dei diversi temi per i successi e gli insuccessi dei principali partiti il 4 marzoissue_voting_tabRiassumendo, le analisi che abbiamo qui sinteticamente mostrato indicano il ruolo significativo delle issues nel determinare le fortune elettorali dei diversi partiti lo scorso 4 marzo. Inoltre, l’analisi dei temi decisivi per i successi degli uni e gli insuccessi degli altri evidenzia come i risultati di Lega e FI da una parte, e M5S e PD, dall’altra, siano inestricabilmente legati gli uni agli altri. Così la Lega è cresciuta sfruttando, oltre alla questione dell’immigrazione, la crisi della leadership di Berlusconi, non più considerato in grado di conseguire obiettivi condivisi, ma anche l’insoddisfazione degli elettori del Cavaliere per la linea europeista e di laissez-faire in economia tradizionalmente abbracciata da FI. Molto rilevante anche l’effetto positivo esercitato dal contrasto alla globalizzazione sul successo del Carroccio. Dall’altro lato il M5S sembra avere capitalizzato sul crollo della leadership del rottamatore Renzi. Infatti il PD perde a causa della sua scarsa credibilità su obiettivi condivisi, quali rinnovamento della politica e lotta alla disoccupazione: gli stessi temi su cui poggia l’avanzata del M5S. In conclusione, aspetti tematici chiari, che ci fanno dire che il risultato del 4 marzo – se letto in maniera strutturata – rivela domande e sfide di grande chiarezza, che per certi versi configurano un mandato chiarissimo al nuovo governo. Mandato che, per adesso, il governo sembra aver voluto raccogliere, visto che la maggior parte dei temi cruciali che abbiamo visto sono oggi nell’agenda dell’esecutivo. Tutt’altra questione sarà ovviamente se le soluzioni proposte saranno effettivamente adottate, e – questione ancora più cruciale – se saranno efficaci. Non è difficile immaginare che, come messo in evidenza dalle nostre analisi per il risultato del 2018, l’efficacia di queste soluzioni potrebbe avere un’importanza cruciale per i futuri equilibri elettorali del nostro Paese. Staremo a vedere.

    Riferimenti bibliografici

    Cataldi, M. (2018), ‘Crescita e nazionalizzazione della Lega di Salvini’, in Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE(11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 139-142.

    De Sio, L. (2011), Competizione e spazio politico. Le elezioni si vincono davvero al centro?, Bologna, Il Mulino.

    De Sio, L. (2018), ‘Lavoro, lotta all’evasione e limiti all’accoglienza: le priorità degli italiani e i partiti’, in Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE(11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 17-20.

    Emanuele, V. (2018a), ‘L’avanzata del M5S: un unicum tra i nuovi partiti nella storia europea’, in Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE(11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 127-128.

    Emanuele, V. (2018b), ‘L’apocalisse del voto ‘moderato’: in 10 anni persi 18 milioni di voti’, in Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE(11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 123-125.

    Emanuele, V. e De Sio, L. (2018), ‘Il sondaggio CISE: priorità dei cittadini e strategie dei partiti verso il voto’, in Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE(11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 21-30.

    Emanuele, V. e Maggini, N. (2018), ‘Disoccupazione e immigrazione dietro i vincitori del 4 marzo’, in Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE(11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 119-122.

    Emanuele, V. e Paparo, A. (a cura di) (2018), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE(11), Roma, LUISS University Press e Centro Italiano Studi Elettorali.

    Stokes, D.E. (1963), ‘Spatial Models of Party Competition’, American Political Science Review 57(2), pp. 368–377.

  • Il risultato? Ancora il clima del 4 marzo, ma il M5S (come nel 2013) non rende bene alle comunali

    Il risultato? Ancora il clima del 4 marzo, ma il M5S (come nel 2013) non rende bene alle comunali

    Come è possibile sintetizzare il dato politico che emerge dalle elezioni comunali? Chi ha vinto e chi ha perso? E’ cambiato qualcosa nel clima politico del paese rispetto al 4 marzo?

    Risposta secca: il clima politico non sembra cambiato dal 4 marzo. Rispetto alle comunali di cinque anni fa, i vincitori del 4 marzo si sono rafforzati, e i perdenti si sono indeboliti. Tuttavia, c’è una variabile fondamentale che ha prodotto il cattivo risultato del M5S e il discreto risultato del centrosinistra: si tratta della capacità dei vari schieramenti di trasformare in voti alle comunali i propri voti alle politiche. Pessima per il M5s, ottima per il Pd. Caratteristiche già viste cinque anni fa e che sono rimaste invariate, producendo il risultato di oggi.

    Nelle prossime ore pubblicheremo analisi più dettagliate. Per adesso proponiamo una lettura sintetica del risultato.

    Iniziamo dal dato più semplice, ovvero il confronto con le precedenti elezioni comunali. Per poter usare queste elezioni comunali come una valutazione dello stato complessivo dell’opinione pubblica nazionale, dobbiamo astrarre dalle situazioni locali. Quindi abbiamo calcolato, sui 90 comuni con popolazione superiori ai 15.000 abitanti (esclusa la Sicilia), degli indici medi per le performance delle varie coalizioni e partiti.

    Il primo risultato è relativo al confronto tra le percentuali ottenute, in media, da ciascuna coalizione nel 2018 rispetto al 2013. Fatto 100 il caso in cui una coalizione abbia ottenuto nel 2018 la stessa percentuale del 2013, i valori per le varie coalizioni sono rispettivamente di 150 per il Movimento 5 Stelle, di 119 per il centrodestra e infine di 72 per il centrosinistra. In altre parole, nel confronto diretto tra amministrative 2013 e 2018, la media dei risultati di questi 90 comuni ci dice che il M5S ha oggi una volta e mezza i voti del 2013, il centrodestra è cresciuto del 20%, mentre il centrosinistra è calato del 28%.

    Tuttavia questo risultato è ovvio, perché è semplicemente la proiezione dell’onda del 4 marzo, ovvero del fatto che M5S e Lega (che pesa sul risultato del centrodestra) si sono rafforzati notevolmente, come testimoniato dal risultato del 4 marzo. Di conseguenza appare interessante confrontare il risultato delle comunali non tanto con le comunali del 2013, ma con le aspettative costruite in base al risultato del 4 marzo. Per fare questa operazione è sufficiente confrontare i risultati di ciascuna tornata comunale con quello della tornata politica immediatamente precedente. Lo possiamo fare calcolando il rendimento elettorale alle comunali (brevemente: REC), ovvero la capacità di una coalizione (o partito) di trascinare anche sulle elezioni comunali il proprio risultato delle politiche. Per farlo calcoliamo, per ciascuno, il rapporto tra voti ottenuti alle comunali e voti ottenuti alle politiche. E qui è interessante confrontare i valori di REC per candidati e partiti nel 2013 e nel 2018:

    Cattura

    Il dato principale che emerge dalla tabella è la notevole stabilità nella capacità delle varie coalizioni e partiti di trasformare in voti alle amministrative quelli ottenuti alle politiche. Tuttavia una stabilità che mostra il mantenimento di alcune enormi differenze. (https://www.bottomlineequipment.com) In primis la grandissima difficoltà del M5S di tradurre le preferenze nazionali in voti alle amministrative: in questa tornata amministrativa come nella precedente, su 100 voti ottenuti dal M5S alle politiche, solo circa un terzo vengono confermati al suo candidato sindaco. Viceversa, appare confermata la capacità del centrosinistra di ottenere più voti alle comunali rispetto alle politiche: in media il candidato del centrosinistra ottiene 136 voti per ogni 100 voti di questa coalizione alle politiche. Per il centrodestra si confermano invece valori più bassi, con un rendimento stabilmente intorno all’85%. Riguardo ai singoli partiti, c’è ancora una situazione stabile, tranne che nel centrodestra: qui Fi scende di 9 punti (da un rendimento del 49% al 40%) a fronte della Lega che sale di 10 (dal 56 al 66%). Riguardo ai partiti, va notato che i rendimenti sono necessariamente più bassi rispetto a quelli dei candidati, perché alle comunali molti cittadini spesso votano solo il candidato e non il partito.

    In sostanza, questi diversi rendimenti (che sono rimasti invariati dal 2013 al 2018) ci spiegano perché la grande crescita del M5S non gli ha permesso di diventare davvero competitivo alle comunali: a causa del fatto che ha ancora uno scarsissimo rendimento. Al tempo stesso ci dicono perché il disastro elettorale del centrosinistra alle politiche lo vede tuttavia ancora competitivo a livello locale: a causa del suo altissimo rendimento, per cui alle comunali prende addirittura più voti (e in termini assoluti!) che alle politiche. Un risultato notevole, soprattutto alla luce di un’affluenza alle comunali più bassa di circa 11 punti rispetto alle politiche.

    Un’ultima considerazione va fatta infine riguardo al risultato delle comunali come barometro del clima di opinione nel paese, a due mesi dal risultato del 4 marzo. La stabilità complessiva dei rendimenti rispetto alla tornata precedente ci dice che, in sostanza, dal 4 marzo non è cambiato granché: i risultati di queste amministrative sono di fatto largamente in linea con una previsione basata sull’onda del 4 marzo. Con un’unica vistosa eccezione: Lega e Forza Italia. La prima è andata sensibilmente meglio delle aspettative, costruite proiettando sulle amministrative il risultato del 4 marzo; invece la seconda è andata sensibilmente peggio. Di conseguenza, la dinamica sembra suggerire un chiaro cambiamento nei rapporti di forza interni al centrodestra, con un rafforzamento significativo della Lega rispetto al risultato delle politiche di pochi mesi fa; mentre, rispetto a quel risultato, non si vedono cambiamenti significativi per M5S e Pd. Questo significa che il M5S non è riuscito a sfruttare la propria posizione di governo per aumentare la propria credibilità amministrativa tra chi l’ha votato alle politiche; e che il Pd sconfitto (e all’opposizione) invece l’ha mantenuta invariata.

  • Comunali: chi potrà dire di aver vinto?

    Comunali: chi potrà dire di aver vinto?

    Come abbiamo visto nel precedente articolo di Emanuele e Maggini, queste elezioni amministrative presentano una serie importante di interrogativi. Il M5S riuscirà a tradurre la sua forza delle ultime politiche in un successo anche nelle elezioni comunali? La Lega prenderà in modo deciso la leadership del centrodestra, relegando Forza Italia a percentuali molto basse, oppure no? In generale: i risultati delle comunali confermeranno le tendenze che si sono viste alle ultime elezioni politiche?

    Quest’ultimo interrogativo complessivo chiama in causa una domanda più generale, che riguarda la costruzione delle aspettative sui risultati di una qualunque elezione (specie per le elezioni comunali). In linea di principio, infatti, ogni risultato elettorale può essere confrontato in modo rigoroso soltanto con il risultato di un’elezione omologa: comunali con comunali precedenti, europee con europee precedenti, politiche con politiche precedenti, e così via. Tuttavia è innegabile che in molte occasioni questo criterio può risultare fuorviante. Ad esempio: un Pd che magari andasse peggio delle precedenti comunali, ma solo leggermente, come dovrebbe essere valutato? Come una netta sconfitta, o invece come aver limitato i danni rispetto a ciò che ci si poteva aspettare dopo il disastro elettorale del 4 marzo?

    E’ chiaro che qui si entra in un terreno scivoloso, che è quello della costruzione delle aspettative, in cui si apre un considerevole margine di incertezza e arbitrarietà delle interpretazioni. E’ proprio per cercare di ovviare a questo problema che abbiamo sviluppato una piccola riflessione per capire come è possibile costruire in maniera semplice aspettative relativamente condivisibili sull’imminente risultato delle comunali.

    L’idea è molto semplice, e parte dalla considerazione che molto spesso per sviluppare modelli matematici di un fenomeno è spesso utile partire da assunti elementari (Taagepera 2008). L’aspettativa di riferimento, per noi, è quella in cui ciascun partito, paragonato alle recenti elezioni politiche, faccia la stessa performance che ha fatto alle precedenti comunali rispetto alle precedenti politiche. Più banalmente:se, ad esempio, il M5S alle comunali 2013 aveva preso la metà dei voti delle politiche 2013, l’aspettativa “neutrale” è che alle imminenti comunali dovrebbe dimezzare i voti rispetto alle politiche del 4 marzo. In semplici termini matematici,

    eq2

    Dove, per un qualunque partito, pt è il risultato delle politiche, pt-1 è il risultato delle politiche precedenti, ct è il risultato delle comunali e ct-1 è il risultato delle comunali precedenti.

    Questa aspettativa ovviamente non tiene conto dei fattori locali, ma interpreta l’elezione comunale come una sorta di sondaggio di opinione, che serve a misurare il clima di opinione pubblica[1]. Verrà quindi smentita in un singolo comune, ma nel risultato complessivo su molti comuni permetterà di valutare effettivamente se il risultato delle comunali riflette perfettamente la dinamica del cambiamento visto alle politiche, o se invece la Lega è andata meglio o peggio delle aspettative. Non solo. Questa aspettativa, confrontando il risultato di elezioni omologhe, incorpora già – ad esempio – il fatto che partiti come Pd e Fi tradizionalmente erano penalizzati nelle elezioni comunali dalla presenza di candidati “civici”. In altre parole, disponiamo di una base rispetto alla quale valutare la performance alle comunali dei singoli partiti, tenendo conto di come il risultato del 4 marzo testimonia un cambiamento nelle scelte degli italiani rispetto al 2013. L’aspettativa è infatti che i due rapporti della formula sopra siano uguali: ma avremo la possibilità di vedere empiricamente se sarà andata davvero così. Non solo: lo possiamo fare al livello del singolo comune, evidenziando quindi in quali comuni un partito è andato meglio o peggio delle aspettative.

    E’ quello che faremo all’indomani del risultato elettorale. Sin d’ora però è interessante vedere quali risultati potremmo aspettarci nel primo turno di elezioni comunali di domenica prossima. Nella Tabella 1 riportiamo le stime puntuali che abbiamo generato, con il modello di cui sopra, per le principali coalizioni e i maggiori partiti nei 20 comuni capoluogo di provincia chiamati al voto in queste comunali.

    Tab. 1 – Risultati attesi per partiti e coalizioni nei comuni capoluogo al voto (clicca per ingrandire)previsioni

    Dalle nostre stime, si osserva come sostanzialmente tutti i capoluoghi dovrebbero andare al ballottaggio. Solo a Siena, una eventuale vittoria al primo turno del centrosinistra non rappresenterebbe una sorpresa. Anche lo sconto applicato in Sicilia per vincere al primo turno (basta il 40% dei voti) non dovrebbe cambiare il quadro. Nessun candidato nell’isola è infatti stimato sopra il 30%.

    Si nota poi come il M5S non dovrebbe riuscire a centrare alcun ballottaggio nei comuni capoluogo. I suoi candidati dovrebbero raccogliere fra il 7 e il 16%. Se così dovesse essere, dunque, non si tratterebbe di un risultato negativo per il partito di maggioranza relativa alle politiche, ma solo una conferma delle sue difficoltà in elezioni locali. Se, al contrario, il Movimento dovesse riuscire ad accedere ad un numero significativo di ballottaggi nei capoluoghi, questo significherebbe una sua avanzata locale, con un rendimento alle comunali superiore rispetto a quello del 2013.

    Alla vigilia del primo turno, quindi, possiamo attenderci una tornata che si risolverà al ballottaggio, con sfide fra centrodestra e centrosinistra[2], con questi due poli in equilibrio quanto a città in cui dovrebbero essere in testa o in ritardo dopo il primo turno. In particolare, il centrosinistra dovrebbe riuscire ad essere avanti con i suoi candidati nella Zona Rossa e nel Nord-Est, mentre il centrodestra dovrebbe essere in vantaggio nel Nord-Ovest e (salvo eccezioni) al Sud. Deviazioni sistematiche rispetto a questa aspettativa rappresenterebbero delle novità cui prestare attenzione.

    Veniamo alle previsioni relative ai risultati dei partiti. Qui, per quanto su percentuali più basse rispetto alle politiche per via della presenza di candidati civici e liste civiche nelle coalizioni principali, il PD dovrebbe mantenere la palma di primo partito nella Zona Rossa, la Lega dovrebbe essere generalmente prima al Nord, così come il M5S al Sud. Da rilevare, tuttavia, come il partito di Salvini potrebbe essere il più votato anche in alcuni capoluoghi del Sud. Infatti, oltre agli ottimi risultati del Nord (tra il 20 e il 30%), la Lega dovrebbe raccogliere oltre il 10% non solo nella Zona Rossa ma anche nel Lazio e in Abruzzo, mentre continuerebbe ad essere più debole nel Sud più profondo – con risultati attorno al 5%.

    Il PD è stimato fra il 15 e il 25% nel centro-nord, mentre si attesterebbe al attorno al 10% al Sud. Come ormai consuetudine, la lista del M5S dovrebbe fare segnare risultati un poco più magri di quelli dei candidati, che dovrebbero essere un po’ più deboli al Nord – dove raramente raggiungono il 10%. Forza Italia, infine, non dovrebbe raggiungere il 10% dei voti in nessun capoluogo, né, quindi, mai essere il partito più votato. Il partito di Berlusconi è stimato dietro alla Lega in tutto il centro-nord, mentre dovrebbe prevalere sul rivale di centrodestra in tutti i capoluoghi a sud di Lazio e Abruzzo. Vedremo domenica se sarà così, o se invece queste elezioni comunali segneranno un ulteriore sbilanciamento nei rapporti di forza, come i sondaggi delle ultime settimane lasciano intravedere.

    Riferimenti bibliografici

    De Sio, L., D’Alimonte, R. e Paparo, A. (2017), ‘Chi ha fatto palo? Il mistero del 67 a 59 alle ultime comunali’, in Paparo, A.(a cura di), La rinascita del centrodestra, Dossier CISE (9), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 201-204.

    Taagepera, R. (2008), Making social sciences more scientific: The need for predictive models, Oxford, Oxford University Press.


    [1] Per ridurre l’impatto di specificità locali sulle nostre stime, abbiamo usato non il rapporto Ct-1/Pt-1 di ciascun comune, ma quello medio per zona. Per la Lega al Sud non avevamo dati sufficienti per stimare accuratamente tale rapporto. La Lega, infatti, era presente solo in un comune meridionale sui 66 superiori al voto. Quindi, abbiamo stimato il rapporto medio Ct-1/Pt-1 fra tutti i comuni del Sud e della Zona Rossa (altra area di tradizionale debolezza della Lega), e applicato questo ai comuni del Sud.

    [2] Come sempre, per noi il centrosinistra è la coalizione di cui fa parte il PD, e il centrodestra quella di cui fa parte FI, in entrambi i casi a prescindere da quali altre liste facciano parte o meno dello specifico formato coalizionale.

  • Davvero il fallimento del “governo del cambiamento” gioverà a M5S e Lega?

    Davvero il fallimento del “governo del cambiamento” gioverà a M5S e Lega?

    “Se si va a votare sul veto a Savona questi prendono l’80%”. Dicono ne sia convinto Massimo D’Alema. Ma sarà davvero così? Davvero il fallimento del progetto di “governo del cambiamento” (per lo scontro sul nome di Paolo Savona) è destinato a produrre dividendi elettorali per M5S e Lega?

    In realtà è possibile nutrire qualche dubbio. Non in base a considerazioni generali, ma in base a un dato. Il dato è molto semplice: gli elettori del M5S (e in parte anche quelli della Lega) non sono affatto così anti-Euro come sono stati spesso dipinti. Dai dati CISE del febbraio scorso risulta che circa il 60% degli elettori M5S è per restare nella UE (61%) e per restare nell’Euro (56%); nella Lega questa percentuale scende intorno al 40% (rispettivamente 42 e 38), ma è pur sempre ragguardevole. In altre parole le basi di questi due partiti (soprattutto il M5S) sono tutto fuorché compattamente euroscettiche: e in una campagna elettorale in cui si discuta apertamente (dovendo prendere una posizione chiara) di “piano B”, entrambi i partiti si troverebbero in verosimile imbarazzo, con la loro base elettorale essenzialmente spaccata in due.

    Questo spiega perché in queste ore si stia consumando una battaglia su quello che gli esperti di comunicazione chiamano “framing”, ovvero su come il fallimento di Conte (sul nome di Savona) verrà inquadrato e declinato nella campagna elettorale. Il Quirinale ha detto in modo chiaro che il motivo del veto su Savona è la sua posizione ambigua e critica rispetto a una questione chiave: la collocazione dell’Italia nell’Euro. Viceversa, per i motivi appena visti, M5S e Lega stanno comprensibilmente cercando di imporre un framing diverso: quello per cui questi partiti in realtà non considerano l’uscita dall’Euro, né un piano B, né che il professor Savona abbia espresso questi orientamente; e che in realtà la rottura sarebbe avvenuta a causa di una sudditanza di Mattarella verso i mercati, i “poteri forti”, e le altre capitali europee.

    Come abbiamo visto, questa strategia è ben comprensibile, visto che sia Di Maio che Salvini sanno che i loro elettori difficilmente lì seguirebbero in una linea chiaramente anti-Euro. E infatti la previsione più verosimile è che, nel corso della campagna elettorale, i due partiti – quando sfidati sul tema dell’Europa – cercheranno di evitare la questione divisiva della collocazione nell’Euro, tentando di imporre il framing ecumenico e non divisivo del far contare di più l’Italia in Europa, che non corrisponde a una posizione euroscettica. D’altra parte è difficile pensare che questa battaglia del framing possa essere vinta da M5S e Lega, e che in campagna elettorale nessuno chieda loro di prendere una posizione chiara sull’Euro. Quindi il rischio per questi due partiti è anche che la loro posizione “ecumenica” sul far contare di più l’Italia in Europa venga inevitabilmente interpretata da molti elettori con il sospetto dell’allusione a una possibilità reale di considerare l’uscita dall’Euro. Una volta che questa questione è entrata nel dibattito politico in relazione al caso Savona, sembra difficile che la percezione che i cittadini hanno di questi due partiti possa tornare indietro a prima di questi eventi. Di conseguenza, rispetto alla campagna elettorale appena vista, in cui l’Europa è rimasta decisamente sullo sfondo, possiamo aspettarci che il tema europeo sarà invece al centro dell’imminente campagna elettorale. E questo potrebbe rappresentare un problema soprattutto per il M5S, il cui successo ha finora sfruttato in modo cruciale una voluta vaghezza delle sue posizioni su molti temi (tra cui quello dell’Europa).

    Va infine osservato che esiste un altro motivo per cui il M5S sta, comprensibilmente, insistendo sul presunto “colpo di stato” di Mattarella: sviare l’attenzione dalla cattiva gestione pentastellata della trattativa per il governo. Di Maio deve infatti rispondere di un esito finale pessimo. Era riuscito infatti (con una campagna eccellente, giocata sulla sua abilità nel proporre un profilo rassicurante e “governativo” per il M5s) a portare il suo partito al 33%, e alla fine anche a sedersi a una trattativa con la Lega, separandola con successo dal centrodestra. Tuttavia da quel momento in poi è emerso chiaramente che Salvini e i suoi hanno fatto valere la loro maggiore esperienza, e alla fine l’indirizzo politico del futuro governo – soprattutto alla chiusura finale, centrata sulla figura di Paolo Savona come ministro dell’Economia – erano decisamente più vicini alle priorità e posizioni della Lega che a quelle del M5S. Con il paradosso finale che la rottura (con il sogno di sedersi al governo sfumato in poche ore) si è consumata di fatto sulla questione del “piano B” per considerare l’uscita dall’Euro: un tema niente affatto cruciale (anzi divisivo) per il M5S. Così nel M5S è serpeggiata la sensazione che il M5S si sia fatto “usare” da Salvini.

    Riguardo alla Lega, per questo partito anche una posizione netta sul “piano B” forse è più facilmente gestibile (anche se il suo elettorato su questo è diviso). Tuttavia non va dimenticato che l’importante ruolo di Salvini è stato possibile in quanto primo partito di una coalizione che ha preso il 35% e che comprendeva altri partiti (tra cui Forza Italia). In caso di nuove elezioni, per Salvini sarebbe così facile correre da solo? E se si ricostruirà una coalizione di centro-destra, sarà facile trovare un accordo su posizioni che contemplano apertamente una possibile uscita dall’Euro? Sono questioni aperte.

    E un’ultima considerazione va al Pd. Vedendo come Salvini era riuscito a portare a proprio vantaggio la trattativa con il M5S, viene da pensare che, se avesse accettato di trattare, un Pd dotato di una strategia più o meno chiara (che non fosse solo tattica elettorale) avrebbe probabilmente condotto il M5S a una trattativa con un esito positivo, e lontano dalle sirene del “piano B” e degli attacchi al presidente della Repubblica. E verosimilmente oggi avremmo un governo in grado di ottenere la fiducia delle Camere. Caratterizzato da tensioni, ma pur sempre un governo.

    È anche dal Pd (che su Europa e Euro ha un elettorato molto compatto, quindi può puntare sul tema senza rischi) che dipenderà se il M5S (e forse la Lega) pagherà un prezzo per la propria ambiguità sull’Euro. Tuttavia il Pd attuale (ancora percepito come vicino alle elite, e lontano dai ceti più disagiati, e che non ha ancora avviato un’analisi del voto del 4 marzo) difficilmente può avere molto appeal per quegli elettori di sinistra delusi che avevano scelto il M5S e magari potrebbero lasciarlo per timore di una linea anti-Euro. Sarà probabilmente necessario un cambio di strategia. Staremo a vedere.

  • Con più Europa e accoglienza, ma più a destra sull’economia: l’elettorato Pd è diventato “radicale”?

    Con più Europa e accoglienza, ma più a destra sull’economia: l’elettorato Pd è diventato “radicale”?

    Che cos’è oggi il Pd? Si tratta di una delle domande più importanti per i futuri assetti del sistema partitico italiano, visto che quello che appariva come uno dei cardini del sistema è anche stato il maggiore sconfitto nel voto del 4 marzo. Un partito che oggi appare indeciso su alcune opzioni cruciali: con quali partner accettare una collaborazione al governo; quali scenari di competizione (e con quali leggi elettorali) immaginare per il futuro; quali prospettive programmatiche e aree di opinione rappresentare.

    Questioni lunghe e complesse da analizzare e definire; cui tuttavia può essere interessante contribuire con un’analisi di come è cambiato l’elettorato Pd tra 2013 e 2018. Quel che è certo è che il nuovo gruppo dirigente guidato da Renzi ha impresso al Pd una direzione nuova rispetto al precedente: con il successo delle Europee del 2014, seguito poi da una fase più complessa, caratterizzata da provvedimenti controversi come il Jobs Act e la Buona Scuola. Una fase segnata da sconfitte elettorali (nelle varie tornate amministrative e nel referendum costituzionale), ma al tempo stesso caratterizzata dall’ostinata determinazione di Renzi (anche a volte in tensione col governo Gentiloni) nel voler imprimere al Pd un profilo nuovo, più simile al centrismo di Macron che al vecchio Pd socialdemocratico di Bersani. E’ quindi interessante vedere se c’è traccia di questo cambiamento nell’elettorato Pd. Gli elettori del Pd di Renzi del 2018 sono diversi da quelli del Pd di Bersani del 2013?

    Prima di entrare nei dettagli anticipo le conclusioni: l’elettorato del Pd tra 2013 e 2018 si è evoluto in una direzione che lo rende più “radicale”, in due sensi: in un primo senso, le posizioni più nette di questo elettorato nel 2018 lo hanno reso più radicale in senso stretto (quindi meno moderato), allontanandolo dalla posizione media degli elettori italiani (su alcuni temi, più a sinistra, su altri più a destra); in un secondo senso, il profilo dell’elettorato Pd di oggi sembra ricordare per certi versi quello del Partito Radicale di qualche anno fa, che nelle parole di Pannella (che a sua volta si ispirava ai partiti liberal-radicali borghesi di fine Ottocento) era “liberale, liberista, libertario”, ovvero una sintesi originale di posizioni di sinistra sui diritti civili e di destra sull’economia.
    Ma andiamo con ordine.

    Per analizzare il cambiamento dell’elettorato Pd tra 2013 e 2018 ci basiamo sui dati di un sondaggio CISE (condotto poco prima delle elezioni) che ha la peculiarità di aver incluso un numero di domande molto ampio per rilevare la posizione dell’intervistato su temi d’attualità. Accanto a queste, oltre all’intenzione di voto (che si è rivelata poi prevedere quasi perfettamente il risultato finale, anche se il sondaggio era stato svolto circa un mese prima), avevamo chiesto una domanda sul voto passato, ovvero sul partito votato nel 2013.

    Con questi dati diventa possibile un’operazione semplice ma utile. Per ogni partito si possono ricostruire le posizioni sui vari temi di chi l’aveva votato cinque anni fa, e poi confrontarle con quelle di chi l’ha votato oggi. In altre parole, misurare come la base elettorale dei vari partiti è cambiata tra le due elezioni. Il nostro fuoco di analisi principale è sul Pd: ma ovviamente è indispensabile il confronto con gli altri partiti per capire se ci sono cambiamenti specifici del Pd o se si tratta di fenomeni generalizzati.

    La tabella 1 presenta anzitutto i dati di partenza. Per ciascuno dei 15 temi esaminati (raggruppati per aree tematiche), la tabella riporta la posizione media degli elettori di ciascun partito, su una scala da 0 a 100 dove 0 rappresenta la posizione più progressista (sinistra) e 100 quella più conservatrice (destra). Per ogni partito abbiamo calcolato separatamente la posizione media di chi l’aveva votato nel 2013 e di chi l’ha votato nel 2018: in questo modo si può vedere facilmente quali elettorati sono cambiati maggiormente, e su quali temi. Infine abbiamo riportato la posizione media dell’intero campione, per permettere di valutare facilmente se l’elettorato di un partito è più a sinistra o più a destra della media, o se addirittura abbia scavalcato l’elettore medio tra 2013 e 2018 (è il caso del Pd sulla libertà di licenziamento: nel 2013 era più progressista della media, oggi è più conservatore della media).

    Tabella 1 – Posizioni medie su 15 temi (punteggi su una scala 0=progressista – 100=conservatore) degli elettorati di vari partiti nel 2008 e 2013.

    _riepilogo_issue_1

    La tabella 1 è utile per fornire le informazioni di partenza. Tuttavia, per rendere più facile l’interpretazione del cambiamento, la tabella 2 (più in basso) riporta direttamente le differenze tra 2013 e 2018 (prime quattro colonne, espresse in punti percentuali). In questo caso sono colorate di rosso o di blu, quando l’elettorato di un partito è oggi più a sinistra rispetto al 2013 (in rosso) o se invece è più a destra (in blu). Inoltre, per comodità, questi cambiamenti sono stati sintetizzati anche in termini di media per ciascuna di quattro aree tematiche: diritti civili, economia, Europa, immigrazione. Infine, questi cambiamenti in ogni area sono sintetizzati in un indice di cambiamento complessivo (in nero, nella riga in fondo alla tabella).

    Un primo dato da sottolineare è che la base del Pd è quella che cambia maggiormente tra 2013 e 2018. Lo si può vedere dall’indice di cambiamento complessivo: mentre per gli altri partiti il cambiamento medio nelle quattro aree tematiche è stato di 2 punti (a prescindere se verso sinistra e verso destra), per il Pd è stato di 4 punti.

    Ma il punto interessante è vedere come questo cambiamento si è articolato nelle quattro aree tematiche. In fondo gli eventi degli ultimi anni hanno mostrato un Pd che ha preso posizioni decisamente più moderate sull’economia (ad esempio con misure come il Jobs Act), tuttavia dicendo nettamente “qualcosa di sinistra” sui diritti civili. In questo senso, i dati sembrano mostrare una risposta dell’elettorato, con un elettorato Pd del 2018 (che, va ricordato, è di circa il 30% più piccolo rispetto 2013) che in effetti è un po’ più a destra sull’economia e un po’ più a sinistra su altri temi. Le differenze medie per il Pd sono infatti di 1 punto verso sinistra sui diritti civili, di 3 punti verso destra sui temi economici, di 6 punti verso un maggiore europeismo, e addirittura di 7 punti a sinistra sui temi dell’immigrazione.

    Tabella 2 – Differenze tra gli elettorati di vari partiti nel 2008 e 2013. Differenze sinistra-destra, e avvicinamento-allontanamento dall’elettore medio (punti, su una scala 0-100 progressista-conservatore)

    _riepilogo_issue_2

    L’elettorato del Pd di Renzi del 2018 appare quindi nettamente più europeista rispetto a quello di Bersani del 2013 e nettamente più progressista sui temi dell’immigrazione. Viceversa gli spostamenti sono più contenuti sui diritti civili (gli elettorati Pd di 2013 e 2018 sono molto simili), mentre invece il dato interessante è sull’economia. Qui (ad eccezione della flat tax e del salario minimo, dove non c’è quasi differenza tra elettori Pd 2013 e 2018), l’elettorato 2018 del Pd appare sensibilmente più a destra rispetto al 2013 (abbiamo classificato i temi come “di sinistra” o “di destra” in base alle interpretazioni classiche novecentesche di questi due concetti). I temi su cui si registra un cambiamento più significativo sono anzitutto la promozione della globalizzazione economica (differenza di 7 punti verso destra tra elettori 2013 e 2018) e la maggior libertà per le aziende di assumere e licenziare (differenza di 4 punti). Questo tema, legato ovviamente al Jobs Act registra un cambiamento peculiare, perché questo spostamento di 4 punti si accompagna a uno “scavallamento” di posizione: mentre l’elettorato Pd 2013 è più contrario a questa maggior libertà di licenziamento rispetto alla media del campione, quello del 2018 è invece più favorevole rispetto alla media. Differenze simili si registrano su temi come l’età pensionabile, il reddito di cittadinanza, la riduzione delle differenze di reddito: su tutti questi temi l’elettorato del Pd 2018 ha una posizione media che è un po’ più a destra rispetto a quello del 2013.

    Fin qui, quindi una conferma delle aspettative legate al cambio di strategia del Pd degli ultimi anni, in cui si riconosce uno spostamento verso una prospettiva “macroniana”, che coniuga posizioni decisamente più liberiste in economia con posizioni di sinistra su diritti civili (e in parte sull’immigrazione): posizioni simili a quelle tradizionalmente propugnate in Italia dal Partito Radicale fondato da Marco Pannella; un dato che per certi versi è in linea con l’immagine di un Pd che è diventato partito delle élite (analisi che appare peraltro confermata da un confronto – che non pubblico per brevità – con il Pd del 2013, che era ancora nettamente interclassista).

    Il problema tuttavia (e questo potrebbe essere una parte della spiegazione del disastro elettorale del Pd) è sapere quanto queste posizioni siano diffuse e maggioritarie nella società italiana. Per cercare di valutare la questione, nella parte più a destra della tabella (ultime 4 colonne) presento una diversa valutazione del movimento di ciascun elettorato: non più se sia andato verso sinistra o verso destra, ma se si sia avvicinato o allontanato dalla posizione media dell’elettore italiano. Stavolta il verde indica un avvicinamento all’elettore medio (la distanza si riduce), mentre il rosso indica un allontanamento (la distanza aumenta). E qui in effetti forse si inizia a capire da dove potrebbero essere venuti un po’ di problemi per il Pd. Soprattutto confrontando con gli altri partiti, si vede che il Pd è l’unico partito a essersi allontanato dall’elettore medio su tutte le 4 aree tematiche considerate: per certi versi quindi, un partito più radicale, ovvero un partito con un elettorato che oggi è più lontano dalla posizione media degli italiani su molti temi.

    Il dato è notevole sui temi dell’immigrazione e sull’Europa: sull’immigrazione, l’elettorato di oggi del Pd è di sette punti più lontano dalla media degli italiani rispetto a quello del 2013 (ad esempio con un indice 58 – leggermente favorevole – per ridurre il numero di rifugiati, contro il 64 degli elettori Pd 2013, ma a fronte di un 75 dell’elettore medio italiano); sull’Europa, di 6 punti più lontano. Differenze più contenute – ma sempre in direzione sfavorevole – si registrano sui diritti civili (1 punto di allontanamento). Infine veniamo all’economia: qui la media (su sette temi) è di 2 punti di allontanamento dall’elettore medio, che però nel dettaglio rivelano 7 punti di allontanamento sul promuovere la globalizzazione economica (il Pd del 2018 è l’unico partito con un elettorato favorevole, con Fi sulla posizione neutrale di 50 e gli altri partiti che invece la vogliono limitare), e 3 punti di allontanamento dalla media su pensioni e reddito di cittadinanza. Lo spostamento sulla libertà di licenziare invece non produce un aumento di distanza (anzi, la distanza dalla media si riduce) semplicemente perché i 4 punti di spostamento a destra si traducono in uno “scavallamento” (vedi sopra) per cui la distanza è ancora molto bassa. Tuttavia l’interpretazione complessiva è molto chiara: rispetto agli altri partiti, il Pd di oggi è un partito con un elettorato più piccolo e più radicale rispetto al 2013: più a favore di Europa e immigrazione, più di destra sull’economia. Una “piccola radicalizzazione” che però produce il risultato paradossale per cui (cifre non riportate qui per brevità) il Pd e la Lega sono oggi i due partiti più radicali, ovvero che hanno posizioni più distanti dall’elettore medio; mentre Fi e M5S, che hanno elettorati meno estremi e caratterizzati. Si tratta di un risultato che vale in tutte e quattro le aree tematiche considerate.

    Se dovessimo applicare la teoria economica della democrazia di Anthony Downs (1957), ci riterremmo autorizzati a pensare che questo allontanamento del Pd dall’elettore medio sia tra le cause del disastro elettorale del 4 marzo. Tuttavia per giungere a queste conclusioni sono ancora necessarie ulteriori analisi. Per adesso tuttavia non si può non registrare che oggi – rispetto al 2013 – l’elettorato del Pd è più radicale, e ricorda maggiormente il vecchio Partito Radicale.

  • Il ritorno del voto di classe, ma al contrario (ovvero: se il PD è il partito delle élite)

    Il ritorno del voto di classe, ma al contrario (ovvero: se il PD è il partito delle élite)

    All’indomani del voto, alcuni primi elementi suggeriscono che uno dei motivi del fragoroso esito elettorale del 4 marzo sta nella scarsa capacità dei partiti tradizionali di rispondere in modo efficace alle inquietudini degli italiani. Inquietudini generate dalle profonde trasformazioni socio-economiche che stanno investendo il nostro paese. Abbiamo suggerito questa interpretazione in una prima analisi su dati a livello provinciale, in cui mostravamo che – a parità di varie condizioni socio-economiche – le province con livelli più alti di disoccupazione presentavano maggiore crescita del M5S, mentre le province con maggior aumento della presenza di immigrati presentavano un voto più alto alla Lega.

    Questo risultato è interessante e significativo, perché è in linea con una teoria ormai consolidata, proposta per la prima volta dal gruppo di ricerca di Hanspeter Kriesi nel 2006 (Kriesi et al. 2006), per cui nei paesi dell’Europa Occidentale i cambiamenti nei comportamenti di voto e il successo di nuovi partiti sarebbero legati agli effetti di processi di trasformazione come la globalizzazione (sia in senso economico che in senso culturale) che – nel loro produrre vincenti e perdenti (ad esempio i lavoratori i cui posti di lavoro vengono delocalizzati, vedi il recente caso Embraco) – generano conflitti che possono essere cavalcati e politicizzati con successo dai partiti.

    Abbiamo iniziato ad approfondire quest’analisi su dati di sondaggio raccolti nelle ultime settimane prima del voto (con risultati che pubblicheremo nei prossimi giorni), ma – nel prepararla – ci siamo imbattuti in un risultato inaspettato, che abbiamo ritenuto di pubblicare immediatamente: la scoperta che una variabile che ritenevamo ormai irrilevante nella realtà politica italiana, la classe sociale, ha in realtà un effetto significativo sul voto, e in una direzione inaspettata.
    Il risultato in sintesi: Il PD è l’unico partito per cui si registrano effetti significativi della classe sociale sul voto, ma nella direzione inattesa di un suo confinamento nelle classi sociali più alte e con un reddito più alto. In sostanza il PD del 2018 sarebbe diventato il partito delle élite. Il che aiuterebbe a spiegare perché la parte d’Italia preoccupata dalla precarietà economica e agitata da paure identitarie si sia indirizzata – dando loro oltre il 50% dei voti – verso partiti come Movimento 5 Stelle e Lega.

    Vediamo più in dettaglio i risultati. Uno dei sondaggi condotti dal CISE nella settimane prima del voto comprendeva una domanda specifica riguardo alla autopercezione dell’intervistato della propria classe sociale. Si chiedeva di scegliere tra varie parole quale si riteneva più adatta per descrivere la propria classe sociale: classe operaia, classe medio-bassa, classe media, classe medio-alta e classe alta. In secondo luogo, abbiamo usato anche una domanda relativa agli standard di vita dove la persona collocava se stessa, su una scala da 1 a 7 dove gli estremi erano rispettivamente gli standard di vita di una famiglia povera e gli standard di vita di una famiglia ricca (entrambe le domande sono utilizzate di routine con queste formulazioni in varie indagini internazionali, così come la domanda sulla propensione di voto verso un partito, su una scala da 0 a 10).

    I risultati, come dicevamo, sono sorprendenti:

    • – Tra tutti i partiti, nessuno mostra effetti significativi della classe sociale: la propensione a votarli (che sia alta o bassa) non varia in modo significativo tra le classi sociali;
    • – L’unica eccezione è il PD: per questo partito si registra invece una propensione al voto bassa nelle classi sociali basse e medie, e invece sensibilmente maggiore nella classe medio-alta, che quindi configura un confinamento di questo partito nella classe medio-alta.

    In termini grezzi (ovvero le semplici percentuali di voto al PD nelle varie classi, ma col rischio dell’effetto di altre variabili, ad esempio a causa del maggior livello di istruzione delle classi più alte), il voto al PD – rispetto al 18,4% dell’intero campione – è del 13,1% nella classe operaia, del 19,4% in quella medio-bassa, del 18,3% in quella media, mentre sale al 31,2% in quella medio-alta. Tuttavia, per stimare l’effetto della classe al netto di quello di altre variabili, abbiamo stimato un modello statistico di regressione lineare che comprende molte variabili di controllo. Il dettaglio è nel grafico in figura 1, che mostra come varia la propensione a votare il PD (su una scala da 0 a 10) al variare della classe sociale, dopo aver eliminato l’effetto di altre variabili (zona geografica di residenza, dimensione del comune, sesso, età, titolo di studio, professione, settore di attività – di queste vedi gli effetti più avanti). Per ogni barra è anche riportato il margine di incertezza statistica della stima.

    Figura 1 – Propensione a votare PD (scala 0-10) in base alla classe sociale, al netto dell’effetto di altre variabili

    classe_pdCome si può vedere, tra le prime tre classi sociali riportate (operaia, medio-bassa, media) la propensione a votare PD rimane complessivamente abbastanza bassa, senza differenze significative. E invece nella classe più alta compresa nel nostro campione (abbiamo combinato insieme gli intervistati della classe medio-alta e alta perché quelli nella classe alta erano troppo pochi) sale ai livelli tipici di una buona probabilità di voto PD. Questa differenza è statisticamente significativa (ovvero, è trascurabile la probabilità che questo risultato sia soltanto effetto del caso), come si può vedere dal fatto che, anche tenendo conto della forbice di incertezza statistica, la propensione nella classe medio-alta è superiore a quella nelle altre classi sociali.

    Questo risultato è ulteriormente rinforzato dall’ulteriore analisi sul livello di standard di vita (ovvero considerare il proprio standard di vita più vicino a quello di una famiglia povera oppure a quello di una famiglia ricca). Anche qui emerge un effetto analogo per il PD (dettagli non mostrati qui), che quindi vede la propria propensione di voto salire in modo sensibile tra le persone con uno standard di vita più agiato. In questo caso si tratta un effetto condiviso con altri partiti (in particolare con Forza Italia), anche se non con la stessa forza e nettezza.

    In sintesi: diversamente da tutti gli altri partiti, il sostegno al PD appare confinato nella classe sociale medio-alta. Messo insieme agli altri dati visti precedentemente (l’effetto di disoccupazione e immigrazione), questo dato appare un ulteriore tassello rilevante per comporre il mosaico del risultato del 4 marzo. Il fatto che il PD (il grande sconfitto di queste elezioni, il cui tracollo elettorale costituisce una gran parte – come mostrato dalle analisi di flusso dell’Istituto Cattaneo – del successo della Lega e del M5S) appaia confinato nella classe medio-alta – che lo configura quindi come partito delle élite – è infatti coerente con la strategia scelta dal partito di puntare su temi come l’innovazione tecnologica, i diritti civili, l’integrazione europea, la globalizzazione, e più in generale con una narrazione ottimistica delle trasformazioni dell’economia e della società contemporanea. Tuttavia l’altra faccia di questa strategia è che, inevitabilmente, i ceti che si sentono minacciati dagli effetti negativi di queste trasformazioni non hanno percepito il PD come un partito in grado di ascoltare le loro istanze.

    Questo è accettabile per un partito d’élite; ma chiaramente non lo è per un grande partito di massa a vocazione maggioritaria che voglia esprimere una cultura di governo. Nella storia d’Italia simili grandi partiti (dalla Democrazia Cristiana a Forza Italia, dal PdL fino all’esperienza dell’Ulivo) hanno sempre espresso la capacità di conciliare l’attenzione ai ceti più dinamici della società con la capacità di comprendere e sostenere chi rimaneva indietro. Ignorare i ceti più deboli è una strategia legittima, ma bisogna sapere che questo porta inevitabilmente a restringere in modo radicale il proprio bacino di consenso. Vedremo come evolverà la strategia del Pd.

     

    Appendice: gli effetti di altre variabili sociodemografiche

    Sullo sfondo di quest’analisi abbiamo anche considerato ovviamente le classiche variabili sociodemografiche, per cui sono emersi gli effetti statisticamente significativi riportati nella Tabella 2. In estrema sintesi:

    • Zona di residenza. Vivere nella c.d. “Zona Rossa” non ha più effetti: gli unici effetti significativi della zona di residenza sono per il Sud (aumenta il voto al M5S, lo diminuisce alla Lega);
    • Sesso. Le donne tendono a votare +Europa più degli uomini, e il M5S meno degli uomini;
    • Età. Rispetto alla generazione mediana (45-54), i giovani 18-29 (ma anche i più anziani: la differenza è con le generazioni di mezzo) tendono a premiare PD, +Europa, e LeU. La Lega è sfavorita tra i giovani; il M5S è sfavorito tra gli over 65.
    • Istruzione. Livelli più alti di istruzione premiano PD, +Europa e LeU, e sfavoriscono la Lega.
    • Condizione professionale. Ha pochi effetti sparsi: le casalinghe hanno una propensione più alta verso FI; i pensionati puniscono il M5s. Infine, ad ulteriore rafforzamento dei risultati dell’articolo, i disoccupati puniscono il PD.

    Tabella 2 – Effetti statisticamente significativi di varie caratteristiche sociodemografiche sulla propensione a votare diversi partiti

    PD +EUR LEU M5S FI LEGA
    Zona geografica:
    Sud (differenza rispetto al Nord)
    +
    Sesso: Donna
    (differenza rispetto a uomo)
    +
    Età
    (differenze rispetto a 45-54):
    18-29 + + +
    30-44
    45-54
    55-64 +
    oltre 65 + + +
    Istruzione + + +
    Condizione professionale
    (differenze rispetto a “Altro”):
    Casalingo/a +
    Pensionato/a
    Disoccupato/a
  • Maggioranza lontana alla Camera, e un rischio di effetto-collegi: il maxisondaggio CISE/LUISS/Sole24Ore

    Maggioranza lontana alla Camera, e un rischio di effetto-collegi: il maxisondaggio CISE/LUISS/Sole24Ore

    Una maggioranza alla Camera che sembra più lontana per il centrodestra, ma soprattutto un possibile effetto-collegi che potrebbe penalizzare sia il centrosinistra che il centrodestra, e quindi favorire indirettamente il Movimento 5 Stelle, che potrebbe ottenere un risultato forse superiore alle aspettative. Sono questi i principali risultati che emergono dal maxisondaggio che abbiamo condotto in collaborazione con LUISS e IlSole24Ore, e i cui principali risultati sono stati anticipati stamattina da Roberto D’Alimonte su IlSole24Ore. Si tratta di un’indagine fortemente innovativa per tre motivi:

    1. si basa su un numero di interviste altissimo (circa 6000) condotte tutte nell’arco di pochi giorni; il numero di intervistati così alto ha permesso di coprire tutti i collegi uninominali della Camera, ciascuno con almeno 20 intervistati;
    2. per maggiore accuratezza, abbiamo impiegato campioni separati per Nord, Centro e Sud;
    3. l’innovazione più radicale: grazie alla copertura per collegio, accanto alla tradizionale domanda sull’intenzione di voto ai partiti (quella utilizzata praticamente in tutti i sondaggi pubblicati finora), abbiamo introdotto una domanda innovativa in cui a ogni intervistato si offriva la scelta tra gli effettivi candidati di quel collegio (ciascuno, con i partiti che lo sostenevano): un modo per rilevare l’intenzione di voto in modo molto più fedele a come effettivamente il voto verrà espresso il 4 marzo.

    Di conseguenza siamo stati in grado di individuare dei fenomeni che finora non erano emersi dalle altre indagini. Anzitutto, la nostra copertura per zone geografiche ha rivelato sorprese nella potenziale geografia elettorale del Paese: in particolare con un M5S molto forte al Sud. Da questi riequilibri – proiettando i risultati del sondaggio sui precedenti equilibri locali del 2013 – abbiamo determinato una stima dei risultati nei collegi uninominali, con qualche carattteristica in parte sorprendente: centrodestra dominante al Nord, ma lontano dalla maggioranza grazie al possibile successo del M5S al Sud. Questo e altro nell’analisi di Vincenzo Emanuele e Aldo Paparo che sarà pubblicata nel corso della giornata.

    Ma soprattutto è emerso quello che – se confermato – è il fenomeno che potrebbe far saltare le previsioni viste finora: un possibile effetto-collegi. Abbiamo infatti notato che – nel passaggio dalla domanda sui partiti a quella sugli effettivi candidati di collegio – sono emerse molte possibili defezioni; e queste potrebbero colpire in particolare centrosinistra e centrodestra, e decisamente meno il M5S. Come evidenzia l’analisi di Nicola Maggini, se questo effetto si verificasse effettivamente nelle urne, la sera del 4 marzo potremmo trovarci di fronte a un paesaggio elettorale ben diverso dalle attese.

    Ma le nostre 6000 interviste ci hanno permesso ancora altri importanti risultati. Il primo è un’analisi finalmente dettagliata (con un buon numero di casi) sui giovani. Come si comporteranno i giovani al primo voto? E la domanda diventa ancora più rilevante confrontando tra loro le varie classi di età: si scopre, nell’analisi per generazione di Nicola Maggini, che ormai in Italia stanno emergendo nettissime differenze di voto tra generazioni, con una segmentazione precisa per partito. Infine, nell’analisi di Luca Carrieri, andiamo a vedere – ancora una volta, aiutati dal numero di interviste molto alto – la domanda cruciale dei flussi elettorali rispetto al voto del 2013. Come è cambiato l’elettorato dei vari partiti? Come cambiano gli equilibri dell’opinione pubblica in vista del voto del 4 marzo? Da questa e dalle altre analisi emergono indicazioni preziose per capire le dinamiche che saranno decisive nelle elezioni ormai imminenti.


    NOTA METODOLOGICA

    Il sondaggio è stato condotto da Demetra nel periodo dal 5 al 14 febbraio 2018. Sono state realizzate 3.889 interviste con metodo CATI (telefonia fissa) e CAMI (telefonia mobile), e 2.107 interviste con metodo CAWI (via internet), per un totale di 6.006 interviste. Il campione, rappresentativo della popolazione elettorale in ciascuna delle tre zone geografiche, è stato stratificato per genere, età e collegio uninominale di residenza. Il margine di errore (a livello fiduciario del 95%) per un campione probabilistico di pari numerosità in riferimento alla popolazione elettorale italiana è di +/- 1,17 punti percentuali. Il campione è stato ponderato per alcune variabili socio-demografiche.

  • Chi ha fatto palo? Il mistero del 67 a 59 alle ultime comunali

    Chi ha fatto palo? Il mistero del 67 a 59 alle ultime comunali

    “Chi ha fatto palo?” Non possiamo non ricordare l’opera di Paolo Villaggio pensando al povero Fantozzi che, munito solo di una radiolina e roso dall’incertezza e mancanza di informazioni sui primi minuti di una memorabile Italia-Inghilterra (in seguito – durante il cineforum – girerà addirittura voce di una rete di Zoff su calcio d’angolo), arrivava ad arrampicarsi sul davanzale di una finestra e rompere il vetro di una casa, per poi finire inevitabilmente vittima di un pugno ben assestato dal proprietario.

    E l’ansia di informazioni di Fantozzi e dei suoi colleghi non è stata molto diversa dall’ansia di interpretazioni di molti appassionati di politica, nelle prime ore dopo la chiusura dei seggi delle ultime amministrative. Ansia che peraltro è stata rapidamente placata da vari siti web di analisi politico-elettorali (tra cui il sito CISE). Peccato che diversi siti abbiano fornito risultati diversi. E non di poco. In particolare, riguardo ai comuni superiori ai 15.000 abitanti (riportiamo i dati presi da un bel confronto pubblicato da Andrea Mollica su giornalettismo.com):

    • – YouTrend (poi twittata da Matteo Renzi che voleva così dare la sua interpretazione del risultato) ha dato vincente il centrosinistra 67 a 59, oggi aggiornato in 65 a 61, cui si sommano 2 comuni di sinistra;
    • – Noi (CISE) abbiamo segnalato un pareggio fra centrosinistra e centrodestra (52 pari), con l’area moderata complessivamente in lieve vantaggio per via dei comuni conquistati da altre coalizioni di destra (8) rispetto a altre di sinistra (4)[1];
    • – anche Ilvo Diamanti (su La Repubblica) ha rilevato un sostanziale pareggio fra centrodestra+destra (59, 51+8) e centrosinistra+sinistra (58, 54+4);
    • – Infine l’Istituto Cattaneo ha dato vincente il centrodestra per 70 a 62.

    Ora, com’è possibile che – trattandosi di scrutini ufficiali e non di sondaggi – ci possano essere discrepanze? La risposta è ovviamente abbastanza semplice, e deriva dalla diversità di significati che i vari istituti hanno dato a etichette come “centrosinistra” e “centrodestra”. E qui sta il busillis: nel senso che, com’è ovvio, data la complessità ed eterogeneità delle coalizioni a livello comunale, non esiste un semplice criterio “oggettivo” per classificare i candidati sindaci, ma vanno fatte alcune scelte metodologiche.

    Ad esempio: come classificare un candidato come Fiorella Esposito, neosindaco di Arzano (NA), sostenuta da una coalizione di liste di sinistra, in cui non figura a nessun titolo il Pd, ma che anzi ha corso contro il candidato sostenuto dal Pd? Dal nostro punto di vista, la questione più rilevante è relativa alle strategie nazionali: di conseguenza un candidato simile, che si pone con una coalizione alternativa al Pd, va classificato diversamente (nel nostro caso come “Sinistra”).

    Questo criterio è tanto più importante quando si confrontano tra loro elezioni amministrative di tornate diverse (ad esempio con quelle di cinque anni prima), proprio per mettere in luce che magari le differenze di risultati sono dovute a cambiamenti nelle coalizioni. Nella nostra esperienza, i risultati elettorali nella Seconda Repubblica (dal 1994 al 2006) erano quasi sempre determinati da cambiamenti nella struttura delle coalizioni, piuttosto che da cambiamenti importanti nell’elettorato (Di Virgilio 2002, 2007). E’ per questo che prestiamo particolare attenzione a queste dinamiche. In base a questo criterio, abbiamo svolto – nelle settimane prima del voto – un lavoro di classificazione lungo e complesso che ci ha portato ai risultati presentati nell’articolo Il centrodestra avanza, il Pd arretra: è pareggio. I numeri finali delle comunali.

    Dalla nostra analisi, in cui abbiamo analizzato la performance dei vari tipi di candidati, emerge sostanzialmente che il centrosinistra (ovvero le coalizioni che ruotano intorno al Pd, nelle varie forme locali) ha subito un arretramento molto forte, a fronte invece di un avanzamento del centrodestra. Risultati molto simili ai nostri sono stati forniti da Ilvo Diamanti, e in parte dall’Istituto Cattaneo (che tuttavia ha assegnato alle due principali coalizioni alcuni comuni che noi invece abbiamo classificato come “altre liste”). Invece YouTrend ha fornito dati sensibilmente diversi, che – da quanto possiamo ricostruire, visto che i criteri di classificazione non sono stati pubblicati – derivano forse dall’aver classificato genericamente come “centrosinistra” qualunque candidato eletto che appartenesse genericamente a quell’area, a prescindere dal fatto di essere alleato o avversario del Pd. Una scelta che per alcuni scopi conoscitivi può essere legittima, ma che – priva di spiegazioni e interpretazioni – ha generato di fatto un’interpretazione opposta rispetto alla forte penalizzazione subita dal Pd e dai suoi alleati.

    A questo punto il lettore ha diritto di farsi una domanda: ma allora di chi mi devo fidare? Se è vero che le classificazioni corrispondono a diverse scelte, qual è quella giusta, se esiste? La risposta, per noi, è abbastanza semplice, e sta nell’essenza stessa della scienza. La scientificità non è data da metodi sofisticati, ma dall’adottare procedure di indagine pubbliche, trasparenti e controllabili da tutti. Se è vero che diverse scelte di classificazione hanno scopi diversi e danno risultati diversi, questi scopi e queste scelte vanno spiegati ai lettori. Anche se si pensa che nessuno legga queste noiose informazioni; perché poi arriva sempre il momento in cui, ad esempio, risultati discordanti rendono queste scelte molto rilevanti.

    E’ per questo che nelle nostre analisi abbiamo inserito delle note in cui spiegavamo come eravamo arrivati ai nostri conteggi, e quali criteri di classificazione avevamo utilizzato. In assenza di queste informazioni, il lettore è lasciato sperduto a cercare di capire dati che non si sa come siano stati costruiti. E purtroppo il risultato finale è quello di gettare un’ombra di opacità, opinabilità e arbitrarietà sul lavoro di chi invece si impegna per fornire dati e interpretazioni corretti e trasparenti. Impegnarci tutti per rendere pubbliche e controllabili le nostre procedure è la garanzia di poter lavorare tutti in futuro in modo serio, producendo persone informate e fiduciose nelle nostre capacità. Così che anche Fantozzi e i suoi colleghi capiranno cosa sta succedendo alla partita, senza credere che Zoff abbia segnato su calcio d’angolo, o dover essere costretti a fracassare un vetro per sapere “chi ha fatto palo”.

    Aggiornamento

    Ringraziamo YouTrend che, poco dopo la comparsa di questo post, ha inserito una nota metodologica nel proprio articolo originario.

    Riferimenti bibliografici

    Di Virgilio, A. (2002). L’offerta elettorale: la politica delle alleanze si istituzionalizza, in D’Alimonte, R. e S. Bartolini (a cura di) Maggioritario finalmente, La transizione elettorale 1994-2001, Bologna, Il Mulino, 79-129.

    Di Virgilio, A. (2007). Nuovo sistema elettorale e strategie di competizione: quanto è cambiata l’offerta politica?, in D’Alimonte, R. e A. Chiaramonte (a cura di) Proporzionale ma non solo. Le elezioni politiche del 2006, Bologna, Il Mulino, 191-241.

    Emanuele, V., e A. Paparo (2017). Il centrodestra avanza, il Pd arretra: è pareggio. I numeri finali delle comunali /cise/2017/06/26/il-centrodestra-avanza-il-pd-arretra-e-pareggio-i-numeri-finali-delle-comunali/


    [1] Ad oggi, in seguito a una serie di controlli che abbiamo effettuato, attribuiamo 53 comuni sia al centrodestra che al centrosinistra. I comuni di destra sono scesi a 6, mentre quelli di sinistra sono 5.

  • Conflitto per Le Pen, “problem-solving” per Macron: i modelli di voto svelano due visioni opposte della Francia

    Conflitto per Le Pen, “problem-solving” per Macron: i modelli di voto svelano due visioni opposte della Francia

    E così Macron e Le Pen vanno al secondo turno. Un risultato storico che – come hanno messo in luce praticamente tutti i commentatori – vede escluse entrambe le famiglie partitiche (socialisti e destra neogollista) che avevano dominato decenni di vita politica in Francia.

    Tuttavia, ciò su cui i commentatori sono per adesso abbastanza divisi sono le motivazioni del risultato. Da dove viene il successo di Macron? Da dove la sua trasversalità? E l’exploit di Mélenchon? Dalle sue posizioni controverse? O è piuttosto un voto di identità della sinistra francese, delusa dalle primarie? A queste domande è impossibile rispondere basandosi solo sul profilo dei candidati e sulle loro apparizioni mediatiche, ma servono dati. Dati raccolti a livello individuale, possibilmente con molte domande sui temi di attualità.

    Proprio dati di questo tipo sono quelli che il CISE ha raccolto poche settimane prima del voto, attraverso un sondaggio pre-elettorale unico nel suo genere, in quanto è praticamente il solo a esplorare un numero molto ampio di temi d’attualità (circa 25 temi!), nell’ambito di un progetto comparato che ha già coperto anche le ultime elezioni in Olanda, e che includerà Regno Unito, Germania e Italia.

    E’ su questi dati che, all’indomani del primo turno, abbiamo effettuato delle analisi statistiche specifiche (in termini tecnici: la stima, per le intenzioni di voto a ciascuno dei candidati principali, di una serie di modelli a blocchi di regressione logistica binomiale) con lo scopo di ricostruire quanto hanno pesato, nel voto a ciascun candidato, diversi tipi di caratteristiche e motivazioni.

    Per semplicità abbiamo raggruppato le molte variabili analizzate in quattro categorie fondamentali:

    • Caratteristiche socio-demografiche: sesso, età, titolo di studio;
    • Ideologia: autocollocazione dell’intervistato sull’asse sinistra-destra;
    • Posizioni su temi divisivi: la posizione dell’intervistato su una serie di temi controversi, dai matrimoni gay all’uscita dall’Unione Europea;
    • Credibilità dei candidati sui problemi comuni (“valence issues”): il fatto che l’intervistato ritenga o meno credibili i vari candidati per risolvere alcuni problemi fondamentali del Paese (es. protezione da attacchi terroristici, lotta alla disoccupazione, ecc.).

    Come si può capire, queste quattro categorie configurano enormi differenze in termini di motivazioni del voto. Qui la domanda fondamentale è relativa alle differenze tra i candidati: la struttura delle motivazioni è simile per tutti, o cambia da un candidato all’altro? In breve: i ragionamenti di chi ha votato Le Pen sono stati radicalmente diversi da quelli di chi ha votato Macron?

    Il grafico nella figura 1 presenta la risposta a questa nostra prima domanda. Per ogni candidato, le barre colorate rappresentano la capacità del nostro modello di prevedere il fatto che l’intervistato abbia espresso l’intenzione di votare un certo candidato, in base alle variabili inserite nel modello. Questa capacità di previsione può essere al massimo 1, in caso di previsione perfetta di tutti gli intervistati. Ovviamente raggiungere 1 è impossibile: nella ricerca sui comportamenti di voto, valori da 0.5 in su sono considerati ottimi. La barra di ciascun candidato è divisa in quattro blocchi corrispondenti alle quattro categorie di variabili esplicative. Va detto che alcuni candidati (soprattutto Fillon) hanno un voto più “prevedibile” di altri, come chiaramente visibile nel grafico.

    Fig. 1 – Capacità esplicativa dei modelli statistici (intenzioni di voto ai principali candidati), suddivisa per blocchi di variabili (pseudo R2 di Nagelkerke)

    fig1modelliUn primo dato sorprendente è quello relativo alle variabili socio-demografiche. Per tre dei quattro candidati considerati queste non hanno praticamente nessun impatto: con un indice di circa 0.03 “spiegano” appena il 3% della varianza (ovvero, delle differenze tra intervistati nell’intenzione di votare il candidato). Ma c’è un’impressionante eccezione: François Fillon. Nel voto per il gollista c’è infatti una forte componente dovuta all’età: le fasce di elettorato più anziane tendono a votarlo molto di più (soprattutto gli over 65). Si tratta di un effetto importante, che spiega circa il 14% delle differenze di atteggiamento tra intervistati rispetto a Fillon.

    [pull_quote_right]I due candidati che sono andati al secondo turno sono quelli il cui elettorato è meno caratterizzato in termini ideologici tradizionali[/pull_quote_right] E differenze importanti tra candidati emergono ancora, quando si passa a considerare l’ideologia. Ancora una volta un fattore estremamente rilevante per Fillon (lo votano ovviamente di più gli elettori che si collocano a destra), che contribuisce con un ulteriore 23% a spiegare le intenzioni di voto verso di lui. Ma anche Mélenchon si dimostra un candidato per cui l’ideologia (di sinistra) è estremamente importante (15% di varianza spiegata). Segue Marine Le Pen, con un voto decisamente meno ideologico dei primi due (10% di varianza spiegata), e soprattutto Macron. Quest’ultimo è chiaramente il meno legato al richiamo ideologico: l’inserimento dell’autocollocazione sinistra-destra nel modello predittivo per Macron produce un miglioramento del modello di appena il 6%.
    E qui ci troviamo di fronte a un primo importante elemento di interpretazione: i due candidati che sono andati al secondo turno sono quelli il cui elettorato è meno caratterizzato in termini ideologici tradizionali. In questo Le Pen è estremamente simile a Macron.

    Ma qui le similitudini si fermano. Infatti a questo punto entriamo nel regno delle issues, ovvero di come i candidati utilizzano in modo dinamico i temi di attualità (al posto dell’ideologia, per definizione statica) per cercare di catturare elettori a tutto campo. Tradizionalmente si distinguono due tipi di temi di attualità: quelli divisivi (temi controversi, su cui i candidati si distinguono in base alle loro diverse posizioni) e gli obiettivi condivisi (anche detti “valence issues”: problemi da risolvere, su cui i candidati si distinguono invece in base alla loro competenza e credibilità).

    E qui emerge una differenza importante tra candidati, e in particolare tra Macron e Le Pen. La scelta di voto a Marine Le Pen appare infatti nettamente influenzata da specifiche posizioni su temi controversi: quando si inserisce nel modello la posizione dell’intervistato sui vari temi, la previsione del voto a Le Pen aumenta di oltre il 20%. Gli altri candidati sono staccati in modo nettissimo: sia per Macron che per Fillon il contributo di queste variabili è intorno al 10%, mentre per Mélenchon è addirittura quasi trascurabile. In altre parole: il voto a Le Pen, diversamente dagli altri, è spiegato in modo importante dalle posizioni su temi controversi (vedremo quali).

    [pull_quote_left]Mentre per Marine Le Pen il fattore determinante sono i temi controversi, per Macron si tratta della sua competenza e credibilità sui problemi generali della Francia[/pull_quote_left]Infine, l’ultima categoria (ovvero la credibilità dei candidati – attribuita dall’intervistato – per risolvere vari importanti problemi comuni a tutti gli elettori) rivela un’importanza simile tra i vari candidati, con contributi di varianza spiegata superiori al 15%, ma tuttavia con un’importanza nettamente superiore per Macron (21%) e Fillon (20%), contro il 16% di Le Pen e Mélenchon. Ovviamente è un dato che non deve sorprendere: quando si tratta di risolvere problemi comuni della Francia, due uomini di Stato con significativa esperienza di governo come Macron e Fillon si trovano premiati dagli elettori. Ma il dato importante è che per Macron queste sono le motivazioni di voto di gran lunga preponderanti, che da sole contano quanto tutte le altre messe insieme. Si può quindi dire che, mentre per Marine Le Pen il fattore determinante sono i temi controversi, per Macron si tratta della sua competenza e credibilità sui problemi generali della Francia. Fillon e Mélenchon appaiono invece come due candidati dal voto molto più ideologizzato, anche se Fillon può vantare in aggiunta un’importante credibilità personale.

    A questo punto, resta solo la curiosità di approfondire meglio il ruolo dei temi divisivi. Quali temi in particolare sono rilevanti per spiegare il voto ai diversi candidati? La Tabella 1 riporta l’effetto dei vari temi (se presente) nel predire l’intenzione di voto ai vari candidati. Per ogni tema viene riportato un segno positivo (se aumenta la tendenza a votare per lui o lei) o negativo (se invece la diminuisce), oppure nessun segno se non c’è effetto statisticamente significativo.

    Tab. 1 – Significatività e direzione degli effetti delle posizioni sulle issues sul voto ai principali candidatitab1modelliGuardando la tabella emerge un primo dato fondamentale. Ogni candidato è di fatto specializzato su temi diversi: si tratta di una tendenza sempre più diffusa nelle campagne elettorali contemporanee, in cui i candidati si concentrano su poche issue favorevoli, in grado di attrarre un elettorato trasversale senza prendere posizione in modo molto netto sugli altri temi (che potrebbero far perdere voti).

    Per il voto a Macron è molto forte l’europeismo, e piuttosto forte anche le libertà di scelta in materia di diritti. Fa poi segnare un effetto (negativo) anche la riduzione dell’età pensionabile: il che indica che chi vuole aumentare l’età pensionabile è statisticamente più probabile che voti Macron. Di conseguenza il profilo di Macron appare legato in modo chiave all’Europa e a una visione favorevole ai diritti civili, e solo in modo più debole a riforme economiche: il che testimonia l’abilità di Macron nello sfilarsi da questioni estremamente controverse come quella della loi travail.

    Per il voto a Le Pen emerge un’importanza maggiore dei temi controversi (maggior numero di temi con effetti rilevanti): fortissimo l’effetto dello sciovinismo del welfare, così come anche la posizione sull’uscita dall’Unione Europea. Non è invece significativa l’uscita dalla moneta unica. Piuttosto forte anche l’effetto negativo delle attuali norme sull’immigrazione, a indicare che chi vuole leggi più restrittive ha votato di più per la candidata del FN. Ci sono poi effetti (positivi), ma più ridotti: limitare la globalizzazione, abrogare i matrimoni gay e proibire il velo islamico nei luoghi pubblici.

    Per il voto a Fillon ci sono addirittura più temi con coefficienti significativi, ma questi sono mediamente assai più piccoli di quelli di Le Pen, ecco perché l’aumento complessivo della varianza è più basso. Gli effetti più forti sono per lo sciovinismo del welfare, l’abrogazione dei matrimoni gay, e restare nell’UE – ecco la differenza con Le Pen. Appare poi chiaro il suo profilo di candidato del libero mercato in campo economico: effetto positivo per la liberalizzazione del mercato del lavoro e negativo per la riduzione dell’età pensionabile e delle diseguaglianze di reddito.

    Infine, Mèlenchon è il candidato il cui voto è meno influenzato da opinioni sulle issues (la sua forza, come visto in precedenza, è l’ideologia). Appena due sono significative, entrambe in esclusiva, cioè senza fare segnare alcun effetto nei modelli relativi al voto per gli altri tre candidati principali. Si tratta della riduzione della diseguaglianza e dell’abbandono dell’energia nucleare.

    [pull_quote_right]In quest’epoca post-ideologica alcuni partiti cavalcano i grandi conflitti legati alle trasformazioni della nostra epoca, mentre altri li nascondono, presentandosi come semplici problem-solver competenti[/pull_quote_right]Ecco quindi emergere quattro profili diversi per i quattro candidati. Ma quali insegnamenti possiamo trarne? Il primo è che i due finalisti del secondo turno hanno un tratto in comune: per entrambi contano poco l’ideologia e la rappresentanza di specifici blocchi sociali. Questi candidati si conquistano i loro voti in modo nuovo, ovvero sfruttando i temi d’attualità, le varie questioni sul tavolo dell’agenda politica francese. Ma qui le analogie finiscono e emerge una rilevante differenza. Per Le Pen la forza di mobilitazione viene dal prendere posizione su questioni controverse, mentre il successo di Macron sembra chiaramente prodotto dalla sua percezione come competente e credibile per affrontare i problemi di tutti i francesi. E qui troviamo il secondo insegnamento: in quest’epoca post-ideologica non tutti i partiti e i candidati sono uguali; dobbiamo aspettarci sempre più un confronto asimmetrico e strabico, in cui alcuni partiti sottolineano e cavalcano i grandi conflitti legati alle trasformazioni della nostra epoca, mentre altri tendono a nasconderli, presentando invece una visione consensuale, che richiede semplicemente dei problem-solver competenti. Ecco perché nel voto del secondo turno, che si svolgerà il 7 maggio, a confrontarsi non saranno solo due candidati, ma due diverse visioni della Francia e – per certi versi – delle grandi trasformazioni della realtà contemporanea. Staremo a vedere.

     

  • Conflict mobilization for Le Pen, problem-solving for Macron: voting models reveal two opposite visions of France

    Conflict mobilization for Le Pen, problem-solving for Macron: voting models reveal two opposite visions of France

    (English translation by Elisabetta Mannoni)

    So Macron and Le Pen get to the second round. An historical result that – as almost all commentators highlighted – excludes both socialists and the neo-Gaullist right, who had dominated the French political life for decades.

    However, what are the reasons and voting motivations behind this result? Where does Macron’s success come from? What about his cross-cutting appeal? What about Mélenchon’s exploit? Does it come from his controversial positions? Or is it a identification vote by the French left, disappointed with the Hamon candidacy? We can’t answer to these questions only by looking at the candidates’ profiles and their presence on the media; we do need data. Data collected at the individual level, possibly covering a wide range of political issues.

    This is exactly the kind of data that CISE gathered few weeks before the election day, through a peculiar pre-electoral survey. It’s a distinctive investigation including a high number of real-world salient issues (more than 20 issues), within a comparative project that has already covered the Netherlands and is soon going to cover the UK, as well as Germany and Italy.

    The day after the first round, we analysed these data through specific statistical tools (technically speaking, we estimated, for vote intentions to each candidate, a set of binominal logistic regression block models), in order to understand to what extent different respondent characteristics and motivations determined the intention to vote for each candidate.

    For simplicity reasons, we grouped several variables together in four fundamental classes:

    • Socio-demographic characteristics: sex, age, education;
    • Ideology: respondent’s self-placement on the left-right axis;
    • Positions on divisive issues: respondent’s position on a set of controversial topics, ranging from gay marriages to exit from the EU;
    • Candidates’ credibility on achieving common goals (valence issues): whether the respondent attributes credibility to each candidate for solving some crucial problems in the country (protection from terrorist attacks, fight against unemployment, etc.).

    It’s quite clear that these four categories present huge differences in terms of vote motivation. Here the crucial question is related to the differences between candidates: is the motivation structure similar for all candidates, or does it change across candidates? In a nutshell: did Le Pen’s voters apply a reasoning that is radically different from Macron’s?

    The graph in Figure 1 shows the answer to this first question. For every candidate, the coloured bars represent the ability of our model to predict – on the basis of the variables included in the model – the fact that the respondent expressed his/her intention to vote a certain candidate. This predicting ability can reach a maximum 1, in case of a perfect prediction for all respondents. Reaching 1 is clearly impossible: in voting behaviour research, values of 0.5 or above are considered very good. Each candidate’s bar is divided into 4 blocks, corresponding to the four categories of explicative variables. It must be said that some candidates (especially Fillon) present vote intentions that are much more predictable than others, as visible in the graph.

    Fig. 1 – Predictive power of binary logistic regression models (vote intention for the main candidates), by blocks of variables (Nagelkerke’s pseudo R2)fig1modelliENGA first surprising finding is related to socio-demographic variables. For three out of the four candidates taken into account, these have basically no impact: with an index of around 0.03, they account for just 3% of variance (i.e. differences among respondents in their intention to vote for the candidate). Yet, there is a remarkable exception: François Fillon. In his case there’s a strong age component: the older sectors of the electorate tend to vote for him more than others – especially those who are over 65. It’s an important effect, that explains around 14% of the differences in respondents’ behaviour towards Fillon.

    [pull_quote_right]The two candidates going to the second round are those whose electorates are least characterized in traditional ideological terms. [/pull_quote_right]Significant differences among candidates emerge also when taking into account ideology. Once again, it is an extremely relevant factor for Fillon (voters who place themselves on the right clearly vote for him more than others), contributing with a further 23% at explaining vote intentions towards him. But also Mélenchon seems to be a candidate for whom (left) ideology is extremely important (15% of variance explained). Marine Le Pen follows, yet with a definitely less ideological vote than the previous two (10% of variance explained), and then comes Macron. The latter is clearly the candidate who is least tied to ideological feelings: respondent’s left-right self-placement in the predictive model for voting for Macron improves the model of only 6%.

    This is then the first important interpretation element: the two candidates going to the second round are those whose electorates are least characterized in traditional ideological terms. On this regard, Le Pen is extremely similar to Macron.

    But similarities stop here. In fact, at this point we enter the realm of positional issues, that is how candidates use in a dynamic way the issues of the day (rather than ideology, which is static by definition), trying to attract voters across ideological lines.

    Such issues are traditionally distinguished between two types: those related to divisive goals (controversial issues, on which candidates are identified by taking different positions) and those related to shared goals (also known as valence issues: problems to be solved, on which candidates distinguish one another on the basis of their own competence and credibility).

    Here emerges an important difference among candidates, especially between Macron and Le Pen. Vote choice for Marine Le Pen seems to be clearly influenced by specific positions on controversial themes: when we add to the model the respondents’ positions on different issues, the predictive ability of the model for Le Pen increases more than 20%. Other candidates are far behind: for both Macron and Fillon, these variables contribute for only 10%, whereas for Mélenchon such issues are almost irrelevant.

    In other words: support for Le Pen, unlike support for other candidates, is significantly explained by positions on controversial issues (we’ll see which ones in a moment).

    [pull_quote_left]While for Marine Le Pen the determinant factor lies in controversial issues, for Macron it is his competence and credibility on common problems[/pull_quote_left] Finally, the last category (that is candidates’ credibility, assessed by respondents, for solving several important problems common to all voters) reveals a level of importance which is similar among the candidates, with contributions of variance explained higher than 15%, although it is way more important for Macron (21%) and Fillon (20%), vis-à-vis 16% for Fillon and Mélenchon. It is something that should not surprise: when it comes to solving common problems of the country, two statesmen with significant experience in government (as Macron and Fillon are) are perceived as more credible, and this is part of their appeal. But the important element is that for Macron these are the main voting determinants, and these alone matter just as much as all the other ones combined. Therefore we can say that, while for Marine Le Pen the determinant factor lies in controversial issues, for Macron it is his competence and credibility for confronting common problems facing France. Fillon and Mélenchon appear instead getting most of their support on the basis of ideology, although Fillon can boast in addition a significant personal credibility.

    At this point, there’s the curiosity of going into more detail on the role of divisive issues. Which ones in particular are relevant in explaining support for different candidates? Table 1 shows the effect of different issues (if present) in predicting vote intentions for different candidates. For each issue, there is a positive sign (if that position increases support for the candidate) or a negative sign (if that position decreases support); there is no sign if there is no statistically significant effect.

    Tab. 1 – Significance and direction of the effects for policy positions on the vote for the main candidates.tab1modelliENGBy looking at the table, one important element emerges: each candidate is in fact specialized on different policy issues. This is an increasingly widespread tendency in current electoral campaigns, where candidates tend to focus on few favourable issues, potentially capturing a cross-cutting electorate, without emphasis on other issues (which may lead to divisions, and loss of support).

    As for the vote to Macron, Europeanism is crucial, while freedom of choice in the field of rights is quite important as well. There’s a (negative) effect for lowering the retirement age, which tells us that those who want to raise retirement age are statistically more likely to vote for Macron. As a consequence, Macron’s profile seems to be strongly tied to Europe and to a vision in favour of civil rights, and only in a weaker way to economic reforms – which confirms Macron’s ability to de-associate himself from extremely controversial issues like the loi travail.

    As for the vote to Le Pen, what emerges is that controversial issues are more important for her than for other candidates, as shown by the greater number of issues having significant effects. Welfare chauvinism has a very strong effect, as well as leaving the EU. Leaving the Euro, though, doesn’t seem to be significant. Quite strong is also the negative effect for the current norms regulating immigration, showing that those who want more restrictive laws tended to vote more for the candidate from the FN. There are then some (positive) – although smaller – effects: limiting globalization, repealing gay marriage, and banning Islamic headscarves in public spaces.

    For Fillon, there are even more issues having significant coefficients, but these are on average way smaller than for Le Pen, and that’s why the total increase in variance explained is lower. The strongest effects are on welfare chauvinism, gay marriage repeal, and staying in the EU – that’s the big difference with Le Pen. His free-market profile in the field of economy is then clear: positive effect for the liberalization of the job market and negative effect for lowering the retirement age or income differences.

    Finally, Mélenchon is the candidate with the least issue-related vote (his strength, as we saw, lies in ideology). Just two issues are significant, and both of them are exclusive for him, i.e. they do not show any effect on vote models for other main candidates’. The two issues are reduction of income inequality and abandoning nuclear energy.

    [pull_quote_right]In this post-ideological time, some political parties ride on the great conflicts connected to contemporary transformations, whereas others hide them and present themselves simply as competent problem-solvers.[/pull_quote_right]

    In conclusion, we have four different profiles for four different candidates. What can we learn from that? First, that the two finalists do have something in common: for both of them ideology and representation of specific social classes don’t matter much. These candidates get their votes in a new and different way, that is by exploiting current issues and the various problems present in the French political agenda. But analogies stop here and a huge difference emerges. Le Pen’s mobilization strength comes from the position she takes on controversial issues, while Macron’s success is clearly due to people’s perception of him as competent and credible to face the problems of the country. That’s our second lesson: in this post-ideological time, neither all political parties nor all candidates are equal; we shall expect an increasingly asymmetric competition, where some political parties ride on the great conflicts connected to contemporary transformations, whereas others tend to hide them and present a consensual scenario, that only requires competent problem-solvers. That’s why in the second-round vote, on May 7, we will not just see two candidates competing, but rather two different visions of France and – to some extent – two different visions of the great transformation of  contemporary reality. We’ll see.